Rapporto OCHA 4-18 aprile 2017 (due settimane)

Un soldato israeliano e una donna britannica sono stati uccisi in due distinte aggressioni attuate da palestinesi.

Il 6 aprile, un palestinese di 22 anni ha guidato la sua auto contro soldati israeliani che stazionavano alla fermata del bus presso l’insediamento colonico di Ofra (Ramallah): un soldato è rimasto ucciso ed un secondo ferito. L’autore dell’aggressione è stato arrestato dalle forze israeliane. Questi episodi portano a cinque, dall’inizio del 2017, il numero di israeliani (tutti soldati) uccisi da palestinesi. Sempre il 14 aprile, vicino alla città vecchia di Gerusalemme, un palestinese di 57 anni, a quanto riferito affetto da problemi psichiatrici, ha accoltellato e ucciso una studentessa britannica di 21 anni che viaggiava sulla metropolitana. L’uomo è stato arrestato.

Il 10 aprile, un ragazzo palestinese di 17 anni è morto per le ferite riportate il 23 marzo presso il Campo profughi di Al Jalazun (Ramallah), dove fu colpito dal fuoco delle forze israeliane, aperto a seguito del lancio di bottiglie incendiarie contro l’insediamento colonico di Beit El. In quello stesso contesto un minore palestinese fu ucciso e altri due palestinesi furono feriti.

In Cisgiordania, in diversi scontri, le forze israeliane hanno ferito complessivamente 46 palestinesi, di cui undici minori. La maggior parte dei ferimenti sono avvenuti in Kafr Qaddum (Qalqiliya) durante le manifestazioni settimanali contro il divieto, per i residenti, di utilizzare la strada principale che collega il villaggio alla città di Nablus; il divieto è dovuto al fatto che la strada attraversa l’insediamento colonico di Qedumim. Sono stati segnalati altri scontri avvenuti nel corso di cinque operazioni di ricerca-arresto e del funerale del ragazzo ferito nel Campo profughi di Al Jalazun e successivamente deceduto [vedi sopra].

Il 17 aprile, l’unica Centrale elettrica di Gaza, avendo esaurito le riserve di carburante, è stata costretta al fermo completo. Questo è avvenuto nel contesto di una controversia in corso tra le autorità palestinesi di Gaza e le autorità di Ramallah sulle questioni relative ai pagamenti e alla tassazione dei carburanti. Il fermo della Centrale elettrica ha aumentato, fino a 20 ore al giorno, le sospensioni giornaliere di energia elettrica in tutta la Striscia di Gaza. Ciò pregiudica ulteriormente la fornitura dei servizi di base, inclusa l’attività delle strutture sanitarie; infatti è ridotto al minimo il livello delle dotazioni di combustibile di emergenza, necessario a gestire i generatori di riserva.

Sempre nella Striscia di Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 26 casi le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento; non è stato segnalato alcun ferito, ma è stato riferito che il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto. In quattro occasioni le forze israeliane sono penetrate all’interno della Striscia ed hanno svolto operazioni di spianatura e scavo a ridosso della recinzione perimetrale. Inoltre, sei civili palestinesi sono stati arrestati dalle forze israeliane e altri tre dalla polizia locale di Gaza; presumibilmente mentre tentavano di entrare illegalmente in Israele.

In Cisgiordania, a causa della mancanza di permessi di costruzione (per i palestinesi quasi impossibili da ottenere), le autorità israeliane hanno demolito 20 strutture di proprietà palestinese. Dodici di queste strutture erano in Gerusalemme Est, le altre otto in due comunità dell’area C (Rantis e Furush Beit Dajan). Nel complesso, 56 palestinesi sono stati sfollati e altri 33 hanno subìto danni.

Due palestinesi sono stati feriti e oltre 200 alberi sono stati vandalizzati nel corso di diversi episodi che coinvolgono coloni israeliani. Nella città di Hebron, nella zona H2, controllata da Israele, una ragazza palestinese di 14 anni è stata fisicamente aggredita e ferita da coloni mentre si recava a scuola. Vicino a Salfit, una donna palestinese è stata ferita dalle pietre lanciate da coloni israeliani contro il suo veicolo. Gli agricoltori del villaggio Mikhmas (Gerusalemme) hanno riferito che 215 dei loro ulivi sono stati sradicati; essi attribuiscono l’azione vandalica a coloni israeliani del confinante insediamento avamposto di Migron.

Durante il periodo di riferimento, in varie circostanze, in concomitanza con le celebrazioni della Pasqua, coloni israeliani e altri gruppi israeliani sono entrati in vari luoghi religiosi provocando alterchi e scontri con palestinesi, senza tuttavia causare feriti. I siti interessati includevano il Complesso Al Haram Ash Sharif / Monte del Tempio a Gerusalemme Est, un santuario nel villaggio Kifl Haris (Salfit) e la Tomba di Giuseppe nella città di Nablus.

Secondo i mezzi di informazione israeliani, diversi episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie, ad opera di palestinesi contro veicoli israeliani, hanno causato il ferimento di tre coloni israeliani e danni ad almeno dieci veicoli. Sulla Strada n°1, vicino a Gerico, un altro veicolo israeliano ha subito danni da arma da fuoco.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, durante le due settimane di riferimento è rimasto chiuso in entrambe le direzioni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah. Nel 2017 il valico di Rafah è stato aperto eccezionalmente solo per 12 giorni [a tutt’oggi].

¡

Ultimi sviluppi

Secondo quanto riportato da mezzi di informazione israeliani, il 19 aprile, al raccordo stradale Gush Etzion (Hebron), un palestinese ha guidato il suo veicolo contro un colono israeliano, ferendolo. L’investitore è stato colpito con arma da fuoco e ucciso dalle forze israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

þ




In migliaia manifestano a Gaza mentre continuano le proteste contro i tagli ai salari da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese

9 aprile 2017 Middle East Monitor

I lavoratori del pubblico impiego di Gaza [pagati] dall’ANP hanno ricevuto il loro stipendio di marzo decurtato del 30%, fatto che ha provocato proteste

Migliaia di dipendenti dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno manifestato sabato a Gaza City sull’onda di continue proteste contro la decisione dell’ANP di imporre drastici tagli agli stipendi dei suoi lavoratori di Gaza. I manifestanti si sono radunati nella piazza al-Saraya, hanno urlato slogan contro il provvedimento e hanno chiesto le dimissioni dei dirigenti del governo palestinese, in particolare del primo ministro Rami Hamdallah e di quello delle finanze Shukri Bushara

Dimettiti, dimettiti, Hamdallah! Dimettiti, dimettiti, Bishara!

Alcuni manifestanti hanno giudicato la decisione di ridurre i loro stipendi come “una discriminazione contro Gaza” e hanno respinto “le scuse e le giustificazioni false e futili” addotte dal governo riguardo al provvedimento.

L’ANP ha affermato che i tagli sono un tentativo di affrontare una profonda crisi finanziaria, che secondo loro è stata aggravata da Hamas – l’autorità de facto della Striscia di Gaza – che avrebbe continuato a riscuotere le entrate governative senza inviarle lle casse dell’ANP.

Tuttavia quanti criticano il provvedimento hanno ribattuto che se la decisione fosse stata semplicemente una risposta alla crisi finanziaria, allora i tagli avrebbero dovuto riguardare tutti i dipendenti del pubblico impiego dell’ANP – compresi quelli nella Cisgiordania occupata – e hanno inoltre espresso la preoccupazione che i tagli avrebbero solo isolato ulteriormente i gazawi dal resto del territorio palestinese.

I dipendenti presenti alla manifestazione hanno chiesto al presidente Mahmoud Abbas di formare un governo di unità nazionale e di considerare Gaza e i suoi abitanti come sua assoluta priorità.

Nel frattempo Abu Eita, e vice-segretario generale del consiglio rivoluzionario di Fatah a Gaza , ha affermato in un comunicato che migliaia di dipendenti e sostenitori di Fatah si sono radunati nella piazza e hanno chiesto che Abbas “intervenga immediatamente e assicuri giustizia ai dipendenti di Gaza, esattamente come al resto dei dipendenti del governo dell’ANP”.

Abu Eita also added that the people blamed Hamdallah for the salary cuts, which he said would “take food from their children.”

“Questa folla a Gaza è venuta per confermare il proprio totale sostegno al presidente Abbas e a chiedergli di cancellare l’ingiusta decisione”

Abu Eita ha anche aggiunto che il popolo ha criticato Hamdallah per avere tagliato i salari, che, ha detto, avrebbe “ tolto il cibo di bocca ai loro bambini”

Il capo del sindacato dei giornalisti della Striscia di Gaza Tahson al Astal ha dichiarato all’agenzia Ma’an News che indignazione della gente evidenzia la natura “dittatoriale” della decisione di decurtare i salari, che, a suo parere, colpirà decine di famiglie nella poverissima enclave,dove si riscontra il più alto tasso di disoccupazione, aggiungendo quanto segue:

“Questo è un altro assedio che si aggiunge a quello già imposto dall’occupazione israeliana”.

Mercoledì i dipendenti pubblici dell’ANP hanno ricevuto il salario con una decurtazione di almeno il 30%, provocando proteste tra i dipendenti già in agitazione. Il primo ministro Hamdallah ha evidenziato che i tagli sono stati fatti solamente sulle indennità mensili senza alcuna decurtazione del salario base. Chi è critico ha fatto notare che dopo la presa del potere da parte di Hamas nella Striscia di Gaza, l’ANP diretta da Fatah ha incoraggiato i suoi dipendenti residenti a Gaza a non continuare a lavorare per protesta contro il nuovo governo guidato da Hamas.

Di conseguenza circa 50 mila dipendenti che hanno deciso di continuare a lavorare sotto Hamas hanno affrontato pagamenti irregolari e parziali da parte dell’ANP e qualche volta non hanno ricevuto niente. Nel frattempo, decine di migliaia di lavoratori che hanno rifiutato di lavorare con Hamas, hanno continuato a percepire il pagamento di un regolare salario dall’ANP. Secondo quanto riferito, i nuovi tagli salariali hanno colpito tutti i dipendenti pubblici dell’ANP a Gaza.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA 21 marzo – 3 aprile 2017 ( due settimane)

Tre aggressioni con coltello hanno provocato l’uccisione di due palestinesi e il ferimento di quattro israeliani.

Il 29 marzo, nella Città Vecchia di Gerusalemme è stata colpita con arma da fuoco ed uccisa una donna palestinese di 49 anni che avrebbe tentato di accoltellare un poliziotto israeliano di frontiera: non sono stati segnalati feriti israeliani e sull’episodio le autorità israeliane hanno avviato un’indagine. Sempre nella Città Vecchia, il 1° aprile, un 17enne palestinese ha accoltellato e ferito un poliziotto israeliano e due giovani israeliani ed è stato successivamente colpito ed ucciso. Secondo fonti israeliane, il 27 marzo, nella città israeliana di Lod, un giovane palestinese della città di Halhul (Hebron) ha accoltellato e ferito una donna israeliana ed è stato successivamente arrestato. Questi episodi portano a 12, dall’inizio del 2017, il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane nel corso di attacchi e presunti attacchi.

Altri due ragazzi palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane in due distinti episodi verificatisi vicino a Ramallah e ad est di Rafah (Gaza). Il primo si è verificato il 17 marzo, nei pressi di una torre di guardia militare vicina al Campo profughi di Al Jalazun; le forze israeliane hanno colpito con arma da fuoco ed ucciso un 17enne palestinese e ferito altri tre ragazzi: secondo fonti militari israeliane, la sparatoria ha avuto luogo in risposta al lancio di bottiglie incendiarie contro l’insediamento colonico di Beit El, nel quale non erano stati segnalati danni né feriti. Nel secondo caso, il 21 marzo, le forze israeliane hanno sparato proiettili di carro armato in direzione di uno spazio aperto ad est della città di Rafah, a circa 300 metri dalla recinzione perimetrale: un civile palestinese di 16 anni è stato ucciso ed un secondo è stato ferito; le circostanze dell’episodio non sono ancora chiare.

In Cisgiordania, in numerosi scontri le forze israeliane hanno ferito complessivamente 124 palestinesi, 14 dei quali minori, con un incremento significativo rispetto ai dati registrati dall’inizio del 2017. La maggior parte dei ferimenti si sono avuti durante scontri contestuali alle manifestazioni che commemoravano il 41° anniversario della “Giornata della Terra” che, per i cittadini palestinesi di Israele, rievoca un esproprio di massa di terra palestinese. Altri scontri sono stati segnalati nel corso di molteplici operazioni di ricerca-arresto; al funerale del ragazzo ucciso nel Campo profughi di Al Jalazun [vedi sopra] e durante scontri in varie località dei governatorati di Gerusalemme e Ramallah. A quanto riferito, quattro soldati israeliani sono stati feriti da pietre.

Dopo l’uccisione di un membro di Hamas avvenuta ad opera di ignoti il 24 marzo a Gaza City, le autorità palestinesi de facto di Gaza hanno imposto severe restrizioni di accesso, adducendo motivi di sicurezza. Le uscite attraverso il checkpoint ‘Arba-‘Arba – che controlla l’accesso al valico di Erez tra Gaza e Israele – è stato particolarmente colpito; in tal modo si è ridotto ulteriormente il numero di persone, già esiguo a causa di preesistenti restrizioni imposte da Israele, alle quali è consentita l’uscita. A partire dal 4 aprile, più di 100 pazienti che avevano prenotazioni per cure mediche da effettuare fuori Gaza hanno perso i loro appuntamenti e le relative prestazioni sanitarie e dovranno richiedere nuovamente un permesso di uscita, senza alcuna garanzia di accoglimento e con il possibile rischio di un peggioramento delle loro condizioni di salute. Alla maggior parte del personale delle Organizzazioni umanitarie è stata vietata l’uscita da Gaza attraverso Erez; tuttavia, dal 1° aprile, è stato consentito l’attraversamento al personale internazionale impiegato presso le Nazioni Unite e l’ICRC [Comitato Internazionale della Croce Rossa].

Nello stesso contesto, dal 26 marzo, le autorità de facto impediscono l’accesso dei pescatori palestinesi al mare lungo la costa di Gaza. Il Sindacato dei Pescatori di Gaza ha stimato perdite di due o tre tonnellate di pesce al giorno, con conseguenti aumenti di prezzo del pesce importato. Queste restrizioni, giunte all’inizio della stagione della pesca delle sardine, compromettono ulteriormente i proventi della pesca, già precari per le restrizioni di accesso imposte da lunga data da Israele.

Prima dell’imposizione delle restrizioni da parte delle Autorità de facto, il valico di Erez sotto controllo israeliano era normalmente operativo, mentre il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, era chiuso. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

Sempre nella Striscia di Gaza, oltre all’episodio avvenuto ad est di Rafah [vedi sopra], nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 28 occasioni le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento o diretto, interrompendo il lavoro di agricoltori e pescatori. In due occasioni, le forze israeliane sono penetrate all’interno della Striscia ed hanno svolto operazioni di spianatura e scavo nei pressi della recinzione perimetrale ed hanno arrestato un civile palestinese che, presumibilmente, aveva tentato di entrare illegalmente in Israele.

In Cisgiordania, a causa della mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 17 strutture di proprietà palestinese, sfollando 22 palestinesi e colpendo i mezzi di sostentamento di oltre 90 persone. Cinque di queste strutture si trovavano a Gerusalemme Est e le restanti in cinque comunità dell’Area C. Inoltre, nella zona di Jabal al Mukabber di Gerusalemme Est, è stata sigillata punitivamente la casa di famiglia dell’aggressore che, nel mese di gennaio 2017, uccise quattro soldati israeliani: una donna ed i suoi quattro figli sono stati sfollati.

Nel governatorato di Nablus, per la creazione di un nuovo insediamento israeliano e la “legalizzazione” retroattiva di tre avamposti già esistenti, le autorità israeliane hanno dichiarato “terra di stato” vari appezzamenti di terreno non contigui, per un totale di quasi 100 ettari. Questa decisione può avere un impatto sull’accesso alla terra da parte degli agricoltori di quattro villaggi adiacenti (Sinjil, Qaryut, As Sawiya e Al Lubban Ash Sharqiya), compromettendo ulteriormente la loro capacità di sostentamento con il lavoro agricolo. Secondo la decisione del Governo israeliano, il nuovo insediamento servirà alla rilocalizzazione dei coloni recentemente evacuati dall’insediamento avamposto di Amona; la decisione prevede anche limitazioni alla futura espansione dell’insediamento.

In quattro distinti episodi, coloni israeliani armati hanno attaccato o minacciato contadini palestinesi, costringendoli ad uscire dai loro terreni posti in prossimità di insediamenti colonici. In uno di questi episodi, verificatosi vicino al villaggio di Beit Furik (Nablus), un contadino palestinese è stato aggredito fisicamente e ferito. Gli altri tre episodi comprendono minacce e intimidazioni nei confronti di agricoltori palestinesi che, a Nablus e Qalqiliya, possono accedere alla propria terra previo coordinamento ed autorizzazione delle autorità israeliane. Questo meccanismo ha lo scopo di garantire agli agricoltori, due volte l’anno, durante la stagione dell’aratura e durante il raccolto, l’accesso sicuro a zone soggette alla violenza dei coloni. Inoltre, tre veicoli palestinesi sono stati danneggiati da lanci di pietre da parte di coloni.

Secondo i media israeliani, quattro coloni israeliani, tra cui una donna, sono stati feriti e diversi veicoli sono stati danneggiati in almeno 13 episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: vicino a Gerusalemme, Ramallah, Hebron e Betlemme.

¡

Ultimi sviluppi (dal 6 aprile)

Mezzi di informazione riferiscono che le autorità de facto della Striscia di Gaza hanno giustiziato tre uomini palestinesi accusati di “collaborazione con Israele”.

Il Ministero degli Interni della Striscia di Gaza ha annunciato la revoca di tutte le restrizioni di accesso in vigore dal 26 marzo.

Mezzi di informazione riferiscono che un uomo palestinese ha guidato il suo veicolo contro una fermata del bus nei pressi dell’insediamento di Ofra (Ramallah), casando la morte di un soldato israeliano ed il ferimento di un altro; l’uomo è stato arrestato.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

þ




Esperti israeliani e palestinesi redigono una ‘road map’ per salvare l’economia palestinese

Amira Hass, 25 marzo 2017, Haaretz

Circa 2 milioni di palestinesi sono ammassati nei 365 chilometri quadrati della Striscia di Gaza. Nella Valle del Giordano, che conta 1.600 chilometri quadrati, ci sono 65.000 palestinesi (e altri circa 10.000 coloni israeliani). Teoricamente gli accordi di Oslo avrebbero dovuto consentire a molti abitanti di Gaza di spostarsi nella Valle del Giordano – per lavorare nelle infrastrutture e in agricoltura (anche se solo per attività stagionali), nell’edilizia, nel turismo e nell’industria.

Ma in realtà queste due aree palestinesi “contribuiscono” al deterioramento dell’economia palestinese nel suo complesso. In entrambe, la principale ragione del declino sta nelle draconiane restrizioni alla libertà di movimento, di accesso alle risorse e alle possibilità di commercio, costruzione, agricoltura e sviluppo imposte da Israele.

Queste affermazioni non sono affatto nuove, già la scorsa settimana un gruppo di 11 economisti palestinesi ed israeliani ha pubblicato due studi a questo riguardo. Gli studiosi delineano un piano per espandere l’attività economica palestinese nella Valle del Giordano e salvare l’economia di Gaza (prima del 2020, data entro la quale, se nulla cambia, questa enclave isolata sarà inabitabile, come hanno avvertito due anni fa le Nazioni Unite).

Per ragioni di cortesia, e forse perché gli studi sono stati elaborati in collaborazione con la Banca Mondiale, gli autori si occupano di sincere affermazioni di politici israeliani circa il desiderio di vedere un miglioramento nell’economia palestinese. In effetti, i due autori – Saeb Bamya e il professor Arie Arnon che, insieme al dottor Shanta Devarajan, capo economista al MENA (Medio Oriente e Nord Africa, ndtr.) della Banca Mondiale, hanno presentato i documenti mercoledì all’Istituto Truman di Gerusalemme – sono perfettamente coscienti che l’attuale situazione non è solamente il risultato di una casuale serie di errori umani.

Ma è stato il moderatore di una tavola rotonda, l’ex ambasciatore di Israele in Sudafrica Ilan Baruch, a non moderare i termini. “Vi è stata una deliberata politica israeliana tesa a creare deficit”, ha detto. “La comunità internazionale deve essere coinvolta – non come donatore, ma per esercitare pressioni [su Israele].”

Il giorno prima, gli studi sono stati presentati per la prima volta negli uffici della Banca Mondiale nel quartiere Dahiyat al-Barid di Gerusalemme, all’ombra del muro di separazione. Alcuni relatori hanno detto ai funzionari presenti: sono state elargite grosse somme di denaro per determinare un cambiamento, non per perpetuare lo status quo. Ma sembra che il denaro dei contribuenti dei vostri Paesi in realtà rafforzi la situazione di deterioramento. E questo deve cambiare.

A coloro che sono arrivati a pensare al blocco di Gaza come a un dato di fatto e che sono abituati a pensare che la Valle del Giordano appartenga ad Israele, le misure di semplice ricostruzione proposte dagli economisti sembreranno surreali. Permettere il regolare movimento di persone e camion direttamente tra Gaza e la Cisgiordania? Riaprire l’aeroporto di Gaza? Fornire acqua e maggiore elettricità alla Striscia? Ricostruire la flotta di pescatori e costruire un porto? Permettere ai palestinesi di coltivare altri 40.000 dunams ( 24,7 km²) nella Valle del Giordano? Lasciare che vi creino e sviluppino il turismo?

Un approccio differente da Oslo

Sembra inconcepibile. Ma secondo Arnon le raccomandazioni degli studi sono in realtà molto vicine all’approccio prospettato da alti dirigenti militari e della sicurezza israeliani, che comprendono i rischi per la sicurezza contenuti in un’economia palestinese in difficoltà. Quindi queste raccomandazioni sono un ulteriore tentativo di trovare persone responsabili in Israele che possano fare dei passi per scongiurare le disastrose previsioni.

Il Gruppo di Aix, che prende il nome dall’università francese in cui fu fondato nel 2002 (Università Paul Cézanne Aix-Marseille III), è stato creato per delineare scenari socioeconomici per la fase di status finale dei due Stati. Questo approccio è l’opposto di quello degli Accordi di Oslo, in cui sono state indicate in modo molto dettagliato fasi intermedie come percorso per realizzare un’ipotesi che non era definita.

Perciò, per il Gruppo di Aix, i due studi sono un nuovo lavoro che propone passi concreti per salvare e rivitalizzare l’economia a breve e medio termine, indipendentemente dalla situazione dei negoziati sullo status finale e con la consapevolezza della scarsa probabilità che tali colloqui possano ricominciare presto.

Ogni studio utilizza cifre e grafici per illustrare le tendenze economiche. Per esempio, nei 20 anni trascorsi dalla creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese nel 1994, il prodotto interno lordo pro capite a Gaza è stato in media di 1.200 dollari (calcolati a prezzi del 2004). Negli anni migliori, 1998 e 1999, è stato di 1.450 dollari. Il livello più basso è stato nel 2007 e 2008 con solo 900 dollari. Per fare un confronto, a quel tempo il dato è stato di 4.200 dollari in Giordania e di 20.000 dollari in Israele.

Il PIL per lavoratore illustra ulteriormente il peggioramento – da 24.000 dollari nel 2005 a 10.000 dollari oggi. Questo è anche il modo per calcolare la produttività nell’economia.

Secondo gli autori, che citano uno studio della Banca di Israele che ha rilevato che dal 2006 al 2009 l’occupazione nel settore manifatturiero è crollata del 33%, rispetto ad un aumento del 24% nel settore dei servizi, questo drastico peggioramento è dovuto soprattutto al blocco di Gaza. Intanto nel 2015 la disoccupazione giovanile a Gaza è arrivata al 57.6%; il tasso complessivo di disoccupazione è stato del 41%.

Un altro modo per osservare il deterioramento è considerare il valore delle importazioni pro capite. Nel 1997 questo dato era di 800 dollari a Gaza e 1.000 dollari in Cisgiordania. Nel 2015 era di 400 dollari a Gaza e 1.400 in Cisgiordania.

E le esportazioni pro capite? Queste sono sempre state basse. Ma anche questo valore ridotto è diminuito. Nel 2000 le esportazioni erano il 10% del PIL, con 15.255 camion che uscivano da Gaza. Questo dato è sceso al 6.8% nel 2005 (9.319 camion) e a 0 tra il 2008 e il 2010. E’ stato registrato un lieve incremento nel 2015 e 2016, con 1.400 camion in uscita da Gaza ogni anno (grazie all’Olanda, che ha fatto pressioni perché si permettesse a Gaza di esportare all’estero alcune delle sue produzioni agricole).

Scarso sostegno a Gaza da parte dell’ANP

Il blocco israeliano impedisce all’economia di Gaza di beneficiare del movimento di merci e di persone. I costi crescenti abbassano la produttività e scoraggiano gli investitori, oltre alle fatiscenti infrastrutture di Gaza. Gli investitori sono spaventati anche dai rischi militari e politici, sostengono gli autori, che non ignorano un fattore interno: i due distinti governi palestinesi e la rivalità tra Hamas e l’ANP.

Gli autori respingono la ricorrente affermazione dell’ANP che il 40% del suo budget viene investito a Gaza. In base ai loro calcoli, solo il 15% del budget non coperto da entrate doganali e da imposte sul valore aggiunto viene trasferito alla Striscia. Non è un grande aiuto, dicono gli autori, aggiungendo che generalmente le zone ricche sovvenzionano quelle più povere.

Quanto alla paura di Israele del rischio per la sicurezza che comporterebbe allentare il blocco, le argomentazioni degli autori poggiano su una logica elementare: il blocco draconiano non ha impedito ad Hamas di armarsi e non ha impedito i conflitti. La situazione socioeconomica in peggioramento non fa che aumentare il malessere e la rabbia, che alimentano gruppi e idee estremiste. Secondo gli autori un allentamento del blocco in ultima istanza ridurrà il sostegno ad Hamas.

Inoltre scrivono: “Il blocco di Gaza potrebbe non essere solo una punizione per Hamas, ma anche un modo per rafforzare il suo controllo su Gaza. E’ più facile controllare un territorio chiuso che uno aperto, dove le persone possono entrare ed uscire.”

La valle del Giordano non è separata dal resto della Cisgiordania, ma, in base al secondo studio, per 50 anni, e soprattutto negli ultimi 20 anni, Israele ha vietato ai palestinesi l’accesso, la costruzione e lo sviluppo in circa il 75% dell’area, con diversi pretesti: zone di esercitazione militare, riserve naturali, zone di sicurezza, terreni dello Stato. Circa il 90% della terra nella Valle del Giordano rientra sotto l’autorità di 24 colonie. Circa l’80% del territorio è in Area C, sotto l’esclusivo controllo israeliano.

Dei 160.000 dunams (16.000 ha., ndt.) nella Valle del Giordano, i palestinesi ne coltivano solo 42.000 (4.200, ndt). I coloni coltivano tra i 30.000 (3.000 ha, ndt) e i 50.000 dunams (5.000 ha, ndt), ed il resto è vietato ai palestinesi. Riguardo all’accesso all’acqua, questo dato da solo illustra adeguatamente la situazione: la quantità media di acqua usata da un colono è quasi 10 volte maggiore della quantità usata da un palestinese.

Ecco il risultato, secondo lo studio: “Questo sottosviluppo si manifesta in sviluppo rurale limitato e scarsa crescita economica, che produce un aumento della povertà, inadeguate condizioni sanitarie ed igieniche, deterioramento materiale ed ambientale. E’ la conseguenza di tante difficoltà ed ostacoli, compresa l’iniqua distribuzione delle risorse idriche, la distruzione di vitali infrastrutture idriche, mancanza di fognature e notevoli perdite di acqua.”

C’è un altro dato molto eloquente: l’aspettativa media di vita per i palestinesi nella Valle del Giordano è di 65 anni, a fronte di 71.8 nell’intera Cisgiordania.

Gli autori affrontano la questione della sicurezza e le restrizioni di movimento ad essa dovute. Affermano che la sicurezza si ottiene non solo con strumenti militari, ma riducendo la motivazione della parte avversa a lottare contro di te. La situazione di povertà crescente e di qualità della vita in continuo peggioramento crea un focolaio di rabbia e disperazione che potrebbe portare, prima o poi, ad ulteriori cicli di violenza.

Gli autori non trattano della mancanza di sicurezza per i palestinesi, che sono spesso attaccati da esercito e polizia, o dai coloni.

Infatti, proprio in questi giorni, gli abitanti di nuovi avamposti non autorizzati eppure prosperi nel nord della Valle del Giordano stanno facendo uso di intimidazioni e violenze per scacciare pastori e contadini palestinesi da un’ampia zona di territorio. Perciò gli autori farebbero bene ad aggiungere una raccomandazione: adottare metodi per sventare attacchi dei coloni, che probabilmente aumenteranno se le persone responsabili consentiranno ai palestinesi maggiore accesso alle loro terre.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Un sondaggio: la maggioranza degli israeliani ebrei è contraria alla fine di 50 anni di occupazione militare

28 marzo, 2017 Maannews

Betlemme (Ma’an) È stato reso noto un nuovo sondaggio del Jerusalem Center for Public Affairs[centro di ricerche indipendente israeliano con sede a Gerusalemme, ndt.] che rivela che la maggioranza degli israeliani si oppone a qualunque forma di ritiro israeliano dalla Cisgiordania occupata, mentre il 79% degli israeliani ritiene che sia importante mantenere Gerusalemme unita sotto il controllo di Israele, in contrasto con il diritto internazionale e con gli annosi negoziati internazionali di pace.

Il sondaggio, condotto su un campione di 521 israeliani ebrei di età superiore ai 18 anni, viene considerato rappresentativo dell’opinione degli adulti israeliani ebrei sul pluridecennale conflitto israelo-palestinese.

In base ai risultati del sondaggio, l’adesione degli israeliani ad un ritiro militare dalla Cisgiordania sotto occupazione israeliana, ora al suo cinquantennale, è gradualmente diminuita negli ultimi 12 anni, con una percentuale di quelli che sostengono il ritiro come parte di un accordo di pace che è passata dal 60% nel 2005 ad appena il 36% nel 2017.

Riguardo al completo ritiro da tutto il territorio della Cisgiordania occupata, il 77% degli israeliani si oppone a una simile decisione. Nel contempo, sempre in riferimento al ritiro dai territori, ma escludendo i grandi blocchi di colonie israeliane costruite sul territorio palestinese in violazione al diritto internazionale, la maggioranza degli israeliani (il 57 %) è ancora contraria.

Tuttavia, qualora venissero annessi ad Israele i blocchi delle colonie illegali e il futuro Stato palestinese rimanesse demilitarizzato, l’opposizione al ritiro israeliano dai territori palestinesi scenderebbe leggermente (44%).

Per quanto riguarda la valle del Giordano, un’area della massima importanza per il territorio palestinese e per qualunque futuro Stato palestinese, uno schiacciante 81% di israeliani afferma che sarebbe importante che il governo israeliano continuasse ad esercitare la sua sovranità su quel territorio.

Il sondaggio rivela anche che gli israeliani hanno un’aspettativa a lungo termine e consistente nella conservazione del pieno controllo della sicurezza sulla Cisgiordania occupata: il 76% degli intervistati dal sondaggio condivide il fatto che le autorità israeliane continuino a mantenere il controllodella Cisgiordania in base a varie considerazioni riguardo alla sicurezza.

Mentre il 79% degli israeliani ritiene che sia importante mantenere Gerusalemme unita sotto il controllo di Israele, il 52% si oppone a qualsiasi divisione tra “settori ebraici e arabi”. Alla domanda sullo status di Gerusalemme Est occupata e della sua possibile inclusione nello Stato di Palestina come capitale, l’opposizione alla divisione di Gerusalemme sale al 59%.

La grande maggioranza degli israeliani (l’83%) è contraria al trasferimento ai palestinesi della moschea di Al-Aqsa – nota tra gli ebrei come il Monte del Tempio.

Il destino di Gerusalemme è stato per decenni un punto nodale del conflitto israelo-palestinese, con numerose tensioni conseguenti alle minacce israeliane riguardo alla status dei siti religiosi non ebraici nella città e alla “giudeizzazione” di Gerusalemme Est mediante la costruzione di colonie e di massicce demolizioni di case.

In un contesto di violenza quotidiana dell’esercito israeliano e con l’escalation delle colonie illegali israeliane nei territori palestinesi, i palestinesi sono rimasti delusi dai tentativi di risolvere il conflitto che continua da decenni, avendo perso in molti la speranza in qualunque soluzione politica.

Il governo israeliano ha anche approvato rapidamente leggi che secondo l’opinione di molti critici sono specificatamente volte a un’annessione graduale della Cisgiordania occupata.

Lo scorso mese la Knesset ha approvato la legge di regolarizzazione degli avamposti, che stabilisce che qualunque colonia costruita in Cisgiordania “in buona fede” – senza sapere che la terra su cui è stata costruita è proprietà privata palestinese, possa essere ufficialmente riconosciuta da Israele in attesa di prove risibili per il sostegno del governo al suo insediamento e di qualche forma di compensazione ai proprietari palestinesi.

Nel frattempo, deputati israeliani di destra della Knesset hanno anche proposto un disegno di legge per l’annessione della grande colonia di Maale Adumim. Maale Adumim è la terza più grande colonia per numero di abitanti, comprendente un grande striscia di terra che s’insinua profondamente nel distretto di Gerusalemme della Cisgiordania occupata. Molti israeliani la considerano un sobborgo israeliano di Gerusalemme, nonostante sia situata sul territorio occupato palestinese in violazione del diritto internazionale.

Mentre gli esponenti della comunità internazionale hanno riposto la soluzione del conflitto israelo-palestinese sulla interruzione delle colonie illegali israeliane, al contrario i dirigenti israeliani hanno chiesto a gran voce un aumento delle costruzioni delle colonie nella Cisgiordania occupata e alcuni hanno sostenuto la loro completa annessione.

Numerosi attivisti palestinesi hanno criticato la soluzione a due Stati come insostenibile e improbabile per raggiungere una pace duratura, proponendo invece uno Stato binazionale con uguali diritti per israeliani e palestinesi.

(traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Un documento segreto rivela che Israele espulse abitanti di Gaza subito dopo la guerra dei Sei Giorni

Yotam Berger, 15 marzo 2017, Haaretz

Il memorandum del Ministero degli Esteri rivela che l’esercito israeliano fu impegnato in un’azione di punizione collettiva, in cui scacciò dozzine di residenti del campo profughi e demolì case, per una mina antiuomo le cui tracce portavano al campo.

Un documento segreto del Ministero degli Esteri datato 15 giugno 1967 rivela che Israele espulse dei palestinesi dalla Striscia di Gaza come punizione collettiva per rappresaglia rispetto ad un tentato attacco alle truppe israeliane.

Il documento descrive una visita di funzionari del Ministero degli Esteri all’ufficio del governatore militare a Gaza e parla della decisione di espellere dozzine di palestinesi da Gaza verso il Sinai, dopo che era stata piazzata una mina antiuomo destinata a colpire le forze di sicurezza israeliane. Il documento classificato fu scritto da Avner Arazi, che all’epoca era in servizio al dipartimento per l’Asia del Ministero degli Esteri.

Il dottor Guy Laron, un docente del dipartimento di relazioni internazionali dell’Università Ebraica, ha detto ad Haaretz: “Non so niente di questo episodio, ma vi sono state espulsioni e massacri alla fine della guerra. Non facevano parte della storia ufficiale, ma sono accaduti.”

Ha detto di non aver letto di questo specifico episodio, ma ha citato un esempio relativo all’unità di commando Shaked avvenuto alla fine della guerra. “E’ accaduto sotto il comando di Benjamin Ben-Eliezer (poi deputato e più volte mnistro laburista, ndtr), il 10 o l’11 giugno. C’è anche la storia dei beduini di Rafah, avvenuta dopo, nel gennaio 1972. Furono espulsi migliaia di beduini, si stima dai 6.000 ai 20.000.”

Il documento è stato scoperto da membri di Akevot, l’istituto di ricerca sul conflitto israelo-palestinese. Il direttore esecutivo di Akevot, Lior Yavne, ha detto ad Haaretz: “Quello che è eccezionale in questa storia è che i funzionari del Ministero degli Esteri hanno immediatamente scritto un memorandum di intesa. Non era il loro compito. Dovevano firmare un accordo con UNRWA (agenzia ONU per i profughi palestinesi, ndtr.). Sembra che fossero turbati da quanto avevano visto.”

Il documento descrive la visita di Arazi a Gaza il 14 giugno, giorni dopo la fine della guerra dei Sei Giorni, in cui incontrò il governatore militare di Gaza. I funzionari ricevettero un’informativa sugli avvenimenti dei giorni seguiti alla presa di Gaza. “Il 12 o il 13 una mina antiuomo è esplosa nelle vicinanze di Gaza”, asserisce il documento. “L’indagine ha riscontrato che la mina era stata posata poco prima che esplodesse. Le tracce hanno condotto ad alcune case nel campo profughi di Al-Tarabshe (sic).”

Secondo il documento, gli israeliani chiesero agli abitanti delle case di segnalare le persone che avevano compiuto l’attacco. “Poco tempo dopo, sono comparse 110 persone che si sono dichiarate soldati dell’esercito di liberazione palestinese, assumendosi la responsabilità collettiva,” afferma il documento.

Arazi descrive le ripercussioni di questo atto. “Non hanno voluto sentir parlare di segnalare chi tra loro avesse compiuto l’azione”, ricorda. “Gli furono concesse tre ore per rivelare gli autori dell’azione, altrimenti sarebbero stati puniti tutti – fu deciso di trasferire nel Sinai tutti quelli che non avessero risposto al termine dell’ultimatum e abbandonarli! Pare che nel frattempo sia stata eseguita la punizione. L’esercito fece anche esplodere otto case alle quali conducevano le tracce.”

Il documento descrive anche altri episodi in cui l’esercito cercò di far pressione sulla popolazione palestinese perché consegnasse armi e soldati alle forze di sicurezza.

“Il governo ha chiesto ai residenti del campo profughi nella Striscia di consegnare tutte le armi in loro possesso”, è scritto nel documento. “Loro non hanno risposto a questo appello. Perciò il governo ha chiesto al rappresentante locale dell’Unrwa di indicare un deposito in cui chi possedeva armi potesse riporle nella notte senza essere ricercato o dover essere identificato. Questo metodo è stato più efficace.” E inoltre: “Nell’ipotesi che alcuni soldati egiziani si nascondessero in case del campo profughi, i residenti del campo sono stati invitati a consegnare questi soldati. Non vi è stata alcuna risposta.”

Laron sostiene che ci sono testimonianze oculari di espulsioni di massa dalla Cisgiordania appena finita la guerra. “E’ successo alla fine della guerra in Cisgiordania”, ha detto. “Probabilmente c’era qualche piano organizzato, riguardo al quale non sono stati diffusi documenti. Tuttavia, ci sono resoconti di soldati che arrivavano sui camion e spingevano i residenti ad andarsene, li trasportavano per espellerli”, ha aggiunto.

“Uri Avnery, nelle memorie che ha appena pubblicato, sostiene di aver incontrato soldati dell’unità che dicevano che quello era il loro lavoro – attuare un piano organizzato finalizzato all’espulsione dei residenti della Cisgiordania”, ha continuato Laron. “Il comandante generale, Uzi Narkiss, appena prima della guerra disse che, se ce lo permettessero, potremmo scacciare gli arabi dalla Cisgiordania in 48 ore. Senza dubbio furono esiliate migliaia di persone.”

Yavne, dell’istituto Akevot, ha detto che la testimonianza nel documento del governatore di Gaza nel 1967 dimostra che le demolizioni delle case e le espulsioni sono state usate come strumento di punizione nei territori da parte dell’esercito fin dai primi giorni dell’occupazione. Riguardo all’ufficiale che parlò con i funzionari del Ministero, Yavne ha aggiunto: “I giuristi dello stato tendono a negare che le demolizioni delle case siano parte di una politica di punizioni, ma la testimonianza del generale Gaon mostra la vera natura dell’azione di demolizione, che danneggia sempre coloro che non sono coinvolti nel conflitto.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




ISRAELE, VA BENE, HAI VINTO

Intervista a Jeff Halper
realizzata da Barbara Bertoncin,  UNA CITTÀ n. 237 / 2017 marzo

All’indomani della cosiddetta legge furto, approvata dal parlamento israeliano, sembrano ormai venute meno le condizioni per una soluzione a due stati; il rischio di uno scenario in cui Israele si annette l’area C, si proclama lo stato palestinese a Gaza e il resto della Cisgiordania diventa un protettorato internazionale; l’unica alternativa: uno stato binazionale e democratico, dove i popoli di entrambe le nazioni si possano sentire a casa e al sicuro. Intervista a Jeff Halper.

Jeff Halper, antropologo, già direttore dell’Israeli Committee Against House Demolitions (Icahd), è cofondatore di The People Yes! Network (Tpyn). Vive a Gerusalemme.

Tu da tempo denunci come in Israele-Palestina non ci siano più le condizioni per una soluzione a due stati.
Abbiamo trascorso anni e anni lavorando sulla questione palestinese. Ovunque nel mondo è uno dei temi principali di cui la gente parla. Ecco, io dico che la soluzione a due stati è andata. È morta. Ed è così da anni. Il problema è che la sinistra non ha ancora definito un nuovo obiettivo da raggiungere. Qual è il nostro progetto?
Io ho scritto molto su quella che ritengo debba essere la via da percorrere una volta venuta meno l’opzione dei due stati. Dobbiamo puntare a uno stato democratico binazionale.
Questa è la mia idea, ce ne sono altre in giro. Purtroppo la sinistra non si esprime, inclusi i palestinesi, e noi siamo bloccati, perché io non posso rivendicare nulla in nome dei palestinesi, posso spingermi solo fino a un certo punto, ma non posso rappresentarli.
Continuo a partecipare a grandi convegni, fra un paio di settimane sarò in Irlanda a intervenire sul diritto internazionale e i palestinesi. Gli incontri si susseguono, c’è la campagna Bds (boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni), ci sono i dossier, i rapporti dell’Onu, di Human Rights Watch, di Amnesty e milioni di altri gruppi differenti, c’è la protesta… Ecco, il punto è che ci sono solo proteste e documenti! Non c’è un movimento politico pro-attivo. Non si fa nulla di politico.
Israele non ha più l’appoggio incondizionato da parte della comunità internazionale. Trump si proclama suo amico, ma non sono certo lo sia davvero.
Io continuo ad andare all’estero a parlare, e la gente mi dice: va bene, ti ascoltiamo da vent’anni, sappiamo tutto, abbiamo capito, l’occupazione è una brutta cosa, vìola i diritti umani…  Ma dicci cosa vuoi, dicci cosa vogliono i palestinesi e gli israeliani di sinistra. Dicci cosa fare e lo faremo.
Boicottare Sodastream non libererà la Palestina. Ripeto, serve un obiettivo politico. Il problema è che noi di sinistra non ci vediamo davvero come attori politici: commentiamo, analizziamo, scriviamo, ma non ci buttiamo, non ci impegniamo in un processo politico. Così lasciamo il terreno libero a Netanyahu e alla destra.
Penso che sia ora di fermarsi e formulare un’idea: dove stiamo andando? Cosa vogliamo? Io non voglio passare l’intera vita a ricostruire l’ennesima casa o a scrivere l’ennesimo articolo.
Tanto più che sono convinto che ci sarebbero le condizioni per rilanciare. Il fatto di esserci liberati della soluzione a due stati è positivo, chiarisce la situazione. Però bisogna agire, altrimenti avrà vinto la destra.
Nelle scorse settimane il parlamento israeliano ha approvato una legge per “regolarizzare” gli insediamenti ebraici e le case edificate su terreni privati. I palestinesi hanno parlato di “furto legalizzato”.
Io penso che Israele si annetterà l’Area C, la zona della Cisgiordania sotto il pieno controllo israeliano, magari non tutta, ma la maggior parte degli insediamenti. Comincerà in piccolo, con Ma’ale Adumim e l’area circostante, che è strategica, e alla fine farà lo stesso con tutti gli insediamenti.
La destra ha sempre voluto prendersi l’Area C. Circa il 95% dei palestinesi sono stati confinati alle aree A e B, e sono pochissimi quelli rimasti nella C. Dunque vogliono annetterla. C’è sempre stata un’opposizione a questo, persino da parte di Obama. Questa legge apre questa strada. Dice che gli ebrei israeliani possono prendersi qualsiasi terreno palestinese vogliano, offrendo in cambio una compensazione economica. In realtà credo che la Corte suprema israeliana non la lascerà passare perché è davvero troppo. Cosa succederà allora? Che il governo dirà: “Va bene, se non possiamo fare così, dovremo annettere l’area C politicamente”. Sarà una decisione politica, che non ha nulla a che vedere con le corti; insomma, temo che questa legge, in qualche modo, dia alla destra una scusa per procedere con le annessioni. Diranno: “Noi volevamo solo la terra, ma visto che non possiamo, siamo costretti ad annettere”. Ecco, credo che succederà questo, che Israele si annetterà la maggior parte dell’Area C, così da espandersi dal 78% della Palestina storica a circa l’85%, inclusi tutti i confini, Gerusalemme, le acque e le risorse, tutto.
Dopodiché è possibile che Israele firmi una pace separata a Gaza. In fondo, gli egiziani non la vogliono, Israele non la vuole, nemmeno l’Autorità Palestinese vuole Gaza. Solo Hamas è interessata ad averla. Bene, sarà quello lo Stato palestinese.
Ora Israele è in piena “love story” con l’Arabia Saudita e con gli Stati del Golfo, sono loro a sostenere Hamas, anche finanziariamente. Diranno ad Hamas: fate un accordo con Israele e niente più razzi, niente più violenze. Avigdor Lieberman, il ministro degli esteri israeliano, la scorsa settimana ha parlato di un impegno israeliano a ricostruire il porto marittimo e l’aeroporto di Gaza, e a dare ai gazani permessi di lavoro in Israele. Sono tutti segnali. A dire il vero, nessuno ha ancora detto nulla ufficialmente, anche se è risaputo che sono in corso dei contatti tra israeliani e Hamas. Anche l’Egitto starebbe incoraggiando in questo senso, che Gaza diventi lo Stato palestinese.
Questo ci lascia con le aree A e B. Israele dice che non sono un loro problema. Insomma, l’occupazione è conclusa. Israele potrebbe anche concedere la cittadinanza israeliana ai palestinesi rimasti nell’area C (tra i 40.000 e i 120.000). Non è un numero che possa minacciare la demografia israeliana, e così non si potrà dire che hanno fatto l’apartheid; diranno: sì abbiamo preso l’area C, ma guardate, gli abbiamo dato la cittadinanza!
Dopodiché Israele dirà che le aree A e B, dove si trova il 95% dei palestinesi della West Bank, sono un problema della comunità internazionale. L’Europa, gli Stati Uniti, attraverso le Nazioni Unite, imporranno quindi un protettorato sulle aree A e B, più o meno come il protettorato britannico. Siccome i palestinesi non sono pronti per autogovernarsi, non hanno un’economia solida, e non possono avere uno stato, l’Onu diventerà il loro padrone di casa… Un po’ come succede già oggi, con le agenzie Onu e le varie ong che danno loro soldi e aiuti. Ecco come la vedo.
Una prospettiva di questo tipo combacia con l’idea di Netanyahu di “dare autonomia” ai palestinesi.
Quello che resta incerto è la tempistica. Credo che Abu Mazen, persino lui, non acconsentirebbe a una cosa del genere. Ma Abu Mazen sta per uscire di scena, ha 85 anni, non durerà a lungo.
Israele potrebbe aspettare ancora un po’, dopodiché annetterà l’area C. Con Gaza fuori dai giochi, l’Autorità palestinese non avrà più ragione di esistere. Diventeranno dei semplici collaborazionisti. Non vedo poi chi potrà sostituire Abu Mazen; certo in una situazione del genere Barghuti non prenderebbe il comando e comunque Israele non lo permetterebbe.
Potrebbe esserci un’Autorità palestinese nelle aree A e B, sotto l’egida Onu, un po’ sul modello dei bantustan sudafricani in cui c’erano comunque dei leader, delle autorità locali. A questo punto, di fatto, Israele avrà vinto. Se nessuno ci si opporrà, andrà così. Per questo dico che dobbiamo intervenire, ed è urgente, perché quello che ho descritto non accadrà fra cinque anni: sta già accadendo ora.
Tu dici che l’alternativa è accettare la soluzione dello stato unico, purché binazionale, cioè democratico?
Quello che io sostengo è che c’è già un unico stato. La soluzione a due stati è andata, ma uno stato c’è; non si può andare da nessuna parte in Palestina senza attraversare un checkpoint israeliano; c’è una sola valuta, lo shekel, in tutto il paese, che tu ti trovi a Gaza, in Israele o in Cisgiordania. C’è un’unica rete idrica, un’unica rete elettrica, una rete autostradale, un esercito, un governo effettivo, voglio dire: c’è già un unico stato qui.
Ciò che dobbiamo fare a sinistra è essere intelligenti, cioè dire: “Va bene, Israele, hai vinto. Hai eliminato la soluzione dei due stati. Non puoi biasimare gli arabi per questo, perché sei tu che hai creato un solo stato. Lo accettiamo: non accettiamo però che sia uno stato di apartheid. E dunque c’è una sola via d’uscita equa, cioè concedere pari diritti a tutti i cittadini del paese. Una democrazia”.
I palestinesi non hanno problemi con la soluzione a uno stato. La questione è se sarà uno stato binazionale o semplicemente uno stato dove tutti votano. Io dico che dovrà essere uno stato binazionale, ed è qui che si incontrano le resistenze dei palestinesi.
Binazionale per due ragioni: la prima è che è già binazionale. Voglio dire, è da un secolo che i palestinesi combattono per i loro diritti nazionali, e così gli ebrei; non si può far finta che entrambi siano solo elettori. L’altro problema riguarda la popolazione israeliana, perché in questo stato ci sarà una maggioranza palestinese! Gli ebrei israeliani hanno un timore legittimo: “Cosa succederà se quell’unico stato diventa una democrazia, una persona, un voto, e i palestinesi faranno a noi ciò che noi abbiamo fatto a loro?”. “Cosa succederà se in parlamento passeranno delle leggi per discriminarci, per portarci via la terra?”. Hanno ragione. Voglio dire, è una preoccupazione legittima, a cui si risponde con il principio dello stato binazionale.
In democrazia, un parlamento è limitato: c’è una costituzione, una corte suprema; insomma, un parlamento non può far approvare qualsiasi legge voglia. Qui il parlamento sarebbe limitato nel senso che non potrebbe emanare leggi che violino l’integrità di un qualsiasi gruppo nazionale: palestinesi, arabi, ebrei israeliani. Non potrebbe farlo. Ciascun popolo avrebbe il diritto all’auto-determinazione, alla propria lingua, alle proprie istituzioni, e così via. Se questo principio fosse garantito, credo che gli ebrei israeliani comincerebbero a pensarci. Perché agli ebrei israeliani, in realtà, non è mai importato del territorio. Non hanno mai sostenuto gli insediamenti. Se ci pensi, ci sono seicentomila coloni, meno del 10% della popolazione israeliana. Dopo sessant’anni, miliardi di dollari spesi e tutto il resto, solo il 10% si è convinto ad andare a vivere là. E la maggior parte vive nei sobborghi di Tel Aviv o Gerusalemme. Oltretutto le più grosse colonie della Cisgiordania sono abitate da ultra-ortodossi: a loro non importa niente se stanno lì o qui, vogliono soltanto che il governo gli permetta di costituire una comunità coesa. Se invece prendi i veri coloni, non gli ultra-ortodossi, ma quelli di Hebron, che odiano gli arabi; ecco sono meno dell’1% della popolazione israeliana, forse sessantamila persone.
Per gli ebrei israeliani, ciò che conta è la sicurezza. La loro sicurezza personale, prima di tutto: poter salire su un autobus, entrare in un locale pubblico, ecc., e poi la sicurezza collettiva.
Se verranno rassicurati rispetto al fatto di poter continuare a vivere in questo paese come ebrei israeliani, di poter parlare ebraico, di avere un’università ebraica, i loro giornali… Se potranno avere tutto questo, cioè diritti nazionali in uno stato democratico, credo che lo stato unico sia ipotesi interessante per gli israeliani. Perché risolve il problema di ciò che può accadere se c’è una maggioranza palestinese.
In uno stato democratico binazionale, non importa chi è la maggioranza, i tuoi diritti collettivi saranno comunque protetti, anche se fai parte del 10% della popolazione.
Ho cercato di sintetizzare tutto questo in uno slogan, non so se funziona bene in italiano. Il problema della campagna di boicottaggio è che non è connessa a un risultato finale. Allora per me lo slogan è  “Bds for Bds”, cioè “Boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni, per uno stato democratico binazionale”.
Questa potrebbe essere la direzione, il focus del nostro lavoro.
Il problema qual è? Che non posso essere io a dare garanzie in questo senso. Perché la gente mi risponde: “E tu come lo sai che gli arabi ci lasceranno in pace?”. Certo, posso dire loro: “Guarda, conosco gli arabi, andrà tutto bene”, ma so già con quali epiteti reagiranno.
Abbiamo bisogno di qualcuno che, da parte palestinese, dica quello che a suo tempo disse l’Anc: “La nostra visione del nuovo Sudafrica è un paese inclusivo di tutti…”.
Ora sto lavorando a un gruppo per una Freedom Charter; ecco, se i palestinesi sapranno dire che la loro visione di Israele-Palestina è un paese inclusivo di tutti, credo che potremmo convincere gli israeliani ad accettare. Diversamente diranno di no. Se il nuovo stato è solo una democrazia, una persona un voto, senza il binazionalismo, gli israeliani non accetteranno mai.
C’è qualcuno nel versante palestinese che sta lavorando in questo senso?
Nessuno che io conosca. Non riesco a trovare un approccio strategico tra i palestinesi. Gli accademici fanno le loro cose di accademia e non succede niente. Non che la sinistra israeliana sia meglio; è la stessa cosa. Non ci sono neppure israeliani con una strategia. Ecco il problema. Non c’è nessuno! Io sono completamente isolato, e continuo a chiedere, a provare…
Per come la vedo io ci sono tre livelli: al fondo c’è il popolo. Ma il popolo palestinese è impegnato a combattere per la propria esistenza, che sia a Gaza o Bilin, lotta per attraversare un checkpoint ogni giorno, ecc. Loro resistono. E poi parliamo di persone normali, non sono organizzate, molte non sono istruite, non hanno accesso ai media, ai politici, a paesi esteri… Insomma, la gente è impegnata a resistere. Possono creare un movimento di base, ma a un certo punto devono passare la palla a un secondo livello, quello degli intellettuali, dei leader, delle persone istruite. Solo loro possono organizzare la resistenza, fare delle campagne. Il secondo livello poi deve passare la palla al terzo, che siete voi, la società civile internazionale, che si mobilita e porta le campagne a livello globale.
Bene, al momento c’è il primo livello, il popolo, che si mobilita; anche il terzo livello si mobilita, voglio dire, ci sono migliaia di gruppi in tutto il mondo. È il livello intermedio che manca. È questo che sta paralizzando tutto.
Questo è un vuoto che non possono coprire gli israeliani. La guida va presa in mano dai palestinesi. Ho anche pensato a un appello, a una lettera alla società civile palestinese, da parte di centinaia di gruppi da tutto il mondo che dicano: abbiamo bisogno di voi, della vostra guida, dovete dirci in che direzione andare…
Per quanto riguarda la demolizione delle case, come sta andando?
La demolizione gode di ottima salute, procede. Siamo arrivati quasi a cinquantamila case demolite. Succede sempre più spesso. Il processo va avanti. In ebraico si parla di “giudaizzazione”; l’intero progetto del sionismo dell’ultimo secolo è stato trasformare la Palestina nella terra di Israele. Credo che ormai siamo agli ultimi stadi. I palestinesi ottengono molto sostegno internazionale, ma poi? Certo, boicottiamo Sodastream, Hewlett Packard (HP), G4s, ecc. Ma qual è lo scopo di tutta questa roba? Quando abbiamo boicottato il Sudafrica il tema era “Una persona, un voto”. Avevamo un obiettivo. Ma oggi?
Qualcuno paventa un apartheid anche all’interno della Linea verde…
Giusto. Il fatto è che conosco i palestinesi, ho dei buoni amici tra i cosiddetti palestinesi del ’48. Una delle mie amiche è del partito comunista, così le ho detto: “Dai, invitami, a parlare della soluzione a uno stato”. Mi ha detto: “No, non potremmo mai fare una cosa del genere, noi siamo per la soluzione a due stati”. Sai com’è, i comunisti sono sconnessi dalla realtà.
A parte le battute, gli arabi israeliani sono impegnati a tutelare i loro diritti in Israele, che in effetti sono a rischio, e quindi non hanno tempo e spazio per occuparsi dei palestinesi di Gaza. Ciò in cui è riuscita Israele, con la comunità internazionale, è stato dividere i palestinesi: ci sono i palestinesi israeliani, i palestinesi della Cisgiordania, i palestinesi di Gaza, quelli dei campi… Non si conoscono più, non si parlano, hanno obiettivi differenti, addirittura sono in competizione l’uno con l’altro…
Tu lo sai, io lo so, ma non ci possiamo fare nulla. Non c’è una discussione tra i palestinesi. Quando vado a una conferenza sui diritti dei palestinesi, per dire, non c’è mai gente dei campi, o di Gaza. Non so se i palestinesi della Cisgiordania o di Israele conoscano ancora gente dei campi.
Insomma, quello che ci è aspetta è un compito tutt’altro che facile.
Cosa ti aspetti ora che c’è Trump sulla scena?
Credo che Trump lascerà che Israele faccia tutto ciò che vuole. Non credo che lui abbia una strategia. Credo che di base la sua idea sia davvero: “Prima l’America: non interverremo, non ci immischieremo”. Il resto starà alle parti, a israeliani e palestinesi che devono negoziare… e ciò, di fatto, significa che Israele può fare ciò che vuole. Insomma, credo che gli Stati Uniti si tireranno indietro, che di fatto equivale a sostenere Israele. Vedremo cosa farà l’Europa, se proverà a prendere il posto degli Stati Uniti. Sarebbe interessante.
La mia paura è che non ci sia alcun movimento forte attorno alla questione palestinese. L’Europa oggi è impegnata ad affrontare il problema dei richiedenti asilo; gli Usa hanno Trump, non c’è posto per nient’altro. Come ho già detto, se non troviamo un focus, un obiettivo politico, la gente si stancherà. Le persone non restano in un movimento per sempre, se non succede niente; ci sono tante cose da fare… Continuo a ripeterlo anche ai palestinesi: se non facciamo qualcosa alla svelta, se non ci organizziamo, perderemo! Semplicemente spariremo. È una possibilità.
(a cura di Barbara Bertoncin.
Traduzione di Stefano Ignone)




Rapporto OCHA 21 febbraio – 6 marzo 2017 ( due settimane)

Il 24 febbraio, nella Striscia di Gaza, a causa del crollo di un tunnel per il contrabbando, scavato sotto il confine con l’Egitto, tre lavoratori palestinesi sono morti e undici sono rimasti feriti.

Dal 2013, la maggior parte dei tunnel per il contrabbando sono stati distrutti o bloccati dalle autorità egiziane, tuttavia è stato riferito che alcuni sono ancora operativi. In Cisgiordania, un 22enne palestinese, saltando dalla sommità della Barriera è caduto in una profonda buca di una cava nei pressi del villaggio di Azzun Atma (Qalqiliya) ed è morto; il giovane era inseguito dalle forze israeliane e, secondo quanto riferito, stava tentando di entrare illegalmente in Israele per cercare lavoro.

Il 1° marzo, un colono israeliano ha ucciso, con arma da fuoco, un 24enne palestinese che aveva fatto irruzione nella sua casa nell’insediamento avamposto Mor Farm (Hebron); secondo quanto riferito dai media israeliani, il colono era stato accoltellato e ferito dal palestinese.

Il 6 marzo, nella città di Al Bireh (Ramallah), nel corso di uno scontro a fuoco verificatosi nel contesto di un’operazione militare, un 33enne palestinese è stato ucciso dalle forze israeliane. L’incidente ha innescato scontri che hanno portato al ferimento, con arma da fuoco, di due palestinesi.

In Cisgiordania, complessivamente sono stati feriti dalle forze israeliane 57 palestinesi, tra cui nove minori e tre donne. La parte preponderante dei ferimenti sono stati registrati durante scontri verificatisi nel contesto di operazioni di ricerca-arresto; durante manifestazioni tenute in solidarietà con i prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e nelle manifestazioni settimanali nei villaggi di Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Ni’lin (Ramallah). Inoltre, in due episodi distinti, due palestinesi, un uomo e una donna, sono stati feriti con arma da fuoco: al checkpoint di Qalandiya e ad un checkpoint “volante” all’entrata del villaggio di Hizma (entrambi a Gerusalemme), presumibilmente per non essersi fermati all’alt intimato loro dai soldati. Inoltre, un soldato israeliano è stato ferito, con arma da fuoco, durante un pattugliamento presso l’insediamento colonico di Efrat (Betlemme).

A Gaza, il 27 febbraio, quattro palestinesi, fra i quali un civile, sono rimasti feriti, ad est di Rafah, nel corso di molteplici attacchi israeliani, sia aerei che terrestri; secondo quanto riferito, gli attacchi costituivano una risposta al lancio di un razzo ad opera di un gruppo armato. Il razzo è caduto in uno spazio aperto nel sud di Israele, senza causare vittime o danni. A quanto riferito, un altro razzo lanciato contro Israele è ricaduto all’interno della Striscia di Gaza.

Sempre a Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 44 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco, di avvertimento o diretto, ed hanno ferito, nei pressi della recinzione tra Israele e Gaza, due civili palestinesi che, a quanto riportato, tentavano di introdursi in Israele. In applicazione delle restrizione imposte da Israele per l’accesso al mare, cinque pescatori sono stati arrestati dalle forze navali israeliane, mentre le loro barche e le reti da pesca sono state sequestrate. In due casi, le forze israeliane sono entrate in Gaza ed hanno svolto operazioni di spianatura del terreno e scavi nei pressi della recinzione perimetrale.

Tra il 28 febbraio e il 1° marzo, nell’insediamento colonico di Ofra (Ramallah), le forze israeliane hanno evacuato e demolito, in base ad un sentenza della Corte Suprema israeliana, nove abitazioni [coloniche israeliane] che erano state edificate su terra privata palestinese. Secondo un rapporto dei media israeliani, gli scontri verificatisi nel corso dell’evacuazione hanno provocato il ferimento di 11 membri delle forze israeliane e di 17 giovani coloni.

In tre diversi contesti, sei palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni israeliani: quattro di loro, tra cui due minori, mentre pascolavano le pecore nei pressi dell’insediamento colonico di ‘Otniel (Hebron); uno mentre lavorava sul proprio terreno nei pressi dell’insediamento avamposto Gilad Farm (Nablus); e un altro nella città di Huwwara (Nablus), mentre camminava in strada. Sono stati segnalati almeno tre episodi di lancio di pietre da parte di coloni israeliani, con conseguenti danni per tre veicoli di proprietà palestinese.

Secondo i media israeliani, un colono israeliano è stato ferito e diversi veicoli sono stati danneggiati in almeno 18 episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani. Gli episodi hanno avuto luogo nei pressi di Gerusalemme, Ramallah e Betlemme.

Sempre in Cisgiordania, quattro palestinesi, due ragazzi e due uomini, sono rimasti feriti in tre diversi casi di esplosione di residuati bellici. I minori, di età compresa fra 14 e 15 anni, sono rimasti feriti mentre pascolavano le pecore vicino alle comunità Al Mughayyir (Ramallah) e Khashm ad Daraj (Hebron); i due uomini nei pressi del villaggio di Taffuh, (Hebron) mentre manomettevano gli ordigni inesplosi.

Per la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito due strutture di proprietà palestinese in Area C, nel governatorato di Hebron e due strutture a Gerusalemme Est, sfollando 23 palestinesi e coinvolgendone altri 50.

Nel corso di una esercitazione militare, le forze israeliane hanno sfollato, per due volte e per diverse ore ogni volta, 30 famiglie appartenenti a due comunità di pastori nel nord della Valle del Giordano (Khirbet Tana e Lifjim). In un’altra comunità della stessa area (Khirbet ar Ras al Ahmar), le autorità hanno sequestrato quattro veicoli agricoli, utilizzati per la coltivazione e per l’approvvigionamento idrico. Tutte queste comunità si trovano in un’area designata [da Israele] come una “zona militare per esercitazioni a fuoco”.

Il 5 marzo, le autorità israeliane hanno emesso ordini di demolizione definitiva contro quasi tutte le 140 strutture della comunità beduina palestinese di Khan al Ahmar-Abu Helu (governatorato di Gerusalemme), tra cui una scuola elementare, finanziata da donatori, frequentata da circa 170 bambini. Questa è una delle 46 comunità beduine della Cisgiordania centrale che Israele sta cercando di trasferire in tre siti designati. Inoltre, ordini di demolizione definitivi sono stati emessi nei confronti di 13 strutture, in quattro comunità della zona Massafer Yatta (Hebron), e contro una scuola finanziata da donatori nella comunità di Khirbet Tana (Nablus).

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto per un giorno in entrambe le direzioni: è stata consentita l’uscita dalla Striscia di Gaza a 581 persone e il rientro a 566. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Netanyahu ha offerto al leader dell’opposizione di insistere insieme per un’iniziativa di pace regionale – e poi ha fatto marcia indietro

Barak Ravid – 5 marzo 2017 Haaretz

Netanyahu ed Herzog avevano raggiunto una sensazionale intesa sei mesi fa; una dichiarazione congiunta al Cairo, compresa la disponibilità per un compromesso territoriale e una riduzione della costruzione di colonie, era pronta ad essere seguita dall’annuncio di un governo di unità. Ma la crisi di Amona ha interrotto le trattative.

Sei mesi fa il primo ministro Benjamin Netanyahu ha inviato al leader dell’opposizione Isaac Herzog un documento contenente una dichiarazione congiunta per sollecitare un’iniziativa di pace regionale e stringere un governo israeliano di unità – prima di fare marcia indietro qualche settimana dopo.

Netanyahu ha mandato il documento ad Herzog sette mesi dopo un incontro di pace segreto ad Aqaba, Giordania, riportato due settimane fa da Haaretz.

Il documento rifletteva la volontà di Netanyahu di arrivare ad un compromesso territoriale in una soluzione dei due Stati con i palestinesi e un freno alla costruzione delle colonie.

Tre settimane dopo aver inviato la proposta e dopo aver concluso un accordo di massima, Netanyahu ha iniziato a tirarsi indietro durante la crisi politica in merito all’avamposto non autorizzato di Amona, in Cisgiordania. In ottobre i contatti tra le due parti si sono interrotti e alla fine sono falliti.

Il documento, consegnato da Netanyahu a Herzog il 13 settembre dopo due giorni di colloqui, era una bozza che avrebbero dovuto sottoporre ad un summit al Cairo o a Sharm el-Sheikh insieme al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e forse al re di Giordania Abdullah II. Quell’incontro avrebbe dovuto aver luogo all’inizio di ottobre.

Era previsto che il summit avrebbe lanciato l’iniziativa di pace regionale e poco dopo che Netanyahu ed Herzog fossero tornati in Israele, avrebbero dovuto annunciare l’inizio di una maratona negoziale per un governo di unità.

Una serie di leader internazionali sarebbero stati coinvolti nel processo; figure di spicco in Giordania e in Egitto, così come l’ex primo ministro britannico Tony Blair – che era direttamente coinvolto nei contatti – e l’ex- segretario di Stato USA John Kerry ed alcuni dei suoi consiglieri, sarebbero state informate del documento.

Ben Caspit, del quotidiano “Maariv”, ha riportato qualche mese fa alcuni dettagli della proposta, ma questa è la prima volta che il documento viene interamente pubblicato.

In risposta a questo articolo, l’ufficio del primo ministro ha affermato: “La descrizione relativa ad un possibile processo regionale che non è stato realizzato è totalmente falsa. L’argomento non ha niente a che fare con Amona. Il primo ministro Netanyahu è interessato a procedere in un’iniziativa regionale. Chiunque le abbia fornito questa informazione non è a conoscenza dei dettagli, o li sta falsificando.”

L’ufficio di Herzog ha rifiutato di commentare il documento, che viene riportato integralmente qui di seguito:

“Desideriamo ringraziare il presidente al-Sisi per la sua volontà di svolgere un ruolo attivo per far progredire la pace la sicurezza nella regione e rilanciare il processo di pace.

“Riaffermiamo il nostro impegno per la soluzione dei due Stati per due popoli e il nostro desiderio di perseguire questa soluzione.

“Israele desidera la fine del conflitto e di ogni rivendicazione, il riconoscimento mutuo tra due Stati nazionali, il rafforzamento della sicurezza e una soluzione territoriale condivisa che, tra le altre cose, riconosca i centri abitati esistenti.

“Nella ricerca della pace, Israele tende la mano ai palestinesi per iniziare negoziati diretti e bilaterali senza condizioni.

“Israele vede in modo positivo lo spirito generale dell’ iniziativa di pace araba e gli elementi positivi in essa contenuti. Israele apprezza il dialogo con gli Stati arabi riguardo a questa iniziativa, in modo da riflettere sui drammatici cambiamenti degli ultimi anni nella regione e lavorare insieme per procedere verso la soluzione dei due Stati e una pace più complessiva nella regione.

“Nel contesto dei rinnovati tentativi di pace, le attività di colonizzazione di Israele in Giudea e Samaria (la Cisgiordania) saranno messe in atto in modo da facilitare il dialogo per la pace e l’obiettivo dei due Stati per due popoli.

“Israele lavorerà con l’Autorità Nazionale Palestinese per migliorare in modo significativo le condizioni economiche e la cooperazione economica, anche nell’Area C [sotto totale controllo di Israele in base agli accordi di Oslo. Ndtr.] e per potenziare il coordinamento per la sicurezza.

“Israele auspica una stabilità a lungo termine a Gaza, compresa la ricostruzione umanitaria e concreti accordi per la sicurezza.”

Kerry, Sisi e [il re della Giordania] Abdullah nel febbraio 2016 sono stati presenti al summit di Aqaba, che è stato la base dei contatti tra Netanyahu ed Herzog per formare un governo di unità tra marzo e maggio. I loro contatti sono naufragati alla fine di agosto prima di essere ripresi.

Netanyahu e Kerry si sono incontrati il 26 giugno per una cena di sei ore nel ristorante “Pierluigi” di Roma. Hanno mangiato e bevuto, e si dice che Netanyahu abbia fumato in continuazione sigari cubani. Un ex-funzionario di alto livello USA, parlando in incognito, ha fornito qualche dettaglio della conversazione.

“Qual è il tuo piano per i palestinesi, cosa vuoi che succeda ora?” ha riferito che Kerry ha chiesto a Netanyahu.

Il primo ministro ha detto di auspicare di procedere insieme ai Paesi arabi con un’iniziativa regionale, basata sul piano in cinque punti che aveva presentato ad Aqaba quattro mesi prima.

Kerry ha detto a Netanyahu che i passi che egli aveva intenzione di intraprendere non erano sufficienti per far unire al piano di pace regionale Paesi arabi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

“Una dichiarazione positiva ma vaga sull’iniziativa di pace araba e passi simbolici sul terreno non ti aiuteranno a portare gli arabi al tavolo delle trattative. Lo so perché gliel’ho chiesto,” ha detto Kerry secondo quanto citato dal funzionario USA. “Non hai un percorso per tornare a colloqui diretti con i palestinesi o un canale di dialogo con i Paesi arabi. Sei arrivato al limite. Qual è il tuo piano?”

Kerry ha presentato a Netanyahu una versione aggiornata dell’iniziativa regionale che ha presentato ad Aqaba. All’inizio di giugno, trenta ministri degli Esteri si sono incontrati a Parigi per partecipare all’iniziativa di pace francese, ma Netanyahu ha snobbato la mossa francese. Kerry ha detto a Netanyahu che il piano aggiornato che suggeriva avrebbe sostituito l’iniziativa francese e incluso l’elemento regionale a cui il primo ministro teneva tanto.

La proposta di Kerry includeva una conferenza di pace regionale comprendente Israele, i palestinesi, i Paesi arabi sunniti come Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, con cui Israele non ha relazioni diplomatiche, la Russia, la Cina e l’Unione Europea. Kerry ha suggerito che la conferenza fosse tenuta sulla base degli stessi sei principi di accordo permanente che aveva presentato al summit di Aqaba e che includevano il riconoscimento di Israele come Stato ebraico.

Kerry ha detto a Netanyahu che Israele ed i palestinesi non avrebbero dovuto adottare i principi e avrebbero anche potuto esprimere pubblicamente riserve su di essi. Ma il summit avrebbe rilanciato i colloqui diretti [tra Israele ed i palestinesi. Ndtr.] e stabilito un canale di negoziato con i Paesi arabi. Ciò avrebbe incluso discussioni su un accordo di sicurezza regionale che Israele desidera e il riconoscimento da parte degli arabi e di molti Paesi occidentali di Israele come Stato ebraico.

Visita a sorpresa di un ministro egiziano

Un ex- funzionario di alto livello americano ha notato che Netanyahu non ha accettato né rifiutato la proposta di Kerry; ha semplicemente detto che ci avrebbe pensato. Ma due giorni dopo l’incontro con Netanyahu a Roma, Kerry ha chiamato Herzog e l’altra leader dell’alleanza “Unione Sionista”, Tzipi Livni. Kerry li ha informati delle sue conversazioni con Netanyahu e dell’iniziativa che aveva proposto, e ha chiesto loro con discrezione se per loro fosse possibile unirsi alla coalizione di governo.

L’iniziativa francese, insieme alla revisione di Kerry della sua proposta, ha intensificato la pressione su Netanyahu e lo ha portato a riprendere i suoi contatti con Sisi e Blair. Ancora una volta egli ha anche proposto un processo di pace regionale che aggirasse l’amministrazione Obama e non richiedesse ad Israele di impegnarsi sui sei principi di Kerry.

Il 10 luglio, due settimane dopo l’incontro con Kerry a Roma, il Ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry si è recato a sorpresa in visita a Gerusalemme. E’ stata la prima visita in Israele di un ministro degli Esteri egiziano in un decennio, ed è stata preceduta da visite al Cairo dell’inviato di Netanyahu per il processo di pace, Isaac Molho. Durante la visita Shoukri ha incontrato Herzog così come Netanyahu.

Un importante funzionario israeliano informato dei contatti ha affermato che Shoukry è arrivato per verificare se Netanyahu avrebbe confermato quello che aveva detto a Sisi dopo il loro colloquio di metà maggio – che voleva che l’Egitto cercasse di instaurare un dialogo tra Israele ed i palestinesi, con l’appoggio degli Stati arabi. Shoukry ha detto a Netanyahu che l’Egitto voleva sapere quali passi il primo ministro avesse intenzione di compiere per far progredire l’iniziativa di pace, sottolineando che Sisi pensava ancora che portare l’Unione Sionista nella coalizione avrebbe dimostrato la serietà di Netanyahu. Shoukry ha esposto lo stesso messaggio a Herzog.

I contatti internazionali si sono ridotti d’intensità nelle settimane seguenti, nel mezzo dell’estate. Ma Kerry ha continuato a tenere conversazioni settimanali con Netanyahu e con molti altri leader regionali. Un ex alto funzionario diplomatico USA ha detto che Kerry si è rifiutato di arrendersi, nonostante i suoi consiglieri e la Casa Bianca gli dicessero che Netanyahu non era serio e che Kerry stava facendo un errore.

“La Casa Bianca ha detto a Kerry che il presidente Obama voleva lasciare Netanyahu e (il presidente Mahmoud) Abbas cuocere nel loro brodo, ma Kerry ha insistito perché la questione era molto importante per lui,” ha detto l’ ex alto funzionario diplomatico USA.

Il 21 agosto Kerry ha chiamato Herzog e Livni ancora una volta. Ha detto loro che intendeva visitare Egitto e Arabia Saudita entro poche settimane in un ultimo tentativo di fare pressione per una conferenza di pace regionale basata sui principi che aveva presentato a Netanyahu ad Aqaba e a Roma. I principi sarebbero stati sottoposti alla conferenza a nome di tutti i partecipanti, ma Israele ed i palestinesi avrebbero potuto sollevare obiezioni.

Secondo l’ex alto funzionario diplomatico USA e una fonte israeliana al corrente dei contatti, Kerry ha detto ad Herzog e Livni di credere di poter portare Netanyahu, Abbas e gli Stati arabi, compresa l’Arabia Saudita, a una simile conferenza, che avrebbe segnato un cambiamento storico per la regione.

Allora Kerry è arrivato al punto principale della sua telefonata: “Non voglio interferire nella politica israeliana,” ha detto. “Ma alla luce di queste circostanze, prendereste in considerazione la possibilità di unirvi alla coalizione [di governo in Israele. Ndtr.]? Anche questo sarebbe un cambiamento molto importante.”

L’ ex alto funzionario diplomatico USA e la fonte israeliana hanno rilevato che Livni non ha rifiutato le notazioni di Kerry, ma è sembrata molto scettica sulle intenzioni di Netanyahu. Anche Herzog, che era rimasto scottato da Netanyahu pochi mesi prima, era molto scettico, ma ha espresso la volontà di esaminare la proposta se avesse ricevuto da Paesi della regione indicazioni che la conferenza sarebbe stata un’iniziativa seria.

Quella settimana Herzog ha parlato con importanti funzionari di Egitto, Giordania e Stati arabi che non hanno rapporti diplomatici con Israele, in un tentativo di stabilire se un processo di pace regionale avesse una possibilità. In alcune conversazioni ha sentito che i leader arabi avevano intenzione di cooperare con l’iniziativa di Kerry, ma in altre l’approccio era piuttosto “sì, ma..”

Herzog si è reso conto che c’erano fondamentalmente due percorsi in competizione: quello di Kerry, che includeva principi per raggiungere un accordo permanente e tenere una conferenza importante, e un secondo guidato da Blair e dall’Egitto, che riguardava misure più limitate e un summit più ridotto e modesto.

Nell’ultima settimana di agosto, quando i contatti internazionali erano al loro massimo, Herzog ha ricevuto una telefonata da Netanyahu. Il primo ministro ha detto di voler cercare ancora una volta di progredire in un processo regionale con Sisi, e di voler sapere se Herzog avrebbe ancora una volta preso in considerazione di partecipare a un governo di coalizione. Herzog, molto scettico e prudente, ha fatto due richieste: sentire direttamente Egitto e Giordania sull’argomento e ricevere le proposte di pace di Netanyahu per iscritto.

Nei giorni seguenti entrambe le richieste di Herzog sono state esaudite. Primo, un inviato egiziano che si è recato in Israele gli ha detto che Sisi era davvero interessato a un processo di pace regionale e importanti funzionari giordani gli hanno inviato lo stesso messaggio per telefono. Secondo, il 13 settembre Netanyahu ha spedito ad Herzog il documento dell’iniziativa di pace, con una bozza della dichiarazione congiunta.

Nelle due settimane successive Netanyahu ed Herzog hanno tenuto intensi contatti, segnati da frequenti discussioni. Secondo un collega di Herzog, il leader dell’opposizione ha chiesto una serie di modifiche del documento. Primo, Herzog ha rifiutato la richiesta di Netanyahu che il termine “costruzione governativa” fosse utilizzato nella dichiarazione in riferimento alle colonie e ha chiesto che ogni riferimento includesse ogni tipo di costruzioni.

In più, Herzog ha chiesto che la sospensione delle costruzioni nelle colonie isolate al di fuori dei blocchi delle colonie non dipendesse dal fatto che ci fossero in corso colloqui con i palestinesi. Piuttosto le politiche a questo proposito sarebbero state stabilite da lui e da Netanyahu come politiche del governo, anche se questo non è stato detto apertamente. Netanyahu ha accettato tutti i punti, e la dichiarazione è stata riscritta per riflettere questo accordo.

Il secondo punto riguardava un significativo cambiamento nella politica israeliana rispetto al territorio della Cisgiordania classificato come Area C in base agli accordi di Oslo, in cui Israele detiene il controllo esclusivo, sia militare che civile, per consentire un maggiore sviluppo edilizio ed economico palestinese. Netanyahu ha accettato di chiarire questa questione nella dichiarazione.

Inoltre Herzog ha chiesto l’aggiunta al documento della dizione “Stato palestinese con continuità territoriale.” Netanyahu non era d’accordo, e le parti hanno continuato i negoziati sulla questione.

Progetti per una conferenza stampa sensazionale

Poco prima che Netanyahu lasciasse il Paese per andare all’assemblea generale dell’ONU alla fine di settembre, era stato raggiunto un accordo quasi totale sul linguaggio della dichiarazione. Per Molho l’obiettivo era di andare al Cairo per siglare l’accordo con l’Egitto appena Netanyahu fosse tornato da New York.

Al contempo Netanyahu ed Herzog si sarebbero recati segretamente all’inizio di ottobre al Cairo, dove si sarebbe tenuta una conferenza stampa sensazionale con Sisi e possibilmente anche con re Abdullah. Avrebbero letto la dichiarazione congiunta che avrebbe stabilito un’iniziativa di pace regionale guidata da Egitto e Giordania, con la partecipazione di altri Stati arabi.

Secondo il piano, subito dopo il loro ritorno dal Cairo, Netanyahu ed Herzog avrebbero tenuto una conferenza stampa all’aeroporto Ben Gurion a cui sarebbero stati presenti il Ministro della Difesa Avigdor Lieberman [del partito di estrema destra “Israele casa nostra”. Ndtr.] e il Ministro delle Finanze Moshe Kahlon [del partito di centro Kulanu. Ndtr.]. Sarebbe stato annunciato un governo di unità, e la presenza di Kahlon e Lieberman avrebbe dimostrato il loro appoggio alla dichiarazione del Cairo.

Il 20 settembre Netanyahu è arrivato a New York per l’assemblea generale dell’ONU. Nel suo discorso ha accennato all’iniziativa di pace regionale che era stata discussa dietro le quinte.

“Non ho rinunciato alla pace. Rimango impegnato in una visione di pace basata sui due Stati per due popoli. Credo come mai prima d’ora che i cambiamenti che stanno avendo luogo adesso nel mondo arabo offrano un’opportunità unica per promuovere questa pace,” ha affermato Netanyahu.

“Mi congratulo con il Presidente egiziano al-Sisi per i suoi tentativi di far progredire la pace e la stabilità nella nostra regione. Israele accoglie favorevolmente lo spirito dell’iniziativa di pace araba e un dialogo con gli Stati arabi per raggiungere una pace complessiva. Credo che, affinché questa pace complessiva sia pienamente raggiunta, i palestinesi ne debbano fare parte. Sono pronto ad iniziare negoziati per ottenerla oggi – non domani, non la prossima settimana, oggi.”

Due giorni dopo Netanyahu si è incontrato con Kerry a New York. Kerry lo ha informato dell’incontro dei Ministri degli Esteri del Quartetto [composto da ONU, UE, Russia, USA e Regno Unito. ndtr.] di pochi giorni prima, a cui aveva partecipato anche il Ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubeir. Secondo un ex diplomatico di alto livello USA, Kerry ha detto a Netanyahu che Jubeir aveva chiarito che, se israeliani e palestinesi si fossero accordati sui principi dei negoziati e fossero stati fatti progressi, l’Arabia Saudita e altri Stati arabi sunniti avrebbero iniziato a fare passi per normalizzare i rapporti con Israele.

“Jubeir ha chiarito che i sauditi non lo avrebbero fatto solo in cambio di qualche permesso di lavoro israeliano concesso ai palestinesi,” come avrebbe detto Kerry, citato dall’ex diplomatico USA, a Netanyahu. Kerry ha nuovamente sollecitato Netanyahu ad accettare la sua proposta di una conferenza internazionale per raggiungere un accordo permanente e ha detto che i sauditi vi avrebbero partecipato.

“Abbiamo spostato il consenso internazionale nella tua direzione,” ha detto Kerry. “Perché non sei disposto ad accettare la mia proposta?”

Un ex diplomatico USA di alto livello ha affermato che Netanyahu ha detto a Kerry che era più propenso al processo con l’Egitto e con Herzog. “Sarebbe più facile per me andare avanti con Herzog all’interno della coalizione,” ha detto Netanyahu.

L’ex-diplomatico ha detto che Kerry a quel punto era disperato. “Capisco quello che stai facendo,” avrebbe detto Kerry a Netanyahu. “Stai cercando di prendere tempo fino a quando sarà insediata la nuova amministrazione.”

Netanyahu non lo ha negato. Il diplomatico ha detto che Netanyahu ha preferito il canale separato che stava gestendo con Herzog e l’Egitto.

“Netanyahu voleva controllare il processo,” ha affermato il diplomatico. “Voleva allargare la coalizione, voleva una piccola conferenza senza un eccessivo coinvolgimento internazionale, e, cosa più importante, non voleva i principi stabiliti da Kerry per un accordo finale. Quindi ha annacquato la proposta in tutti i modi possibili.”

Netanyahu ha telefonato ad Herzog alcune volte da New York e si sono accordati per incontrarsi subito dopo il ritorno di Netanyahu per stendere una dichiarazione congiunta e i dettagli per la costituzione di un governo di unità. Pochi minuti prima della partenza da New York i collaboratori di Netanyahu hanno contattato quelli di Herzog. Netanyahu è in genere cauto con le sue conversazioni telefoniche, teme intercettazioni, ma sembra che in questo caso volesse e persino sperasse che gli americani lo ascoltassero.

I consiglieri del primo ministro hanno chiarito ai collaboratori di Herzog che volevano mandare Molho al Cairo, e hanno chiesto un accordo finale sulla formulazione della dichiarazione. Benché rimanessero alcuni punti critici, Herzog ha ritenuto che quei problemi non fossero fondamentali e ha detto a Netanyahu che non avrebbero bloccato un accordo. Netanyahu è partito per Israele e la sensazione era che entro pochi giorni lui ed Herzog sarebbero andati al Cairo e avrebbero pronunciato una dichiarazione sensazionale.

Ma 12 ore dopo, una volta che Netanyahu è atterrato, non ha dato istruzioni a Molho di andare al Cairo.

Due giorni dopo l’ex-presidente Shimon Peres è morto, e per parecchi giorni non ci sono stati contatti tra Netanyahu ed Herzog sulla questione. Dopo Rosh Hashanah [il capodanno ebraico. Ndtr.] sono stati ripresi i contatti ma da parte di Netanyahu si è iniziato a cambiare approccio.

Molho, il capo di gabinetto di Netanyahu e Netanyahu hanno detto ad Herzog di voler aspettare di fare il passo fino alla soluzione della crisi di Amona, la cui evacuazione all’epoca era prevista per la fine di dicembre.

Da allora è risultato chiaro ad Herzog e ai suoi consiglieri che Netanyahu aveva cambiato idea e che l’occasione per un’iniziativa regionale e un governo di unità stava sfumando.

“Netanyahu ha iniziato a ritirarsi progressivamente dalla sua dichiarazione politica,” ha detto una fonte del partito Laburista coinvolta nei colloqui. “Un po’ alla volta ha cercato di fare marcia indietro da quello che era già stato concordato e ha cercato di posticiparlo a causa di Amona e delle pressioni di ” Habayit Hayehudi” [“Casa Ebraica”, partito di estrema destra dei coloni. Ndtr.]- suo alleato di destra nella coalizione.

I colloqui sono continuati per qualche giorno, compreso un difficile incontro fallito tra Netanyahu ed Herzog la mattina prima dello Yom Kippur [festività ebraica. Ndtr.]. Passata l’urgenza, non è restato altro ad entrambe le parti che dichiarare finiti i negoziati.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Oltre 12.000 palestinesi vivono in un limbo, 15 anni dopo l’introduzione della legge “temporanea”

Nir Hasson – 3 marzo 2017 Haaretz

Un’ordinanza d’emergenza impedisce ai palestinesi sposati con cittadini israeliani o residenti permanenti di ottenere permessi per entrare in Israele, benché persino i dati ufficiali dello Shin Bet suggeriscano che l’allentamento delle restrizioni rappresenterebbe un pericolo molto ridotto.

Il figlio di un anno di Taysir al-Asmar, che vive nella città vecchia di Gerusalemme, è nato con seri problemi cerebrali. E’ ricoverato nell’ospedale Herzog di Gerusalemme, all’estremità ovest della città, ma Asmar non ha il permesso di viaggiare fin là per visitarlo. In effetti Asmar non può avere la patente di guida e, se prende l’autobus, potrebbe essere arrestato dalla polizia.

Asmar è solo una delle oltre 12.000 persone che vivono con la paura e l’incertezza dovute alla legge che vieta il ricongiungimento familiare quando i membri della famiglia in questione sono palestinesi.

Il mese prossimo segnerà 15 anni dalla decisione iniziale del governo (poi sostituita da un’ “ordinanza d’emergenza”, la legge “Della cittadinanza e dell’ingresso in Israele”, rinnovata annualmente) che ha eretto una quasi impenetrabile barriera burocratica tra i palestinesi di Gerusalemme est e di Israele in generale e i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

La legge è stata giustificata sul piano giuridico per ragioni di sicurezza, ma sono stati citati anche obiettivi demografici – in altre parole limitare la popolazione araba in Israele.

Migliaia di persone che vivono nei territori [palestinesi occupati. Ndtr.] sposate con cittadini israeliani o residenti permanenti [status giuridico dei palestinesi di Gerusalemme est. Ndtr.], ed i loro figli, si sono trovati intrappolati da questa legge in un insostenibile limbo burocratico, senza prospettive di cambiamento.

La scorsa settimana sia la Knesset che l’Alta Corte di Giustizia hanno tenuto audizioni sulla legge. Come previsto, è stata mantenuta in vigore. La Knesset ne ridiscuterà tra sei mesi, mentre la presidentessa della Corte Suprema Miriam Naor ha suggerito ai richiedenti di ritirare la loro richiesta all’Alta Corte.

Delle 12.500 persone che hanno avviato la procedura di ricongiungimento, 10.000 sono attualmente prive di uno status giuridico. Ciò significa, tra le altre cose, che non possono andare a scuola o lavorare; solo fino a pochi anni fa, non potevano neppure ottenere l’assicurazione sanitaria.

Occasionalmente, grazie all’intervento dell’Alta Corte, la legge è stata messa da parte per ragioni umanitarie. Per esempio, residenti nei territori che non sono considerati un rischio per la sicurezza ed hanno almeno 25 anni (per le donne; 35 per i maschi) e sono sposati ad israeliani possono ora ricevere un permesso di residenza temporanea (come quelli concessi ai lavoratori palestinesi).

Tuttavia rinnovare questi permessi ogni anno o due è una procedura complicata, che richiede la raccolta meticolosa di vari documenti (bollette, certificati scolastici e buste paga, per citarne solo alcuni).

La legge ha un grande impatto sulla società a Gerusalemme est, sui suoi contatti con la Cisgiordania e persino sulla geografia urbana. La legge ha contribuito a creare i quartieri poveri nei pressi del muro di separazione con la Cisgiordania – luoghi che sono diventati “città rifugio” per migliaia di coppie di cui uno dei partner è residente nei territori e l’altro in Israele.

L’ordinanza d’emergenza che impedisce il ricongiungimento familiare fu emanata alla fine del marzo 2002 dall’allora ministro degli Interni Eli Yishai. Quello fu il mese peggiore della seconda intifada – pochi giorni dopo l’attacco contro il Park Hotel di Netanya e l’inizio dell’operazione “Scudo difensivo” in Cisgiordania.

Il giorno dopo l’attacco suicida contro il ristorante Matza di Haifa, in cui vennero uccise 16 persone, Yishai ordinò a tutte le anagrafi di Israele di bloccare i ricongiungimenti familiari. La ragione: l’attentatore di Haifa, Shadi Tobassi, viveva a Jenin ma aveva una carta d’identità israeliana perché sua madre era cittadina israeliana.

La giustificazione demografica della legge emerse 15 anni fa, in una relazione del ministro degli Interni, scoperta da Hamoked – il “Centro per la Difesa degli Individui” – durante una discussione del governo sulla legge. La relazione affermava: “Questa ondata di immigrazione porta con sé un rischio per la sicurezza di Israele – un rischio per la sicurezza, criminale e politico, un peso economico e soprattutto demografico sul futuro di Israele.”

“Suicidio nazionale”

Nel 2012 ha avuto luogo un’udienza davanti ad una commissione, per l’occasione allargata, dell’Alta Corte per ricorsi contro la legge. La sentenza di 232 pagine ha rigettato i ricorsi con un solo voto contrario. L’allora presidente della Corte Suprema Asher Grunis, che ha appoggiato il parere della maggioranza, ha scritto: “I diritti umani non sono una ricetta per il suicidio nazionale.” L’ex giudice Edmond Levy, l’unico di opinione contraria, ha scritto: “La perdita dell’immagine di Israele come democrazia…sarà uno dei maggiori risultati di quelli che desiderano distruggerla.”

I giudici di quella commissione, ed altri da allora, hanno sottolineato che la legge della cittadinanza è un norma temporanea e di emergenza che deve essere riconfermata ogni anno dalla Knesset. I giudici della Corte Suprema hanno ripetutamente dato indicazioni allo Stato perché verifichi la necessità di questa norma.

Circa sei mesi fa, per la prima volta in un decennio, si è tenuta una discussione sull’argomento in una riunione congiunta della commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset e della commissione Interni e Ambiente. Un rappresentante del servizio di sicurezza dello Shin Bet, noto solo come G., ha detto che il servizio appoggia il prolungamento della legge, a causa della continua “minaccia da parte di quella stessa popolazione”. Ma ha faticato a sostenere questa affermazione con dei dati. Ha citato 104 casi di sospetti tra la “popolazione (palestinese) che riceve lo status (legale) in Israele in seguito a ricongiungimento familiare.”

Questo dato include tutti i sospetti dal 2002 al 2016. Tuttavia in seguito si è chiarito che molti di quelli “in relazione con il terrorismo” non erano residenti dei territori che sono entrati in Israele in seguito a ricongiungimento familiare, ma loro familiari – sopratutto figli. In effetti solo 17 dei 104 erano in Israele in seguito a ricongiungimento familiare ed erano coinvolti nel terrorismo.

L’avvocatessa Adi Lustigman, che rappresenta le persone senza uno status legale in Israele, ha messo in dubbio il significato del termine “in rapporto con il terrorismo”. Ha affermato che non era chiaro se ciò significava che la persona era stata incriminata, arrestata o era un parente di qualcuno che aveva tirato una pietra. “Questi dati hanno tolto il terreno sotto i piedi alla legge e mostrano che la Knesset ha ignorato la questione,” ha affermato.

Alla fine della riunione della Knesset in cui G. ha testimoniato, il presidente della commissione Avi Dichter (del Likud) ha convocato un’altra riunione dopo sei mesi – riunione che si è tenuta questa settimana. Lo Shin Bet e la polizia non sono stati presenti per fornire dati aggiornati. “Era chiaro fin dall’ultima riunione che non hanno problemi di sicurezza. La domanda è: perché non ridurre il danno, se è possibile?” è stato chiesto al consulente legale dello Shin Bet. Il consulente ha risposto che erano state fatte analisi per gruppi di età e la posizione dello Shin Bet doveva ancora essere formulata. Ha affermato che, quando lo sarà, il servizio informerà la commissione,.

Asmar, 36 anni, è nato a Gerusalemme – nella stessa casa della città vecchia in cui era nato suo padre – e ha vissuto lì tutta la sua vita. Non ha ancora uno status legale in Israele perché dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967 a Gerusalemme si era diffusa la voce che l’esercito israeliano aveva occupato case vuote in Cisgiordania. Il nonno di Asmar aveva costruito una casa nel villaggio di Al Azariya, a est di Gerusalemme. Perciò mandò i suoi tre figli più giovani a vivere lì. In seguito a ciò, quando venne fatto il primo censimento, furono registrati come abitanti di Al Azariya, non di Gerusalemme. E a causa della norma d’emergenza, sono ancora considerati residenti nei territori.

Ciò non è stato realmente molto importante per la maggior parte della loro vita. Ma dalla costruzione della barriera di separazione e dalla legge provvisoria sono diventati residenti illegali nelle loro stesse case. Alcuni dei suoi fratelli sono riusciti ad avere un “permesso” – il documento dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano nei territori occupati. Ndtr.] che consente loro di entrare in Israele, ma non Asmar.

“Voglio portare i miei bambini a vedere il mare, ma non posso,” dice. “Ma la cosa peggiore è che non posso vedere mio figlio, ” riferendosi al suo bambino nell’ospedale Herzog. “Amo mio figlio e vorrei vederlo, ma non posso.”

(traduzione di Amedeo Rossi)