Seguire il percorso della causa palestinese a partire dal 1967

Nadia Hijab, Mouin Rabbani, 5 giugno 2017 Al-Shabaka

Guardando al passato

Alla vigilia del 5 giugno 1967 i palestinesi erano dispersi tra Israele, la Cisgiordania (inclusa Gerusalemme est) governata dalla Giordania, la Striscia di Gaza amministrata dall’Egitto e le comunità di rifugiati in Giordania, Siria, Libano e altri Paesi più lontani.

Le loro aspirazioni di salvezza ed autodeterminazione poggiavano sugli impegni dei leader arabi a “liberare la Palestina” – che all’epoca si riferiva a quelle parti della Palestina mandataria che erano diventate Israele nel 1948 – e soprattutto sul carismatico leader egiziano Gamal Abdel-Nasser.

La Guerra dei Sei Giorni, che portò all’occupazione israeliana dei territori palestinesi di Cisgiordania, Gerusalemme est e Striscia di Gaza, delle alture del Golan siriane e della penisola del Sinai egiziana, apportò drastiche modifiche alla geografia del conflitto. Produsse anche un profondo cambiamento nella politica palestinese. Con una netta rottura rispetto ai decenni precedenti, i palestinesi divennero padroni del proprio destino invece che spettatori di decisioni regionali ed internazionali che influivano sulle loro vite e determinavano la loro sorte.

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che era stata fondata nel 1964 sotto l’egida della Lega Araba nel suo primo incontro al vertice, nel 1968-69 fu surclassata dai gruppi guerriglieri palestinesi che si erano sviluppati clandestinamente dagli anni ’50, con a capo Fatah (il movimento nazionale di liberazione palestinese). La sconfitta araba del 1967 determinò un vuoto in cui i palestinesi riuscirono a ristabilire l’egemonia sulla questione della Palestina, a trasformare le componenti disperse della popolazione palestinese in un popolo unito e in un soggetto politico ed a porre la causa palestinese al centro del conflitto arabo-israeliano.

Questo, che è stato forse il più importante risultato dell’OLP, ha tenuto alto lo spirito della richiesta palestinese di autodeterminazione, nonostante la miriade di ferite inferte da Israele e da alcuni Stati arabi – e nonostante quelle autoinflitte. Le sconfitte subite dall’OLP sono state molte, anche se è riuscita a porre la questione palestinese ai primi posti dell’agenda internazionale. Vale la pena ripercorrere i successi e le sconfitte dell’OLP per comprendere in che modo il movimento nazionale palestinese è arrivato alla situazione attuale.

La prima vittoria dell’OLP ha anche gettato i semi di una sconfitta. La battaglia di Karameh del 1968 nella Valle del Giordano, in cui i guerriglieri e l’esercito giordano respinsero un corpo di spedizione israeliano molto più potente, guadagnò al movimento molti aderenti palestinesi ed arabi, sia rifugiati, sia guerriglieri, sia uomini d’affari di tutto lo spettro politico. Al tempo stesso, l’implicita minaccia alla monarchia hashemita era evidente e le relazioni palestinesi con la Giordania peggiorarono fino a che l’OLP venne espulso dalla Giordania durante il ‘settembre nero’ del 1970. Questo in pratica ha significato che l’OLP non ebbe più una potenzialità militare credibile contro Israele, ammesso che l’abbia mai avuta. Anche se i palestinesi avrebbero mantenuto un’estesa presenza militare in Libano fino al 1982, si trattava di una misera alternativa alla più lunga frontiera araba con la Palestina storica.

Durante la guerra dell’ottobre 1973, l’Egitto e la Siria ottennero parziali vittorie contro Israele, ma subirono anche gravi sconfitte, dimostrando che anche gli Stati arabi avevano solo limitate possibilità contro Israele. Al tempo stesso, il movimento nazionale palestinese raggiunse il suo culmine a livello internazionale con il discorso del defunto leader palestinese Yasser Arafat all’Assemblea Generale dell’ONU nel 1974, con il riconoscimento da quel momento dell’OLP come l’unico legittimo rappresentante del popolo palestinese. In quello stesso anno l’OLP iniziò anche a porre le basi per una soluzione di due Stati quando il suo parlamento, il Consiglio Nazionale Palestinese, adottò un piano in 10 punti per istituire una “autorità nazionale” in ogni parte della Palestina che era stata liberata.

Il processo fu necessariamente dolorosamente lento, in quanto condusse la maggioranza dei palestinesi a riconoscere che un eventuale Stato palestinese non sarebbe stato stabilito sulla totalità dei territori del precedente mandato britannico. Dal 1974, l’accettazione del dato di fatto di Israele come Stato e la creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza sarebbe progressivamente diventato l’obiettivo del movimento nazionale palestinese.

La visita a Gerusalemme dell’allora presidente egiziano Anwar Sadat nel 1977, che condusse agli Accordi di Camp David del 1979 e al ritiro di Israele dalla penisola del Sinai, completato nell’aprile del 1982, aprì la strada all’invasione israeliana del Libano nello stesso anno. Il principale obiettivo di Israele era estromettere l’OLP dal Paese e consolidare l’occupazione permanente dei Territori Palestinesi Occupati (TPO). Con l’uscita dal conflitto del più potente degli Stati arabi, la capacità dell’OLP di ottenere una soluzione di due Stati fu gravemente compromessa ed il conflitto arabo-israeliano si trasformò gradualmente in un conflitto iasraelo-palestinese, molto più conveniente per Israele.

Mentre l’OLP cercava di riunificarsi in Tunisia ed in altri Paesi arabi, nei TPO ebbe luogo una delle più grandi sfide ad Israele, con lo scoppio della prima Intifada nel dicembre 1987, in gran parte guidata da una leadership cresciuta all’interno [della Palestina]. Ciò riportò in auge l’opzione di contrastare in modo vincente Israele sulla base di una mobilitazione di massa non violenta in dimensioni che non si vedevano più dalla fine degli anni ’30.

Tuttavia l’OLP si dimostrò incapace di capitalizzare il successo locale e globale della prima Intifada. Alla fine, la dirigenza dell’OLP in esilio mise i propri interessi, soprattutto l’ambizione di ottenere l’ appoggio dell’Occidente, ed in particolare dell’America, al di sopra dei diritti nazionali del popolo palestinese, espressi nella Dichiarazione di Indipendenza adottata nel 1988 ad Algeri.

Queste contraddizioni divennero palesi nel 1992-93, quando la dirigenza palestinese dovette scegliere se appoggiare la posizione negoziale della delegazione palestinese a Washington, che insisteva su una moratoria totale delle attività di colonizzazione israeliane [in Cisgiordania] come precondizione per accordi transitori di autogoverno, oppure condurre negoziati segreti con Israele che concessero molto meno, ma la riportarono ad una posizione di rilievo internazionale sulla scia del conflitto del Kuwait del 1990-91. In seguito agli accordi di Oslo del 1993, l’OLP riconobbe Israele e il suo “diritto ad esistere in pace e sicurezza”, nel contesto di un documento che non menzionava né l’occupazione, né l’autodeterminazione, né l’esistenza di uno Stato, o il diritto al ritorno. Prevedibilmente, i decenni seguenti hanno visto un’accelerazione esponenziale del colonialismo di insediamento israeliano e l’effettiva vanificazione delle intese per l’autonomia previste in vari accordi israelo-palestinesi.

Guardando avanti

Sotto alcuni aspetti, oggi la situazione è tornata al punto di partenza del 1967. Il movimento nazionale palestinese complessivamente unitario che è stato egemone dagli anni ’60 agli anni ’90 si è disintegrato, forse in modo definitivo. Oggi è diviso tra Fatah e Hamas, con quest’ultimo, insieme alla Jihad islamica, escluso dall’OLP, mentre dilagano le divisioni all’interno di Fatah e dell’OLP. I palestinesi a Gaza soffrono tremendamente sotto un assedio israeliano decennale, che sta peggiorando a causa delle pressioni su Hamas da parte dell’ANP e di Israele. I palestinesi nei campi profughi in Siria e in Libano stanno patendo terribilmente per la guerra civile in Siria e la precedente frammentazione dell’Iraq, ed anche per i conflitti tra differenti gruppi all’interno dei campi.

Quanto ad Israele, il 1967 lo ha trasformato da Stato della regione a potenza regionale. E’ impaziente di normalizzare i rapporti con l’Arabia Saudita e gli Stati del Golfo arabo, usando l’Iran come spauracchio per alimentare questa relazione. A sua volta, vuole usare tale alleanza per imporre un accordo ai palestinesi che di fatto perpetuerebbe il dominio israeliano, ottenendo un trattato di pace finale in cui manterrebbe il controllo della sicurezza nei TPO, conserverebbe le sue colonie e continuerebbe la colonizzazione.

Ma sul percorso di Israele verso la legittimazione dell’occupazione continuano a sussistere ostacoli, che mantengono aperta la porta ad un movimento e ad una strategia palestinesi per ottenere diritti e giustizia. Non è cosa da poco il fatto che, in un lasso di tempo di mezzo secolo, nessuno Stato abbia formalmente approvato l’occupazione israeliana del territorio palestinese – o siriano. Se da un lato i governi europei, ad esempio, hanno temuto che facendolo avrebbero compromesso i loro rapporti con altri Paesi della regione, dall’altro sono anche tra i più impegnati a sostenere un ordine internazionale basato sulle leggi; il ricordo della Prima e della Seconda Guerra Mondiale non è stato cancellato. Essi quindi non possono riconoscere l’occupazione israeliana, anche se non sono stati in grado di sfidare Israele negli stessi termini con cui hanno affrontato l’occupazione russa della Crimea.

Inoltre l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, poco dopo che lo scorso anno il Regno Unito ha votato per abbandonare l’Unione Europea, rafforza la determinazione dell’Unione Europea a consolidare il proprio potere economico e politico e a ridurre la dipendenza dagli USA per la difesa. Questo offre ai palestinesi un’opportunità per appoggiare le modeste misure europee, come il divieto di finanziare la ricerca delle imprese delle colonie israeliane e l’etichettatura dei prodotti delle colonie, e per promuovere la distinzione tra Israele e la sua impresa coloniale, per usare le parole della Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU di dicembre 2016.

Israele sta incontrando resistenza anche in situazioni inaspettate. Mentre il movimento nazionale palestinese si è indebolito, il movimento globale di solidarietà con la Palestina, compreso il movimento a guida palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), lanciato nel 2005, è cresciuto rapidamente, soprattutto in seguito ai ripetuti attacchi israeliani alla Striscia di Gaza. Questo contrasta con la situazione negli anni ’70 e ’80, quando l’opinione pubblica occidentale tendenzialmente dava un ampio sostegno ad Israele. Israele sta reagendo ferocemente contro questo movimento, assimilando le critiche ad Israele con l’antisemitismo e istigando i legislatori negli USA ed in Europa a vietare le iniziative di boicottaggio. Tuttavia finora non è riuscito a soffocare il dibattito o a impedire alle chiese e ai gruppi studenteschi in tutti gli USA di sostenere attività di solidarietà con il popolo palestinese.

L’opposizione di Israele è anche indebolita in conseguenza di una terza tendenza che è interamente autoprodotta. Il fatto che sia riuscito a violare impunemente il diritto internazionale con la sua occupazione dei territori palestinesi, così come con i propri cittadini palestinesi, lo sta portando a strafare. Persino la determinazione di Trump a “fare un accordo” che consegnerebbe sicuramente ad Israele vaste porzioni della terra palestinese ed il controllo permanente sulla sicurezza, probabilmente si scontrerà con il sempre più potente movimento di destra [israeliano], che respinge per principio ogni concessione ai palestinesi.

Certo, la crescente ondata di quella che può solo essere definita come legislazione razzista sta palesando non solo le sue azioni attuali, ma anche quelle del periodo precedente e immediatamente successivo al 1948. Per esempio, per citarne solo alcune, la legge sulla cittadinanza e sulla famiglia, prorogata ogni anno dal 2003, nega ai cittadini palestinesi di Israele il diritto a sposare palestinesi dei territori occupati e di parecchi altri Paesi; la continua distruzione di villaggi palestinesi all’interno di Israele, come anche in Cisgiordania; la legge che legalizza retroattivamente il furto di terre private palestinesi in Cisgiordania. Tutto ciò rende impossibile immaginare che Israele accetti valori sia universali che “occidentali”, quali lo stato di diritto e l’uguaglianza.

Un utile indicatore di questo disvelamento è il rapido aumento di ebrei non israeliani che si allontanano sempre più da Israele, comprese associazioni come ‘Jewish Voice for Peace’. Quando prendono la parola, le rituali accuse di antisemitismo sono facilmente confutate ed essi legittimano altri a prendere posizioni simili.

Un altro ambito in cui Israele ha esagerato è stato fare del sostegno ad esso una questione di parte. Dal momento che il partito repubblicano [americano] assicura che non ci sono problemi tra sé ed Israele, l’opinione tra le fila del partito democratico si sposta stabilmente a favore dei diritti dei palestinesi ed i rappresentanti democratici sono lentamente sempre più incoraggiati ad alzare la voce.

Queste tendenze di lungo termine contrarie alle violazioni israeliane delle leggi internazionali non possono di per sé salvaguardare i diritti dei palestinesi. Il passaggio dall’egemonia araba sulla questione della Palestina all’egemonia palestinese alla fin fine ha prodotto il disastro di Oslo. Ciò che è necessario è una formula che unisca la mobilitazione palestinese in patria e all’estero con una strategia araba per conseguire l’autodeterminazione. E, benché gli sforzi per trasformare l’OLP in un reale rappresentante nazionale [del popolo palestinese] siano finora falliti, esistono modi per fare pressione su componenti dell’OLP che ancora funzionano – per esempio, in Paesi dove dei settori di rappresentanza diplomatica palestinese sono tuttora efficienti – allo scopo di rilanciare il programma e la strategia nazionali.

Oggi i palestinesi si trovano senza dubbio nella peggiore situazione che abbiano vissuto a partire dal 1948. Eppure, se mobilitano le risorse che hanno a disposizione – anzitutto e soprattutto il proprio popolo ed il crescente bacino di consenso mondiale nei confronti dei loro diritti e della loro libertà – possono ancora elaborare e mettere in atto con successo una strategia per garantirsi il loro posto al sole.

Nadia Hijab

Nadia Hijab è direttrice esecutiva di ‘Al-Shabaka: the Palestinian policy network’, che ha co-fondato nel 2009. E’ spesso relatrice di conferenze e commentatrice sui media ed è ricercatrice presso l’Istituto di Studi sulla Palestina. Il suo primo libro, Womanpower: the arab debate on women at work [Manodopera femminile: il dibattito arabo sul lavoro delle donne] , è stato pubblicato dalla Cambridge University Press ed è inoltre co-autrice di Citizens apart: a portrait of the palestinian citizens of Israel [Cittadini messi da parte: un ritratto dei cittadini palestinesi di Israele] (I.B. Tauris).

Mouin Rabbani

Il consulente politico di Al-Shabaka Mouni Rabbani è uno scrittore ed analista indipendente specializzato nella questione palestinese e nel conflitto arabo-israeliano. E’ ricercatore presso l’Istituto per gli Studi sulla Palestina ed è tra i redattori del Middle East Report. I suoi articoli sono usciti anche su The National ed ha scritto articoli di commento per il New York Times.

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente, neutrale e non-profit, il cui obiettivo è educare e favorire il dibattito pubblico sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto del diritto internazionale.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Come Israele impedisce agli agricoltori palestinesi di lavorare le proprie terre

Amira Hass – 28 maggio 2017,Haaretz

Questa settimana è finito uno sciopero di un mese, in quanto l’Amministrazione Civile ha accettato di riesaminare le procedure riguardanti l’accesso alle terre coltivate oltre il Muro di separazione in Cisgiordania. Le ragioni dello sciopero sono veramente scomparse? Il tempo lo dirà.

Lo sciopero è finito. No, non quello famoso dei prigionieri palestinesi in Israele, ma un altro sciopero, che coinvolge decine di migliaia di famiglie palestinesi le cui terre sono rinchiuse tra il Muro di Separazione della Cisgiordania e la Linea Verde [il confine tra Israele e Cisgiordania precedente la guerra del ’67, ndtr.] – l’area nota in gergo militare come la “zona di congiunzione”.

Alla fine di febbraio i comitati palestinesi di collegamento di Qalqilyah, Tul Karm, Salfit e Jenin hanno smesso di sottoporre all’ufficio di collegamento israeliano le domande da parte di agricoltori palestinesi che chiedono i permessi per entrare nelle loro terre. (Hanno continuato a presentare richieste per altri permessi).

Parecchi terreni sono coinvolti – circa 137,000 dunams (13.700 ettari), 94.000 dei quali di proprietari privati, secondo l’Amministrazione Civile israeliana [organismo militare che gestisce l’occupazione in Cisgiordania] in Cisgiordania. Ma nuove norme, e nuove interpretazioni di quelle esistenti, hanno ridotto la terra che i palestinesi hanno il permesso di coltivare. E dalla fine dello scorso anno si sono moltiplicati i resoconti delle nuove difficoltà che i contadini devono affrontare per ottenere i permessi per coltivare la loro terra.

“Non possiamo collaborare con, e di conseguenza dare il beneplacito a, regole che renderanno più facile per Israele impossessarsi di molte altre migliaia di dunam con il pretesto che la terra è stata abbandonata,” hanno affermato i comitati di collegamento, spiegando la propria iniziativa inusuale.

Dopo circa tre mesi in cui i coltivatori sono stati impossibilitati a rinnovare i loro permessi e hanno temuto sempre più per il destino dei loro appezzamenti abbandonati, la questione è stata discussa lo scorso martedì dal capo dell’Amministrazione Civile, generale Ahvat Ben Hur, e dal vice ministro per gli Affari Civili dell’Autorità Nazionale Palestinese, Ayman Qandil. Erano presenti molte altre persone di entrambe le parti, e uno dei palestinesi [presenti] ha capito che, in cambio della ripresa immediata del lavoro dei comitati, le regole sarebbero rimaste congelate fino al 15 giugno. Durante questo periodo, Ben Hur le riconsidererà e “speriamo per il meglio”.

L’Amministrazione Civile non l’ha chiamato un “congelamento”, ma “l’esame di una serie di problemi relativi alle regole che governano la zona di congiunzione.”

Sorprendentemente questo sciopero non ha sollevato interesse oltre i coltivatori e le loro famiglie, benché riguardi il futuro dell’intero patrimonio di terre pubbliche palestinesi. Tuttavia forse non è sorprendente,perché dall’ottobre 2003 i palestinesi non hanno libertà di movimento in questa zona. Fu allora che il generale Moshe Kaplinsky, comandante delle forze israeliane in Cisgiordania, emise un ordinanza di interdizione su tutta la zona di congiunzione.

Cittadini israeliani e residenti, persone che possono immigrare in Israele in base alla “Legge del Ritorno” (questo dice l’ordinanza) e turisti possono entrare in questa zona liberamente. Solo i palestinesi hanno bisogno di un permesso per entrare nelle loro terre e case, e non vi possono accedere per qualunque altra ragione che non sia il lavoro o la residenza.

Dal 2009 l’Amministrazione Civile ogni tanto ha pubblicato il suo regolamento degli ordini in vigore per permessi di ingresso nella zona di congiunzione (e non solo per i contadini), per mettere in pratica quest’ordinanza. In febbraio è stata rilasciata la quinta versione. Questo insieme di nuove regole e nuove interpretazioni di quelle esistenti ha fatto suonare il campanello d’allarme.

Una di esse vanifica la tradizione palestinese del lavoro collettivo delle famiglie sui terreni. Infatti l’Amministrazione Civile obbliga di fatto le famiglie a dividere artificialmente la terra tra gli eredi dopo la morte del padre, anche se essi vorrebbero piuttosto considerarla come una proprietà collettiva, con alcuni che lavorano effettivamente la terra, altri che pagano il trattore, i semi o gli strumenti agricoli, ed altri ancora che vendono i prodotti. Dividere la terra porta via tempo, soprattutto a causa della doppia burocrazia israeliana e palestinese. Costa anche denaro (imposte, ecc.) e può provocare dispute.

Questa ordinanza è stata introdotta per la prima volta nel 2014. Da conversazioni con agricoltori alla fine del 2016 risulta chiaro che alcuni di loro vi si sono già adeguati. I comitati di collegamento palestinesi a quanto pare non hanno capito subito quanto fosse nefasta.

Nuova regola non scritta

Ma c’è un trucco: un’interpretazione che non compare nel regolamento. Nella seconda metà del 2016 a quanto pare qualcuno nell’ufficio di collegamento israeliano (parte dell’Amministrazione Civile) ha deciso che un appezzamento di terra di meno di cinque dunam non necessita di più di una persona che lo lavori – di conseguenza, i permessi di accesso sarebbero stati concessi solo al proprietario registrato, anche se fosse stato anziano, malato o avesse un altro lavoro.

Dalla fine del 2016 sia Haaretz che le organizzazioni per i diritti umani hanno ricevuto numerose informazioni su questa prassi.

Come per ogni regola non scritta, all’inizio si poteva pensare che si trattasse di casi isolati, forse derivanti da incomprensioni. Ma le testimonianze continuavano ad arrivare. E in risposta alle domande di Haaretz un portavoce del Coordinatore israeliano per le Attività di Governo nei Territori non ha negato che questa è effettivamente l’interpretazione utilizzata.

Dal 2014 l’Amministrazione Civile ha anche rifiutato di riconoscere che la moglie ed i figli del proprietario abbiano diritti di proprietà sulla terra. In effetti vengono loro concessi permessi di accesso sulla loro terra come “dipendenti”, il cui numero dipende dalle dimensioni del terreno, dal tipo di produzione e dalla stagione. Questa restrizione nei permessi per i membri della famiglia è il terzo problema.

Secondo i dati dell’amministrazione civile, nell’aprile 2016 sono stati concessi a contadini nella zona di collegamento 5.075 permessi. L’aprile scorso sono stati 5.218 (tutti per proprietari registrati). Presumibilmente l’incremento si deve a persone che hanno obbedito all’ordine e hanno diviso la loro terra tra i loro eredi.

Al contrario il numero di permessi per “coltivatori dipendenti ” è sceso da 12.282 nell’aprile 2016 a 9.856 lo scorso aprile. Questa riduzione dovrebbe essere in parte attribuibile allo sciopero. Ma conferma anche quello che i contadini hanno raccontato ad Haarez e all’ong [israeliana] contro l’occupazione Machsom Watch: sempre meno membri della famiglia ottengono permessi come “dipendenti”.

La norma che ha intensificato il campanello d’allarme è comparsa per la prima volta nell’ultimo regolamento. Afferma che nessun permesso verrà rilasciato per terreni di meno di 330 metri quadrati, perché “non ci sono sostanziali necessità agricole” per simili appezzamenti. Quindi, mentre l’Amministrazione Civile sta obbligando le famiglie a dividere la loro terra, afferma anche che “non ci sono sostanziali necessità agricole” per appezzamenti piccoli. Quanto ci vorrà prima che molte famiglie scoprano di avere una serie di appezzamenti piccoli, “insostenibili”, e di conseguenza non hanno il diritto di accesso alla loro terra e a lavorarla?

Per tutte queste ragioni i comitati di collegamento palestinesi hanno dichiarato lo sciopero parziale. Quindi chiunque avesse un permesso scaduto (sono validi per uno o due anni) non poteva rinnovarlo.

Una settimana fa, di sabato – prima dell’incontro di Ben Hur con Qandil – il portavoce del COGAT [Coordinamento delle Attività di Governo nei Territori, ndtr.] ha detto ad Haaretz che Ben Hur aveva autorizzato gli uffici di collegamento israeliani a ricevere le richieste di permesso direttamente da “agricoltori con appezzamenti di cinque o più dunam”. L’avvocato Alaa Mahajna, che rappresenta molti contadini di Qalqilyah a nome dell’ANP, ha affermato che in questa decisione  il limite di cinque dunam  ha confermato che le dimensioni del terreno, e non i diritti di proprietà, sono diventati il fattore decisivo per il rilascio dei permessi.

“Una china pericolosa”

L’organizzazione per i diritti umani “Hamoked” [Ong israeliana contro l’occupazione, ndtr.] – Centro per la Difesa dell’Individuo – ha aiutato i contadini a cui è stato negato il permesso ad accedere alla loro terra dal 2002. In genere l’Amministrazione Civile (subordinata al COGAT) ritira il rifiuto in seguito all’intervento di “Hamoked” (compresi ricorsi all’Alta Corte di Giustizia). Ma non tutti conoscono “Hamoked”, essa non ha le risorse per gestire decine di migliaia di casi e non è compito di “Hamoked” svolgere servizi altrui per loro.

L’avvocato Yadin Elam si è occupato di tutti i ricorsi all’Alta Corte presentati da “Hamoked” sulla questione. Lo scorso gennaio ha scritto a Ben Hur in merito ai problemi presenti in una bozza dell’ultimo regolamento e nella sua interpretazione. Ha messo in guardia riguardo a una “china pericolosa” di regole e della loro applicazione più rigida nel concedere i permessi, contrariamente all’impegno dello Stato all’Alta Corte che il danno causato ai contadini sarebbe stato minimo.

Sette anni dopo l’emanazione del primo regolamento “pare che qualcuno abbia deciso di riscriverlo e di interpretare ogni norma nel modo più dannoso che si possa immaginare,” ha scritto Elam. Ha citato il limite di cinque dunam, così come la meschina lentezza burocratica che comporta avere un permesso, con il risultato di perdere giorni di lavoro agricolo.

Elam ha scritto che le norme sono difficili da capire persino per un avvocato israeliano. Oltretutto il regolamento è pubblicato solo in ebraico, per cui quelli la cui vita dipende da esso in pratica non lo possono leggere.

La sua lettera è stata inviata anche al consigliere giuridico per la Cisgiordania, il colonnello Eyal Toledano, e al difensore civico dell’Amministrazione Civile, il tenente Bar Naorani. Gli è stata garantita una risposta, che non è ancora arrivata.

Lo scorso mese, come preliminare all’appello all’Alta Corte, Mahajna ha chiesto alla procura generale di annullare le nuove norme. Ha definito la regola dei 330 metri quadrati “draconiana, senza basi giuridiche”, aggiungendo che “contraddice il concetto fondamentale della legge e dei diritti di proprietà,” in quanto “i diritti di proprietà su un appezzamento di terreno le cui dimensioni non superano i 330 metri quadrati non sono considerati diritti e non vengono protetti.”

“Questa norma crea de facto un sistema di proprietà nuovo e fondamentalmente diverso, che si applica a due diversi gruppi nazionali sotto lo stesso regime, con tutto quello che ciò implica,” ha scritto.

La risposta che ha ricevuto è simile a quella del COGAT ad Haaretz lo scorso sabato: “In base a chiare ragioni di sicurezza, è necessario limitare la libertà di movimento sul lato della barriera di sicurezza verso Israele. L’Amministrazione Civile attribuisce importanza a garantire il diritto di accesso alla loro terra ai contadini proprietari palestinesi.”

Il COGAT ha anche detto ad Haaretz che il nuovo regolamento “intende offrire una soluzione migliore ai residenti che necessitano di permessi di accesso alla zona di congiunzione, salvaguardando le necessità di sicurezza ed evitando abusi dei permessi. Non ci sono impedimenti a un membro di una famiglia che lavora una serie di terreni per i suoi parenti, sia per il fatto che questi ultimi si trovino all’estero o per configurare una necessità agricola unendo appezzamenti. Ma per fare ciò, la richiesta deve essere accompagnata da una procura da parte del proprietario del terreno.”

Criteri per determinare il numero di dipendenti in base alle dimensioni del terreno e al tipo di prodotto sono già stati inclusi nel regolamento del 2014, così continua, con la disposizione che le richieste di far entrare più familiari della quota consentita sarebbero state prese in considerazione dal capo dell’ufficio di collegamento del distretto. Il regolamento del 2017 “ha definito il termine ‘necessità agricole’ in base al parere professionale del dirigente del personale agricolo, per garantire uniformità nel valutare queste richieste.

“Il regolamento lo stabilisce come una norma, permessi ‘agricoli’ non saranno concessi per piccoli appezzamenti che non superino i 330 metri quadrati. Questa norma può non essere rispettata se vengono presentate prove che, nonostante le piccole dimensioni del terreno, c’è una reale necessità colturale. Nel caso non ci siano queste necessità, i proprietari possono chiedere un permesso per ‘uso personale’.”

Tuttavia i permessi per ‘uso personale’ sono solo una tantum e non possono essere rinnovati automaticamente.

Centinaia di agricoltori stanno ora aspettando in fila presso gli uffici di collegamento palestinesi con richieste di rinnovo dei permessi da inoltrare alla burocrazia israeliana. Le ragioni dello sciopero sono davvero scomparse? Il tempo lo dirà.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il dibattito sulla legalità delle colonie: domande ricorrenti

Nathaniel Berman – 11 maggio 2017,Tikkun


I. Perché adesso?

Durante lo scorso decennio la ripresa dei dibattiti sulla legalità, in particolare sulla legalità delle colonie israeliane in Cisgiordania, è diventata un aspetto inatteso della discussione pubblica su Israele/Palestina. Questa ripresa è stata principalmente il prodotto di due tipi di forze. Per un verso, chi appoggia la colonizzazione ha sostenuto che la diffusa opinione internazionale sull’illegalità delle colonie è semplicemente sbagliata. Questi sostegni vanno da un “Rapporto sullo Stato delle Costruzioni nella Regione della Giudea e Samaria” (il “Rapporto della Commissione Levy”) del governo israeliano nel 2012, fino agli articoli pubblicati sulla stampa di destra e agli attivisti che appoggiano senza sosta queste posizioni nelle reti sociali. Dall’altro, l’illegalità delle colonie è stata fortemente sostenuta dagli attivisti delle campagne critiche nei confronti di Israele, soprattutto dal movimento BDS. Questo articolo prenderà in considerazione in primo luogo l’uso dell’argomento della legalità a favore della colonizzazione, valutandone la validità ed esaminando il significato contestuale di questo ritorno.

La ripresa del dibattito sulla legalità è sorprendente perchè, di primo acchito, sembra in contrasto con gli attuali sviluppi globali. Di sicuro c’è stato un periodo, all’incirca tra il 1990 e il 2003, in cui il dibattito internazionale sull’uso della forza è stato pervaso da argomentazioni giuridiche. A posteriori è stupefacente quanto del dibattito sull’invasione del Kuwait nell’agosto 1990 e sulla risposta militare guidata dagli Stati uniti nel gennaio 1991 sia stato inquadrato in un contesto giuridico. Il periodo che ne è seguito è stato una specie di età dell’oro per i giuristi di diritto internazionale. La convinzione che la fine della Guerra Fredda significasse che le leggi internazionali che regolano l’uso della forza potessero “finalmente” essere applicate, che il Consiglio di Sicurezza potesse “finalmente” giocare il ruolo per il quale era stato istituito, divenne praticamente unanime. Anche quando simili speranze vennero infrante nel corso del decennio – in particolare per l’incapacità internazionale di bloccare il genocidio in Ruanda del 1993 -, il discorso sul diritto internazionale rimase un punto fermo fondamentale dell’opinione pubblica mondiale sull’uso della forza. Ogni intervento – od ogni assenza di intervento – venne accompagnato da vivaci dibattiti sulla sua legalità. L’invasione del Kosovo da parte della NATO nel 1999, nonostante – o forse proprio a causa di ciò – la sua dubbia legalità, produsse una grande quantità di discussioni giuridiche originali.

Ora quel periodo sembra un lontano passato, benché non si possa identificare il momento preciso della sua fine. Il Kosovo ha giocato un ruolo, come anche la decisione degli USA di non chiedere l’approvazione del Consiglio di Sicurezza perl’invasione dell’Afghanistan. Tuttavia entrambe queste azioni potrebbero essere plausibilmente (se non incontestabilmente) giustificate in base a teorie di lungo periodo (intervento umanitario nel primo caso, auto-difesa nel secondo). Ma furono l’invasione americana dell’Iraq nel 2001 e la successiva, anche se riluttante, acquiescenza nei suoi confronti da parte di gran parte della comunità internazionale, che indicarono il fatto che le norme internazionali sull’uso della forza avevano perso il loro potere di determinare la politica internazionale. Con l’invasione russa della Crimea nel 2014, entrambe le “superpotenze” di un tempo hanno chiaramente dimostrato il proprio disprezzo per queste norme internazionali. Di sicuro molti hanno condannato quell’invasione in base ad una flagrante illegalità, ma questi termini sono sembrati ben lontani dal nuovo carattere discorsivo del dibattito internazionale.

Nel conflitto Israele/Palestina, il dibattito giuridico ha giocato a lungo un ruolo centrale, anche se intermittente. Benché io non possa qui ripercorrerne l’intera storia, è sufficiente dire che il conflitto è stato modellato in modo decisivo dal dibattito su, e dall’adozione di, strumenti internazionali come il Mandato [inglese, ndtr.] in Palestina del 1922, la Risoluzione [dell’ONU, ndtr.] sulla partizione [della Palestina, ndtr.] del 1947, la Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza del 1967 [che chiedeva il ritiro delle truppe israeliane dalla Cisgiordania, ndtr.], e così di seguito. Ma ci sono stati periodi in cui la questione della legalità pareva più o meno irrilevante per gli sviluppi politici in corso.

A mio parere, furono gli accordi di Oslo del 1993 e le loro conseguenze che hanno in gran parte favorito la più recente (anche se temporanea) marginalizzazione delle questioni giuridiche fondamentali del conflitto, come la legittimità dello Stato di Israele, il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, la legalità delle colonie e via di seguito. Il riconoscimento reciproco dello Stato di Israele e dell’esistenza del popolo palestinese da parte di Rabin e di Arafat nel 1993 si impegnava a mettere da parte dibattiti a somma zero su pretese legali opposte e totalizzanti. Al loro posto, Oslo sembrò (anche se per poco) presagire una particolare attenzione verso un pragmatico adeguamento degli interessi reciproci, la creazione di una società palestinese e una israeliana complementari e l’oblio graduale di richieste incompatibili sulla terra e sulla sua storia.

La morte di Oslo ha avuto dimensioni sia immediate che graduali, con cause troppo complesse per essere discusse in questa sede. La seconda Intifada ha segnato la sua fine – anche se alcune delle sue strutture formali hanno resistito, e continuano ad esistere. Tuttavia questa fine non è stata inizialmente accompagnata da un ritorno alla centralità del dibattito giuridico. Ciò è stato in parte dovuto alla violenza che l’ha accompagnata: sembrava che né i principi giuridici né gli interessi concreti da quel momento in poi sarebbero più stati importanti, ma solo la forza bruta.

Tuttavia, come sempre in questo conflitto, la forza bruta non ha deciso la questione, e la battaglia ideologica a somma zero è ritornata all’ordine del giorno: da una parte, la delegittimazione di Israele come tale; dall’altra, la delegittimazione di ogni rivendicazione palestinese sulla terra. O, per usare una sintesi corrente: i sostenitori di una “soluzione dello Stato unico”, che sia Israele o Palestina, sembrano aver conquistato il sopravvento nel determinare il dibattito internazionale, utilizzando argomentazioni giuridiche per proporre richieste inconciliabili.

II. Che cos’è la legge?

Passo a una rassegna delle questioni giuridiche relative alle colonie, iniziando da quelle basilari. Una discussione giuridica esaustiva richiederebbe un intero libro (o più di uno); mi sono sforzato qui di prendere in considerazione le questioni più importanti.

Israele è uno Stato (nel significato delle leggi internazionali, non in quello americano – cioè un Paese indipendente). La sua statualità è stata riconosciuta da molti altri Stati e, cosa più importante, dalla sua condizione di Stato membro dell’ONU. Se qualunque altro Stato dovesse usare la forza contro la sua “integrità territoriale o indipendenza politica…, o in qualunque altro modo incompatibile con le finalità delle Nazioni Unite,” violerebbe l’articolo 2(4) della Carta delle Nazioni Unite, una delle regole più sacre delle leggi internazionali successive alla Seconda Guerra Mondiale. Ad un livello giuridico formale, problemi quali la “legittimità” del Sionismo, le rivendicazioni storiche ebraiche sulla terra ed altre sono semplicemente irrilevanti per lo status giuridico dello Stato di Israele.

Per parte loro, i palestinesi sono stati riconosciuti dall’ONU, da molti Stati e dalla Corte Internazionale di Giustizia (la “CIG”, ovvero la “Corte Internazionale”) come “popolo” con il diritto all’ “autodeterminazione”. In base alla Risoluzione 2625 (1970) dell’Assemblea Generale, la maggior parte delle cui norme sono considerate dall’autorità giudiziaria internazionale come vincolanti, il diritto all’autodeterminazione può essere messo in pratica in uno di questi tre modi: “la costituzione di uno Stato sovrano ed indipendente, la libera associazione o integrazione con uno Stato indipendente o la formazione in qualunque altro status politico determinata da un popolo.” Quindi, in quanto “popolo”, i palestinesi sono in possesso del diritto, anche se non ancora messo in pratica, di scegliere una di queste tre opzioni. C’è una netta preferenza internazionale perché il diritto di auto-determinazione venga realizzato attraverso uno Stato indipendente, come espresso nelle prassi statuali durante la decolonizzazione e nella Risoluzione 1514 (1960) dell’Assemblea Generale, che ha preceduto la 2625 e documento fondamentale nel processo di maturazione dell’auto-determinazione come diritto internazionale generale.

La dimensione territoriale dello Stato di Israele e l’autodeterminazione palestinese richiedono la discussione di almeno altre due questioni giuridiche. La prima riguarda lo status della “Linea Verde”, il confine che ha delimitato Israele in base agli accordi armistiziali del 1949 tra Israele e i suoi vicini, in particolare l’Egitto e la Giordania. Gli accordi dichiararono esplicitamente che non erano definitivi riguardo alle rivendicazioni giuridiche delle due parti, comprese quelle territoriali. Tuttavia gli anni successivi al 1949 videro un crescente riconoscimento internazionale, per lo meno di fatto, della Linea Verde come il confine dello Stato di Israele. Il momento esatto in cui questo riconoscimento di fatto ha acquisito un valore legale può essere difficile da indicare, anche se a quanto pare si è ampiamente verificato. Pertanto, nella sua sentenza del 2004 sul Muro di sicurezza israeliano, la CIG ha accolto implicitamente lo status de jure della Linea Verde – in particolare nella sua dichiarazione secondo cui le disposizioni della Convenzione di Ginevra per i territori occupati si applicano ai “territori palestinesi…ad est della Linea Verde,” dichiarando implicitamente che sono inapplicabili ai territori ad ovest della Linea Verde perché si trovano all’interno del territorio sovrano di Israele.

Questa dichiarazione della CIG ci porta al termine legale “occupazione”. I recenti sostenitori della colonizzazione negano insistentemente che questo termine possa essere applicato alla Cisgiordania. Essi affermano che il termine “occupazione” si possa applicare solo quando un territorio è stato tolto da uno Stato sovrano ad un altro Stato sovrano. La Cisgiordania non ha avuto un riconoscimento internazionale fin dal lontano crollo dell’Impero ottomano. Gli inglesi, succeduti agli Ottomani nel governo della Palestina, erano solo un “Potere mandatario” , una specie di fiduciario che amministrava il territorio in nome della Società delle Nazioni. La Giordania, che conquistò la Cisgiordania nella guerra del 1948, venne condannata da tutti per la successiva annessione – un’annessione riconosciuta formalmente solo dalla Gran Bretagna e forse, a un livello informale e de facto, dagli USA. L’annessione venne inizialmente condannata in quanto illegale dalla Lega Araba, che per poco non espulse la Giordania per questo problema.

Nel 1968 Yehuda Blum, uno studioso israeliano di diritto internazionale e diplomatico, fornì quello che forse fu il primo, e il più influente, argomento legale per una rivendicazione israeliana della Cisgiordania: la teoria della “mancanza di un potere sovrano a cui restituire [la terra occupata, ndtr.] “. In base a questa teoria, l’insieme delle norme internazionali che regolano “l’occupazione in situazioni di conflitto” non si applica a causa dell’assenza di un legittimo potere governante precedente a cui il territorio potesse essere “restituito”. Tuttavia Blum non arrivò fino al punto di negare che si applicasse il termine “occupazione in situazione di conflitto”. Piuttosto, la “mancanza di qualcuno a cui restituire [la terra occupata, ndtr.]” significava che venissero applicate solo le norme “dirette a salvaguardare i diritti umani della popolazione”, e non quelle “che garantiscono i diritti di restituzione al potere legittimo”. Gli attuali sostenitori della rivendicazione israeliana, tuttavia, hanno assunto con decisione il punto da cui Blum si è astenuto: la negazione della reale esistenza di un’ “occupazione”. [1]

In ogni caso, la rilevanza della “mancanza di un potere sovrano a cui restituire [la terra occupata, ndtr.] ” per la legge internazionale dell’occupazione è stata solidamente rifiutata dalla Corte Internazionale di Giustizia (così come da quasi ogni altra autorità) nella sua decisione del 2004, come ho rimarcato in precedenza. La CIG ha fondato il suo rifiuto sullo scopo delle disposizioni fondamentali delle Convenzioni di Ginevra, dei lavori preparatori (registrazione delle discussioni tra le parti della Convenzione), della successiva conferma dei pareri delle parti delle Convenzioni e di molte risoluzioni del Consiglio di Sicurezza – i metodi standard utilizzati per determinare il significato delle disposizioni di un trattato. Inoltre, come evidenzierò in seguito, la dichiarazione della Corte che tutte le disposizioni delle Convenzioni di Ginevra che governano l’occupazione di forze ostili si applicano alla Cisgiordania è ampiamente supportata dalle politiche complessive sottintese in queste disposizioni, così come altri sviluppi legali, su tutti il diritto all’autodeterminazione.

(Noto di non avere qui lo spazio per discutere della legalità dell’occupazione in quanto tale, ma solo quella della legalità delle colonie in ogni territorio occupato. Si potrebbe sostenere in modo plausibile che l’inizio dell’occupazione fosse legale nel 1967, in quanto esercizio del diritto all’auto-difesa, ma che, come ha mostrato recentemente Aeyal Gross, rimane la questione se sia diventata illegale a causa del modo in cui è stata condotta. [2])

L’argomento principale per sostenere l’illegalità delle colonie si basa su uno dei principali scopi delle regole che governano l’occupazione ostile: l’obbligo da parte dell’occupante di non cambiare il carattere del territorio occupato oltre a ciò che è richiesto da necessità strettamente militari. Questo scopo è alla base di una norma fondamentale sull’occupazione, codificata nell’articolo 43 delle Disposizioni dell’Aja del 1907: l’obbligo per lo Stato occupante di “prendere tutte le misure in suo potere per ripristinare, e garantire, il più possibile, l’ordine pubblico e la sicurezza, rispettando al contempo, eccetto in casi estremi, le leggi in vigore nel Paese.” Questa politica indica anche la proibizione di obbligare gli abitanti a giurare fedeltà allo Stato occupante (art. 45) e di confiscare la proprietà privata (art. 46), così come le norme sulla proprietà pubblica: “Lo Stato occupante deve essere visto solo come un amministratore ed usufruttuario di edifici pubblici, beni immobili, foreste e proprietà agricole dello Stato ostile, e situate nel Paese occupato. Esso deve salvaguardare il patrimonio di queste proprietà ed amministrarle in base alle norme sull’usufrutto” (art. 55). Gli articoli 46 e 55 non prevedono nessun terreno su cui un occupante possa costruire un insediamento civile, ancora meno di carattere permanente.

Di sicuro, le disposizioni dell’Aja sembrano supporre l’esistenza di un “potere sovrano a cui restituire [la terra occupata]” e vedere il ruolo dello Stato occupante come una specie di amministratore per questo potere sovrano fino ai negoziati di un trattato di pace. La teoria della “mancanza di un potere sovrano a cui restituire [la terra occupata, ndtr.]” definirebbe ogni disposizione riguardante questo assunto inapplicabile alla Cisgiordania. E, di conseguenza, ci si potrebbe benissimo chiedere: per chi lo Stato occupante sarebbe un amministratore in assenza di un potere sovrano legittimo, per chi sarebbe obbligato ad osservare le norme di usufrutto riguardo alla proprietà pubblica, in nome di chi gli sarebbe vietato imporre il proprio sistema normativo – e, in generale, i diritti di chi dovrebbe salvaguardare?

La risposta in base alle attuali leggi internazionali è chiara: la beneficiaria di tutte queste norme è la popolazione, o piuttosto il “popolo”, dei territori occupati. Va ricordato che persino Blum ha affermato che, in assenza di un precedente potere sovrano legittimo, queste norme intese a garantire i “diritti umani della popolazione” sono applicabili alla Cisgiordania, riconoscendo quindi che l’assenza di un “potere a cui restituire” non implica l’assenza di un beneficiario di almeno alcuni dei diritti concessi dalla legge dell’occupazione. Di sicuro Blum ha fatto una distinzione tra tali “diritti umani” e le rivendicazioni politiche – queste ultime, in base alla sua teoria, inapplicabili in virtù dell’assenza di un precedente potere legittimo. E la posizione di Blum sarebbe stata plausibile nel 1907.

Ma la distinzione di Blum non è più valida in base alle attuali leggi internazionali, a causa del diritto all’ autodeterminazione, che riconosce i diritti politici di “popoli” non ancora organizzati in uno Stato sovrano, e l’applicazione delle leggi internazionali in generale, con i valori che rappresentano. In base a questo riconoscimento dei diritti politici dei popoli senza Stato, il beneficiario dello status simile a quello fiduciario del territorio occupato, in assenza di un precedente potere sovrano legittimo, deve essere “il popolo” del territorio. E’ a suo beneficio che lo Stato occupante deve governare il territorio, astenersi da cambiamenti giuridici non necessari, salvaguardare la proprietà pubblica, e via di seguito.

L’argomentazione a favore della colonizzazione (e quindi dell’annessione) – secondo cui l’assenza di un precedente potere sovrano legittimo rende il territorio disponibile all’appropriazione da parte dell’occupante – ignora quindi del tutto l’emergere graduale nelle leggi internazionali del diritto all’autodeterminazione politica. Sebbene l’autodeterminazione dei popoli possa essere maturata pienamente nel diritto internazionale generale solo dopo il 1960, il principio regolò buona parte della ridefinizione dei confini europei nel primo dopoguerra. Woodrow Wilson fornì nel 1918 una delle sue prime e più esplicite formulazioni nel discorso “Quattro principi”, quando dichiarò che “popoli e province non devono essere barattati da un potere sovrano all’altro come se fossero beni mobili e pedine di un gioco” – un principio che va direttamente in senso contrario rispetto alla teoria della “mancanza di un potere sovrano per la restituzione.”

In effetti, il concetto del diritto internazionale prima del XX° secolo, che il diritto all’autodeterminazione rigetta esplicitamente, è l’antenato diretto della teoria della “mancanza di un potere sovrano per la restituzione” : quello di “ terra nullius”, terra che non è di proprietà di nessuno e di conseguenza disponibile per l’acquisizione. Questa nozione ha un lungo ed ignobile percorso nella storia dell’imperialismo, le cui fasi sono state tratteggiate dal giudice della CIG Ammoun nel caso del Sahara occidentale del 1975:

(1) L’antichità romana, quando ogni territorio che non fosse romano era nullius.

(2) L’epoca delle grandi scoperte del XVI° e XVII° secolo, durante la quale ogni territorio che non era di un sovrano cristiano era nullius.

(3) Il XIX° secolo, durante il quale ogni territorio che non fosse di proprietà di un cosiddetto Stato civilizzato era nullius.

Nel caso del Sahara occidentale la CIG respinse totalmente la nozione di terra nullius, dichiarando che “territori abitati da tribù o popoli che hanno un’organizzazione sociale e politica” non possono essere visti come terrae nullius dal punto di vista legale. Poiché tutte le “tribù” e i “popoli” hanno “un’organizzazione sociale e politica,” la Corte correttamente dichiarò che solo un territorio disabitato può eventualmente essere nullius. Pertanto l’ “acquisizione di sovranità” su un qualunque territorio abitato non può essere “effettuata unilateralmente attraverso un’ ‘occupazione'”, ma piuttosto solo tramite “accordi conclusi con i poteri locali”, che tali poteri locali siano o meno i rappresentanti di Stati.

Torniamo ora alla norma giuridica fondamentale che regola specificamente la colonizzazione, l’articolo 49(6) della Quarta Convenzione di Ginevra: “Il potere occupante non deve deportare o trasferire parti della propria popolazione civile nel territorio che occupa.” Il significato di questa disposizione è stato duramente messo in discussione nel contesto della Cisgiordania. I fautori della colonizzazione sostengono che si riferisce solo ai trasferimenti forzati di popolazione, e lo mette in relazione con le deportazioni di massa naziste nei campi di concentramento. Questa interpretazione considera i due termini, “deportazione” e “trasferimento” come sinonimi. Tuttavia l’autorevole commento sulle Convenzioni di Ginevra da parte del Comitato Internazionale della Croce Rossa (“CICR”) del 1958 ne fa una lettura molto diversa:

E’ intesa a proibire una pratica adottata durante la Seconda Guerra Mondiale da certe potenze, che trasferirono parte della propria popolazione in territori occupati per ragioni politiche e razziali o con lo scopo, come esse sostennero, di colonizzare questi territori. Tali trasferimenti peggiorarono la situazione economica della popolazione nativa e misero in pericolo la sua esistenza come etnia separata.

Nelle parole della CIG nel 2004, la norma proibisce “non solo le deportazioni o i trasferimenti forzati di popolazione come quelli messi in atto durante la Seconda Guerra Mondiale, ma anche qualunque misura presa da un potere occupante per organizzare o incoraggiare trasferimenti di parti della sua stessa popolazione nel territorio occupato.” Questa interpretazione, sostenuta dal CICR, dalla CIG e dalla maggior parte dei giuristi internazionali, è in linea con il quadro politico complessivo delle leggi sull’occupazione, secondo cui gli Stati occupanti devono evitare di fare passi per cambiare il carattere del territorio occupato – e tentativi di modificare il carattere demografico con insediamenti, e a maggior ragione qualunque passo unilaterale verso l’annessione, vanno direttamente in senso contrario rispetto a questa politica.

III. E riguardo a Sanremo?

Uno degli aspetti più sorprendenti della recente argomentazione a favore della colonizzazoine è la sua ossessione per tre testi, di circa un secolo fa, che sono culminati nella nascita del Mandato in Palestina della Società delle Nazioni: la “Dichiarazione Balfour” (1917), la Risoluzione di Sanremo (1920) e il Mandato sulla Palestina (1922). Questi documenti hanno un signficato giuridico diverso. La “Dichiarazione Balfour” britannica, che “vede(va) con favore la costituzione in Palestina di un focolare per il popolo ebraico”, era una dichiarazione unilaterale di politica da parte di uno Stato impegnato, all’epoca, in una lotta militare per il controllo della Palestina. Di per sé, non ha nessun valore giuridico internazionale. La Risoluzione di Sanremo fu un accordo tra quattro Stati (Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone), che dichiararono la propria intenzione di accettare alcune condizioni per essere inclusi nei Mandati in Palestina, in Siria (che evidentemente includeva il Libano) e nella Mesopotamia (che sarebbe presto stata chiamata Iraq).

I quattro Stati concordarono che il Mandato in Palestina sarebbe stato concesso alla Gran Bretagna che sarebbe stata “responsabile della messa in pratica della Dichiarazione (Balfour)”. Di nuovo, la risoluzione era una dichiarazione politica da parte di quattro Stati, ma non aveva un valore giuridico indipendente. Infine, il Mandato sulla Palestina, un trattato internazionale vincolante tra la Gran Bretagna e la Società delle Nazioni, nel suo preambolo adottò la Dichiarazione Balfour e fornì un certo numero di disposizioni dettagliate per la sua attuazione. Di questi documenti, solo il Mandato, un trattato internazionale, era legalmente vincolante – il che rende l’attuale enfasi dei sostenitori della colonizzazione sulla Dichiarazione Balfour e sulla Risoluzione di Sanremo alquanto inspiegabile da un punto di vista giuridico.

In ogni caso, persino il Mandato ha perso ogni rilevanza giuridica attuale. Il Mandato ed i testi che lo hanno preceduto furono scritti in un periodo totalmente diverso, prima di una lunga serie di radicali cambiamenti di fatto e giuridici nella situazione internazionale e regionale. Prima di tutto, questi documenti furono adottati prima della fondazione dello Stato di Israele, internazionalmente riconosciuto. La fondazione dello Stato fece più che ottenere l’obiettivo della ” costituzione in Palestina di un focolare per il popolo ebraico”: lo ha sovra-realizzato – in quanto il vago termine “focolare”, una definizione senza un preciso significato giuridico nel 1917 o in qualunque tempo precedente o successivo, venne scelto proprio per evitare la promessa di uno Stato ebraico. Un confronto del Mandato sulla Palestina con qualunque altro trattato successivo alla Prima Guerra Mondiale lo evidenzia: quando l’intenzione era quella di garantire la creazione di uno Stato indipendente per i popoli, il testo lo affermava esplicitamente.

Si potrebbe cavillare ulteriormente sul linguaggio della Dichiarazione Balfour (per esempio, sembra promettere solo che “il focolare per il popolo ebraico” sarebbe stato da qualche parte “in Palestina”, piuttosto che prevedere la costituzione della Palestina nel suo complesso come focolare ebraico). Tuttavia, la fondazione dello Stato di Israele, con la sua sovra- realizzazione della politica del “focolare”, è sufficiente a rendere superate le relative disposizioni del Mandato. In base a una norma definita da molto tempo che guida i trattati internazionali, “rebus sic stantibus,” un “fondamentale cambiamento delle circostanze” che alteri le condizioni di base sotto le quali le disposizioni di un trattato sono state adottate rende nullo il loro carattere vincolante.

Altre due disposizioni sono spesso menzionate dai fautori della colonizzazione. La prima è la disposizione del Mandato che chiede alla Gran Bretagna di “incoraggiare…un insediamento concentrato da parte degli ebrei sul territorio.” Di nuovo, con la decadenza di tutte le disposizioni relative al “focolare” in seguito all’esecutività del rebus sic stantibus, anche questa disposizione è obsoleta. Quindi la fondazione di uno Stato di Israele internazionalmente riconosciuto rende piuttosto assurda l’obbligatorietà di un potere mandatario straniero di “ incoraggiare…un insediamento concentrato”.

La seconda disposizione è l’articolo 80 della Carta dell’ONU. L’articolo 80 è parte del capitolo XII della Carta, che stabilisce la costituzione di un “Sistema internazionale di amministrazione fiduciaria” per sostituire i Mandati della Società delle Nazioni. L’articolo 80 prevede che “niente nel” capitolo XII “deve essere interpretato in sé e per sé per alterare in alcun modo i diritti, qualunque essi siano, di ogni Stato o popolo o le disposizioni di documenti internazionali esistenti.” I sostenitori della colonizzazione, facendo ricorso ad un articolo scritto da Eugene Rostow nel 1978, interpretano questa norma come se mantenesse in vigore tutte le disposizioni del Mandato sulla Palestina in relazione ad ogni parte del territorio che non sia stata “assegnata” – un termine che utilizzano per significare un territorio non ancora concesso a un potere sovrano internazionalmente riconosciuto.

Questa tesi è confutabile sotto almeno due aspetti. Anzitutto l’effettività del rebus sic stantibus, che rende obsolete le disposizioni del focolare ebraico del Mandato, non è un portato del capitolo XII, e quindi le limitazioni dell’articolo 80 semplicemente non sono pertinenti. In secondo luogo, la trasformazione dell’auto-determinazione in un diritto internazionale non solo ha cambiato la situazione giuridica (rafforzando l’argomento del rebus sic stantibus), ma significa anche che il territorio non può essere considerato “non assegnato”, semplicemente in quanto non c’è un potere sovrano riconosciuto su di esso. In ogni caso tutti questi argomenti sono stati implicitamente rifiutati dalla CIG, da quasi tutti i giuristi e dalla comunità internazionale degli Stati.

IV. E riguardo alla Risoluzione 242?

Un altro vecchio dibattito che i fautori della colonizzazione hanno rispolverato riguarda il significato della Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza, adottata nel novembre 1967. Tra le altre cose, la risoluzione chiede “il ritiro delle forze armate di Israele da territori occupati” durante la Guerra dei Sei Giorni. I sostenitori della colonizzazione affermano che l’assenza di un articolo determinativo prima della parola “territori” significa che la risoluzione non chiede ad Israele di ritirarsi da tutti i territori occupati durante la guerra e che questa disposizione può essere rispettata ritirandosi da uno qualsiasi dei territori occupati – per esempio, ritirandosi dal Sinai in base agli accordi di Camp David del 1979. Simili argomentazioni spesso implicano il confronto tra il testo in francese ed in inglese, sottigliezze grammaticali tra l’inglese e il francese e affermazioni di varie persone coinvolte nella stesura della risoluzione. Chi appoggia la colonizzazione sostiene anche che la risoluzione legittima così le colonie israeliane.

Queste argomentazioni sono piuttosto sconcertanti. Anche se la questione grammaticale fosse corretta (cosa che non è affatto certa), la risoluzione deve essere interpretata alla luce delle norme giuridiche internazionali generali sui territori occupati. In base a queste norme, un territorio occupato durante una guerra non può essere annesso unilateralmente. Peraltro questo divieto è stabilito nella stessa Risoluzione 242, il cui secondo paragrafo introduttivo “sottolinea l’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la guerra…” Anche se l’interpretazione di “territori” a favore della colonizzazione fosse corretta, la risoluzione stabilirebbe semplicemente che, in una soluzione negoziata del conflitto, le parti sarebbero libere di accettare cambiamenti dei confini di anteguerra. Questa lettura rende compatibile il secondo paragrafo dell’introduzione con la (controversa) interpretazione della parola “territori”. Faccio anche notare che la risoluzione non cita per niente le colonie.

In ogni caso, la risoluzione deve essere interpretata alla luce di sviluppi giuridici successivi, su tutti il quasi universale riconoscimento dei palestinesi come “popolo” con un diritto all’auto-determinazione. La risoluzione non menziona i palestinesi, che compaiono solo come anonimi “rifugiati”.

V. E riguardo ad Howard Grief?

Uno degli aspetti deludenti delle argomentazioni giuridiche a favore delle colonie è la loro apparente indifferenza verso le regole fondamentali che presiedono alla definizione dello Stato nel diritto internazionale. Ribadiscono ripetutamente l’esistenza di un piccolo numero di autori giuridici che hanno argomentato la legalità delle colonie, ignorando le migliaia che hanno espresso parere contrario, come anche le istituzioni autorevoli che hanno sostenuto la stessa cosa (quasi tutti gli Stati, le Nazioni Unite, la Corte Internazionale di Giustizia, il Comitato Internazionale della Croce Rossa, ecc.). Sostengono la superiorità degli argomenti degli autori da loro scelti e adducono che, quanto meno, la questione è “controversa” e che l’illegalità non può essere considerata definitivamente stabilita.

Gli autori giuridici citati a favore delle colonie sono un gruppo eterogeneo – comprendono alcuni avvocati di livello internazionale, come anche studiosi giuridici in altri campi che si sono occupati in certa misura di diritto internazionale; le carriere di alcuni di loro includono posizioni ufficiali nel governo di Israele. Uno di questi ultimi, particolarmente citato dai sostenitori delle colonie, è Howard Grief, un per altro oscuro avvocato canadese che è stato consulente ministeriale durante il governo Shamir, che pare sia responsabile della loro ossessione per la Risoluzione di San Remo. Quasi tutti sono personaggi chiaramente appartenenti alla destra o persino all’estrema destra dello spettro politico – compreso Howard Grief, la cui richiesta alla Corte Suprema israeliana di dichiarare illegittimi gli accordi di Oslo è stata sbrigativamente liquidata come “una posizione politica”.

Qualunque siano le variegate competenze in merito di questo gruppo, gli argomenti che prendono di mira le singole persone sono irrilevanti. Il diritto internazionale non è una scienza esatta in cui qualcosa può essere oggettivamente vera, anche se la grande maggioranza delle autorità non la riconosce come tale. E non è neppure un’indagine etica in cui (almeno secondo alcune teorie etiche) un valore può essere superiore agli altri nonostante il parere della maggioranza. Né si occupa di una ricerca religiosa sul disegno divino di una sacra scrittura. Al contrario, il diritto internazionale si definisce come relativo all’accordo tra Stati, al consenso o quasi-consenso degli studiosi e alle autorevoli interpretazioni istituzionali dei testi. Secondo le categorie universalmente accettate (codificate, tra l’altro, nello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia), le fonti del diritto internazionale sono: 1) i trattati ratificati dagli Stati; 2) il “diritto consuetudinario internazionale” – prassi statali ampiamente diffuse che si trasformano in norme giuridiche in virtù della loro accettazione in quanto tali dalla maggioranza degli Stati (quest’ultima nota con l’espressione latina “opinio juris”); 3) “principi legislativi generali” – principi della legislazione interna agli Stati, che sono così diffusi da diventare norme giuridiche internazionali.

Inoltre, poiché molte controversie riguardano l’interpretazione dei trattati, dovremmo sottolineare che il principio che governa la formazione del diritto consuetudinario internazionale – che può essere sintetizzato nella formula “prassi + opinio juris” – ricompare in forma solo leggermente differente in relazione all’interpretazione di testi giuridici potenzialmente ambigui. Come stabilito nella Convenzione di Vienna sul “Diritto dei Trattati”:

Si dovrà prendere in considerazione, insieme al contesto:

  1. ogni successivo accordo tra le parti relativo all’interpretazione del trattato o all’applicazione delle sue disposizioni;

  2. ogni successiva prassi nell’applicazione del trattato che stabilisca l’accordo delle parti riguardo alla sua interpretazione;

  3. tutte le norme pertinenti di diritto internazionale applicabili alle relazioni tra le parti.

La polemica sull’erroneità del consenso preponderante riguardo all’illegalità delle colonie – condiviso da Stati, Corti e dall’ampia maggioranza dei giuristi di diritto internazionale – fraintende la natura del diritto internazionale. Si può, ovviamente, contestare in tutto o in parte il diritto internazionale. Ma trattarlo come se contenesse una verità eterna, che un singolo studioso o un gruppo di studiosi potrebbe scoprire indipendentemente da un simile consenso, è semplicemente un equivoco.

VI. Il dibattito come sintomo tragico ….e un’ultima fandonia

Come ho detto all’inizio, la mia opinione complessiva è che questa strana rinascita del dibattito giuridico sia un sintomo di una crescente sfiducia in una possibile soluzione del conflitto in un contesto che darebbe almeno una parziale espressione ad ognuna delle aspirazioni nazionaliste in confitto. Ma indica anche un fenomeno ancor più inquietante. Come è stato evidenziato per anni da molti osservatori, la soluzione dei due Stati – che a molti, me compreso, sembra tuttora fornire l’unico schema che potrebbe plausibilmente condurre ad una giusta e pacifica risoluzione del conflitto – è contraddetta da una “realtà di uno Stato unico” per la quale serve come alibi.

Inoltre, poiché l’occupazione appare sempre più permanente, l’argomentazione giuridica comincia ad apparire sempre più staccata dalla realtà, perché la permanenza è proprio la condizione che le norme giuridiche intendono impedire. E ancora, per tutte le ragioni esposte prima, una volta che [il termine] “occupazione” diventa obsoleto, l’alternativa non è legittimare la sovranità israeliana sulla Cisgiordania, come pretendono i sostenitori delle colonie. Piuttosto, può essere sostituita solo da termini quali “colonialismo” e “apartheid”, categorie storiche che descrivono sistemi di governo in cui i coloni e la maggioranza della popolazione sono governati da due sistemi giuridici e in cui solo i primi hanno la cittadinanza e i diritti civili e politici. Nel contesto di una “realtà di uno Stato unico”, la campagna contro l’applicabilità della forma legale “occupazione” è quindi davvero agghiacciante.

Bisogna menzionare qui un’ ultima, spiacevole fandonia. I sostenitori delle colonie contestano che coloro che ritengono che tutte le colonie debbano essere evacuate auspicano che la Cisgiordania sia “judenrein” [libera dagli ebrei, ndtr.], paragonando così gli oppositori delle colonie ai nazisti. Questo è falso, davvero osceno, per così tanti aspetti ed in così tanti modi, che ci vorrebbe un altro saggio per citarli tutti. Dato che la mia attenzione qui si incentra sul diritto internazionale, mi limiterò ad un solo punto. Il progetto coloniale non può essere onestamente descritto come uno sforzo da parte di singoli ebrei di affittare o acquistare case e il cui diritto di farlo dovrebbe essere garantito da qualcosa come una legge anti-discriminazione. Il progetto coloniale implica lo spostamento collettivo di parti della popolazione civile di uno Stato in un territorio sotto occupazione militare di quello Stato.

Il progetto è stato avviato e continua ad essere diretto da dirigenti, dello Stato e non, la cui intenzione dichiarata era, ed è, agevolare la definitiva imposizione della sovranità israeliana sull’intero territorio o su parte di esso. Il progetto è stato avviato soprattutto (benché non esclusivamente), e continua ad essere ampiamente gestito, da persone guidate da un’ideologia nazionalista-messianica, che ritiene che la proprietà della terra da parte dello Stato di Israele e/o del popolo ebraico sia disposta dalla volontà divina. Il progetto è condotto con l’appoggio dell’intera potenza militare israeliana e da una massiccia spesa del governo in case ed infrastrutture. In breve: le questioni giuridiche essenziali non riguardano la discriminazione abitativa o la proprietà privata –e ancor meno il giudizio morale dei singoli coloni.

Se alcuni coloni sono estremisti violenti e razzisti e molti sono semplicemente indifferenti alla realtà umana dei palestinesi in quanto individui e in quanto popolo, altri sono normali famiglie attirate in Cisgiordania dagli incentivi economici del governo, alcuni sono esempi di spiriti apolitici e vi sono persino alcuni, come il rabbino Menachem Froman, che sono sinceri pacifisti. Le questioni giuridiche riguardano le azioni di uno Stato tenuto al rispetto di norme internazionali che regolano un territorio occupato durante un conflitto armato, norme che proibiscono atti che mirino all’imposizione unilaterale della sovranità su tale territorio ed alla subordinazione della sua popolazione, di cui il progetto di colonizzazione è la forma più eclatante.

1) Bisogna anche notare che gli scritti successivi di Blum, pubblicati dopo Oslo, indicano che non attribuisce più la stessa rilevanza alla teoria che propose nel 1968.

2) Aeyal Gross, “The writing on the wall: rethinking the international law of occupation” [ “La scritta sul muro: ripensare le leggi internazionali sull’occupazione”] (Cambridge, 2017).

Nathaniel Berman è professore di Affari Internazionali, Diritto e Cultura Moderna della cattedra Rahel Varnhagen presso il Centro Cogut per le Discipline Umanistiche della Brown University, e condirettore del progetto “Religione e Internazionalismo”.

Ha di recente pubblicato “Passion and ambivalence: colonialism, nationalism and international law” [“Passione e ambivalenza: colonialismo, nazionalismo e diritto internazionale”] (Brill, 2012).

(traduzione di Amedeo Rossi e Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 2 maggio – 15 maggio (due settimane)

Quattro aggressioni e tentate aggressioni con coltello contro le forze israeliane hanno provocato l’uccisione di due sospetti aggressori: un minore palestinese e un cittadino della Giordania; oltre al ferimento di un israeliano e di due palestinesi.

Il 7 maggio, nella città vecchia di Gerusalemme, le forze israeliane hanno sparato e ucciso una ragazza palestinese di 16 anni che, secondo fonti ufficiali israeliane, avrebbe tentato di accoltellare un gruppo di poliziotti. B’Tselem, organizzazione israeliana dei diritti umani, ha affermato che, sebbene la ragazza brandisse un coltello, “si era fermata a diversi metri dagli ufficiali, [e] non rappresentava un pericolo per loro”. Ad oggi, nel 2017, in Cisgiordania questo è il sesto minore palestinese ucciso dalle forze israeliane nel contesto di aggressioni, presunte aggressioni e scontri. Sempre a Gerusalemme, il 13 maggio, un cittadino giordano 57enne (rifugiato palestinese) ha pugnalato e ferito un poliziotto israeliano e successivamente è stato colpito e ucciso. Inoltre, in base ai resoconti dei media israeliani, il 10 e 15 maggio, in due distinti episodi, presso il checkpoint di Salem (Jenin) e nella zona H2 della città di Hebron, le forze israeliane hanno sparato e ferito due giovani palestinesi che avrebbero tentato di accoltellare dei soldati israeliani.

Nel periodo in esame [2-15 maggio], in Cisgiordania le violenze e gli scontri con le forze israeliane sono aumentati: una giovane palestinese è stata uccisa ed altri 255 palestinesi, di cui 26 minori, sono stati feriti. La maggioranza degli scontri si è verificata il 15 maggio, durante le manifestazioni per commemorare il 69° anniversario di quello che i palestinesi chiamano “An Nakba” [= la catastrofe, cioè la proclamazione unilaterale, nel 1948, della nascita dello Stato di Israele], così come durante le manifestazioni in solidarietà con i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, che sono in sciopero della fame da più di 30 giorni per protestare contro le loro condizioni di detenzione. La giovane (di cui sopra) è una palestinese di 22 anni, uccisa con arma da fuoco durante gli scontri scoppiati nel villaggio di Nabi Salah (Ramallah), nel corso della manifestazione settimanale contro l’acquisizione di terre da parte di coloni israeliani. Almeno 35 dei feriti (14%) sono stati colpiti da armi da fuoco, mentre la maggior parte dei rimanenti ha subito lesioni da inalazione di gas lacrimogeni (circa il 40%) e da proiettili di gomma (quasi il 30%).

In numerosi checkpoints della Cisgiordania sono stati rilevati lunghi ritardi che hanno reso difficile l’accesso ai servizi e ai luoghi di lavoro. Durante il periodo di riferimento, nel contesto di crescenti tensioni e violenze, le forze israeliane hanno dispiegato almeno 160 “checkpoint volanti” ad hoc, più che raddoppiando la media bisettimanale registrata dall’inizio dell’anno; tra questi i “checkpoint volanti” allestiti agli ingressi principali delle città di Qalqiliya, Hebron e Betlemme. Inoltre, in diversi momenti di questo periodo, 40 checkpoint parziali (cioè non presidiati in modo permanente) sono stati attivati e presidiati da soldati che fermavano i veicoli palestinesi per effettuare controlli e ricerche.

Il 15 maggio, nel mare a nord-ovest della città di Gaza, le forze navali israeliane hanno aperto il fuoco contro una barca da pesca, uccidendo un pescatore di 23 anni. Secondo il Centro Palestinese per i Diritti Umani, l’episodio si è verificato a circa tre miglia nautiche dalla costa [cioè in zona non vietata da Israele]. In almeno altre 22 occasioni, le forze navali israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in direzione di pescatori che navigavano nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA): in uno dei casi hanno ferito un pescatore. All’inizio di questo mese, e fino al 7 giugno, in occasione della stagione della pesca delle sardine, nella parte meridionale della Striscia di Gaza, i militari israeliani hanno esteso la zona di pesca consentita, portandola da sei a nove miglia nautiche; viceversa, lungo la costa settentrionale, l’accesso oltre le sei miglia è rimasto precluso. Dall’inizio del 2017 ad oggi ci sono già stati, in mare, almeno 133 casi di apertura del fuoco: il bilancio è di un morto [vedi sopra] e otto feriti.

In Area C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito 13 strutture palestinesi sfollando 22 persone e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 40. Nove delle strutture abbattute si trovavano a Gerusalemme Est; sei di queste ultime erano collocate nella comunità di Al Walaja, nella parte illegalmente annessa ad Israele e dove le autorità israeliane hanno recentemente ripreso la costruzione della Barriera. Le altre quattro strutture demolite erano in Area C, nelle comunità di Al Jiftlik (valle del Giordano) e di Ar Ram (governatorato di Gerusalemme).

Due palestinesi sono stati feriti e strutture agricole sono state vandalizzate in episodi di cui sono stati protagonisti coloni israeliani. Nella zona H2 della città di Hebron, coloni israeliani hanno fisicamente aggredito e ferito il Direttore della scuola elementare di Qurtuba; nei pressi dell’insediamento colonico di Kiryat Arba (Hebron), un palestinese è rimasto ferito dai frammenti di vetro della sua auto contro la quale coloni israeliani avevano lanciato pietre. Gli agricoltori dei villaggi di Al Khadr (Betlemme) e Qusra (Nablus) hanno riferito che una recinzione e due serbatoi per l’acqua sono stati vandalizzati da coloni israeliani, rispettivamente di Ahiya e di Alon Shevut.

Secondo resoconti di media israeliani, cinque coloni israeliani sono stati feriti e almeno dieci veicoli sono stati danneggiati in diversi casi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie ad opera di palestinesi, nei pressi di Gerusalemme, Ramallah, Hebron e Betlemme.

È rimasta ferma la Centrale elettrica di Gaza, chiusa il 17 aprile per esaurimento delle proprie riserve di carburante; perdurano così i tagli di 20-22 ore giornaliere alla erogazione di energia elettrica. L’approvvigionamento elettrico dall’Egitto, dopo la riparazione dei guasti alle linee elettriche, è ripreso temporaneamente il 7 maggio, ma è stato nuovamente interrotto il 12 maggio. Questa situazione continua a compromettere la fornitura dei servizi essenziali, operanti ai livelli minimi e affidati al funzionamento di generatori elettrici di emergenza.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto in una direzione per quattro giorni durante il periodo (6-9 maggio), consentendo a 3.068 palestinesi di entrare a Gaza. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

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Ultimi sviluppi

Secondo le prime notizie dei media, il 18 maggio, durante una protesta nella città di Huwwara (Nablus), un colono israeliano ha sparato, uccidendo un 23enne e ferendo un fotografo, entrambi palestinesi.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Human Rights Watch: La FIFA decide di continuare a ‘sponsorizzare i giochi nelle terre rubate (palestinesi)’

11 maggio 2017 Ma’an News

BETLEMME (Ma’an) – Human Rights Watch (HRW) ha condannato la cancellazione di una votazione alla conferenza della FIFA di giovedì nella capitale del Bahrein Manama, che avrebbe dovuto decidere se la partecipazione di sei squadre di calcio israeliane con base nelle colonie illegali israeliane in Cisgiordania sarebbe stata ammessa alle gare nei territori palestinesi, affermando che l’associazione internazionale del football ha deciso di continuare a “sponsorizzare i giochi sulle terre rubate.”

BETLEMME (Ma’an) – Human Rights Watch (HRW) ha condannato la cancellazione di una votazione alla conferenza della FIFA di giovedì nella capitale del Bahrein Manama, che avrebbe dovuto decidere se la partecipazione di sei squadre di calcio israeliane con base nelle colonie illegali israeliane in Cisgiordania sarebbe stata ammessa alle gare nei territori palestinesi, affermando che l’associazione internazionale del football ha deciso di continuare a “sponsorizzare i giochi sulle terre rubate.”

Era previsto che il congresso tenesse una votazione finale sulla risoluzione palestinese che proibiva di giocare le gare della FIFA nelle colonie israeliane – costruite nei territori palestinesi occupati, in violazione del diritto internazionale.

HRW, insieme ad altre organizzazioni, ha chiesto alla FIFA di impedire all’Associazione di Football Israeliana (IFA) di “organizzare attività calcistiche” nei territori palestinesi ed ha ribadito l’illegalità delle colonie israeliane disseminate nei territori, in base alla Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta ad una potenza occupante di trasferire la propria popolazione civile nel territorio da essa occupato, configurando così tali azioni come crimine di guerra.

La questione ha costituito una preoccupazione cruciale per l’Associazione di Football Palestinese (PFA) e nel maggio 2015 è stato creato il Comitato di monitoraggio della FIFA per Israele-Palestina, guidato da Tokyo Sexwale. Il comitato era responsabile di mettere sotto osservazione le restrizioni da parte di Israele alla libertà di movimento dei giocatori palestinesi e la legalità delle squadre israeliane con sede nelle colonie illegali in Cisgiordania.

Secondo Al Jazeera il mandato del comitato doveva scadere a maggio. Tuttavia il presidente della FIFA Gianni Infantino è intervenuto nella conferenza di giovedì e , prima della votazione, ha presentato una proposta per estendere il mandato del comitato fino a marzo 2018, a quanto sembra per permettere a IFA e PFA di raggiungere un accordo. Secondo HRW, la proposta è passata con la maggioranza del 70%.

Tuttavia la PFA e parecchie organizzazioni per i diritti umani hanno insistentemente chiesto alla FIFA di agire riguardo al problema, vietando alle squadre israeliane di giocare nei territori palestinesi o sospendendo l’adesione di Israele all’associazione se le autorità israeliane rifiutassero di rispettare le leggi internazionali.

Le sei squadre provengono dalle colonie israeliane illegali di Kiryat Arba, Givat Ze’ev, Maaleh Adumim, Ariel, Oranit e Tomer.

HRW ha affermato che alle sei squadre non dovrebbe essere permesso di svolgere attività calcistiche su terre “illegalmente sottratte e interdette ai palestinesi della Cisgiordania.”

Dopo quattro anni non è chiaro perché la FIFA necessiti ancora di un altro anno per decidere se rispettare o no le proprie stesse regole”, ha aggiunto HRW, riferendosi alle accuse palestinesi in base alle quali la FIFA sta violando le sue stesse norme interne non attivandosi sulla questione in quanto i membri della FIFA non potrebbero giocare partite sul territorio di un altro membro senza aver ottenuto un permesso ufficiale.

HRW ha affermato in un rapporto del 2016: “Permettendo alla IFA di giocare partite all’interno delle colonie, la FIFA si sta impegnando in un’attività commerciale che sostiene le colonie israeliane.”

Nel contempo le squadre palestinesi hanno subito pesanti restrizioni di movimento, tra cui subire gravi problemi con le autorità israeliane ai checkpoint all’interno della Cisgiordania, che a volte impediscono ai calciatori di gareggiare con altre squadre della Cisgiordania.

L’anno scorso la PFA è stata anche costretta a rinviare la finale [del campionato], quando le autorità israeliane hanno impedito ai giocatori palestinesi della Striscia di Gaza di oltrepassare il valico di Erez controllato da Israele per partecipare ad un incontro di calcio che si teneva nel distretto di Hebron, nel sud della Cisgiordania.

I calciatori palestinesi devono anche subire retate e la violenza che caratterizza la presenza dei soldati israeliani nei territori palestinesi, in quanto lo scorso anno decine di calciatori e di tifosi palestinesi hanno sofferto delle conseguenze del fatto di aver respirato gas lacrimogeni, quando le forze israeliane hanno sparato candelotti su una folla di 1200 palestinesi che si erano radunati nel villaggio di al-Ram, nel distretto di Gerusalemme della Cisgiordania, per vedere una partita.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Rapporto OCHA 18 aprile – 1 Maggio 2017 (due settimane)

Alla data di chiusura del presente rapporto [1° maggio], la Centrale elettrica di Gaza non era ancora operativa; era ferma dal 17 aprile per esaurimento delle scorte di carburante.

Inoltre, dal 24 aprile, è stato sospeso l’approvvigionamento elettrico dall’Egitto, a causa di un guasto (ancora da riparare) alle linee. Con l’energia elettrica che arriva solo da Israele, i tagli di elettricità continuano ad essere di 20-22 ore al giorno; tali da sconvolgere gravemente le già precarie condizioni di vita della popolazione. Il 27 aprile, per evitare ulteriori peggioramenti, il Fondo Umanitario per i territori palestinesi occupati ha stanziato 500.000 dollari per l’acquisto di combustibile d’emergenza, in modo da garantire l’erogazione dei servizi essenziali negli ospedali ed in altri presìdi medici di emergenza.

Un aggressore palestinese è stato ucciso, mentre sei israeliani e tre sospetti aggressori palestinesi sono stati feriti durante uno speronamento con auto e quattro aggressioni e presunte aggressioni con coltello. Il 19 aprile, al raccordo stradale di Gush Etzion (Hebron), un palestinese di 21 anni ha guidato il suo veicolo contro un colono israeliano, ferendolo; è stato poi colpito ed ucciso dalle forze israeliane. Il 23 aprile, un giovane palestinese di Nablus, che aveva raggiunto la città di Tel Aviv con un regolare permesso di visita, ha pugnalato e ferito quattro israeliani; successivamente anch’egli è stato colpito e ferito con armi da fuoco. Secondo quanto riportato dai media israeliani, dopo l’episodio le autorità israeliane hanno bloccato un certo numero di permessi dello stesso tipo. Il 24 aprile, al checkpoint di Qalandia (Gerusalemme), una donna palestinese ha pugnalato e ferito una soldatessa israeliana ed è stata successivamente arrestata. In due episodi distinti, verificatisi il 25 e il 26 aprile nei pressi del checkpoint di Huwwara (Nablus), due cugini palestinesi, uno dei quali 17enne, hanno tentato di accoltellare soldati israeliani e sono stati colpiti e feriti; non sono stati segnalati feriti israeliani.

In Cisgiordania 191 palestinesi, di cui 45 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane; la stragrande maggioranza degli scontri si sono avuti durante le manifestazioni in solidarietà con i prigionieri palestinesi in sciopero della fame (vedi più avanti). Dall’inizio del 2017, questo è il numero più elevato di feriti registrati nell’arco di due settimane. Almeno il dieci per cento di questi feriti sono stati causati da armi da fuoco, mentre la maggior parte dei rimanenti sono da attribuire a proiettili di gomma o ad inalazione di gas lacrimogeno. Il maggior numero di feriti palestinesi è stato segnalato durante le manifestazioni a Sabastiya, Beita (entrambi a Nablus) e presso il checkpoint di Beit El / DCO (Ramallah). Nel corso di nove operazioni di ricerca-arresto sono stati registrati venticinque feriti.

Il 17 aprile, più di 1.000 prigionieri palestinesi, detenuti nelle carceri israeliane, hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le loro condizioni di detenzione. Alla data di chiusura di questo rapporto lo sciopero era ancora in corso. Le loro richieste includono la fine delle pratiche di isolamento e di detenzione amministrativa (detenzione senza imputazione o processo), l’incremento della frequenza e della durata delle visite dei familiari, un miglioramento delle cure mediche.

Nella Striscia di Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 23 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento; non sono stati segnalati feriti, ma, secondo quanto riferito, il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto. Nel contesto dell’applicazione delle restrizioni di accesso al mare imposte da Israele, due pescatori sono stati arrestati dalle forze navali israeliane e la loro barca è stata sequestrata.

È stato riferito che il 27 aprile, ad est di Deir al Balah, un gruppo armato palestinese ha aperto il fuoco contro forze israeliane in pattugliamento lungo la recinzione; non sono stati segnalati feriti. Dopo di ciò, le forze israeliane hanno lanciato una serie di granate verso un sito militare di Hamas; sono stati riferiti danni al sito, ma non feriti.

Nove palestinesi, tra cui una donna, sono stati feriti e oltre 100 alberi sono stati dati alle fiamme in separati episodi che coinvolgono coloni israeliani. Otto dei suddetti palestinesi sono stati feriti in quattro diversi episodi di lancio di pietre vicino ai villaggi di Huwwara e Urif (Nablus). Sempre a Nablus, un contadino palestinese è stato fisicamente aggredito e ferito da coloni israeliani nei pressi del villaggio di Deir Sharaf. Coloni israeliani hanno inoltre incendiato più di 100 alberi in Al Fureidis (Betlemme) e un ricovero per animali a Deir Dibwan (Ramallah).

Secondo i resoconti di media israeliani, nei pressi di Ramallah, Betlemme e Gerusalemme, tre coloni israeliani sono stati feriti e almeno otto veicoli sono stati danneggiati in diversi episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie ad opera di palestinesi.

In Cisgiordania, per la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito nove strutture palestinesi. Otto di queste strutture, tra cui una abitazione, erano a Gerusalemme Est (Al Isawiya e Jabal al Mukabbir), la rimanente struttura si trovava presso la Comunità di Jabal al Baba, nell’Area C del governatorato di Gerusalemme; si trattava di un rifugio fornito come aiuto umanitario conseguente ad una precedente demolizione. Nel complesso, 14 palestinesi sono stati sfollati ed altri 19 hanno subito danni.

In due occasioni, per consentire esercitazioni militari, le forze israeliane hanno sfollato, per diverse ore ciascuna volta, 12 famiglie della Comunità pastorale di Khirbet ar Ras al Ahmar, nella Valle del Giordano settentrionale. Tuttavia, secondo i rappresentanti della Comunità, in realtà non si è tenuta alcuna esercitazione. Le autorità israeliane hanno inoltre sequestrato un trattore, con la motivazione che lo stesso era stato utilizzato per una costruzione non autorizzata. Negli ultimi anni, la Comunità ha dovuto far fronte a periodiche demolizioni e restrizioni negli spostamenti; fatti che hanno dato origine a preoccupazioni legate al rischio di trasferimento forzato.

Le autorità israeliane, contestando la violazione di norme ambientali, hanno sequestrato 45 tonnellate di legname presso due laboratori che producono carbone, localizzati in una zona dell’Area B di pertinenza del villaggio di Ya’bad (Jenin) [Area B è la parte della Cisgiordania (circa il 23%) nella quale, in base agli Accordi di Oslo (1993), la gestione degli affari civili spetta all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), mentre la gestione della sicurezza spetta ad Israele]. Di conseguenza, è stata colpita la fonte di sostentamento di tre famiglie e di sei lavoratori. Inoltre, accanto al villaggio di Bardala, nella valle del Giordano settentrionale, le autorità israeliane hanno chiuso e danneggiato otto distinti allacciamenti alla rete idrica, motivando il provvedimento con il fatto che gli stessi non erano stati autorizzati. Di conseguenza, è stata impedita l’irrigazione di oltre 250 ettari di terreno agricolo.

Dal 30 aprile al 2 maggio, durante le festività israeliane, le autorità israeliane hanno rafforzato la chiusura della Cisgiordania e di Gaza, impedendo anche ai possessori di permessi l’entrata in Israele ed in Gerusalemme Est; fanno eccezione i lavoratori umanitari, gli organismi internazionali e i titolari di permessi di ricongiungimenti familiari. È stato chiuso anche il valico per le merci di Kerem Shalom tra Israele e Gaza.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, durante le due settimane di riferimento è rimasto chiuso in entrambe le direzioni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah. Nel 2017 il valico di Rafah è stato aperto eccezionalmente solo per 12 giorni; l’ultima volta il 9 marzo.

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Ultimi sviluppi

Il 3 maggio Israele ha ampliato, da sei a nove miglia marine, la zona di pesca lungo la costa meridionale di Gaza; provvedimento valido fino al 7 giugno.

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Ecco come Israele gonfia [i dati] della propria maggioranza ebraica

Editoriale Haaretz| 30 Aprile, 2017

Il rapporto annuale dell’Ufficio di statistica riguardo alla popolazione è un ridicolo esempio di propaganda che comprende i coloni ma non tutti i palestinesi sotto il controllo di Israele

Ogni anno prima del giorno dell’indipendenza, l’Ufficio centrale di Statistica pubblica a ridosso della festa un rapporto che inizia con i dati della popolazione israeliana per poi affrontare diversi parametri demografici ed economici come esempio dello sviluppo dello Stato e dei suoi risultati. Quest’anno l’ufficio ha registrato 8.68 milioni di persone residenti in Israele, dei quali il 74,7% sono ebrei, il 20,8% sono arabi e i rimanenti sono “altri” (principalmente cristiani non arabi). Questa è la dimostrazione numerica del successo sionista nella costruzione di uno Stato a forte maggioranza ebraica, che è presente in una pubblicazione ufficiale di un’agenzia professionale autorizzata.

Ma la pubblicazione dell’Ufficio centrale di Statistica è ingannevole e comprende molte imprecisioni e manipolazioni che la trasformano da un arido rapporto statistico a un ridicolo atto di propaganda.

Cominciamo con il numero degli abitanti israeliani.

L’Ufficio registra gli ebrei [presenti] in tutti i territori dal fiume Giordano al Mediterraneo sotto il proprio controllo. Ma prende in considerazione solamente gli arabi presenti nei territori prima dei confini del ’67, a Gerusalemme Est e sulle Alture del Golan. Milioni di palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sono lasciati fuori. Così i coloni di Hebron sono residenti in Israele e sono compresi nella statistica , mentre i loro vicini palestinesi non lo sono.

La questione non consiste nel fatto che l’Ufficio ignori quanti siano i palestinesi che abitano nei territori. Israele controlla il registro dell’anagrafe della Autorità Nazionale Palestinese della Cisgiordania e perfino quello della Striscia di Gaza. Ogni nascita, viaggio, matrimonio, divorzio o decesso dei palestinesi dei territori vengono registrati dalle autorità israeliane. Si possono pubblicare dati completi della popolazione sotto il controllo diretto e indiretto di Israele, una popolazione che paga con gli stessi shekel ed è legata alle medesime infrastrutture. Ma allora la maggioranza ebraica si ridurrebbe in modo sorprendente, rovinando la festa della Giornata dell’Indipendenza.

L’espediente si accentua quando l’Ufficio centrale di Statistica rappresenta il territorio dello Stato 69enne. La mappa della pubblicazione ufficiale mostra Israele con le Alture del Golan, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, senza i confini interni come i confini precedenti al ’67, le linee di separazione degli Accordi di Oslo o quelle del disimpegno da Gaza – tutta l’Eretz Israel. Invece nel rapporto la superficie dello Stato, 22,072 kmq , non comprende la Cisgiordania e Gaza.

Allora queste aree fanno parte o no di Israele? I coloni sono compresi nelle statistiche nazionali mentre il territorio delle colonie non lo è? I coloni vivono in cielo?

La manipolazione dei dati non è un trucco nuovo. L’Ufficio centrale di statistica ha incluso i coloni quali residenti di Israele fin dal 1972, quando Golda Meir era primo ministro. Fino a oggi tutti gli esperti governativi di statistica si sono prestati all’ingannevole conteggio differenziato degli ebrei e degli arabi, anche se la legge esige loro di agire “in base a considerazioni scientifiche”.

L’attuale capo dell’ufficio, Prof. Danny Pfeffermann, ha ricevuto l’anno scorso un’onorificenza: il suo titolo è stato elevato a “ Statistico nazionale”. È un peccato che egli abbia prestato il suo prestigio professionale a un tentativo di propaganda governativa volto a mostrare una larga maggioranza ebraica e a cancellare i palestinesi dalla nostra coscienza, apparentemente in nome della scienza.

L’articolo di cui sopra è l’editoriale principale di Haaretz come è stato pubblicato nelle edizioni in lingua ebraica e inglese in Israele.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




E’ stato ricordato ai contadini palestinesi che vincere in un tribunale israeliano non è sufficiente per avere giustizia

Amira Hass – 30 aprile 2017 Haaretz

In Cisgiordania sono esclusi dalla loro stessa terra mentre l’esercito israeliano non fa rispettare gli ordini del tribunale.

A Moshe Ben-Zion Moskowitz, della colonia di Shiloh in Cisgiordania, è stato chiesto in tribunale se, quando nel 1980 ha iniziato a coltivare un terreno nella giurisdizione del villaggio palestinese di Qaryut, egli ne era proprietario. Per due volte ha risposto che il proprietario del terreno era Dio. Ma l’avvocato Jiat Nasser ha continuato a insistere sul fatto se egli personalmente fosse proprietario della terra, e alla fine Moskowitz ha risposto: “Non io personalmente, ma il popolo ebraico.”

Allora Nasser ha chiesto una spiegazione: “E’ vero che lei non ha comprato la terra?” Moskowitz ha risposto: “E’ la terra del popolo ebraico.”

Ma né Dio né il popolo ebraico hanno aiutato Moskowitz nella causa che ha intentato nel 2010 contro l’amministrazione locale di Qaryut e contro alcuni dei suoi abitanti. La corte non ha accettato la Bibbia come contratto di acquisto.

Moskowitz aveva chiesto alla corte di impedire ai convenuti palestinesi di molestarlo, secondo lui, attraverso denunce alla polizia in merito a sconfinamenti e ai tentativi di coltivare quella stessa terra. Per 30 anni, si è lamentato, egli aveva lavorato la terra senza alcun problema, finché a metà 2007 è arrivato il rabbino Arik Ascherman (allora di “Rabbini per i Diritti Umani”, ora di “Haqel – Ebrei e Arabi in Difesa dei Diritti Umani”) e ha chiesto le prove del suo diritto di proprietà.

Gli ho fatto vedere la Bibbia. Siamo tornati alla nostra terra,” ha detto Moskowitz alla corte nel dicembre 2010.

Ma dopo un’estenuante battaglia legale il giudice Miriam Lifshits nell’aprile 2016 ha deciso che Moskowitz non aveva dimostrato di aver lavorato la terra continuativamente dal 1980, e neppure nei 10 anni precedenti la presentazione della causa. Al contrario, i convenuti hanno provato i propri legami con la terra e che la stavano utilizzando; Lifshits non ha trovato alcuna prova che la terra fosse lasciata incolta quando Moskowitz se ne è impossessato. Non ha mai consegnato alla corte i documenti che aveva promesso; quello che ha detto alla polizia era in contraddizione con quello che ha detto alla corte, e i suoi testimoni lo hanno contraddetto.

Ma anche se la Bibbia e il popolo ebraico lo hanno tradito, le istituzioni che devono far rispettare la legge – la polizia, l’esercito e l’amministrazione civile di Israele in Cisgiordania – non lo hanno fatto. Un anno dopo la sentenza del giudice, non hanno mosso un dito per togliere di mezzo le serre che Moskowitz ha costruito sulla terra mentre la causa era in tribunale. E questa settimana il colonnello Yuval Gez, comandante della brigata “Binyamin”, ha vietato ai proprietari legali della terra di entrarvi per la prima volta dal 2007.

Il loro avvocato, Kamer Mashraqi-Assad, ha chiesto per un anno all’esercito di scortare i proprietari alla loro terra. E’ vero, non si trova in un’area in cui l’esercito richiede una scorta militare per paura dei coloni, ma, come hanno testimoniato i contadini in tribunale, in passato sono stati oggetto di minacce e violenze.

I coloni “arrivano là con i loro fucili e i loro cani e noi non abbiamo il potere di affrontarli,” ha detto Tareq Odeh di Qaryut alla corte nel dicembre 2010. “Ho due terreni a cui non posso accedere per paura dei coloni.”

Moskowitz, ha continuato, “è armato. Se dovesse sparare a cinque di noi, nessuno gliene chiederebbe conto. Ma se uno di noi lanciasse una pietra contro di lui, nessuno di noi avrebbe scampo.” Odeh è morto un anno fa, per cui non è arrivato ad ascoltare il verdetto della corte.

La scorsa settimana l’ufficio di collegamento dell’esercito ha detto a Mashraqi-Assad che per martedì era stata predisposta una scorta per i contadini. E’ vero, era solo per un giorno, ma hanno atteso eccitati di tornare alla loro terra.

Ma lunedì notte Mashraqi-Assad ha detto loro che l’esercito si era rimangiato la parola. Gez, il comandante di brigata, non aveva intenzione di fornire la scorta, perché c’erano in giro dei coloni.

Martedì mattina Haaretz ha chiesto al portavoce dell’unità dell’esercito israeliano se Gez ha paura della violenza dei coloni o se si identifica con il loro obiettivo di impossessarsi della terra e di cacciare la popolazione che ha la proprietà della terra da prima della fondazione di Israele nel 1948. Mercoledì sera l’unità ha risposto che la scorta era stata inizialmente approvata, “anche se la zona non richiede questo tipo di procedura. Ma durante l’ispezione preliminare dell’area il giorno precedente la data concessa per entrare nel terreno, abbiamo scoperto che l’appezzamento contiene serre agricole che non sono di proprietà di chi ha fatto la richiesta, e quindi di fatto non può essere coltivato. Abbiamo deciso di rimandare la data convenuta per lavorare il terreno in modo che questo problema possa essere esaminato dai professionisti competenti. Una risposta a questa questione verrà fornita rapidamente.”

Pascolare il bestiame

Le autorità hanno anche consentito ai coloni di invadere terra di proprietà privata palestinese nel nordest della Cisgiordania, nei pressi di Tubas e Bardala, vietando al contempo l’ingresso ai pastori palestinesi, in spregio a sentenze giudiziarie.

Qualche decennio fa la parte della valle del Giordano settentrionale tra il muro di confine e il fiume Giordano era preclusa da una recinzione militare ai palestinesi che la possedevano e la lavoravano. I coloni hanno sfruttato questa situazione per impossessarsi di oltre 5.000 dunam (500 ettari) di terra di proprietà privata, con l’avallo delle autorità.

Una petizione dell’avvocato Tawfiq Jabareen all’Alta Corte di Giustizia ha portato alla cancellazione dell’ordine all’inizio del 2016. Anche se i coloni stanno ancora coltivando parte di questa terra, la cancellazione dell’ordine ha consentito almeno ai pastori palestinesi di riprendere ad abbeverare il loro bestiame alla sorgente Ein Saqut.

Tuttavia lunedì personale della polizia e dell’amministrazione civile ha vietato ai pastori palestinesi di abbeverarvi le loro mucche. E’ risultato che qualche giorno prima mandrie di mucche “ebraiche” avevano occupato il luogo.

Erano state portate lì da un avamposto illegale costruito all’inizio di gennaio al confine della riserva naturale di Umm Zuqa, non lontano dalla base militare dove si trova il battaglione di soldati ultra-ortodossi. Nonostante gli ordini emanati contro l’avamposto di interrompere i lavori, questo continua ad espandersi e i suoi residenti stanno cercando di cacciare i pastori palestinesi dai loro pascoli.

Due settimane fa l’organizzazione “Machsom Watch” [associazione di donne israeliane che si oppongono all’occupazione, ndt.] ha scoperto che l’avamposto si rifornisce d’acqua grazie a un collegamento illegale alla vicina base. Dopo una verifica, il portavoce dell’unità dell’esercito lo ha confermato, aggiungendo che i comandanti non avevano la minima idea che ciò stesse accadendo, e che le istituzioni che devono far applicare la legge stanno indagando. Che si sia trattato di una coincidenza o meno, la mandria di vacche si è spostata allora a Ein Saqut.

Mercoledì quattro soldati hanno ordinato ai pastori palestinesi di andarsene e di non avvicinarsi alle mucche dei coloni. Ma quando le attiviste di “Machsom Watch” sono arrivate “i soldati hanno cambiato tono e hanno lasciato che i pastori rimanessero lì con il loro bestiame, ma non che si avvicinassero alla sorgente,” ha detto una di loro, Daphne Banai. “Hanno sostenuto che era una riserva naturale ed alle mucche era proibito entrarvi.

Ma quando i soldati se ne sono andati ho visto i coloni condurre le loro vacche alla sorgente.”

Haaretz ha chiesto al coordinatore delle Attività del Governo nei Territori, al distretto di polizia di Shai (Cisgiordania) e al portavoce dell’unità dell’esercito se sapessero del bestiame che si trovava su un terreno di proprietà privata palestinese, e se vietare la sorgente ai pastori palestinesi e alle loro mandrie fosse un incidente isolato o una politica deliberata. Al momento della stesura di questo articolo non è arrivata nessuna risposta.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Decine di palestinesi feriti durante scontri scoppiati nel “Giorno della Collera” in tutta la Cisgiordania occupata

28 aprile 2017 Maan News

Betlemme (Ma’an) – Venerdì in tutta la Cisgiordania occupata sono scoppiati scontri ancora in corso, con molti palestinesi feriti, in quello che i palestinesi hanno chiamato il “Giorno della Collera” – inizialmente indetto dal movimento Fatah – in appoggio ai prigionieri palestinesi in sciopero della fame che venerdì è entrato nel 12 giorno di sciopero di massa.

Le forze israeliane hanno sparato in modo massiccio lacrimogeni, pallottole ricoperte di gomma e pallottole mortali durante gli scontri, che sono scoppiati dopo le preghiere del venerdì in città, villaggi e campi di rifugiati di molti distretti della Cisgiordania.

L’esercito israeliano ha detto a Ma’an che circa 2.000 palestinesi hanno partecipato a “violenti disordini in varie località durante il giorno”, aggiungendo che le forze israeliane hanno risposto ai “disordini” con “mezzi di controllo della folla”.

Distretto di Ramallah

Parecchi giovani palestinesi sono rimasti feriti mentre decine di altri hanno riportato le gravi conseguenze per l’inalazione di gas lacrimogeni durante scontri nei distretti di Ramallah e al- BIreh.

Nel villaggio di Nabi Saleh, a nord-ovest di Ramallah, si è tenuta una marcia in solidarietà con i palestinesi in sciopero della fame. Le forze israeliane hanno aperto il fuoco ed hanno sparato granate lacrimogene contro i manifestanti, ferendo tre palestinesi.

Abitanti di Nabi Saleh hanno raccontato a Ma’an che le forze israeliane hanno sparato contro i manifestanti proiettili “tutu”, che in precedenza erano vietati e che esplodono una volta entrati in contatto con il corpo.

Fonti della Mezzaluna Rossa palestinese hanno affermato che un giovane è stato ferito alla testa da un lacrimogeno mentre altri due sono stati feriti alla gambe da proiettili “tutu”.

Identità e condizioni dei feriti palestinesi rimangono ignoti.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha detto a Ma’an che indagheranno sull’uso di munizioni “tutu”.

Nel contempo decine di palestinesi hanno sofferto in conseguenza dell’inalazione di gas lacrimogeni durante gli scontri scoppiati tra giovani palestinesi e soldati israeliani nei pressi della prigione di Ofer e all’ingresso nord di Silwad, rispettivamente a ovest e a est di Ramallah. Testimoni affermano che tre palestinesi sono rimasti feriti da proiettili rivestiti di gomma.

A Silwad un palestinese è stato ferito alle gambe da un proiettile vero, mentre decine di altri hanno patito le conseguenze dell’inalazione di gas lacrimogeno, quando le forze israeliane, dopo violenti scontri scoppiati nella zona, hanno sparato proiettili letali, ricoperti di gomma, bombe assordanti e lacrimogeni.

Nel villaggio di Sinjil, a nord di Ramallah, giovani palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli dei coloni israeliani che transitavano sulla strada principale nei pressi del villaggio, provocando danni ai veicoli, mentre soldati israeliani hanno chiuso tutte le strade attorno al villaggio che lo collegano ai distretti di Nablus e Ramallah.

Secondo testimonianze, al checkpoint di Qalandiya, che collega Ramallah alla Gerusalemme est occupata, le forze israeliane hanno disperso un corteo di solidarietà con proiettili veri e ricoperti di gomma, lasciando quattro feriti da schegge di proiettili veri e due da proiettili di acciaio rivestiti di gomma.

Invece un comunicato della Mezzaluna Rossa palestinese afferma che due palestinesi sono stati feriti da schegge di proiettili, mentre uno è stato ferito da una pallottola ricoperta di gomma.

II soldati israeliani hanno anche sparato granate lacrimogene e stordenti contro giovani, mentre le forze di sicurezza hanno chiuso il checkpoint ed impedito a passanti e veicoli di attraversarlo.

Nel villaggio di Bilin la loro manifestazione settimanale è iniziata dal villaggio e si è diretta verso il muro di separazione israeliano, con la partecipazione di palestinesi ed attivisti stranieri.

I manifestanti esibivano foto di palestinesi incarcerati in Israele e gridavano slogan nazionalisti, chiedendo l’unità nazionale, la fine dell’occupazione e il rilascio di tutti i prigionieri palestinesi dalle prigioni israeliane.

I dimostranti palestinesi hanno lanciato pietre contro le forze israeliane durante la marcia e dato fuoco a pneumatici al cancello del muro di separazione.

Distretto di Nablus

Sono scoppiati scontri all’incrocio di Beita a sud della città di Nablus, nel nord della Cisgiordania, dopo le preghiere del venerdì in cui centinaia di fedeli palestinesi hanno preso posizione in solidarietà con i prigionieri in sciopero della fame.

Le forze israeliane hanno sparato contro i palestinesi

decine di lacrimogeni e di proiettili ricoperti di gomma, mentre i giovani lanciavano sassi contro le forze armate.

Secondo testimoni più di dieci palestinesi hanno sofferto per l’inalazione di gas lacrimogeno mentre un giovane è rimasto ferito da un proiettile di gomma.

Tra quanti hanno sofferto per l’inalazione di gas lacrimogeno c’era il padre di tre detenuti, Hajj Ihsan Adili Abu Waddah. Il segretario del movimento Fatah di Nablus Jihad Ramadan è rimasto ferito da una granata stordente a una gamba.

La Mezzaluna Rossa palestinese ha detto in un comunicato che venti palestinesi hanno sofferto per l’inalazione di gas lacrimogeno.

Nella città di al-Naqura dopo le preghiere del venerdì sono scoppiati scontri, e fonti mediche hanno raccontato a Ma’an di vari palestinesi che hanno sofferto per l’inalazione di gas lacrimogeno.

Parecchi alberi nel villaggio hanno preso fuoco in seguito al lancio di bombe lacrimogene e granate assordanti sparate dai soldati israeliani.

La Mezzaluna Rossa palestinese ha affermato in una dichiarazione che dieci palestinesi hanno subito le conseguenze dell’inalazione di gas lacrimogeno durante gli scontri.

Nel villaggio di Awarta, a sud di Nablus, decine di palestinesi hanno preso parte alle preghiere del venerdì nei pressi della base militare israeliana di Huwwara.

I soldati israeliani hanno sparato decine di lacrimogeni contro i palestinesi che seguivano la preghiera. Non si sono registrati feriti.

Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese, nella zona New Askar di Nablus, nei pressi del campo di rifugiati di Askar, un palestinese ha risentito delle conseguenze dell’inalazione di gas durante gli scontri.

Distretto di Hebron

Le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro un sit-in di solidarietà nel campo di rifugiati di al-Arrub, nella parte nord di Hebron, provocando scontri scoppiati tra gli abitanti e le forze armate.

Testimoni hanno detto a Ma’an che i soldati israeliani hanno fatto un’incursione nel centro del campo, con giovani palestinesi che lanciavano pietre contro i soldati israeliani che hanno sparato gas lacrimogeni, causando parecchi intossicati.

Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese, nel villaggio di Beit Ummar a nord di Hebron soldati israeliani hanno ferito due palestinesi con proiettili veri e un altro con pallottole ricoperte di gomma dopo scontri scoppiati durante una marcia di solidarietà nel villaggio. Anche cinque palestinesi sono stati intossicati dall’inalazione di gas lacrimogeno.

Invece testimoni hanno affermato che sei palestinesi sono stati feriti da proiettili ricoperti di gomma, uno ferito al petto dalle schegge di una pallottola letale e due da proiettili “tutu” alle gambe e sono stati trasferiti all’ospedale pubblico di Hebron.

La marcia di solidarietà è iniziata nel villaggio dopo le preghiere del venerdì e si è diretta all’ingresso del villaggio, dove si erano dislocate le forze israeliane.

Secondo testimoni, i soldati israeliani hanno occupato il tetto di dieci case palestinesi nel villaggio e le hanno trasformate in posti militari provvisori, dove, affermano i testimoni, i soldati hanno sparato proiettili “tutu”, pallottole di gomma e proiettili veri contro i palestinesi.

Secondo testimonianze, le forze israeliane hanno anche spruzzato acqua puzzolente contro i palestinesi prima di ritirarsi dal villaggio due ore dopo che erano scoppiati gli scontri.

Nel contempo, secondo testimoni, truppe israeliane travestite da civili palestinesi hanno arrestato cinque palestinesi aggredendoli nei pressi dell’ospedale pubblico di Hebron durante scontri scoppiati nella zona attorno all’ospedale.

Testimoni hanno detto a Ma’an che sono scoppiati scontri dalla zona di Bar al-Zawiya ed hanno raggiunto l’area dell’ospedale di Hebron.

Hanno aggiunto che  soldati israeliani hanno anche sparato bombe stordenti verso l’ospedale, mandando in frantumi la porta d’ingresso di vetro del pronto soccorso.

Distretto di Qalqiliya

A sud della città di Qalqiliya, situata nel nord della Cisgiordania, sono scoppiati scontri nei pressi di un checkpoint dell’esercito israeliano.

La Mezzaluna Rossa palestinese ha riferito che due palestinesi sono rimasti intossicati dalle inalazioni di gas lacrimogeno nei pressi del checkpoint.

Anche nel villaggio di Kafr Qaddum, nella zona di Qalqiliya, sono scoppiati scontri tra forze israeliane e palestinesi del posto.

Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese, nel villaggio due palestinesi sono stati feriti da proiettili di gomma sparati dalle forze israeliane. 

Distretto di Salfit

In un comunicato il ministero della Salute palestinese ha affermato che all’ospedale di Salfit sono arrivati tre palestinesi, uno dei quali ferito con un proiettile vero a un ginocchio, un altro al piede sempre da un proiettile vero, mentre un altro palestinese colpito da un lacrimogeno alla testa si troverebbe in condizioni stazionarie.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Le donne palestinesi si uniscono allo sciopero della fame, gli avvocati dichiarano il boicottaggio dei tribunali israeliani

Ma’an News 19 aprile 2017

RAMALLAH (Ma’an) – Mercoledì centinaia di prigionieri palestinesi in sciopero della fame hanno iniziato il terzo giorno di sciopero per la “Libertà e Dignità”, mentre le donne palestinesi detenute hanno lanciato forme di protesta e gli avvocati che rappresentano i detenuti in sciopero hanno annunciato il boicottaggio dei tribunali israeliani.

I prigionieri chiedono che le autorità carcerarie israeliane garantiscano loro diritti fondamentali, come ricevere regolari visite, e nel lungo elenco di richieste stilato dal movimento Fatah e dal suo leader detenuto, Marwan Barghouthi,chiedono anche la fine della deliberata negligenza sanitaria, dell’isolamento, della detenzione amministrativa.

Secondo quanto dichiarato mercoledì da un comitato unificato per i media, composto dal Comitato Palestinese per le Questioni dei Prigionieri e dalla Società Palestinese dei Prigionieri (PPS), circa 1500 prigionieri continuano lo sciopero iniziato nel “Giorno dei Prigionieri Palestinesi”, il 17 aprile.

Secondo la dichiarazione, gli avvocati di istituzioni come il PPS [Ong palestinese che si occupa dell’assistenza ai detenuti, ndtr.] e il “Comitato dei prigionieri” hanno deciso di boicottare i tribunali israeliani. Come ha sottolineato Barghouthi in un editoriale pubblicato dal New York Times prima dello sciopero della fame, in base ai dati del Dipartimento di Stato USA il tasso di condanna per i palestinesi nei tribunali militari è circa del 90%.

L’articolo ha scatenato l’indignazione generale tra i dirigenti israeliani; Barghouthi potrebbe essere incriminato per averlo scritto, mentre alcuni membri del governo israeliano hanno anche suggerito di chiudere la redazione del New York Times a Gerusalemme.

Intanto, il capo del “Comitato Palestinese per le Questioni dei Prigionieri”, Issa Qaraqe, ha chiesto al Segretario Generale delle Nazioni Unite di convocare una riunione di emergenza dell’Assemblea Generale dell’ONU per discutere delle “condizioni sempre più gravi e pericolose” nei centri di detenzione e nelle prigioni israeliane, con la prosecuzione dello sciopero.

Mercoledì il Comitato ha riferito che le donne palestinesi nella prigione israeliana di Hasharon, dove sono detenute 58 donne, hanno lanciato forme di protesta in solidarietà con i detenuti in sciopero della fame.

L’avvocato del Comitato, Hiba Masalha, ha detto che le donne rifiuteranno il cibo ogni dieci giorni, sottolineando che le proteste aumenteranno nei prossimi giorni se Israele non risponderà alle richieste dei detenuti in sciopero.

Nel frattempo, dopo che sette prigionieri palestinesi nella prigione israeliana di Ashkelon sofferenti di diverse patologie hanno deciso di unirsi allo sciopero a tempo indeterminato, l’avvocato del comitato dei prigionieri Karim Ajweh venerdì ha detto che le autorità carcerarie israeliane hanno continuato a tenerli in punizione.

Dopo aver visitato i prigionieri ad Ashkelon, Ajweh ha detto che il Servizio Carcerario Israeliano (IPS) ha confiscato i loro dispositivi elettronici ed altri oggetti, lasciando i detenuti ammalati solo con tre coperte, un paio di mutande, un piccolo asciugamano ed uno spazzolino da denti da dividere tra i sette uomini.

Ajweh ha detto che i sette prigionieri, identificati come Said Musallam, Othman Abu Khurj, Ibrahim Abu Mustafa, Yasser Abu Turk, Nazih Othman, Ayman Sharabati e Abd al-Majid Mahdi, hanno anche subito una perquisizione fisica, sono stati trasferiti dalle loro abituali celle ed “umiliati”.

L’avvocato ha aggiunto che i prigionieri ammalati hanno deciso di intraprendere lo sciopero per protesta contro la negligenza sanitaria, nonostante le pericolose conseguenze che lo sciopero potrebbe avere sulla loro salute. I sette uomini hanno anche minacciato di smettere di assumere i farmaci se sottoposti ad alimentazione forzata.

Da quando è iniziato lo sciopero della fame le autorità israeliane hanno installato ospedali da campo per i prigionieri palestinesi, come ha confermato il Ministro israeliano per la Pubblica Sicurezza. Ciò ha destato il timore che le persone in sciopero, che probabilmente nei prossimi giorni verseranno in condizioni di salute in peggioramento, verranno sottoposte in massa ad alimentazione forzata – in violazione degli standard internazionali di deontologia medica e del diritto internazionale, che considerano questa pratica come inumana o addirittura come una forma di tortura.

 

I medici israeliani negli ospedali civili finora hanno rifiutato di alimentare forzatamente chi è in sciopero della fame, nonostante la recente sentenza della Corte Suprema israeliana che ha ritenuto costituzionale questa pratica.

Oltre alle misure punitive nei confronti del gruppo dei prigionieri malati, l’IPS ha punito le altre centinaia di persone in sciopero della fame sospendendo il diritto alle visite dei familiari, impedendo agli avvocati di far visita ad alcuni di loro e spostando i prigionieri in sciopero all’interno della struttura di detenzione, in modo da separarli dai prigionieri palestinesi che non partecipano allo sciopero della fame.

I dirigenti dell’IPS hanno anche posto in isolamento parecchi prigionieri in sciopero – compresi Barghouthi e Karim Yunis [il palestinese detenuto da più anni nelle carceri israeliane, ndt]– ed hanno vietato ai prigionieri di vedere la televisione, dichiarando “uno stato di emergenza” nelle strutture carcerarie che ospitano prigionieri palestinesi.

Migliaia di palestinesi lunedì hanno marciato in solidarietà con i prigionieri in sciopero, mentre le forze israeliane hanno pesantemente represso una manifestazione nella città di Betlemme, nel sud della Cisgiordania occupata, ed hanno arrestato quattro giovani palestinesi in un’altra manifestazione nel distretto centrale di Ramallah in Cisgiordania.

Come affermano le organizzazioni palestinesi in una dichiarazione congiunta resa pubblica sabato, dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948, con la successiva occupazione di Cisgiordania, Gerusalemme est e Striscia di Gaza nel 1967, le autorità israeliane hanno imprigionato circa un milione di palestinesi.

( Traduzione di Cristiana Cavagna)