Rapporto OCHA 18 aprile – 1 Maggio 2017 (due settimane)

Alla data di chiusura del presente rapporto [1° maggio], la Centrale elettrica di Gaza non era ancora operativa; era ferma dal 17 aprile per esaurimento delle scorte di carburante.

Inoltre, dal 24 aprile, è stato sospeso l’approvvigionamento elettrico dall’Egitto, a causa di un guasto (ancora da riparare) alle linee. Con l’energia elettrica che arriva solo da Israele, i tagli di elettricità continuano ad essere di 20-22 ore al giorno; tali da sconvolgere gravemente le già precarie condizioni di vita della popolazione. Il 27 aprile, per evitare ulteriori peggioramenti, il Fondo Umanitario per i territori palestinesi occupati ha stanziato 500.000 dollari per l’acquisto di combustibile d’emergenza, in modo da garantire l’erogazione dei servizi essenziali negli ospedali ed in altri presìdi medici di emergenza.

Un aggressore palestinese è stato ucciso, mentre sei israeliani e tre sospetti aggressori palestinesi sono stati feriti durante uno speronamento con auto e quattro aggressioni e presunte aggressioni con coltello. Il 19 aprile, al raccordo stradale di Gush Etzion (Hebron), un palestinese di 21 anni ha guidato il suo veicolo contro un colono israeliano, ferendolo; è stato poi colpito ed ucciso dalle forze israeliane. Il 23 aprile, un giovane palestinese di Nablus, che aveva raggiunto la città di Tel Aviv con un regolare permesso di visita, ha pugnalato e ferito quattro israeliani; successivamente anch’egli è stato colpito e ferito con armi da fuoco. Secondo quanto riportato dai media israeliani, dopo l’episodio le autorità israeliane hanno bloccato un certo numero di permessi dello stesso tipo. Il 24 aprile, al checkpoint di Qalandia (Gerusalemme), una donna palestinese ha pugnalato e ferito una soldatessa israeliana ed è stata successivamente arrestata. In due episodi distinti, verificatisi il 25 e il 26 aprile nei pressi del checkpoint di Huwwara (Nablus), due cugini palestinesi, uno dei quali 17enne, hanno tentato di accoltellare soldati israeliani e sono stati colpiti e feriti; non sono stati segnalati feriti israeliani.

In Cisgiordania 191 palestinesi, di cui 45 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane; la stragrande maggioranza degli scontri si sono avuti durante le manifestazioni in solidarietà con i prigionieri palestinesi in sciopero della fame (vedi più avanti). Dall’inizio del 2017, questo è il numero più elevato di feriti registrati nell’arco di due settimane. Almeno il dieci per cento di questi feriti sono stati causati da armi da fuoco, mentre la maggior parte dei rimanenti sono da attribuire a proiettili di gomma o ad inalazione di gas lacrimogeno. Il maggior numero di feriti palestinesi è stato segnalato durante le manifestazioni a Sabastiya, Beita (entrambi a Nablus) e presso il checkpoint di Beit El / DCO (Ramallah). Nel corso di nove operazioni di ricerca-arresto sono stati registrati venticinque feriti.

Il 17 aprile, più di 1.000 prigionieri palestinesi, detenuti nelle carceri israeliane, hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le loro condizioni di detenzione. Alla data di chiusura di questo rapporto lo sciopero era ancora in corso. Le loro richieste includono la fine delle pratiche di isolamento e di detenzione amministrativa (detenzione senza imputazione o processo), l’incremento della frequenza e della durata delle visite dei familiari, un miglioramento delle cure mediche.

Nella Striscia di Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 23 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento; non sono stati segnalati feriti, ma, secondo quanto riferito, il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto. Nel contesto dell’applicazione delle restrizioni di accesso al mare imposte da Israele, due pescatori sono stati arrestati dalle forze navali israeliane e la loro barca è stata sequestrata.

È stato riferito che il 27 aprile, ad est di Deir al Balah, un gruppo armato palestinese ha aperto il fuoco contro forze israeliane in pattugliamento lungo la recinzione; non sono stati segnalati feriti. Dopo di ciò, le forze israeliane hanno lanciato una serie di granate verso un sito militare di Hamas; sono stati riferiti danni al sito, ma non feriti.

Nove palestinesi, tra cui una donna, sono stati feriti e oltre 100 alberi sono stati dati alle fiamme in separati episodi che coinvolgono coloni israeliani. Otto dei suddetti palestinesi sono stati feriti in quattro diversi episodi di lancio di pietre vicino ai villaggi di Huwwara e Urif (Nablus). Sempre a Nablus, un contadino palestinese è stato fisicamente aggredito e ferito da coloni israeliani nei pressi del villaggio di Deir Sharaf. Coloni israeliani hanno inoltre incendiato più di 100 alberi in Al Fureidis (Betlemme) e un ricovero per animali a Deir Dibwan (Ramallah).

Secondo i resoconti di media israeliani, nei pressi di Ramallah, Betlemme e Gerusalemme, tre coloni israeliani sono stati feriti e almeno otto veicoli sono stati danneggiati in diversi episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie ad opera di palestinesi.

In Cisgiordania, per la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito nove strutture palestinesi. Otto di queste strutture, tra cui una abitazione, erano a Gerusalemme Est (Al Isawiya e Jabal al Mukabbir), la rimanente struttura si trovava presso la Comunità di Jabal al Baba, nell’Area C del governatorato di Gerusalemme; si trattava di un rifugio fornito come aiuto umanitario conseguente ad una precedente demolizione. Nel complesso, 14 palestinesi sono stati sfollati ed altri 19 hanno subito danni.

In due occasioni, per consentire esercitazioni militari, le forze israeliane hanno sfollato, per diverse ore ciascuna volta, 12 famiglie della Comunità pastorale di Khirbet ar Ras al Ahmar, nella Valle del Giordano settentrionale. Tuttavia, secondo i rappresentanti della Comunità, in realtà non si è tenuta alcuna esercitazione. Le autorità israeliane hanno inoltre sequestrato un trattore, con la motivazione che lo stesso era stato utilizzato per una costruzione non autorizzata. Negli ultimi anni, la Comunità ha dovuto far fronte a periodiche demolizioni e restrizioni negli spostamenti; fatti che hanno dato origine a preoccupazioni legate al rischio di trasferimento forzato.

Le autorità israeliane, contestando la violazione di norme ambientali, hanno sequestrato 45 tonnellate di legname presso due laboratori che producono carbone, localizzati in una zona dell’Area B di pertinenza del villaggio di Ya’bad (Jenin) [Area B è la parte della Cisgiordania (circa il 23%) nella quale, in base agli Accordi di Oslo (1993), la gestione degli affari civili spetta all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), mentre la gestione della sicurezza spetta ad Israele]. Di conseguenza, è stata colpita la fonte di sostentamento di tre famiglie e di sei lavoratori. Inoltre, accanto al villaggio di Bardala, nella valle del Giordano settentrionale, le autorità israeliane hanno chiuso e danneggiato otto distinti allacciamenti alla rete idrica, motivando il provvedimento con il fatto che gli stessi non erano stati autorizzati. Di conseguenza, è stata impedita l’irrigazione di oltre 250 ettari di terreno agricolo.

Dal 30 aprile al 2 maggio, durante le festività israeliane, le autorità israeliane hanno rafforzato la chiusura della Cisgiordania e di Gaza, impedendo anche ai possessori di permessi l’entrata in Israele ed in Gerusalemme Est; fanno eccezione i lavoratori umanitari, gli organismi internazionali e i titolari di permessi di ricongiungimenti familiari. È stato chiuso anche il valico per le merci di Kerem Shalom tra Israele e Gaza.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, durante le due settimane di riferimento è rimasto chiuso in entrambe le direzioni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah. Nel 2017 il valico di Rafah è stato aperto eccezionalmente solo per 12 giorni; l’ultima volta il 9 marzo.

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Ultimi sviluppi

Il 3 maggio Israele ha ampliato, da sei a nove miglia marine, la zona di pesca lungo la costa meridionale di Gaza; provvedimento valido fino al 7 giugno.

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Ecco come Israele gonfia [i dati] della propria maggioranza ebraica

Editoriale Haaretz| 30 Aprile, 2017

Il rapporto annuale dell’Ufficio di statistica riguardo alla popolazione è un ridicolo esempio di propaganda che comprende i coloni ma non tutti i palestinesi sotto il controllo di Israele

Ogni anno prima del giorno dell’indipendenza, l’Ufficio centrale di Statistica pubblica a ridosso della festa un rapporto che inizia con i dati della popolazione israeliana per poi affrontare diversi parametri demografici ed economici come esempio dello sviluppo dello Stato e dei suoi risultati. Quest’anno l’ufficio ha registrato 8.68 milioni di persone residenti in Israele, dei quali il 74,7% sono ebrei, il 20,8% sono arabi e i rimanenti sono “altri” (principalmente cristiani non arabi). Questa è la dimostrazione numerica del successo sionista nella costruzione di uno Stato a forte maggioranza ebraica, che è presente in una pubblicazione ufficiale di un’agenzia professionale autorizzata.

Ma la pubblicazione dell’Ufficio centrale di Statistica è ingannevole e comprende molte imprecisioni e manipolazioni che la trasformano da un arido rapporto statistico a un ridicolo atto di propaganda.

Cominciamo con il numero degli abitanti israeliani.

L’Ufficio registra gli ebrei [presenti] in tutti i territori dal fiume Giordano al Mediterraneo sotto il proprio controllo. Ma prende in considerazione solamente gli arabi presenti nei territori prima dei confini del ’67, a Gerusalemme Est e sulle Alture del Golan. Milioni di palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sono lasciati fuori. Così i coloni di Hebron sono residenti in Israele e sono compresi nella statistica , mentre i loro vicini palestinesi non lo sono.

La questione non consiste nel fatto che l’Ufficio ignori quanti siano i palestinesi che abitano nei territori. Israele controlla il registro dell’anagrafe della Autorità Nazionale Palestinese della Cisgiordania e perfino quello della Striscia di Gaza. Ogni nascita, viaggio, matrimonio, divorzio o decesso dei palestinesi dei territori vengono registrati dalle autorità israeliane. Si possono pubblicare dati completi della popolazione sotto il controllo diretto e indiretto di Israele, una popolazione che paga con gli stessi shekel ed è legata alle medesime infrastrutture. Ma allora la maggioranza ebraica si ridurrebbe in modo sorprendente, rovinando la festa della Giornata dell’Indipendenza.

L’espediente si accentua quando l’Ufficio centrale di Statistica rappresenta il territorio dello Stato 69enne. La mappa della pubblicazione ufficiale mostra Israele con le Alture del Golan, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, senza i confini interni come i confini precedenti al ’67, le linee di separazione degli Accordi di Oslo o quelle del disimpegno da Gaza – tutta l’Eretz Israel. Invece nel rapporto la superficie dello Stato, 22,072 kmq , non comprende la Cisgiordania e Gaza.

Allora queste aree fanno parte o no di Israele? I coloni sono compresi nelle statistiche nazionali mentre il territorio delle colonie non lo è? I coloni vivono in cielo?

La manipolazione dei dati non è un trucco nuovo. L’Ufficio centrale di statistica ha incluso i coloni quali residenti di Israele fin dal 1972, quando Golda Meir era primo ministro. Fino a oggi tutti gli esperti governativi di statistica si sono prestati all’ingannevole conteggio differenziato degli ebrei e degli arabi, anche se la legge esige loro di agire “in base a considerazioni scientifiche”.

L’attuale capo dell’ufficio, Prof. Danny Pfeffermann, ha ricevuto l’anno scorso un’onorificenza: il suo titolo è stato elevato a “ Statistico nazionale”. È un peccato che egli abbia prestato il suo prestigio professionale a un tentativo di propaganda governativa volto a mostrare una larga maggioranza ebraica e a cancellare i palestinesi dalla nostra coscienza, apparentemente in nome della scienza.

L’articolo di cui sopra è l’editoriale principale di Haaretz come è stato pubblicato nelle edizioni in lingua ebraica e inglese in Israele.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




E’ stato ricordato ai contadini palestinesi che vincere in un tribunale israeliano non è sufficiente per avere giustizia

Amira Hass – 30 aprile 2017 Haaretz

In Cisgiordania sono esclusi dalla loro stessa terra mentre l’esercito israeliano non fa rispettare gli ordini del tribunale.

A Moshe Ben-Zion Moskowitz, della colonia di Shiloh in Cisgiordania, è stato chiesto in tribunale se, quando nel 1980 ha iniziato a coltivare un terreno nella giurisdizione del villaggio palestinese di Qaryut, egli ne era proprietario. Per due volte ha risposto che il proprietario del terreno era Dio. Ma l’avvocato Jiat Nasser ha continuato a insistere sul fatto se egli personalmente fosse proprietario della terra, e alla fine Moskowitz ha risposto: “Non io personalmente, ma il popolo ebraico.”

Allora Nasser ha chiesto una spiegazione: “E’ vero che lei non ha comprato la terra?” Moskowitz ha risposto: “E’ la terra del popolo ebraico.”

Ma né Dio né il popolo ebraico hanno aiutato Moskowitz nella causa che ha intentato nel 2010 contro l’amministrazione locale di Qaryut e contro alcuni dei suoi abitanti. La corte non ha accettato la Bibbia come contratto di acquisto.

Moskowitz aveva chiesto alla corte di impedire ai convenuti palestinesi di molestarlo, secondo lui, attraverso denunce alla polizia in merito a sconfinamenti e ai tentativi di coltivare quella stessa terra. Per 30 anni, si è lamentato, egli aveva lavorato la terra senza alcun problema, finché a metà 2007 è arrivato il rabbino Arik Ascherman (allora di “Rabbini per i Diritti Umani”, ora di “Haqel – Ebrei e Arabi in Difesa dei Diritti Umani”) e ha chiesto le prove del suo diritto di proprietà.

Gli ho fatto vedere la Bibbia. Siamo tornati alla nostra terra,” ha detto Moskowitz alla corte nel dicembre 2010.

Ma dopo un’estenuante battaglia legale il giudice Miriam Lifshits nell’aprile 2016 ha deciso che Moskowitz non aveva dimostrato di aver lavorato la terra continuativamente dal 1980, e neppure nei 10 anni precedenti la presentazione della causa. Al contrario, i convenuti hanno provato i propri legami con la terra e che la stavano utilizzando; Lifshits non ha trovato alcuna prova che la terra fosse lasciata incolta quando Moskowitz se ne è impossessato. Non ha mai consegnato alla corte i documenti che aveva promesso; quello che ha detto alla polizia era in contraddizione con quello che ha detto alla corte, e i suoi testimoni lo hanno contraddetto.

Ma anche se la Bibbia e il popolo ebraico lo hanno tradito, le istituzioni che devono far rispettare la legge – la polizia, l’esercito e l’amministrazione civile di Israele in Cisgiordania – non lo hanno fatto. Un anno dopo la sentenza del giudice, non hanno mosso un dito per togliere di mezzo le serre che Moskowitz ha costruito sulla terra mentre la causa era in tribunale. E questa settimana il colonnello Yuval Gez, comandante della brigata “Binyamin”, ha vietato ai proprietari legali della terra di entrarvi per la prima volta dal 2007.

Il loro avvocato, Kamer Mashraqi-Assad, ha chiesto per un anno all’esercito di scortare i proprietari alla loro terra. E’ vero, non si trova in un’area in cui l’esercito richiede una scorta militare per paura dei coloni, ma, come hanno testimoniato i contadini in tribunale, in passato sono stati oggetto di minacce e violenze.

I coloni “arrivano là con i loro fucili e i loro cani e noi non abbiamo il potere di affrontarli,” ha detto Tareq Odeh di Qaryut alla corte nel dicembre 2010. “Ho due terreni a cui non posso accedere per paura dei coloni.”

Moskowitz, ha continuato, “è armato. Se dovesse sparare a cinque di noi, nessuno gliene chiederebbe conto. Ma se uno di noi lanciasse una pietra contro di lui, nessuno di noi avrebbe scampo.” Odeh è morto un anno fa, per cui non è arrivato ad ascoltare il verdetto della corte.

La scorsa settimana l’ufficio di collegamento dell’esercito ha detto a Mashraqi-Assad che per martedì era stata predisposta una scorta per i contadini. E’ vero, era solo per un giorno, ma hanno atteso eccitati di tornare alla loro terra.

Ma lunedì notte Mashraqi-Assad ha detto loro che l’esercito si era rimangiato la parola. Gez, il comandante di brigata, non aveva intenzione di fornire la scorta, perché c’erano in giro dei coloni.

Martedì mattina Haaretz ha chiesto al portavoce dell’unità dell’esercito israeliano se Gez ha paura della violenza dei coloni o se si identifica con il loro obiettivo di impossessarsi della terra e di cacciare la popolazione che ha la proprietà della terra da prima della fondazione di Israele nel 1948. Mercoledì sera l’unità ha risposto che la scorta era stata inizialmente approvata, “anche se la zona non richiede questo tipo di procedura. Ma durante l’ispezione preliminare dell’area il giorno precedente la data concessa per entrare nel terreno, abbiamo scoperto che l’appezzamento contiene serre agricole che non sono di proprietà di chi ha fatto la richiesta, e quindi di fatto non può essere coltivato. Abbiamo deciso di rimandare la data convenuta per lavorare il terreno in modo che questo problema possa essere esaminato dai professionisti competenti. Una risposta a questa questione verrà fornita rapidamente.”

Pascolare il bestiame

Le autorità hanno anche consentito ai coloni di invadere terra di proprietà privata palestinese nel nordest della Cisgiordania, nei pressi di Tubas e Bardala, vietando al contempo l’ingresso ai pastori palestinesi, in spregio a sentenze giudiziarie.

Qualche decennio fa la parte della valle del Giordano settentrionale tra il muro di confine e il fiume Giordano era preclusa da una recinzione militare ai palestinesi che la possedevano e la lavoravano. I coloni hanno sfruttato questa situazione per impossessarsi di oltre 5.000 dunam (500 ettari) di terra di proprietà privata, con l’avallo delle autorità.

Una petizione dell’avvocato Tawfiq Jabareen all’Alta Corte di Giustizia ha portato alla cancellazione dell’ordine all’inizio del 2016. Anche se i coloni stanno ancora coltivando parte di questa terra, la cancellazione dell’ordine ha consentito almeno ai pastori palestinesi di riprendere ad abbeverare il loro bestiame alla sorgente Ein Saqut.

Tuttavia lunedì personale della polizia e dell’amministrazione civile ha vietato ai pastori palestinesi di abbeverarvi le loro mucche. E’ risultato che qualche giorno prima mandrie di mucche “ebraiche” avevano occupato il luogo.

Erano state portate lì da un avamposto illegale costruito all’inizio di gennaio al confine della riserva naturale di Umm Zuqa, non lontano dalla base militare dove si trova il battaglione di soldati ultra-ortodossi. Nonostante gli ordini emanati contro l’avamposto di interrompere i lavori, questo continua ad espandersi e i suoi residenti stanno cercando di cacciare i pastori palestinesi dai loro pascoli.

Due settimane fa l’organizzazione “Machsom Watch” [associazione di donne israeliane che si oppongono all’occupazione, ndt.] ha scoperto che l’avamposto si rifornisce d’acqua grazie a un collegamento illegale alla vicina base. Dopo una verifica, il portavoce dell’unità dell’esercito lo ha confermato, aggiungendo che i comandanti non avevano la minima idea che ciò stesse accadendo, e che le istituzioni che devono far applicare la legge stanno indagando. Che si sia trattato di una coincidenza o meno, la mandria di vacche si è spostata allora a Ein Saqut.

Mercoledì quattro soldati hanno ordinato ai pastori palestinesi di andarsene e di non avvicinarsi alle mucche dei coloni. Ma quando le attiviste di “Machsom Watch” sono arrivate “i soldati hanno cambiato tono e hanno lasciato che i pastori rimanessero lì con il loro bestiame, ma non che si avvicinassero alla sorgente,” ha detto una di loro, Daphne Banai. “Hanno sostenuto che era una riserva naturale ed alle mucche era proibito entrarvi.

Ma quando i soldati se ne sono andati ho visto i coloni condurre le loro vacche alla sorgente.”

Haaretz ha chiesto al coordinatore delle Attività del Governo nei Territori, al distretto di polizia di Shai (Cisgiordania) e al portavoce dell’unità dell’esercito se sapessero del bestiame che si trovava su un terreno di proprietà privata palestinese, e se vietare la sorgente ai pastori palestinesi e alle loro mandrie fosse un incidente isolato o una politica deliberata. Al momento della stesura di questo articolo non è arrivata nessuna risposta.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Decine di palestinesi feriti durante scontri scoppiati nel “Giorno della Collera” in tutta la Cisgiordania occupata

28 aprile 2017 Maan News

Betlemme (Ma’an) – Venerdì in tutta la Cisgiordania occupata sono scoppiati scontri ancora in corso, con molti palestinesi feriti, in quello che i palestinesi hanno chiamato il “Giorno della Collera” – inizialmente indetto dal movimento Fatah – in appoggio ai prigionieri palestinesi in sciopero della fame che venerdì è entrato nel 12 giorno di sciopero di massa.

Le forze israeliane hanno sparato in modo massiccio lacrimogeni, pallottole ricoperte di gomma e pallottole mortali durante gli scontri, che sono scoppiati dopo le preghiere del venerdì in città, villaggi e campi di rifugiati di molti distretti della Cisgiordania.

L’esercito israeliano ha detto a Ma’an che circa 2.000 palestinesi hanno partecipato a “violenti disordini in varie località durante il giorno”, aggiungendo che le forze israeliane hanno risposto ai “disordini” con “mezzi di controllo della folla”.

Distretto di Ramallah

Parecchi giovani palestinesi sono rimasti feriti mentre decine di altri hanno riportato le gravi conseguenze per l’inalazione di gas lacrimogeni durante scontri nei distretti di Ramallah e al- BIreh.

Nel villaggio di Nabi Saleh, a nord-ovest di Ramallah, si è tenuta una marcia in solidarietà con i palestinesi in sciopero della fame. Le forze israeliane hanno aperto il fuoco ed hanno sparato granate lacrimogene contro i manifestanti, ferendo tre palestinesi.

Abitanti di Nabi Saleh hanno raccontato a Ma’an che le forze israeliane hanno sparato contro i manifestanti proiettili “tutu”, che in precedenza erano vietati e che esplodono una volta entrati in contatto con il corpo.

Fonti della Mezzaluna Rossa palestinese hanno affermato che un giovane è stato ferito alla testa da un lacrimogeno mentre altri due sono stati feriti alla gambe da proiettili “tutu”.

Identità e condizioni dei feriti palestinesi rimangono ignoti.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha detto a Ma’an che indagheranno sull’uso di munizioni “tutu”.

Nel contempo decine di palestinesi hanno sofferto in conseguenza dell’inalazione di gas lacrimogeni durante gli scontri scoppiati tra giovani palestinesi e soldati israeliani nei pressi della prigione di Ofer e all’ingresso nord di Silwad, rispettivamente a ovest e a est di Ramallah. Testimoni affermano che tre palestinesi sono rimasti feriti da proiettili rivestiti di gomma.

A Silwad un palestinese è stato ferito alle gambe da un proiettile vero, mentre decine di altri hanno patito le conseguenze dell’inalazione di gas lacrimogeno, quando le forze israeliane, dopo violenti scontri scoppiati nella zona, hanno sparato proiettili letali, ricoperti di gomma, bombe assordanti e lacrimogeni.

Nel villaggio di Sinjil, a nord di Ramallah, giovani palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli dei coloni israeliani che transitavano sulla strada principale nei pressi del villaggio, provocando danni ai veicoli, mentre soldati israeliani hanno chiuso tutte le strade attorno al villaggio che lo collegano ai distretti di Nablus e Ramallah.

Secondo testimonianze, al checkpoint di Qalandiya, che collega Ramallah alla Gerusalemme est occupata, le forze israeliane hanno disperso un corteo di solidarietà con proiettili veri e ricoperti di gomma, lasciando quattro feriti da schegge di proiettili veri e due da proiettili di acciaio rivestiti di gomma.

Invece un comunicato della Mezzaluna Rossa palestinese afferma che due palestinesi sono stati feriti da schegge di proiettili, mentre uno è stato ferito da una pallottola ricoperta di gomma.

II soldati israeliani hanno anche sparato granate lacrimogene e stordenti contro giovani, mentre le forze di sicurezza hanno chiuso il checkpoint ed impedito a passanti e veicoli di attraversarlo.

Nel villaggio di Bilin la loro manifestazione settimanale è iniziata dal villaggio e si è diretta verso il muro di separazione israeliano, con la partecipazione di palestinesi ed attivisti stranieri.

I manifestanti esibivano foto di palestinesi incarcerati in Israele e gridavano slogan nazionalisti, chiedendo l’unità nazionale, la fine dell’occupazione e il rilascio di tutti i prigionieri palestinesi dalle prigioni israeliane.

I dimostranti palestinesi hanno lanciato pietre contro le forze israeliane durante la marcia e dato fuoco a pneumatici al cancello del muro di separazione.

Distretto di Nablus

Sono scoppiati scontri all’incrocio di Beita a sud della città di Nablus, nel nord della Cisgiordania, dopo le preghiere del venerdì in cui centinaia di fedeli palestinesi hanno preso posizione in solidarietà con i prigionieri in sciopero della fame.

Le forze israeliane hanno sparato contro i palestinesi

decine di lacrimogeni e di proiettili ricoperti di gomma, mentre i giovani lanciavano sassi contro le forze armate.

Secondo testimoni più di dieci palestinesi hanno sofferto per l’inalazione di gas lacrimogeno mentre un giovane è rimasto ferito da un proiettile di gomma.

Tra quanti hanno sofferto per l’inalazione di gas lacrimogeno c’era il padre di tre detenuti, Hajj Ihsan Adili Abu Waddah. Il segretario del movimento Fatah di Nablus Jihad Ramadan è rimasto ferito da una granata stordente a una gamba.

La Mezzaluna Rossa palestinese ha detto in un comunicato che venti palestinesi hanno sofferto per l’inalazione di gas lacrimogeno.

Nella città di al-Naqura dopo le preghiere del venerdì sono scoppiati scontri, e fonti mediche hanno raccontato a Ma’an di vari palestinesi che hanno sofferto per l’inalazione di gas lacrimogeno.

Parecchi alberi nel villaggio hanno preso fuoco in seguito al lancio di bombe lacrimogene e granate assordanti sparate dai soldati israeliani.

La Mezzaluna Rossa palestinese ha affermato in una dichiarazione che dieci palestinesi hanno subito le conseguenze dell’inalazione di gas lacrimogeno durante gli scontri.

Nel villaggio di Awarta, a sud di Nablus, decine di palestinesi hanno preso parte alle preghiere del venerdì nei pressi della base militare israeliana di Huwwara.

I soldati israeliani hanno sparato decine di lacrimogeni contro i palestinesi che seguivano la preghiera. Non si sono registrati feriti.

Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese, nella zona New Askar di Nablus, nei pressi del campo di rifugiati di Askar, un palestinese ha risentito delle conseguenze dell’inalazione di gas durante gli scontri.

Distretto di Hebron

Le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro un sit-in di solidarietà nel campo di rifugiati di al-Arrub, nella parte nord di Hebron, provocando scontri scoppiati tra gli abitanti e le forze armate.

Testimoni hanno detto a Ma’an che i soldati israeliani hanno fatto un’incursione nel centro del campo, con giovani palestinesi che lanciavano pietre contro i soldati israeliani che hanno sparato gas lacrimogeni, causando parecchi intossicati.

Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese, nel villaggio di Beit Ummar a nord di Hebron soldati israeliani hanno ferito due palestinesi con proiettili veri e un altro con pallottole ricoperte di gomma dopo scontri scoppiati durante una marcia di solidarietà nel villaggio. Anche cinque palestinesi sono stati intossicati dall’inalazione di gas lacrimogeno.

Invece testimoni hanno affermato che sei palestinesi sono stati feriti da proiettili ricoperti di gomma, uno ferito al petto dalle schegge di una pallottola letale e due da proiettili “tutu” alle gambe e sono stati trasferiti all’ospedale pubblico di Hebron.

La marcia di solidarietà è iniziata nel villaggio dopo le preghiere del venerdì e si è diretta all’ingresso del villaggio, dove si erano dislocate le forze israeliane.

Secondo testimoni, i soldati israeliani hanno occupato il tetto di dieci case palestinesi nel villaggio e le hanno trasformate in posti militari provvisori, dove, affermano i testimoni, i soldati hanno sparato proiettili “tutu”, pallottole di gomma e proiettili veri contro i palestinesi.

Secondo testimonianze, le forze israeliane hanno anche spruzzato acqua puzzolente contro i palestinesi prima di ritirarsi dal villaggio due ore dopo che erano scoppiati gli scontri.

Nel contempo, secondo testimoni, truppe israeliane travestite da civili palestinesi hanno arrestato cinque palestinesi aggredendoli nei pressi dell’ospedale pubblico di Hebron durante scontri scoppiati nella zona attorno all’ospedale.

Testimoni hanno detto a Ma’an che sono scoppiati scontri dalla zona di Bar al-Zawiya ed hanno raggiunto l’area dell’ospedale di Hebron.

Hanno aggiunto che  soldati israeliani hanno anche sparato bombe stordenti verso l’ospedale, mandando in frantumi la porta d’ingresso di vetro del pronto soccorso.

Distretto di Qalqiliya

A sud della città di Qalqiliya, situata nel nord della Cisgiordania, sono scoppiati scontri nei pressi di un checkpoint dell’esercito israeliano.

La Mezzaluna Rossa palestinese ha riferito che due palestinesi sono rimasti intossicati dalle inalazioni di gas lacrimogeno nei pressi del checkpoint.

Anche nel villaggio di Kafr Qaddum, nella zona di Qalqiliya, sono scoppiati scontri tra forze israeliane e palestinesi del posto.

Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese, nel villaggio due palestinesi sono stati feriti da proiettili di gomma sparati dalle forze israeliane. 

Distretto di Salfit

In un comunicato il ministero della Salute palestinese ha affermato che all’ospedale di Salfit sono arrivati tre palestinesi, uno dei quali ferito con un proiettile vero a un ginocchio, un altro al piede sempre da un proiettile vero, mentre un altro palestinese colpito da un lacrimogeno alla testa si troverebbe in condizioni stazionarie.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Le donne palestinesi si uniscono allo sciopero della fame, gli avvocati dichiarano il boicottaggio dei tribunali israeliani

Ma’an News 19 aprile 2017

RAMALLAH (Ma’an) – Mercoledì centinaia di prigionieri palestinesi in sciopero della fame hanno iniziato il terzo giorno di sciopero per la “Libertà e Dignità”, mentre le donne palestinesi detenute hanno lanciato forme di protesta e gli avvocati che rappresentano i detenuti in sciopero hanno annunciato il boicottaggio dei tribunali israeliani.

I prigionieri chiedono che le autorità carcerarie israeliane garantiscano loro diritti fondamentali, come ricevere regolari visite, e nel lungo elenco di richieste stilato dal movimento Fatah e dal suo leader detenuto, Marwan Barghouthi,chiedono anche la fine della deliberata negligenza sanitaria, dell’isolamento, della detenzione amministrativa.

Secondo quanto dichiarato mercoledì da un comitato unificato per i media, composto dal Comitato Palestinese per le Questioni dei Prigionieri e dalla Società Palestinese dei Prigionieri (PPS), circa 1500 prigionieri continuano lo sciopero iniziato nel “Giorno dei Prigionieri Palestinesi”, il 17 aprile.

Secondo la dichiarazione, gli avvocati di istituzioni come il PPS [Ong palestinese che si occupa dell’assistenza ai detenuti, ndtr.] e il “Comitato dei prigionieri” hanno deciso di boicottare i tribunali israeliani. Come ha sottolineato Barghouthi in un editoriale pubblicato dal New York Times prima dello sciopero della fame, in base ai dati del Dipartimento di Stato USA il tasso di condanna per i palestinesi nei tribunali militari è circa del 90%.

L’articolo ha scatenato l’indignazione generale tra i dirigenti israeliani; Barghouthi potrebbe essere incriminato per averlo scritto, mentre alcuni membri del governo israeliano hanno anche suggerito di chiudere la redazione del New York Times a Gerusalemme.

Intanto, il capo del “Comitato Palestinese per le Questioni dei Prigionieri”, Issa Qaraqe, ha chiesto al Segretario Generale delle Nazioni Unite di convocare una riunione di emergenza dell’Assemblea Generale dell’ONU per discutere delle “condizioni sempre più gravi e pericolose” nei centri di detenzione e nelle prigioni israeliane, con la prosecuzione dello sciopero.

Mercoledì il Comitato ha riferito che le donne palestinesi nella prigione israeliana di Hasharon, dove sono detenute 58 donne, hanno lanciato forme di protesta in solidarietà con i detenuti in sciopero della fame.

L’avvocato del Comitato, Hiba Masalha, ha detto che le donne rifiuteranno il cibo ogni dieci giorni, sottolineando che le proteste aumenteranno nei prossimi giorni se Israele non risponderà alle richieste dei detenuti in sciopero.

Nel frattempo, dopo che sette prigionieri palestinesi nella prigione israeliana di Ashkelon sofferenti di diverse patologie hanno deciso di unirsi allo sciopero a tempo indeterminato, l’avvocato del comitato dei prigionieri Karim Ajweh venerdì ha detto che le autorità carcerarie israeliane hanno continuato a tenerli in punizione.

Dopo aver visitato i prigionieri ad Ashkelon, Ajweh ha detto che il Servizio Carcerario Israeliano (IPS) ha confiscato i loro dispositivi elettronici ed altri oggetti, lasciando i detenuti ammalati solo con tre coperte, un paio di mutande, un piccolo asciugamano ed uno spazzolino da denti da dividere tra i sette uomini.

Ajweh ha detto che i sette prigionieri, identificati come Said Musallam, Othman Abu Khurj, Ibrahim Abu Mustafa, Yasser Abu Turk, Nazih Othman, Ayman Sharabati e Abd al-Majid Mahdi, hanno anche subito una perquisizione fisica, sono stati trasferiti dalle loro abituali celle ed “umiliati”.

L’avvocato ha aggiunto che i prigionieri ammalati hanno deciso di intraprendere lo sciopero per protesta contro la negligenza sanitaria, nonostante le pericolose conseguenze che lo sciopero potrebbe avere sulla loro salute. I sette uomini hanno anche minacciato di smettere di assumere i farmaci se sottoposti ad alimentazione forzata.

Da quando è iniziato lo sciopero della fame le autorità israeliane hanno installato ospedali da campo per i prigionieri palestinesi, come ha confermato il Ministro israeliano per la Pubblica Sicurezza. Ciò ha destato il timore che le persone in sciopero, che probabilmente nei prossimi giorni verseranno in condizioni di salute in peggioramento, verranno sottoposte in massa ad alimentazione forzata – in violazione degli standard internazionali di deontologia medica e del diritto internazionale, che considerano questa pratica come inumana o addirittura come una forma di tortura.

 

I medici israeliani negli ospedali civili finora hanno rifiutato di alimentare forzatamente chi è in sciopero della fame, nonostante la recente sentenza della Corte Suprema israeliana che ha ritenuto costituzionale questa pratica.

Oltre alle misure punitive nei confronti del gruppo dei prigionieri malati, l’IPS ha punito le altre centinaia di persone in sciopero della fame sospendendo il diritto alle visite dei familiari, impedendo agli avvocati di far visita ad alcuni di loro e spostando i prigionieri in sciopero all’interno della struttura di detenzione, in modo da separarli dai prigionieri palestinesi che non partecipano allo sciopero della fame.

I dirigenti dell’IPS hanno anche posto in isolamento parecchi prigionieri in sciopero – compresi Barghouthi e Karim Yunis [il palestinese detenuto da più anni nelle carceri israeliane, ndt]– ed hanno vietato ai prigionieri di vedere la televisione, dichiarando “uno stato di emergenza” nelle strutture carcerarie che ospitano prigionieri palestinesi.

Migliaia di palestinesi lunedì hanno marciato in solidarietà con i prigionieri in sciopero, mentre le forze israeliane hanno pesantemente represso una manifestazione nella città di Betlemme, nel sud della Cisgiordania occupata, ed hanno arrestato quattro giovani palestinesi in un’altra manifestazione nel distretto centrale di Ramallah in Cisgiordania.

Come affermano le organizzazioni palestinesi in una dichiarazione congiunta resa pubblica sabato, dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948, con la successiva occupazione di Cisgiordania, Gerusalemme est e Striscia di Gaza nel 1967, le autorità israeliane hanno imprigionato circa un milione di palestinesi.

( Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA 4-18 aprile 2017 (due settimane)

Un soldato israeliano e una donna britannica sono stati uccisi in due distinte aggressioni attuate da palestinesi.

Il 6 aprile, un palestinese di 22 anni ha guidato la sua auto contro soldati israeliani che stazionavano alla fermata del bus presso l’insediamento colonico di Ofra (Ramallah): un soldato è rimasto ucciso ed un secondo ferito. L’autore dell’aggressione è stato arrestato dalle forze israeliane. Questi episodi portano a cinque, dall’inizio del 2017, il numero di israeliani (tutti soldati) uccisi da palestinesi. Sempre il 14 aprile, vicino alla città vecchia di Gerusalemme, un palestinese di 57 anni, a quanto riferito affetto da problemi psichiatrici, ha accoltellato e ucciso una studentessa britannica di 21 anni che viaggiava sulla metropolitana. L’uomo è stato arrestato.

Il 10 aprile, un ragazzo palestinese di 17 anni è morto per le ferite riportate il 23 marzo presso il Campo profughi di Al Jalazun (Ramallah), dove fu colpito dal fuoco delle forze israeliane, aperto a seguito del lancio di bottiglie incendiarie contro l’insediamento colonico di Beit El. In quello stesso contesto un minore palestinese fu ucciso e altri due palestinesi furono feriti.

In Cisgiordania, in diversi scontri, le forze israeliane hanno ferito complessivamente 46 palestinesi, di cui undici minori. La maggior parte dei ferimenti sono avvenuti in Kafr Qaddum (Qalqiliya) durante le manifestazioni settimanali contro il divieto, per i residenti, di utilizzare la strada principale che collega il villaggio alla città di Nablus; il divieto è dovuto al fatto che la strada attraversa l’insediamento colonico di Qedumim. Sono stati segnalati altri scontri avvenuti nel corso di cinque operazioni di ricerca-arresto e del funerale del ragazzo ferito nel Campo profughi di Al Jalazun e successivamente deceduto [vedi sopra].

Il 17 aprile, l’unica Centrale elettrica di Gaza, avendo esaurito le riserve di carburante, è stata costretta al fermo completo. Questo è avvenuto nel contesto di una controversia in corso tra le autorità palestinesi di Gaza e le autorità di Ramallah sulle questioni relative ai pagamenti e alla tassazione dei carburanti. Il fermo della Centrale elettrica ha aumentato, fino a 20 ore al giorno, le sospensioni giornaliere di energia elettrica in tutta la Striscia di Gaza. Ciò pregiudica ulteriormente la fornitura dei servizi di base, inclusa l’attività delle strutture sanitarie; infatti è ridotto al minimo il livello delle dotazioni di combustibile di emergenza, necessario a gestire i generatori di riserva.

Sempre nella Striscia di Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 26 casi le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento; non è stato segnalato alcun ferito, ma è stato riferito che il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto. In quattro occasioni le forze israeliane sono penetrate all’interno della Striscia ed hanno svolto operazioni di spianatura e scavo a ridosso della recinzione perimetrale. Inoltre, sei civili palestinesi sono stati arrestati dalle forze israeliane e altri tre dalla polizia locale di Gaza; presumibilmente mentre tentavano di entrare illegalmente in Israele.

In Cisgiordania, a causa della mancanza di permessi di costruzione (per i palestinesi quasi impossibili da ottenere), le autorità israeliane hanno demolito 20 strutture di proprietà palestinese. Dodici di queste strutture erano in Gerusalemme Est, le altre otto in due comunità dell’area C (Rantis e Furush Beit Dajan). Nel complesso, 56 palestinesi sono stati sfollati e altri 33 hanno subìto danni.

Due palestinesi sono stati feriti e oltre 200 alberi sono stati vandalizzati nel corso di diversi episodi che coinvolgono coloni israeliani. Nella città di Hebron, nella zona H2, controllata da Israele, una ragazza palestinese di 14 anni è stata fisicamente aggredita e ferita da coloni mentre si recava a scuola. Vicino a Salfit, una donna palestinese è stata ferita dalle pietre lanciate da coloni israeliani contro il suo veicolo. Gli agricoltori del villaggio Mikhmas (Gerusalemme) hanno riferito che 215 dei loro ulivi sono stati sradicati; essi attribuiscono l’azione vandalica a coloni israeliani del confinante insediamento avamposto di Migron.

Durante il periodo di riferimento, in varie circostanze, in concomitanza con le celebrazioni della Pasqua, coloni israeliani e altri gruppi israeliani sono entrati in vari luoghi religiosi provocando alterchi e scontri con palestinesi, senza tuttavia causare feriti. I siti interessati includevano il Complesso Al Haram Ash Sharif / Monte del Tempio a Gerusalemme Est, un santuario nel villaggio Kifl Haris (Salfit) e la Tomba di Giuseppe nella città di Nablus.

Secondo i mezzi di informazione israeliani, diversi episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie, ad opera di palestinesi contro veicoli israeliani, hanno causato il ferimento di tre coloni israeliani e danni ad almeno dieci veicoli. Sulla Strada n°1, vicino a Gerico, un altro veicolo israeliano ha subito danni da arma da fuoco.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, durante le due settimane di riferimento è rimasto chiuso in entrambe le direzioni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah. Nel 2017 il valico di Rafah è stato aperto eccezionalmente solo per 12 giorni [a tutt’oggi].

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Ultimi sviluppi

Secondo quanto riportato da mezzi di informazione israeliani, il 19 aprile, al raccordo stradale Gush Etzion (Hebron), un palestinese ha guidato il suo veicolo contro un colono israeliano, ferendolo. L’investitore è stato colpito con arma da fuoco e ucciso dalle forze israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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In migliaia manifestano a Gaza mentre continuano le proteste contro i tagli ai salari da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese

9 aprile 2017 Middle East Monitor

I lavoratori del pubblico impiego di Gaza [pagati] dall’ANP hanno ricevuto il loro stipendio di marzo decurtato del 30%, fatto che ha provocato proteste

Migliaia di dipendenti dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno manifestato sabato a Gaza City sull’onda di continue proteste contro la decisione dell’ANP di imporre drastici tagli agli stipendi dei suoi lavoratori di Gaza. I manifestanti si sono radunati nella piazza al-Saraya, hanno urlato slogan contro il provvedimento e hanno chiesto le dimissioni dei dirigenti del governo palestinese, in particolare del primo ministro Rami Hamdallah e di quello delle finanze Shukri Bushara

Dimettiti, dimettiti, Hamdallah! Dimettiti, dimettiti, Bishara!

Alcuni manifestanti hanno giudicato la decisione di ridurre i loro stipendi come “una discriminazione contro Gaza” e hanno respinto “le scuse e le giustificazioni false e futili” addotte dal governo riguardo al provvedimento.

L’ANP ha affermato che i tagli sono un tentativo di affrontare una profonda crisi finanziaria, che secondo loro è stata aggravata da Hamas – l’autorità de facto della Striscia di Gaza – che avrebbe continuato a riscuotere le entrate governative senza inviarle lle casse dell’ANP.

Tuttavia quanti criticano il provvedimento hanno ribattuto che se la decisione fosse stata semplicemente una risposta alla crisi finanziaria, allora i tagli avrebbero dovuto riguardare tutti i dipendenti del pubblico impiego dell’ANP – compresi quelli nella Cisgiordania occupata – e hanno inoltre espresso la preoccupazione che i tagli avrebbero solo isolato ulteriormente i gazawi dal resto del territorio palestinese.

I dipendenti presenti alla manifestazione hanno chiesto al presidente Mahmoud Abbas di formare un governo di unità nazionale e di considerare Gaza e i suoi abitanti come sua assoluta priorità.

Nel frattempo Abu Eita, e vice-segretario generale del consiglio rivoluzionario di Fatah a Gaza , ha affermato in un comunicato che migliaia di dipendenti e sostenitori di Fatah si sono radunati nella piazza e hanno chiesto che Abbas “intervenga immediatamente e assicuri giustizia ai dipendenti di Gaza, esattamente come al resto dei dipendenti del governo dell’ANP”.

Abu Eita also added that the people blamed Hamdallah for the salary cuts, which he said would “take food from their children.”

“Questa folla a Gaza è venuta per confermare il proprio totale sostegno al presidente Abbas e a chiedergli di cancellare l’ingiusta decisione”

Abu Eita ha anche aggiunto che il popolo ha criticato Hamdallah per avere tagliato i salari, che, ha detto, avrebbe “ tolto il cibo di bocca ai loro bambini”

Il capo del sindacato dei giornalisti della Striscia di Gaza Tahson al Astal ha dichiarato all’agenzia Ma’an News che indignazione della gente evidenzia la natura “dittatoriale” della decisione di decurtare i salari, che, a suo parere, colpirà decine di famiglie nella poverissima enclave,dove si riscontra il più alto tasso di disoccupazione, aggiungendo quanto segue:

“Questo è un altro assedio che si aggiunge a quello già imposto dall’occupazione israeliana”.

Mercoledì i dipendenti pubblici dell’ANP hanno ricevuto il salario con una decurtazione di almeno il 30%, provocando proteste tra i dipendenti già in agitazione. Il primo ministro Hamdallah ha evidenziato che i tagli sono stati fatti solamente sulle indennità mensili senza alcuna decurtazione del salario base. Chi è critico ha fatto notare che dopo la presa del potere da parte di Hamas nella Striscia di Gaza, l’ANP diretta da Fatah ha incoraggiato i suoi dipendenti residenti a Gaza a non continuare a lavorare per protesta contro il nuovo governo guidato da Hamas.

Di conseguenza circa 50 mila dipendenti che hanno deciso di continuare a lavorare sotto Hamas hanno affrontato pagamenti irregolari e parziali da parte dell’ANP e qualche volta non hanno ricevuto niente. Nel frattempo, decine di migliaia di lavoratori che hanno rifiutato di lavorare con Hamas, hanno continuato a percepire il pagamento di un regolare salario dall’ANP. Secondo quanto riferito, i nuovi tagli salariali hanno colpito tutti i dipendenti pubblici dell’ANP a Gaza.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA 21 marzo – 3 aprile 2017 ( due settimane)

Tre aggressioni con coltello hanno provocato l’uccisione di due palestinesi e il ferimento di quattro israeliani.

Il 29 marzo, nella Città Vecchia di Gerusalemme è stata colpita con arma da fuoco ed uccisa una donna palestinese di 49 anni che avrebbe tentato di accoltellare un poliziotto israeliano di frontiera: non sono stati segnalati feriti israeliani e sull’episodio le autorità israeliane hanno avviato un’indagine. Sempre nella Città Vecchia, il 1° aprile, un 17enne palestinese ha accoltellato e ferito un poliziotto israeliano e due giovani israeliani ed è stato successivamente colpito ed ucciso. Secondo fonti israeliane, il 27 marzo, nella città israeliana di Lod, un giovane palestinese della città di Halhul (Hebron) ha accoltellato e ferito una donna israeliana ed è stato successivamente arrestato. Questi episodi portano a 12, dall’inizio del 2017, il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane nel corso di attacchi e presunti attacchi.

Altri due ragazzi palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane in due distinti episodi verificatisi vicino a Ramallah e ad est di Rafah (Gaza). Il primo si è verificato il 17 marzo, nei pressi di una torre di guardia militare vicina al Campo profughi di Al Jalazun; le forze israeliane hanno colpito con arma da fuoco ed ucciso un 17enne palestinese e ferito altri tre ragazzi: secondo fonti militari israeliane, la sparatoria ha avuto luogo in risposta al lancio di bottiglie incendiarie contro l’insediamento colonico di Beit El, nel quale non erano stati segnalati danni né feriti. Nel secondo caso, il 21 marzo, le forze israeliane hanno sparato proiettili di carro armato in direzione di uno spazio aperto ad est della città di Rafah, a circa 300 metri dalla recinzione perimetrale: un civile palestinese di 16 anni è stato ucciso ed un secondo è stato ferito; le circostanze dell’episodio non sono ancora chiare.

In Cisgiordania, in numerosi scontri le forze israeliane hanno ferito complessivamente 124 palestinesi, 14 dei quali minori, con un incremento significativo rispetto ai dati registrati dall’inizio del 2017. La maggior parte dei ferimenti si sono avuti durante scontri contestuali alle manifestazioni che commemoravano il 41° anniversario della “Giornata della Terra” che, per i cittadini palestinesi di Israele, rievoca un esproprio di massa di terra palestinese. Altri scontri sono stati segnalati nel corso di molteplici operazioni di ricerca-arresto; al funerale del ragazzo ucciso nel Campo profughi di Al Jalazun [vedi sopra] e durante scontri in varie località dei governatorati di Gerusalemme e Ramallah. A quanto riferito, quattro soldati israeliani sono stati feriti da pietre.

Dopo l’uccisione di un membro di Hamas avvenuta ad opera di ignoti il 24 marzo a Gaza City, le autorità palestinesi de facto di Gaza hanno imposto severe restrizioni di accesso, adducendo motivi di sicurezza. Le uscite attraverso il checkpoint ‘Arba-‘Arba – che controlla l’accesso al valico di Erez tra Gaza e Israele – è stato particolarmente colpito; in tal modo si è ridotto ulteriormente il numero di persone, già esiguo a causa di preesistenti restrizioni imposte da Israele, alle quali è consentita l’uscita. A partire dal 4 aprile, più di 100 pazienti che avevano prenotazioni per cure mediche da effettuare fuori Gaza hanno perso i loro appuntamenti e le relative prestazioni sanitarie e dovranno richiedere nuovamente un permesso di uscita, senza alcuna garanzia di accoglimento e con il possibile rischio di un peggioramento delle loro condizioni di salute. Alla maggior parte del personale delle Organizzazioni umanitarie è stata vietata l’uscita da Gaza attraverso Erez; tuttavia, dal 1° aprile, è stato consentito l’attraversamento al personale internazionale impiegato presso le Nazioni Unite e l’ICRC [Comitato Internazionale della Croce Rossa].

Nello stesso contesto, dal 26 marzo, le autorità de facto impediscono l’accesso dei pescatori palestinesi al mare lungo la costa di Gaza. Il Sindacato dei Pescatori di Gaza ha stimato perdite di due o tre tonnellate di pesce al giorno, con conseguenti aumenti di prezzo del pesce importato. Queste restrizioni, giunte all’inizio della stagione della pesca delle sardine, compromettono ulteriormente i proventi della pesca, già precari per le restrizioni di accesso imposte da lunga data da Israele.

Prima dell’imposizione delle restrizioni da parte delle Autorità de facto, il valico di Erez sotto controllo israeliano era normalmente operativo, mentre il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, era chiuso. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

Sempre nella Striscia di Gaza, oltre all’episodio avvenuto ad est di Rafah [vedi sopra], nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 28 occasioni le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento o diretto, interrompendo il lavoro di agricoltori e pescatori. In due occasioni, le forze israeliane sono penetrate all’interno della Striscia ed hanno svolto operazioni di spianatura e scavo nei pressi della recinzione perimetrale ed hanno arrestato un civile palestinese che, presumibilmente, aveva tentato di entrare illegalmente in Israele.

In Cisgiordania, a causa della mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 17 strutture di proprietà palestinese, sfollando 22 palestinesi e colpendo i mezzi di sostentamento di oltre 90 persone. Cinque di queste strutture si trovavano a Gerusalemme Est e le restanti in cinque comunità dell’Area C. Inoltre, nella zona di Jabal al Mukabber di Gerusalemme Est, è stata sigillata punitivamente la casa di famiglia dell’aggressore che, nel mese di gennaio 2017, uccise quattro soldati israeliani: una donna ed i suoi quattro figli sono stati sfollati.

Nel governatorato di Nablus, per la creazione di un nuovo insediamento israeliano e la “legalizzazione” retroattiva di tre avamposti già esistenti, le autorità israeliane hanno dichiarato “terra di stato” vari appezzamenti di terreno non contigui, per un totale di quasi 100 ettari. Questa decisione può avere un impatto sull’accesso alla terra da parte degli agricoltori di quattro villaggi adiacenti (Sinjil, Qaryut, As Sawiya e Al Lubban Ash Sharqiya), compromettendo ulteriormente la loro capacità di sostentamento con il lavoro agricolo. Secondo la decisione del Governo israeliano, il nuovo insediamento servirà alla rilocalizzazione dei coloni recentemente evacuati dall’insediamento avamposto di Amona; la decisione prevede anche limitazioni alla futura espansione dell’insediamento.

In quattro distinti episodi, coloni israeliani armati hanno attaccato o minacciato contadini palestinesi, costringendoli ad uscire dai loro terreni posti in prossimità di insediamenti colonici. In uno di questi episodi, verificatosi vicino al villaggio di Beit Furik (Nablus), un contadino palestinese è stato aggredito fisicamente e ferito. Gli altri tre episodi comprendono minacce e intimidazioni nei confronti di agricoltori palestinesi che, a Nablus e Qalqiliya, possono accedere alla propria terra previo coordinamento ed autorizzazione delle autorità israeliane. Questo meccanismo ha lo scopo di garantire agli agricoltori, due volte l’anno, durante la stagione dell’aratura e durante il raccolto, l’accesso sicuro a zone soggette alla violenza dei coloni. Inoltre, tre veicoli palestinesi sono stati danneggiati da lanci di pietre da parte di coloni.

Secondo i media israeliani, quattro coloni israeliani, tra cui una donna, sono stati feriti e diversi veicoli sono stati danneggiati in almeno 13 episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: vicino a Gerusalemme, Ramallah, Hebron e Betlemme.

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Ultimi sviluppi (dal 6 aprile)

Mezzi di informazione riferiscono che le autorità de facto della Striscia di Gaza hanno giustiziato tre uomini palestinesi accusati di “collaborazione con Israele”.

Il Ministero degli Interni della Striscia di Gaza ha annunciato la revoca di tutte le restrizioni di accesso in vigore dal 26 marzo.

Mezzi di informazione riferiscono che un uomo palestinese ha guidato il suo veicolo contro una fermata del bus nei pressi dell’insediamento di Ofra (Ramallah), casando la morte di un soldato israeliano ed il ferimento di un altro; l’uomo è stato arrestato.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Esperti israeliani e palestinesi redigono una ‘road map’ per salvare l’economia palestinese

Amira Hass, 25 marzo 2017, Haaretz

Circa 2 milioni di palestinesi sono ammassati nei 365 chilometri quadrati della Striscia di Gaza. Nella Valle del Giordano, che conta 1.600 chilometri quadrati, ci sono 65.000 palestinesi (e altri circa 10.000 coloni israeliani). Teoricamente gli accordi di Oslo avrebbero dovuto consentire a molti abitanti di Gaza di spostarsi nella Valle del Giordano – per lavorare nelle infrastrutture e in agricoltura (anche se solo per attività stagionali), nell’edilizia, nel turismo e nell’industria.

Ma in realtà queste due aree palestinesi “contribuiscono” al deterioramento dell’economia palestinese nel suo complesso. In entrambe, la principale ragione del declino sta nelle draconiane restrizioni alla libertà di movimento, di accesso alle risorse e alle possibilità di commercio, costruzione, agricoltura e sviluppo imposte da Israele.

Queste affermazioni non sono affatto nuove, già la scorsa settimana un gruppo di 11 economisti palestinesi ed israeliani ha pubblicato due studi a questo riguardo. Gli studiosi delineano un piano per espandere l’attività economica palestinese nella Valle del Giordano e salvare l’economia di Gaza (prima del 2020, data entro la quale, se nulla cambia, questa enclave isolata sarà inabitabile, come hanno avvertito due anni fa le Nazioni Unite).

Per ragioni di cortesia, e forse perché gli studi sono stati elaborati in collaborazione con la Banca Mondiale, gli autori si occupano di sincere affermazioni di politici israeliani circa il desiderio di vedere un miglioramento nell’economia palestinese. In effetti, i due autori – Saeb Bamya e il professor Arie Arnon che, insieme al dottor Shanta Devarajan, capo economista al MENA (Medio Oriente e Nord Africa, ndtr.) della Banca Mondiale, hanno presentato i documenti mercoledì all’Istituto Truman di Gerusalemme – sono perfettamente coscienti che l’attuale situazione non è solamente il risultato di una casuale serie di errori umani.

Ma è stato il moderatore di una tavola rotonda, l’ex ambasciatore di Israele in Sudafrica Ilan Baruch, a non moderare i termini. “Vi è stata una deliberata politica israeliana tesa a creare deficit”, ha detto. “La comunità internazionale deve essere coinvolta – non come donatore, ma per esercitare pressioni [su Israele].”

Il giorno prima, gli studi sono stati presentati per la prima volta negli uffici della Banca Mondiale nel quartiere Dahiyat al-Barid di Gerusalemme, all’ombra del muro di separazione. Alcuni relatori hanno detto ai funzionari presenti: sono state elargite grosse somme di denaro per determinare un cambiamento, non per perpetuare lo status quo. Ma sembra che il denaro dei contribuenti dei vostri Paesi in realtà rafforzi la situazione di deterioramento. E questo deve cambiare.

A coloro che sono arrivati a pensare al blocco di Gaza come a un dato di fatto e che sono abituati a pensare che la Valle del Giordano appartenga ad Israele, le misure di semplice ricostruzione proposte dagli economisti sembreranno surreali. Permettere il regolare movimento di persone e camion direttamente tra Gaza e la Cisgiordania? Riaprire l’aeroporto di Gaza? Fornire acqua e maggiore elettricità alla Striscia? Ricostruire la flotta di pescatori e costruire un porto? Permettere ai palestinesi di coltivare altri 40.000 dunams ( 24,7 km²) nella Valle del Giordano? Lasciare che vi creino e sviluppino il turismo?

Un approccio differente da Oslo

Sembra inconcepibile. Ma secondo Arnon le raccomandazioni degli studi sono in realtà molto vicine all’approccio prospettato da alti dirigenti militari e della sicurezza israeliani, che comprendono i rischi per la sicurezza contenuti in un’economia palestinese in difficoltà. Quindi queste raccomandazioni sono un ulteriore tentativo di trovare persone responsabili in Israele che possano fare dei passi per scongiurare le disastrose previsioni.

Il Gruppo di Aix, che prende il nome dall’università francese in cui fu fondato nel 2002 (Università Paul Cézanne Aix-Marseille III), è stato creato per delineare scenari socioeconomici per la fase di status finale dei due Stati. Questo approccio è l’opposto di quello degli Accordi di Oslo, in cui sono state indicate in modo molto dettagliato fasi intermedie come percorso per realizzare un’ipotesi che non era definita.

Perciò, per il Gruppo di Aix, i due studi sono un nuovo lavoro che propone passi concreti per salvare e rivitalizzare l’economia a breve e medio termine, indipendentemente dalla situazione dei negoziati sullo status finale e con la consapevolezza della scarsa probabilità che tali colloqui possano ricominciare presto.

Ogni studio utilizza cifre e grafici per illustrare le tendenze economiche. Per esempio, nei 20 anni trascorsi dalla creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese nel 1994, il prodotto interno lordo pro capite a Gaza è stato in media di 1.200 dollari (calcolati a prezzi del 2004). Negli anni migliori, 1998 e 1999, è stato di 1.450 dollari. Il livello più basso è stato nel 2007 e 2008 con solo 900 dollari. Per fare un confronto, a quel tempo il dato è stato di 4.200 dollari in Giordania e di 20.000 dollari in Israele.

Il PIL per lavoratore illustra ulteriormente il peggioramento – da 24.000 dollari nel 2005 a 10.000 dollari oggi. Questo è anche il modo per calcolare la produttività nell’economia.

Secondo gli autori, che citano uno studio della Banca di Israele che ha rilevato che dal 2006 al 2009 l’occupazione nel settore manifatturiero è crollata del 33%, rispetto ad un aumento del 24% nel settore dei servizi, questo drastico peggioramento è dovuto soprattutto al blocco di Gaza. Intanto nel 2015 la disoccupazione giovanile a Gaza è arrivata al 57.6%; il tasso complessivo di disoccupazione è stato del 41%.

Un altro modo per osservare il deterioramento è considerare il valore delle importazioni pro capite. Nel 1997 questo dato era di 800 dollari a Gaza e 1.000 dollari in Cisgiordania. Nel 2015 era di 400 dollari a Gaza e 1.400 in Cisgiordania.

E le esportazioni pro capite? Queste sono sempre state basse. Ma anche questo valore ridotto è diminuito. Nel 2000 le esportazioni erano il 10% del PIL, con 15.255 camion che uscivano da Gaza. Questo dato è sceso al 6.8% nel 2005 (9.319 camion) e a 0 tra il 2008 e il 2010. E’ stato registrato un lieve incremento nel 2015 e 2016, con 1.400 camion in uscita da Gaza ogni anno (grazie all’Olanda, che ha fatto pressioni perché si permettesse a Gaza di esportare all’estero alcune delle sue produzioni agricole).

Scarso sostegno a Gaza da parte dell’ANP

Il blocco israeliano impedisce all’economia di Gaza di beneficiare del movimento di merci e di persone. I costi crescenti abbassano la produttività e scoraggiano gli investitori, oltre alle fatiscenti infrastrutture di Gaza. Gli investitori sono spaventati anche dai rischi militari e politici, sostengono gli autori, che non ignorano un fattore interno: i due distinti governi palestinesi e la rivalità tra Hamas e l’ANP.

Gli autori respingono la ricorrente affermazione dell’ANP che il 40% del suo budget viene investito a Gaza. In base ai loro calcoli, solo il 15% del budget non coperto da entrate doganali e da imposte sul valore aggiunto viene trasferito alla Striscia. Non è un grande aiuto, dicono gli autori, aggiungendo che generalmente le zone ricche sovvenzionano quelle più povere.

Quanto alla paura di Israele del rischio per la sicurezza che comporterebbe allentare il blocco, le argomentazioni degli autori poggiano su una logica elementare: il blocco draconiano non ha impedito ad Hamas di armarsi e non ha impedito i conflitti. La situazione socioeconomica in peggioramento non fa che aumentare il malessere e la rabbia, che alimentano gruppi e idee estremiste. Secondo gli autori un allentamento del blocco in ultima istanza ridurrà il sostegno ad Hamas.

Inoltre scrivono: “Il blocco di Gaza potrebbe non essere solo una punizione per Hamas, ma anche un modo per rafforzare il suo controllo su Gaza. E’ più facile controllare un territorio chiuso che uno aperto, dove le persone possono entrare ed uscire.”

La valle del Giordano non è separata dal resto della Cisgiordania, ma, in base al secondo studio, per 50 anni, e soprattutto negli ultimi 20 anni, Israele ha vietato ai palestinesi l’accesso, la costruzione e lo sviluppo in circa il 75% dell’area, con diversi pretesti: zone di esercitazione militare, riserve naturali, zone di sicurezza, terreni dello Stato. Circa il 90% della terra nella Valle del Giordano rientra sotto l’autorità di 24 colonie. Circa l’80% del territorio è in Area C, sotto l’esclusivo controllo israeliano.

Dei 160.000 dunams (16.000 ha., ndt.) nella Valle del Giordano, i palestinesi ne coltivano solo 42.000 (4.200, ndt). I coloni coltivano tra i 30.000 (3.000 ha, ndt) e i 50.000 dunams (5.000 ha, ndt), ed il resto è vietato ai palestinesi. Riguardo all’accesso all’acqua, questo dato da solo illustra adeguatamente la situazione: la quantità media di acqua usata da un colono è quasi 10 volte maggiore della quantità usata da un palestinese.

Ecco il risultato, secondo lo studio: “Questo sottosviluppo si manifesta in sviluppo rurale limitato e scarsa crescita economica, che produce un aumento della povertà, inadeguate condizioni sanitarie ed igieniche, deterioramento materiale ed ambientale. E’ la conseguenza di tante difficoltà ed ostacoli, compresa l’iniqua distribuzione delle risorse idriche, la distruzione di vitali infrastrutture idriche, mancanza di fognature e notevoli perdite di acqua.”

C’è un altro dato molto eloquente: l’aspettativa media di vita per i palestinesi nella Valle del Giordano è di 65 anni, a fronte di 71.8 nell’intera Cisgiordania.

Gli autori affrontano la questione della sicurezza e le restrizioni di movimento ad essa dovute. Affermano che la sicurezza si ottiene non solo con strumenti militari, ma riducendo la motivazione della parte avversa a lottare contro di te. La situazione di povertà crescente e di qualità della vita in continuo peggioramento crea un focolaio di rabbia e disperazione che potrebbe portare, prima o poi, ad ulteriori cicli di violenza.

Gli autori non trattano della mancanza di sicurezza per i palestinesi, che sono spesso attaccati da esercito e polizia, o dai coloni.

Infatti, proprio in questi giorni, gli abitanti di nuovi avamposti non autorizzati eppure prosperi nel nord della Valle del Giordano stanno facendo uso di intimidazioni e violenze per scacciare pastori e contadini palestinesi da un’ampia zona di territorio. Perciò gli autori farebbero bene ad aggiungere una raccomandazione: adottare metodi per sventare attacchi dei coloni, che probabilmente aumenteranno se le persone responsabili consentiranno ai palestinesi maggiore accesso alle loro terre.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Un sondaggio: la maggioranza degli israeliani ebrei è contraria alla fine di 50 anni di occupazione militare

28 marzo, 2017 Maannews

Betlemme (Ma’an) È stato reso noto un nuovo sondaggio del Jerusalem Center for Public Affairs[centro di ricerche indipendente israeliano con sede a Gerusalemme, ndt.] che rivela che la maggioranza degli israeliani si oppone a qualunque forma di ritiro israeliano dalla Cisgiordania occupata, mentre il 79% degli israeliani ritiene che sia importante mantenere Gerusalemme unita sotto il controllo di Israele, in contrasto con il diritto internazionale e con gli annosi negoziati internazionali di pace.

Il sondaggio, condotto su un campione di 521 israeliani ebrei di età superiore ai 18 anni, viene considerato rappresentativo dell’opinione degli adulti israeliani ebrei sul pluridecennale conflitto israelo-palestinese.

In base ai risultati del sondaggio, l’adesione degli israeliani ad un ritiro militare dalla Cisgiordania sotto occupazione israeliana, ora al suo cinquantennale, è gradualmente diminuita negli ultimi 12 anni, con una percentuale di quelli che sostengono il ritiro come parte di un accordo di pace che è passata dal 60% nel 2005 ad appena il 36% nel 2017.

Riguardo al completo ritiro da tutto il territorio della Cisgiordania occupata, il 77% degli israeliani si oppone a una simile decisione. Nel contempo, sempre in riferimento al ritiro dai territori, ma escludendo i grandi blocchi di colonie israeliane costruite sul territorio palestinese in violazione al diritto internazionale, la maggioranza degli israeliani (il 57 %) è ancora contraria.

Tuttavia, qualora venissero annessi ad Israele i blocchi delle colonie illegali e il futuro Stato palestinese rimanesse demilitarizzato, l’opposizione al ritiro israeliano dai territori palestinesi scenderebbe leggermente (44%).

Per quanto riguarda la valle del Giordano, un’area della massima importanza per il territorio palestinese e per qualunque futuro Stato palestinese, uno schiacciante 81% di israeliani afferma che sarebbe importante che il governo israeliano continuasse ad esercitare la sua sovranità su quel territorio.

Il sondaggio rivela anche che gli israeliani hanno un’aspettativa a lungo termine e consistente nella conservazione del pieno controllo della sicurezza sulla Cisgiordania occupata: il 76% degli intervistati dal sondaggio condivide il fatto che le autorità israeliane continuino a mantenere il controllodella Cisgiordania in base a varie considerazioni riguardo alla sicurezza.

Mentre il 79% degli israeliani ritiene che sia importante mantenere Gerusalemme unita sotto il controllo di Israele, il 52% si oppone a qualsiasi divisione tra “settori ebraici e arabi”. Alla domanda sullo status di Gerusalemme Est occupata e della sua possibile inclusione nello Stato di Palestina come capitale, l’opposizione alla divisione di Gerusalemme sale al 59%.

La grande maggioranza degli israeliani (l’83%) è contraria al trasferimento ai palestinesi della moschea di Al-Aqsa – nota tra gli ebrei come il Monte del Tempio.

Il destino di Gerusalemme è stato per decenni un punto nodale del conflitto israelo-palestinese, con numerose tensioni conseguenti alle minacce israeliane riguardo alla status dei siti religiosi non ebraici nella città e alla “giudeizzazione” di Gerusalemme Est mediante la costruzione di colonie e di massicce demolizioni di case.

In un contesto di violenza quotidiana dell’esercito israeliano e con l’escalation delle colonie illegali israeliane nei territori palestinesi, i palestinesi sono rimasti delusi dai tentativi di risolvere il conflitto che continua da decenni, avendo perso in molti la speranza in qualunque soluzione politica.

Il governo israeliano ha anche approvato rapidamente leggi che secondo l’opinione di molti critici sono specificatamente volte a un’annessione graduale della Cisgiordania occupata.

Lo scorso mese la Knesset ha approvato la legge di regolarizzazione degli avamposti, che stabilisce che qualunque colonia costruita in Cisgiordania “in buona fede” – senza sapere che la terra su cui è stata costruita è proprietà privata palestinese, possa essere ufficialmente riconosciuta da Israele in attesa di prove risibili per il sostegno del governo al suo insediamento e di qualche forma di compensazione ai proprietari palestinesi.

Nel frattempo, deputati israeliani di destra della Knesset hanno anche proposto un disegno di legge per l’annessione della grande colonia di Maale Adumim. Maale Adumim è la terza più grande colonia per numero di abitanti, comprendente un grande striscia di terra che s’insinua profondamente nel distretto di Gerusalemme della Cisgiordania occupata. Molti israeliani la considerano un sobborgo israeliano di Gerusalemme, nonostante sia situata sul territorio occupato palestinese in violazione del diritto internazionale.

Mentre gli esponenti della comunità internazionale hanno riposto la soluzione del conflitto israelo-palestinese sulla interruzione delle colonie illegali israeliane, al contrario i dirigenti israeliani hanno chiesto a gran voce un aumento delle costruzioni delle colonie nella Cisgiordania occupata e alcuni hanno sostenuto la loro completa annessione.

Numerosi attivisti palestinesi hanno criticato la soluzione a due Stati come insostenibile e improbabile per raggiungere una pace duratura, proponendo invece uno Stato binazionale con uguali diritti per israeliani e palestinesi.

(traduzione di Carlo Tagliacozzo)