Un documento segreto rivela che Israele espulse abitanti di Gaza subito dopo la guerra dei Sei Giorni

Yotam Berger, 15 marzo 2017, Haaretz

Il memorandum del Ministero degli Esteri rivela che l’esercito israeliano fu impegnato in un’azione di punizione collettiva, in cui scacciò dozzine di residenti del campo profughi e demolì case, per una mina antiuomo le cui tracce portavano al campo.

Un documento segreto del Ministero degli Esteri datato 15 giugno 1967 rivela che Israele espulse dei palestinesi dalla Striscia di Gaza come punizione collettiva per rappresaglia rispetto ad un tentato attacco alle truppe israeliane.

Il documento descrive una visita di funzionari del Ministero degli Esteri all’ufficio del governatore militare a Gaza e parla della decisione di espellere dozzine di palestinesi da Gaza verso il Sinai, dopo che era stata piazzata una mina antiuomo destinata a colpire le forze di sicurezza israeliane. Il documento classificato fu scritto da Avner Arazi, che all’epoca era in servizio al dipartimento per l’Asia del Ministero degli Esteri.

Il dottor Guy Laron, un docente del dipartimento di relazioni internazionali dell’Università Ebraica, ha detto ad Haaretz: “Non so niente di questo episodio, ma vi sono state espulsioni e massacri alla fine della guerra. Non facevano parte della storia ufficiale, ma sono accaduti.”

Ha detto di non aver letto di questo specifico episodio, ma ha citato un esempio relativo all’unità di commando Shaked avvenuto alla fine della guerra. “E’ accaduto sotto il comando di Benjamin Ben-Eliezer (poi deputato e più volte mnistro laburista, ndtr), il 10 o l’11 giugno. C’è anche la storia dei beduini di Rafah, avvenuta dopo, nel gennaio 1972. Furono espulsi migliaia di beduini, si stima dai 6.000 ai 20.000.”

Il documento è stato scoperto da membri di Akevot, l’istituto di ricerca sul conflitto israelo-palestinese. Il direttore esecutivo di Akevot, Lior Yavne, ha detto ad Haaretz: “Quello che è eccezionale in questa storia è che i funzionari del Ministero degli Esteri hanno immediatamente scritto un memorandum di intesa. Non era il loro compito. Dovevano firmare un accordo con UNRWA (agenzia ONU per i profughi palestinesi, ndtr.). Sembra che fossero turbati da quanto avevano visto.”

Il documento descrive la visita di Arazi a Gaza il 14 giugno, giorni dopo la fine della guerra dei Sei Giorni, in cui incontrò il governatore militare di Gaza. I funzionari ricevettero un’informativa sugli avvenimenti dei giorni seguiti alla presa di Gaza. “Il 12 o il 13 una mina antiuomo è esplosa nelle vicinanze di Gaza”, asserisce il documento. “L’indagine ha riscontrato che la mina era stata posata poco prima che esplodesse. Le tracce hanno condotto ad alcune case nel campo profughi di Al-Tarabshe (sic).”

Secondo il documento, gli israeliani chiesero agli abitanti delle case di segnalare le persone che avevano compiuto l’attacco. “Poco tempo dopo, sono comparse 110 persone che si sono dichiarate soldati dell’esercito di liberazione palestinese, assumendosi la responsabilità collettiva,” afferma il documento.

Arazi descrive le ripercussioni di questo atto. “Non hanno voluto sentir parlare di segnalare chi tra loro avesse compiuto l’azione”, ricorda. “Gli furono concesse tre ore per rivelare gli autori dell’azione, altrimenti sarebbero stati puniti tutti – fu deciso di trasferire nel Sinai tutti quelli che non avessero risposto al termine dell’ultimatum e abbandonarli! Pare che nel frattempo sia stata eseguita la punizione. L’esercito fece anche esplodere otto case alle quali conducevano le tracce.”

Il documento descrive anche altri episodi in cui l’esercito cercò di far pressione sulla popolazione palestinese perché consegnasse armi e soldati alle forze di sicurezza.

“Il governo ha chiesto ai residenti del campo profughi nella Striscia di consegnare tutte le armi in loro possesso”, è scritto nel documento. “Loro non hanno risposto a questo appello. Perciò il governo ha chiesto al rappresentante locale dell’Unrwa di indicare un deposito in cui chi possedeva armi potesse riporle nella notte senza essere ricercato o dover essere identificato. Questo metodo è stato più efficace.” E inoltre: “Nell’ipotesi che alcuni soldati egiziani si nascondessero in case del campo profughi, i residenti del campo sono stati invitati a consegnare questi soldati. Non vi è stata alcuna risposta.”

Laron sostiene che ci sono testimonianze oculari di espulsioni di massa dalla Cisgiordania appena finita la guerra. “E’ successo alla fine della guerra in Cisgiordania”, ha detto. “Probabilmente c’era qualche piano organizzato, riguardo al quale non sono stati diffusi documenti. Tuttavia, ci sono resoconti di soldati che arrivavano sui camion e spingevano i residenti ad andarsene, li trasportavano per espellerli”, ha aggiunto.

“Uri Avnery, nelle memorie che ha appena pubblicato, sostiene di aver incontrato soldati dell’unità che dicevano che quello era il loro lavoro – attuare un piano organizzato finalizzato all’espulsione dei residenti della Cisgiordania”, ha continuato Laron. “Il comandante generale, Uzi Narkiss, appena prima della guerra disse che, se ce lo permettessero, potremmo scacciare gli arabi dalla Cisgiordania in 48 ore. Senza dubbio furono esiliate migliaia di persone.”

Yavne, dell’istituto Akevot, ha detto che la testimonianza nel documento del governatore di Gaza nel 1967 dimostra che le demolizioni delle case e le espulsioni sono state usate come strumento di punizione nei territori da parte dell’esercito fin dai primi giorni dell’occupazione. Riguardo all’ufficiale che parlò con i funzionari del Ministero, Yavne ha aggiunto: “I giuristi dello stato tendono a negare che le demolizioni delle case siano parte di una politica di punizioni, ma la testimonianza del generale Gaon mostra la vera natura dell’azione di demolizione, che danneggia sempre coloro che non sono coinvolti nel conflitto.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




ISRAELE, VA BENE, HAI VINTO

Intervista a Jeff Halper
realizzata da Barbara Bertoncin,  UNA CITTÀ n. 237 / 2017 marzo

All’indomani della cosiddetta legge furto, approvata dal parlamento israeliano, sembrano ormai venute meno le condizioni per una soluzione a due stati; il rischio di uno scenario in cui Israele si annette l’area C, si proclama lo stato palestinese a Gaza e il resto della Cisgiordania diventa un protettorato internazionale; l’unica alternativa: uno stato binazionale e democratico, dove i popoli di entrambe le nazioni si possano sentire a casa e al sicuro. Intervista a Jeff Halper.

Jeff Halper, antropologo, già direttore dell’Israeli Committee Against House Demolitions (Icahd), è cofondatore di The People Yes! Network (Tpyn). Vive a Gerusalemme.

Tu da tempo denunci come in Israele-Palestina non ci siano più le condizioni per una soluzione a due stati.
Abbiamo trascorso anni e anni lavorando sulla questione palestinese. Ovunque nel mondo è uno dei temi principali di cui la gente parla. Ecco, io dico che la soluzione a due stati è andata. È morta. Ed è così da anni. Il problema è che la sinistra non ha ancora definito un nuovo obiettivo da raggiungere. Qual è il nostro progetto?
Io ho scritto molto su quella che ritengo debba essere la via da percorrere una volta venuta meno l’opzione dei due stati. Dobbiamo puntare a uno stato democratico binazionale.
Questa è la mia idea, ce ne sono altre in giro. Purtroppo la sinistra non si esprime, inclusi i palestinesi, e noi siamo bloccati, perché io non posso rivendicare nulla in nome dei palestinesi, posso spingermi solo fino a un certo punto, ma non posso rappresentarli.
Continuo a partecipare a grandi convegni, fra un paio di settimane sarò in Irlanda a intervenire sul diritto internazionale e i palestinesi. Gli incontri si susseguono, c’è la campagna Bds (boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni), ci sono i dossier, i rapporti dell’Onu, di Human Rights Watch, di Amnesty e milioni di altri gruppi differenti, c’è la protesta… Ecco, il punto è che ci sono solo proteste e documenti! Non c’è un movimento politico pro-attivo. Non si fa nulla di politico.
Israele non ha più l’appoggio incondizionato da parte della comunità internazionale. Trump si proclama suo amico, ma non sono certo lo sia davvero.
Io continuo ad andare all’estero a parlare, e la gente mi dice: va bene, ti ascoltiamo da vent’anni, sappiamo tutto, abbiamo capito, l’occupazione è una brutta cosa, vìola i diritti umani…  Ma dicci cosa vuoi, dicci cosa vogliono i palestinesi e gli israeliani di sinistra. Dicci cosa fare e lo faremo.
Boicottare Sodastream non libererà la Palestina. Ripeto, serve un obiettivo politico. Il problema è che noi di sinistra non ci vediamo davvero come attori politici: commentiamo, analizziamo, scriviamo, ma non ci buttiamo, non ci impegniamo in un processo politico. Così lasciamo il terreno libero a Netanyahu e alla destra.
Penso che sia ora di fermarsi e formulare un’idea: dove stiamo andando? Cosa vogliamo? Io non voglio passare l’intera vita a ricostruire l’ennesima casa o a scrivere l’ennesimo articolo.
Tanto più che sono convinto che ci sarebbero le condizioni per rilanciare. Il fatto di esserci liberati della soluzione a due stati è positivo, chiarisce la situazione. Però bisogna agire, altrimenti avrà vinto la destra.
Nelle scorse settimane il parlamento israeliano ha approvato una legge per “regolarizzare” gli insediamenti ebraici e le case edificate su terreni privati. I palestinesi hanno parlato di “furto legalizzato”.
Io penso che Israele si annetterà l’Area C, la zona della Cisgiordania sotto il pieno controllo israeliano, magari non tutta, ma la maggior parte degli insediamenti. Comincerà in piccolo, con Ma’ale Adumim e l’area circostante, che è strategica, e alla fine farà lo stesso con tutti gli insediamenti.
La destra ha sempre voluto prendersi l’Area C. Circa il 95% dei palestinesi sono stati confinati alle aree A e B, e sono pochissimi quelli rimasti nella C. Dunque vogliono annetterla. C’è sempre stata un’opposizione a questo, persino da parte di Obama. Questa legge apre questa strada. Dice che gli ebrei israeliani possono prendersi qualsiasi terreno palestinese vogliano, offrendo in cambio una compensazione economica. In realtà credo che la Corte suprema israeliana non la lascerà passare perché è davvero troppo. Cosa succederà allora? Che il governo dirà: “Va bene, se non possiamo fare così, dovremo annettere l’area C politicamente”. Sarà una decisione politica, che non ha nulla a che vedere con le corti; insomma, temo che questa legge, in qualche modo, dia alla destra una scusa per procedere con le annessioni. Diranno: “Noi volevamo solo la terra, ma visto che non possiamo, siamo costretti ad annettere”. Ecco, credo che succederà questo, che Israele si annetterà la maggior parte dell’Area C, così da espandersi dal 78% della Palestina storica a circa l’85%, inclusi tutti i confini, Gerusalemme, le acque e le risorse, tutto.
Dopodiché è possibile che Israele firmi una pace separata a Gaza. In fondo, gli egiziani non la vogliono, Israele non la vuole, nemmeno l’Autorità Palestinese vuole Gaza. Solo Hamas è interessata ad averla. Bene, sarà quello lo Stato palestinese.
Ora Israele è in piena “love story” con l’Arabia Saudita e con gli Stati del Golfo, sono loro a sostenere Hamas, anche finanziariamente. Diranno ad Hamas: fate un accordo con Israele e niente più razzi, niente più violenze. Avigdor Lieberman, il ministro degli esteri israeliano, la scorsa settimana ha parlato di un impegno israeliano a ricostruire il porto marittimo e l’aeroporto di Gaza, e a dare ai gazani permessi di lavoro in Israele. Sono tutti segnali. A dire il vero, nessuno ha ancora detto nulla ufficialmente, anche se è risaputo che sono in corso dei contatti tra israeliani e Hamas. Anche l’Egitto starebbe incoraggiando in questo senso, che Gaza diventi lo Stato palestinese.
Questo ci lascia con le aree A e B. Israele dice che non sono un loro problema. Insomma, l’occupazione è conclusa. Israele potrebbe anche concedere la cittadinanza israeliana ai palestinesi rimasti nell’area C (tra i 40.000 e i 120.000). Non è un numero che possa minacciare la demografia israeliana, e così non si potrà dire che hanno fatto l’apartheid; diranno: sì abbiamo preso l’area C, ma guardate, gli abbiamo dato la cittadinanza!
Dopodiché Israele dirà che le aree A e B, dove si trova il 95% dei palestinesi della West Bank, sono un problema della comunità internazionale. L’Europa, gli Stati Uniti, attraverso le Nazioni Unite, imporranno quindi un protettorato sulle aree A e B, più o meno come il protettorato britannico. Siccome i palestinesi non sono pronti per autogovernarsi, non hanno un’economia solida, e non possono avere uno stato, l’Onu diventerà il loro padrone di casa… Un po’ come succede già oggi, con le agenzie Onu e le varie ong che danno loro soldi e aiuti. Ecco come la vedo.
Una prospettiva di questo tipo combacia con l’idea di Netanyahu di “dare autonomia” ai palestinesi.
Quello che resta incerto è la tempistica. Credo che Abu Mazen, persino lui, non acconsentirebbe a una cosa del genere. Ma Abu Mazen sta per uscire di scena, ha 85 anni, non durerà a lungo.
Israele potrebbe aspettare ancora un po’, dopodiché annetterà l’area C. Con Gaza fuori dai giochi, l’Autorità palestinese non avrà più ragione di esistere. Diventeranno dei semplici collaborazionisti. Non vedo poi chi potrà sostituire Abu Mazen; certo in una situazione del genere Barghuti non prenderebbe il comando e comunque Israele non lo permetterebbe.
Potrebbe esserci un’Autorità palestinese nelle aree A e B, sotto l’egida Onu, un po’ sul modello dei bantustan sudafricani in cui c’erano comunque dei leader, delle autorità locali. A questo punto, di fatto, Israele avrà vinto. Se nessuno ci si opporrà, andrà così. Per questo dico che dobbiamo intervenire, ed è urgente, perché quello che ho descritto non accadrà fra cinque anni: sta già accadendo ora.
Tu dici che l’alternativa è accettare la soluzione dello stato unico, purché binazionale, cioè democratico?
Quello che io sostengo è che c’è già un unico stato. La soluzione a due stati è andata, ma uno stato c’è; non si può andare da nessuna parte in Palestina senza attraversare un checkpoint israeliano; c’è una sola valuta, lo shekel, in tutto il paese, che tu ti trovi a Gaza, in Israele o in Cisgiordania. C’è un’unica rete idrica, un’unica rete elettrica, una rete autostradale, un esercito, un governo effettivo, voglio dire: c’è già un unico stato qui.
Ciò che dobbiamo fare a sinistra è essere intelligenti, cioè dire: “Va bene, Israele, hai vinto. Hai eliminato la soluzione dei due stati. Non puoi biasimare gli arabi per questo, perché sei tu che hai creato un solo stato. Lo accettiamo: non accettiamo però che sia uno stato di apartheid. E dunque c’è una sola via d’uscita equa, cioè concedere pari diritti a tutti i cittadini del paese. Una democrazia”.
I palestinesi non hanno problemi con la soluzione a uno stato. La questione è se sarà uno stato binazionale o semplicemente uno stato dove tutti votano. Io dico che dovrà essere uno stato binazionale, ed è qui che si incontrano le resistenze dei palestinesi.
Binazionale per due ragioni: la prima è che è già binazionale. Voglio dire, è da un secolo che i palestinesi combattono per i loro diritti nazionali, e così gli ebrei; non si può far finta che entrambi siano solo elettori. L’altro problema riguarda la popolazione israeliana, perché in questo stato ci sarà una maggioranza palestinese! Gli ebrei israeliani hanno un timore legittimo: “Cosa succederà se quell’unico stato diventa una democrazia, una persona, un voto, e i palestinesi faranno a noi ciò che noi abbiamo fatto a loro?”. “Cosa succederà se in parlamento passeranno delle leggi per discriminarci, per portarci via la terra?”. Hanno ragione. Voglio dire, è una preoccupazione legittima, a cui si risponde con il principio dello stato binazionale.
In democrazia, un parlamento è limitato: c’è una costituzione, una corte suprema; insomma, un parlamento non può far approvare qualsiasi legge voglia. Qui il parlamento sarebbe limitato nel senso che non potrebbe emanare leggi che violino l’integrità di un qualsiasi gruppo nazionale: palestinesi, arabi, ebrei israeliani. Non potrebbe farlo. Ciascun popolo avrebbe il diritto all’auto-determinazione, alla propria lingua, alle proprie istituzioni, e così via. Se questo principio fosse garantito, credo che gli ebrei israeliani comincerebbero a pensarci. Perché agli ebrei israeliani, in realtà, non è mai importato del territorio. Non hanno mai sostenuto gli insediamenti. Se ci pensi, ci sono seicentomila coloni, meno del 10% della popolazione israeliana. Dopo sessant’anni, miliardi di dollari spesi e tutto il resto, solo il 10% si è convinto ad andare a vivere là. E la maggior parte vive nei sobborghi di Tel Aviv o Gerusalemme. Oltretutto le più grosse colonie della Cisgiordania sono abitate da ultra-ortodossi: a loro non importa niente se stanno lì o qui, vogliono soltanto che il governo gli permetta di costituire una comunità coesa. Se invece prendi i veri coloni, non gli ultra-ortodossi, ma quelli di Hebron, che odiano gli arabi; ecco sono meno dell’1% della popolazione israeliana, forse sessantamila persone.
Per gli ebrei israeliani, ciò che conta è la sicurezza. La loro sicurezza personale, prima di tutto: poter salire su un autobus, entrare in un locale pubblico, ecc., e poi la sicurezza collettiva.
Se verranno rassicurati rispetto al fatto di poter continuare a vivere in questo paese come ebrei israeliani, di poter parlare ebraico, di avere un’università ebraica, i loro giornali… Se potranno avere tutto questo, cioè diritti nazionali in uno stato democratico, credo che lo stato unico sia ipotesi interessante per gli israeliani. Perché risolve il problema di ciò che può accadere se c’è una maggioranza palestinese.
In uno stato democratico binazionale, non importa chi è la maggioranza, i tuoi diritti collettivi saranno comunque protetti, anche se fai parte del 10% della popolazione.
Ho cercato di sintetizzare tutto questo in uno slogan, non so se funziona bene in italiano. Il problema della campagna di boicottaggio è che non è connessa a un risultato finale. Allora per me lo slogan è  “Bds for Bds”, cioè “Boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni, per uno stato democratico binazionale”.
Questa potrebbe essere la direzione, il focus del nostro lavoro.
Il problema qual è? Che non posso essere io a dare garanzie in questo senso. Perché la gente mi risponde: “E tu come lo sai che gli arabi ci lasceranno in pace?”. Certo, posso dire loro: “Guarda, conosco gli arabi, andrà tutto bene”, ma so già con quali epiteti reagiranno.
Abbiamo bisogno di qualcuno che, da parte palestinese, dica quello che a suo tempo disse l’Anc: “La nostra visione del nuovo Sudafrica è un paese inclusivo di tutti…”.
Ora sto lavorando a un gruppo per una Freedom Charter; ecco, se i palestinesi sapranno dire che la loro visione di Israele-Palestina è un paese inclusivo di tutti, credo che potremmo convincere gli israeliani ad accettare. Diversamente diranno di no. Se il nuovo stato è solo una democrazia, una persona un voto, senza il binazionalismo, gli israeliani non accetteranno mai.
C’è qualcuno nel versante palestinese che sta lavorando in questo senso?
Nessuno che io conosca. Non riesco a trovare un approccio strategico tra i palestinesi. Gli accademici fanno le loro cose di accademia e non succede niente. Non che la sinistra israeliana sia meglio; è la stessa cosa. Non ci sono neppure israeliani con una strategia. Ecco il problema. Non c’è nessuno! Io sono completamente isolato, e continuo a chiedere, a provare…
Per come la vedo io ci sono tre livelli: al fondo c’è il popolo. Ma il popolo palestinese è impegnato a combattere per la propria esistenza, che sia a Gaza o Bilin, lotta per attraversare un checkpoint ogni giorno, ecc. Loro resistono. E poi parliamo di persone normali, non sono organizzate, molte non sono istruite, non hanno accesso ai media, ai politici, a paesi esteri… Insomma, la gente è impegnata a resistere. Possono creare un movimento di base, ma a un certo punto devono passare la palla a un secondo livello, quello degli intellettuali, dei leader, delle persone istruite. Solo loro possono organizzare la resistenza, fare delle campagne. Il secondo livello poi deve passare la palla al terzo, che siete voi, la società civile internazionale, che si mobilita e porta le campagne a livello globale.
Bene, al momento c’è il primo livello, il popolo, che si mobilita; anche il terzo livello si mobilita, voglio dire, ci sono migliaia di gruppi in tutto il mondo. È il livello intermedio che manca. È questo che sta paralizzando tutto.
Questo è un vuoto che non possono coprire gli israeliani. La guida va presa in mano dai palestinesi. Ho anche pensato a un appello, a una lettera alla società civile palestinese, da parte di centinaia di gruppi da tutto il mondo che dicano: abbiamo bisogno di voi, della vostra guida, dovete dirci in che direzione andare…
Per quanto riguarda la demolizione delle case, come sta andando?
La demolizione gode di ottima salute, procede. Siamo arrivati quasi a cinquantamila case demolite. Succede sempre più spesso. Il processo va avanti. In ebraico si parla di “giudaizzazione”; l’intero progetto del sionismo dell’ultimo secolo è stato trasformare la Palestina nella terra di Israele. Credo che ormai siamo agli ultimi stadi. I palestinesi ottengono molto sostegno internazionale, ma poi? Certo, boicottiamo Sodastream, Hewlett Packard (HP), G4s, ecc. Ma qual è lo scopo di tutta questa roba? Quando abbiamo boicottato il Sudafrica il tema era “Una persona, un voto”. Avevamo un obiettivo. Ma oggi?
Qualcuno paventa un apartheid anche all’interno della Linea verde…
Giusto. Il fatto è che conosco i palestinesi, ho dei buoni amici tra i cosiddetti palestinesi del ’48. Una delle mie amiche è del partito comunista, così le ho detto: “Dai, invitami, a parlare della soluzione a uno stato”. Mi ha detto: “No, non potremmo mai fare una cosa del genere, noi siamo per la soluzione a due stati”. Sai com’è, i comunisti sono sconnessi dalla realtà.
A parte le battute, gli arabi israeliani sono impegnati a tutelare i loro diritti in Israele, che in effetti sono a rischio, e quindi non hanno tempo e spazio per occuparsi dei palestinesi di Gaza. Ciò in cui è riuscita Israele, con la comunità internazionale, è stato dividere i palestinesi: ci sono i palestinesi israeliani, i palestinesi della Cisgiordania, i palestinesi di Gaza, quelli dei campi… Non si conoscono più, non si parlano, hanno obiettivi differenti, addirittura sono in competizione l’uno con l’altro…
Tu lo sai, io lo so, ma non ci possiamo fare nulla. Non c’è una discussione tra i palestinesi. Quando vado a una conferenza sui diritti dei palestinesi, per dire, non c’è mai gente dei campi, o di Gaza. Non so se i palestinesi della Cisgiordania o di Israele conoscano ancora gente dei campi.
Insomma, quello che ci è aspetta è un compito tutt’altro che facile.
Cosa ti aspetti ora che c’è Trump sulla scena?
Credo che Trump lascerà che Israele faccia tutto ciò che vuole. Non credo che lui abbia una strategia. Credo che di base la sua idea sia davvero: “Prima l’America: non interverremo, non ci immischieremo”. Il resto starà alle parti, a israeliani e palestinesi che devono negoziare… e ciò, di fatto, significa che Israele può fare ciò che vuole. Insomma, credo che gli Stati Uniti si tireranno indietro, che di fatto equivale a sostenere Israele. Vedremo cosa farà l’Europa, se proverà a prendere il posto degli Stati Uniti. Sarebbe interessante.
La mia paura è che non ci sia alcun movimento forte attorno alla questione palestinese. L’Europa oggi è impegnata ad affrontare il problema dei richiedenti asilo; gli Usa hanno Trump, non c’è posto per nient’altro. Come ho già detto, se non troviamo un focus, un obiettivo politico, la gente si stancherà. Le persone non restano in un movimento per sempre, se non succede niente; ci sono tante cose da fare… Continuo a ripeterlo anche ai palestinesi: se non facciamo qualcosa alla svelta, se non ci organizziamo, perderemo! Semplicemente spariremo. È una possibilità.
(a cura di Barbara Bertoncin.
Traduzione di Stefano Ignone)




Rapporto OCHA 21 febbraio – 6 marzo 2017 ( due settimane)

Il 24 febbraio, nella Striscia di Gaza, a causa del crollo di un tunnel per il contrabbando, scavato sotto il confine con l’Egitto, tre lavoratori palestinesi sono morti e undici sono rimasti feriti.

Dal 2013, la maggior parte dei tunnel per il contrabbando sono stati distrutti o bloccati dalle autorità egiziane, tuttavia è stato riferito che alcuni sono ancora operativi. In Cisgiordania, un 22enne palestinese, saltando dalla sommità della Barriera è caduto in una profonda buca di una cava nei pressi del villaggio di Azzun Atma (Qalqiliya) ed è morto; il giovane era inseguito dalle forze israeliane e, secondo quanto riferito, stava tentando di entrare illegalmente in Israele per cercare lavoro.

Il 1° marzo, un colono israeliano ha ucciso, con arma da fuoco, un 24enne palestinese che aveva fatto irruzione nella sua casa nell’insediamento avamposto Mor Farm (Hebron); secondo quanto riferito dai media israeliani, il colono era stato accoltellato e ferito dal palestinese.

Il 6 marzo, nella città di Al Bireh (Ramallah), nel corso di uno scontro a fuoco verificatosi nel contesto di un’operazione militare, un 33enne palestinese è stato ucciso dalle forze israeliane. L’incidente ha innescato scontri che hanno portato al ferimento, con arma da fuoco, di due palestinesi.

In Cisgiordania, complessivamente sono stati feriti dalle forze israeliane 57 palestinesi, tra cui nove minori e tre donne. La parte preponderante dei ferimenti sono stati registrati durante scontri verificatisi nel contesto di operazioni di ricerca-arresto; durante manifestazioni tenute in solidarietà con i prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e nelle manifestazioni settimanali nei villaggi di Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Ni’lin (Ramallah). Inoltre, in due episodi distinti, due palestinesi, un uomo e una donna, sono stati feriti con arma da fuoco: al checkpoint di Qalandiya e ad un checkpoint “volante” all’entrata del villaggio di Hizma (entrambi a Gerusalemme), presumibilmente per non essersi fermati all’alt intimato loro dai soldati. Inoltre, un soldato israeliano è stato ferito, con arma da fuoco, durante un pattugliamento presso l’insediamento colonico di Efrat (Betlemme).

A Gaza, il 27 febbraio, quattro palestinesi, fra i quali un civile, sono rimasti feriti, ad est di Rafah, nel corso di molteplici attacchi israeliani, sia aerei che terrestri; secondo quanto riferito, gli attacchi costituivano una risposta al lancio di un razzo ad opera di un gruppo armato. Il razzo è caduto in uno spazio aperto nel sud di Israele, senza causare vittime o danni. A quanto riferito, un altro razzo lanciato contro Israele è ricaduto all’interno della Striscia di Gaza.

Sempre a Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 44 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco, di avvertimento o diretto, ed hanno ferito, nei pressi della recinzione tra Israele e Gaza, due civili palestinesi che, a quanto riportato, tentavano di introdursi in Israele. In applicazione delle restrizione imposte da Israele per l’accesso al mare, cinque pescatori sono stati arrestati dalle forze navali israeliane, mentre le loro barche e le reti da pesca sono state sequestrate. In due casi, le forze israeliane sono entrate in Gaza ed hanno svolto operazioni di spianatura del terreno e scavi nei pressi della recinzione perimetrale.

Tra il 28 febbraio e il 1° marzo, nell’insediamento colonico di Ofra (Ramallah), le forze israeliane hanno evacuato e demolito, in base ad un sentenza della Corte Suprema israeliana, nove abitazioni [coloniche israeliane] che erano state edificate su terra privata palestinese. Secondo un rapporto dei media israeliani, gli scontri verificatisi nel corso dell’evacuazione hanno provocato il ferimento di 11 membri delle forze israeliane e di 17 giovani coloni.

In tre diversi contesti, sei palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni israeliani: quattro di loro, tra cui due minori, mentre pascolavano le pecore nei pressi dell’insediamento colonico di ‘Otniel (Hebron); uno mentre lavorava sul proprio terreno nei pressi dell’insediamento avamposto Gilad Farm (Nablus); e un altro nella città di Huwwara (Nablus), mentre camminava in strada. Sono stati segnalati almeno tre episodi di lancio di pietre da parte di coloni israeliani, con conseguenti danni per tre veicoli di proprietà palestinese.

Secondo i media israeliani, un colono israeliano è stato ferito e diversi veicoli sono stati danneggiati in almeno 18 episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani. Gli episodi hanno avuto luogo nei pressi di Gerusalemme, Ramallah e Betlemme.

Sempre in Cisgiordania, quattro palestinesi, due ragazzi e due uomini, sono rimasti feriti in tre diversi casi di esplosione di residuati bellici. I minori, di età compresa fra 14 e 15 anni, sono rimasti feriti mentre pascolavano le pecore vicino alle comunità Al Mughayyir (Ramallah) e Khashm ad Daraj (Hebron); i due uomini nei pressi del villaggio di Taffuh, (Hebron) mentre manomettevano gli ordigni inesplosi.

Per la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito due strutture di proprietà palestinese in Area C, nel governatorato di Hebron e due strutture a Gerusalemme Est, sfollando 23 palestinesi e coinvolgendone altri 50.

Nel corso di una esercitazione militare, le forze israeliane hanno sfollato, per due volte e per diverse ore ogni volta, 30 famiglie appartenenti a due comunità di pastori nel nord della Valle del Giordano (Khirbet Tana e Lifjim). In un’altra comunità della stessa area (Khirbet ar Ras al Ahmar), le autorità hanno sequestrato quattro veicoli agricoli, utilizzati per la coltivazione e per l’approvvigionamento idrico. Tutte queste comunità si trovano in un’area designata [da Israele] come una “zona militare per esercitazioni a fuoco”.

Il 5 marzo, le autorità israeliane hanno emesso ordini di demolizione definitiva contro quasi tutte le 140 strutture della comunità beduina palestinese di Khan al Ahmar-Abu Helu (governatorato di Gerusalemme), tra cui una scuola elementare, finanziata da donatori, frequentata da circa 170 bambini. Questa è una delle 46 comunità beduine della Cisgiordania centrale che Israele sta cercando di trasferire in tre siti designati. Inoltre, ordini di demolizione definitivi sono stati emessi nei confronti di 13 strutture, in quattro comunità della zona Massafer Yatta (Hebron), e contro una scuola finanziata da donatori nella comunità di Khirbet Tana (Nablus).

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto per un giorno in entrambe le direzioni: è stata consentita l’uscita dalla Striscia di Gaza a 581 persone e il rientro a 566. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Netanyahu ha offerto al leader dell’opposizione di insistere insieme per un’iniziativa di pace regionale – e poi ha fatto marcia indietro

Barak Ravid – 5 marzo 2017 Haaretz

Netanyahu ed Herzog avevano raggiunto una sensazionale intesa sei mesi fa; una dichiarazione congiunta al Cairo, compresa la disponibilità per un compromesso territoriale e una riduzione della costruzione di colonie, era pronta ad essere seguita dall’annuncio di un governo di unità. Ma la crisi di Amona ha interrotto le trattative.

Sei mesi fa il primo ministro Benjamin Netanyahu ha inviato al leader dell’opposizione Isaac Herzog un documento contenente una dichiarazione congiunta per sollecitare un’iniziativa di pace regionale e stringere un governo israeliano di unità – prima di fare marcia indietro qualche settimana dopo.

Netanyahu ha mandato il documento ad Herzog sette mesi dopo un incontro di pace segreto ad Aqaba, Giordania, riportato due settimane fa da Haaretz.

Il documento rifletteva la volontà di Netanyahu di arrivare ad un compromesso territoriale in una soluzione dei due Stati con i palestinesi e un freno alla costruzione delle colonie.

Tre settimane dopo aver inviato la proposta e dopo aver concluso un accordo di massima, Netanyahu ha iniziato a tirarsi indietro durante la crisi politica in merito all’avamposto non autorizzato di Amona, in Cisgiordania. In ottobre i contatti tra le due parti si sono interrotti e alla fine sono falliti.

Il documento, consegnato da Netanyahu a Herzog il 13 settembre dopo due giorni di colloqui, era una bozza che avrebbero dovuto sottoporre ad un summit al Cairo o a Sharm el-Sheikh insieme al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e forse al re di Giordania Abdullah II. Quell’incontro avrebbe dovuto aver luogo all’inizio di ottobre.

Era previsto che il summit avrebbe lanciato l’iniziativa di pace regionale e poco dopo che Netanyahu ed Herzog fossero tornati in Israele, avrebbero dovuto annunciare l’inizio di una maratona negoziale per un governo di unità.

Una serie di leader internazionali sarebbero stati coinvolti nel processo; figure di spicco in Giordania e in Egitto, così come l’ex primo ministro britannico Tony Blair – che era direttamente coinvolto nei contatti – e l’ex- segretario di Stato USA John Kerry ed alcuni dei suoi consiglieri, sarebbero state informate del documento.

Ben Caspit, del quotidiano “Maariv”, ha riportato qualche mese fa alcuni dettagli della proposta, ma questa è la prima volta che il documento viene interamente pubblicato.

In risposta a questo articolo, l’ufficio del primo ministro ha affermato: “La descrizione relativa ad un possibile processo regionale che non è stato realizzato è totalmente falsa. L’argomento non ha niente a che fare con Amona. Il primo ministro Netanyahu è interessato a procedere in un’iniziativa regionale. Chiunque le abbia fornito questa informazione non è a conoscenza dei dettagli, o li sta falsificando.”

L’ufficio di Herzog ha rifiutato di commentare il documento, che viene riportato integralmente qui di seguito:

“Desideriamo ringraziare il presidente al-Sisi per la sua volontà di svolgere un ruolo attivo per far progredire la pace la sicurezza nella regione e rilanciare il processo di pace.

“Riaffermiamo il nostro impegno per la soluzione dei due Stati per due popoli e il nostro desiderio di perseguire questa soluzione.

“Israele desidera la fine del conflitto e di ogni rivendicazione, il riconoscimento mutuo tra due Stati nazionali, il rafforzamento della sicurezza e una soluzione territoriale condivisa che, tra le altre cose, riconosca i centri abitati esistenti.

“Nella ricerca della pace, Israele tende la mano ai palestinesi per iniziare negoziati diretti e bilaterali senza condizioni.

“Israele vede in modo positivo lo spirito generale dell’ iniziativa di pace araba e gli elementi positivi in essa contenuti. Israele apprezza il dialogo con gli Stati arabi riguardo a questa iniziativa, in modo da riflettere sui drammatici cambiamenti degli ultimi anni nella regione e lavorare insieme per procedere verso la soluzione dei due Stati e una pace più complessiva nella regione.

“Nel contesto dei rinnovati tentativi di pace, le attività di colonizzazione di Israele in Giudea e Samaria (la Cisgiordania) saranno messe in atto in modo da facilitare il dialogo per la pace e l’obiettivo dei due Stati per due popoli.

“Israele lavorerà con l’Autorità Nazionale Palestinese per migliorare in modo significativo le condizioni economiche e la cooperazione economica, anche nell’Area C [sotto totale controllo di Israele in base agli accordi di Oslo. Ndtr.] e per potenziare il coordinamento per la sicurezza.

“Israele auspica una stabilità a lungo termine a Gaza, compresa la ricostruzione umanitaria e concreti accordi per la sicurezza.”

Kerry, Sisi e [il re della Giordania] Abdullah nel febbraio 2016 sono stati presenti al summit di Aqaba, che è stato la base dei contatti tra Netanyahu ed Herzog per formare un governo di unità tra marzo e maggio. I loro contatti sono naufragati alla fine di agosto prima di essere ripresi.

Netanyahu e Kerry si sono incontrati il 26 giugno per una cena di sei ore nel ristorante “Pierluigi” di Roma. Hanno mangiato e bevuto, e si dice che Netanyahu abbia fumato in continuazione sigari cubani. Un ex-funzionario di alto livello USA, parlando in incognito, ha fornito qualche dettaglio della conversazione.

“Qual è il tuo piano per i palestinesi, cosa vuoi che succeda ora?” ha riferito che Kerry ha chiesto a Netanyahu.

Il primo ministro ha detto di auspicare di procedere insieme ai Paesi arabi con un’iniziativa regionale, basata sul piano in cinque punti che aveva presentato ad Aqaba quattro mesi prima.

Kerry ha detto a Netanyahu che i passi che egli aveva intenzione di intraprendere non erano sufficienti per far unire al piano di pace regionale Paesi arabi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

“Una dichiarazione positiva ma vaga sull’iniziativa di pace araba e passi simbolici sul terreno non ti aiuteranno a portare gli arabi al tavolo delle trattative. Lo so perché gliel’ho chiesto,” ha detto Kerry secondo quanto citato dal funzionario USA. “Non hai un percorso per tornare a colloqui diretti con i palestinesi o un canale di dialogo con i Paesi arabi. Sei arrivato al limite. Qual è il tuo piano?”

Kerry ha presentato a Netanyahu una versione aggiornata dell’iniziativa regionale che ha presentato ad Aqaba. All’inizio di giugno, trenta ministri degli Esteri si sono incontrati a Parigi per partecipare all’iniziativa di pace francese, ma Netanyahu ha snobbato la mossa francese. Kerry ha detto a Netanyahu che il piano aggiornato che suggeriva avrebbe sostituito l’iniziativa francese e incluso l’elemento regionale a cui il primo ministro teneva tanto.

La proposta di Kerry includeva una conferenza di pace regionale comprendente Israele, i palestinesi, i Paesi arabi sunniti come Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, con cui Israele non ha relazioni diplomatiche, la Russia, la Cina e l’Unione Europea. Kerry ha suggerito che la conferenza fosse tenuta sulla base degli stessi sei principi di accordo permanente che aveva presentato al summit di Aqaba e che includevano il riconoscimento di Israele come Stato ebraico.

Kerry ha detto a Netanyahu che Israele ed i palestinesi non avrebbero dovuto adottare i principi e avrebbero anche potuto esprimere pubblicamente riserve su di essi. Ma il summit avrebbe rilanciato i colloqui diretti [tra Israele ed i palestinesi. Ndtr.] e stabilito un canale di negoziato con i Paesi arabi. Ciò avrebbe incluso discussioni su un accordo di sicurezza regionale che Israele desidera e il riconoscimento da parte degli arabi e di molti Paesi occidentali di Israele come Stato ebraico.

Visita a sorpresa di un ministro egiziano

Un ex- funzionario di alto livello americano ha notato che Netanyahu non ha accettato né rifiutato la proposta di Kerry; ha semplicemente detto che ci avrebbe pensato. Ma due giorni dopo l’incontro con Netanyahu a Roma, Kerry ha chiamato Herzog e l’altra leader dell’alleanza “Unione Sionista”, Tzipi Livni. Kerry li ha informati delle sue conversazioni con Netanyahu e dell’iniziativa che aveva proposto, e ha chiesto loro con discrezione se per loro fosse possibile unirsi alla coalizione di governo.

L’iniziativa francese, insieme alla revisione di Kerry della sua proposta, ha intensificato la pressione su Netanyahu e lo ha portato a riprendere i suoi contatti con Sisi e Blair. Ancora una volta egli ha anche proposto un processo di pace regionale che aggirasse l’amministrazione Obama e non richiedesse ad Israele di impegnarsi sui sei principi di Kerry.

Il 10 luglio, due settimane dopo l’incontro con Kerry a Roma, il Ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry si è recato a sorpresa in visita a Gerusalemme. E’ stata la prima visita in Israele di un ministro degli Esteri egiziano in un decennio, ed è stata preceduta da visite al Cairo dell’inviato di Netanyahu per il processo di pace, Isaac Molho. Durante la visita Shoukri ha incontrato Herzog così come Netanyahu.

Un importante funzionario israeliano informato dei contatti ha affermato che Shoukry è arrivato per verificare se Netanyahu avrebbe confermato quello che aveva detto a Sisi dopo il loro colloquio di metà maggio – che voleva che l’Egitto cercasse di instaurare un dialogo tra Israele ed i palestinesi, con l’appoggio degli Stati arabi. Shoukry ha detto a Netanyahu che l’Egitto voleva sapere quali passi il primo ministro avesse intenzione di compiere per far progredire l’iniziativa di pace, sottolineando che Sisi pensava ancora che portare l’Unione Sionista nella coalizione avrebbe dimostrato la serietà di Netanyahu. Shoukry ha esposto lo stesso messaggio a Herzog.

I contatti internazionali si sono ridotti d’intensità nelle settimane seguenti, nel mezzo dell’estate. Ma Kerry ha continuato a tenere conversazioni settimanali con Netanyahu e con molti altri leader regionali. Un ex alto funzionario diplomatico USA ha detto che Kerry si è rifiutato di arrendersi, nonostante i suoi consiglieri e la Casa Bianca gli dicessero che Netanyahu non era serio e che Kerry stava facendo un errore.

“La Casa Bianca ha detto a Kerry che il presidente Obama voleva lasciare Netanyahu e (il presidente Mahmoud) Abbas cuocere nel loro brodo, ma Kerry ha insistito perché la questione era molto importante per lui,” ha detto l’ ex alto funzionario diplomatico USA.

Il 21 agosto Kerry ha chiamato Herzog e Livni ancora una volta. Ha detto loro che intendeva visitare Egitto e Arabia Saudita entro poche settimane in un ultimo tentativo di fare pressione per una conferenza di pace regionale basata sui principi che aveva presentato a Netanyahu ad Aqaba e a Roma. I principi sarebbero stati sottoposti alla conferenza a nome di tutti i partecipanti, ma Israele ed i palestinesi avrebbero potuto sollevare obiezioni.

Secondo l’ex alto funzionario diplomatico USA e una fonte israeliana al corrente dei contatti, Kerry ha detto ad Herzog e Livni di credere di poter portare Netanyahu, Abbas e gli Stati arabi, compresa l’Arabia Saudita, a una simile conferenza, che avrebbe segnato un cambiamento storico per la regione.

Allora Kerry è arrivato al punto principale della sua telefonata: “Non voglio interferire nella politica israeliana,” ha detto. “Ma alla luce di queste circostanze, prendereste in considerazione la possibilità di unirvi alla coalizione [di governo in Israele. Ndtr.]? Anche questo sarebbe un cambiamento molto importante.”

L’ ex alto funzionario diplomatico USA e la fonte israeliana hanno rilevato che Livni non ha rifiutato le notazioni di Kerry, ma è sembrata molto scettica sulle intenzioni di Netanyahu. Anche Herzog, che era rimasto scottato da Netanyahu pochi mesi prima, era molto scettico, ma ha espresso la volontà di esaminare la proposta se avesse ricevuto da Paesi della regione indicazioni che la conferenza sarebbe stata un’iniziativa seria.

Quella settimana Herzog ha parlato con importanti funzionari di Egitto, Giordania e Stati arabi che non hanno rapporti diplomatici con Israele, in un tentativo di stabilire se un processo di pace regionale avesse una possibilità. In alcune conversazioni ha sentito che i leader arabi avevano intenzione di cooperare con l’iniziativa di Kerry, ma in altre l’approccio era piuttosto “sì, ma..”

Herzog si è reso conto che c’erano fondamentalmente due percorsi in competizione: quello di Kerry, che includeva principi per raggiungere un accordo permanente e tenere una conferenza importante, e un secondo guidato da Blair e dall’Egitto, che riguardava misure più limitate e un summit più ridotto e modesto.

Nell’ultima settimana di agosto, quando i contatti internazionali erano al loro massimo, Herzog ha ricevuto una telefonata da Netanyahu. Il primo ministro ha detto di voler cercare ancora una volta di progredire in un processo regionale con Sisi, e di voler sapere se Herzog avrebbe ancora una volta preso in considerazione di partecipare a un governo di coalizione. Herzog, molto scettico e prudente, ha fatto due richieste: sentire direttamente Egitto e Giordania sull’argomento e ricevere le proposte di pace di Netanyahu per iscritto.

Nei giorni seguenti entrambe le richieste di Herzog sono state esaudite. Primo, un inviato egiziano che si è recato in Israele gli ha detto che Sisi era davvero interessato a un processo di pace regionale e importanti funzionari giordani gli hanno inviato lo stesso messaggio per telefono. Secondo, il 13 settembre Netanyahu ha spedito ad Herzog il documento dell’iniziativa di pace, con una bozza della dichiarazione congiunta.

Nelle due settimane successive Netanyahu ed Herzog hanno tenuto intensi contatti, segnati da frequenti discussioni. Secondo un collega di Herzog, il leader dell’opposizione ha chiesto una serie di modifiche del documento. Primo, Herzog ha rifiutato la richiesta di Netanyahu che il termine “costruzione governativa” fosse utilizzato nella dichiarazione in riferimento alle colonie e ha chiesto che ogni riferimento includesse ogni tipo di costruzioni.

In più, Herzog ha chiesto che la sospensione delle costruzioni nelle colonie isolate al di fuori dei blocchi delle colonie non dipendesse dal fatto che ci fossero in corso colloqui con i palestinesi. Piuttosto le politiche a questo proposito sarebbero state stabilite da lui e da Netanyahu come politiche del governo, anche se questo non è stato detto apertamente. Netanyahu ha accettato tutti i punti, e la dichiarazione è stata riscritta per riflettere questo accordo.

Il secondo punto riguardava un significativo cambiamento nella politica israeliana rispetto al territorio della Cisgiordania classificato come Area C in base agli accordi di Oslo, in cui Israele detiene il controllo esclusivo, sia militare che civile, per consentire un maggiore sviluppo edilizio ed economico palestinese. Netanyahu ha accettato di chiarire questa questione nella dichiarazione.

Inoltre Herzog ha chiesto l’aggiunta al documento della dizione “Stato palestinese con continuità territoriale.” Netanyahu non era d’accordo, e le parti hanno continuato i negoziati sulla questione.

Progetti per una conferenza stampa sensazionale

Poco prima che Netanyahu lasciasse il Paese per andare all’assemblea generale dell’ONU alla fine di settembre, era stato raggiunto un accordo quasi totale sul linguaggio della dichiarazione. Per Molho l’obiettivo era di andare al Cairo per siglare l’accordo con l’Egitto appena Netanyahu fosse tornato da New York.

Al contempo Netanyahu ed Herzog si sarebbero recati segretamente all’inizio di ottobre al Cairo, dove si sarebbe tenuta una conferenza stampa sensazionale con Sisi e possibilmente anche con re Abdullah. Avrebbero letto la dichiarazione congiunta che avrebbe stabilito un’iniziativa di pace regionale guidata da Egitto e Giordania, con la partecipazione di altri Stati arabi.

Secondo il piano, subito dopo il loro ritorno dal Cairo, Netanyahu ed Herzog avrebbero tenuto una conferenza stampa all’aeroporto Ben Gurion a cui sarebbero stati presenti il Ministro della Difesa Avigdor Lieberman [del partito di estrema destra “Israele casa nostra”. Ndtr.] e il Ministro delle Finanze Moshe Kahlon [del partito di centro Kulanu. Ndtr.]. Sarebbe stato annunciato un governo di unità, e la presenza di Kahlon e Lieberman avrebbe dimostrato il loro appoggio alla dichiarazione del Cairo.

Il 20 settembre Netanyahu è arrivato a New York per l’assemblea generale dell’ONU. Nel suo discorso ha accennato all’iniziativa di pace regionale che era stata discussa dietro le quinte.

“Non ho rinunciato alla pace. Rimango impegnato in una visione di pace basata sui due Stati per due popoli. Credo come mai prima d’ora che i cambiamenti che stanno avendo luogo adesso nel mondo arabo offrano un’opportunità unica per promuovere questa pace,” ha affermato Netanyahu.

“Mi congratulo con il Presidente egiziano al-Sisi per i suoi tentativi di far progredire la pace e la stabilità nella nostra regione. Israele accoglie favorevolmente lo spirito dell’iniziativa di pace araba e un dialogo con gli Stati arabi per raggiungere una pace complessiva. Credo che, affinché questa pace complessiva sia pienamente raggiunta, i palestinesi ne debbano fare parte. Sono pronto ad iniziare negoziati per ottenerla oggi – non domani, non la prossima settimana, oggi.”

Due giorni dopo Netanyahu si è incontrato con Kerry a New York. Kerry lo ha informato dell’incontro dei Ministri degli Esteri del Quartetto [composto da ONU, UE, Russia, USA e Regno Unito. ndtr.] di pochi giorni prima, a cui aveva partecipato anche il Ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubeir. Secondo un ex diplomatico di alto livello USA, Kerry ha detto a Netanyahu che Jubeir aveva chiarito che, se israeliani e palestinesi si fossero accordati sui principi dei negoziati e fossero stati fatti progressi, l’Arabia Saudita e altri Stati arabi sunniti avrebbero iniziato a fare passi per normalizzare i rapporti con Israele.

“Jubeir ha chiarito che i sauditi non lo avrebbero fatto solo in cambio di qualche permesso di lavoro israeliano concesso ai palestinesi,” come avrebbe detto Kerry, citato dall’ex diplomatico USA, a Netanyahu. Kerry ha nuovamente sollecitato Netanyahu ad accettare la sua proposta di una conferenza internazionale per raggiungere un accordo permanente e ha detto che i sauditi vi avrebbero partecipato.

“Abbiamo spostato il consenso internazionale nella tua direzione,” ha detto Kerry. “Perché non sei disposto ad accettare la mia proposta?”

Un ex diplomatico USA di alto livello ha affermato che Netanyahu ha detto a Kerry che era più propenso al processo con l’Egitto e con Herzog. “Sarebbe più facile per me andare avanti con Herzog all’interno della coalizione,” ha detto Netanyahu.

L’ex-diplomatico ha detto che Kerry a quel punto era disperato. “Capisco quello che stai facendo,” avrebbe detto Kerry a Netanyahu. “Stai cercando di prendere tempo fino a quando sarà insediata la nuova amministrazione.”

Netanyahu non lo ha negato. Il diplomatico ha detto che Netanyahu ha preferito il canale separato che stava gestendo con Herzog e l’Egitto.

“Netanyahu voleva controllare il processo,” ha affermato il diplomatico. “Voleva allargare la coalizione, voleva una piccola conferenza senza un eccessivo coinvolgimento internazionale, e, cosa più importante, non voleva i principi stabiliti da Kerry per un accordo finale. Quindi ha annacquato la proposta in tutti i modi possibili.”

Netanyahu ha telefonato ad Herzog alcune volte da New York e si sono accordati per incontrarsi subito dopo il ritorno di Netanyahu per stendere una dichiarazione congiunta e i dettagli per la costituzione di un governo di unità. Pochi minuti prima della partenza da New York i collaboratori di Netanyahu hanno contattato quelli di Herzog. Netanyahu è in genere cauto con le sue conversazioni telefoniche, teme intercettazioni, ma sembra che in questo caso volesse e persino sperasse che gli americani lo ascoltassero.

I consiglieri del primo ministro hanno chiarito ai collaboratori di Herzog che volevano mandare Molho al Cairo, e hanno chiesto un accordo finale sulla formulazione della dichiarazione. Benché rimanessero alcuni punti critici, Herzog ha ritenuto che quei problemi non fossero fondamentali e ha detto a Netanyahu che non avrebbero bloccato un accordo. Netanyahu è partito per Israele e la sensazione era che entro pochi giorni lui ed Herzog sarebbero andati al Cairo e avrebbero pronunciato una dichiarazione sensazionale.

Ma 12 ore dopo, una volta che Netanyahu è atterrato, non ha dato istruzioni a Molho di andare al Cairo.

Due giorni dopo l’ex-presidente Shimon Peres è morto, e per parecchi giorni non ci sono stati contatti tra Netanyahu ed Herzog sulla questione. Dopo Rosh Hashanah [il capodanno ebraico. Ndtr.] sono stati ripresi i contatti ma da parte di Netanyahu si è iniziato a cambiare approccio.

Molho, il capo di gabinetto di Netanyahu e Netanyahu hanno detto ad Herzog di voler aspettare di fare il passo fino alla soluzione della crisi di Amona, la cui evacuazione all’epoca era prevista per la fine di dicembre.

Da allora è risultato chiaro ad Herzog e ai suoi consiglieri che Netanyahu aveva cambiato idea e che l’occasione per un’iniziativa regionale e un governo di unità stava sfumando.

“Netanyahu ha iniziato a ritirarsi progressivamente dalla sua dichiarazione politica,” ha detto una fonte del partito Laburista coinvolta nei colloqui. “Un po’ alla volta ha cercato di fare marcia indietro da quello che era già stato concordato e ha cercato di posticiparlo a causa di Amona e delle pressioni di ” Habayit Hayehudi” [“Casa Ebraica”, partito di estrema destra dei coloni. Ndtr.]- suo alleato di destra nella coalizione.

I colloqui sono continuati per qualche giorno, compreso un difficile incontro fallito tra Netanyahu ed Herzog la mattina prima dello Yom Kippur [festività ebraica. Ndtr.]. Passata l’urgenza, non è restato altro ad entrambe le parti che dichiarare finiti i negoziati.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Oltre 12.000 palestinesi vivono in un limbo, 15 anni dopo l’introduzione della legge “temporanea”

Nir Hasson – 3 marzo 2017 Haaretz

Un’ordinanza d’emergenza impedisce ai palestinesi sposati con cittadini israeliani o residenti permanenti di ottenere permessi per entrare in Israele, benché persino i dati ufficiali dello Shin Bet suggeriscano che l’allentamento delle restrizioni rappresenterebbe un pericolo molto ridotto.

Il figlio di un anno di Taysir al-Asmar, che vive nella città vecchia di Gerusalemme, è nato con seri problemi cerebrali. E’ ricoverato nell’ospedale Herzog di Gerusalemme, all’estremità ovest della città, ma Asmar non ha il permesso di viaggiare fin là per visitarlo. In effetti Asmar non può avere la patente di guida e, se prende l’autobus, potrebbe essere arrestato dalla polizia.

Asmar è solo una delle oltre 12.000 persone che vivono con la paura e l’incertezza dovute alla legge che vieta il ricongiungimento familiare quando i membri della famiglia in questione sono palestinesi.

Il mese prossimo segnerà 15 anni dalla decisione iniziale del governo (poi sostituita da un’ “ordinanza d’emergenza”, la legge “Della cittadinanza e dell’ingresso in Israele”, rinnovata annualmente) che ha eretto una quasi impenetrabile barriera burocratica tra i palestinesi di Gerusalemme est e di Israele in generale e i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

La legge è stata giustificata sul piano giuridico per ragioni di sicurezza, ma sono stati citati anche obiettivi demografici – in altre parole limitare la popolazione araba in Israele.

Migliaia di persone che vivono nei territori [palestinesi occupati. Ndtr.] sposate con cittadini israeliani o residenti permanenti [status giuridico dei palestinesi di Gerusalemme est. Ndtr.], ed i loro figli, si sono trovati intrappolati da questa legge in un insostenibile limbo burocratico, senza prospettive di cambiamento.

La scorsa settimana sia la Knesset che l’Alta Corte di Giustizia hanno tenuto audizioni sulla legge. Come previsto, è stata mantenuta in vigore. La Knesset ne ridiscuterà tra sei mesi, mentre la presidentessa della Corte Suprema Miriam Naor ha suggerito ai richiedenti di ritirare la loro richiesta all’Alta Corte.

Delle 12.500 persone che hanno avviato la procedura di ricongiungimento, 10.000 sono attualmente prive di uno status giuridico. Ciò significa, tra le altre cose, che non possono andare a scuola o lavorare; solo fino a pochi anni fa, non potevano neppure ottenere l’assicurazione sanitaria.

Occasionalmente, grazie all’intervento dell’Alta Corte, la legge è stata messa da parte per ragioni umanitarie. Per esempio, residenti nei territori che non sono considerati un rischio per la sicurezza ed hanno almeno 25 anni (per le donne; 35 per i maschi) e sono sposati ad israeliani possono ora ricevere un permesso di residenza temporanea (come quelli concessi ai lavoratori palestinesi).

Tuttavia rinnovare questi permessi ogni anno o due è una procedura complicata, che richiede la raccolta meticolosa di vari documenti (bollette, certificati scolastici e buste paga, per citarne solo alcuni).

La legge ha un grande impatto sulla società a Gerusalemme est, sui suoi contatti con la Cisgiordania e persino sulla geografia urbana. La legge ha contribuito a creare i quartieri poveri nei pressi del muro di separazione con la Cisgiordania – luoghi che sono diventati “città rifugio” per migliaia di coppie di cui uno dei partner è residente nei territori e l’altro in Israele.

L’ordinanza d’emergenza che impedisce il ricongiungimento familiare fu emanata alla fine del marzo 2002 dall’allora ministro degli Interni Eli Yishai. Quello fu il mese peggiore della seconda intifada – pochi giorni dopo l’attacco contro il Park Hotel di Netanya e l’inizio dell’operazione “Scudo difensivo” in Cisgiordania.

Il giorno dopo l’attacco suicida contro il ristorante Matza di Haifa, in cui vennero uccise 16 persone, Yishai ordinò a tutte le anagrafi di Israele di bloccare i ricongiungimenti familiari. La ragione: l’attentatore di Haifa, Shadi Tobassi, viveva a Jenin ma aveva una carta d’identità israeliana perché sua madre era cittadina israeliana.

La giustificazione demografica della legge emerse 15 anni fa, in una relazione del ministro degli Interni, scoperta da Hamoked – il “Centro per la Difesa degli Individui” – durante una discussione del governo sulla legge. La relazione affermava: “Questa ondata di immigrazione porta con sé un rischio per la sicurezza di Israele – un rischio per la sicurezza, criminale e politico, un peso economico e soprattutto demografico sul futuro di Israele.”

“Suicidio nazionale”

Nel 2012 ha avuto luogo un’udienza davanti ad una commissione, per l’occasione allargata, dell’Alta Corte per ricorsi contro la legge. La sentenza di 232 pagine ha rigettato i ricorsi con un solo voto contrario. L’allora presidente della Corte Suprema Asher Grunis, che ha appoggiato il parere della maggioranza, ha scritto: “I diritti umani non sono una ricetta per il suicidio nazionale.” L’ex giudice Edmond Levy, l’unico di opinione contraria, ha scritto: “La perdita dell’immagine di Israele come democrazia…sarà uno dei maggiori risultati di quelli che desiderano distruggerla.”

I giudici di quella commissione, ed altri da allora, hanno sottolineato che la legge della cittadinanza è un norma temporanea e di emergenza che deve essere riconfermata ogni anno dalla Knesset. I giudici della Corte Suprema hanno ripetutamente dato indicazioni allo Stato perché verifichi la necessità di questa norma.

Circa sei mesi fa, per la prima volta in un decennio, si è tenuta una discussione sull’argomento in una riunione congiunta della commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset e della commissione Interni e Ambiente. Un rappresentante del servizio di sicurezza dello Shin Bet, noto solo come G., ha detto che il servizio appoggia il prolungamento della legge, a causa della continua “minaccia da parte di quella stessa popolazione”. Ma ha faticato a sostenere questa affermazione con dei dati. Ha citato 104 casi di sospetti tra la “popolazione (palestinese) che riceve lo status (legale) in Israele in seguito a ricongiungimento familiare.”

Questo dato include tutti i sospetti dal 2002 al 2016. Tuttavia in seguito si è chiarito che molti di quelli “in relazione con il terrorismo” non erano residenti dei territori che sono entrati in Israele in seguito a ricongiungimento familiare, ma loro familiari – sopratutto figli. In effetti solo 17 dei 104 erano in Israele in seguito a ricongiungimento familiare ed erano coinvolti nel terrorismo.

L’avvocatessa Adi Lustigman, che rappresenta le persone senza uno status legale in Israele, ha messo in dubbio il significato del termine “in rapporto con il terrorismo”. Ha affermato che non era chiaro se ciò significava che la persona era stata incriminata, arrestata o era un parente di qualcuno che aveva tirato una pietra. “Questi dati hanno tolto il terreno sotto i piedi alla legge e mostrano che la Knesset ha ignorato la questione,” ha affermato.

Alla fine della riunione della Knesset in cui G. ha testimoniato, il presidente della commissione Avi Dichter (del Likud) ha convocato un’altra riunione dopo sei mesi – riunione che si è tenuta questa settimana. Lo Shin Bet e la polizia non sono stati presenti per fornire dati aggiornati. “Era chiaro fin dall’ultima riunione che non hanno problemi di sicurezza. La domanda è: perché non ridurre il danno, se è possibile?” è stato chiesto al consulente legale dello Shin Bet. Il consulente ha risposto che erano state fatte analisi per gruppi di età e la posizione dello Shin Bet doveva ancora essere formulata. Ha affermato che, quando lo sarà, il servizio informerà la commissione,.

Asmar, 36 anni, è nato a Gerusalemme – nella stessa casa della città vecchia in cui era nato suo padre – e ha vissuto lì tutta la sua vita. Non ha ancora uno status legale in Israele perché dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967 a Gerusalemme si era diffusa la voce che l’esercito israeliano aveva occupato case vuote in Cisgiordania. Il nonno di Asmar aveva costruito una casa nel villaggio di Al Azariya, a est di Gerusalemme. Perciò mandò i suoi tre figli più giovani a vivere lì. In seguito a ciò, quando venne fatto il primo censimento, furono registrati come abitanti di Al Azariya, non di Gerusalemme. E a causa della norma d’emergenza, sono ancora considerati residenti nei territori.

Ciò non è stato realmente molto importante per la maggior parte della loro vita. Ma dalla costruzione della barriera di separazione e dalla legge provvisoria sono diventati residenti illegali nelle loro stesse case. Alcuni dei suoi fratelli sono riusciti ad avere un “permesso” – il documento dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano nei territori occupati. Ndtr.] che consente loro di entrare in Israele, ma non Asmar.

“Voglio portare i miei bambini a vedere il mare, ma non posso,” dice. “Ma la cosa peggiore è che non posso vedere mio figlio, ” riferendosi al suo bambino nell’ospedale Herzog. “Amo mio figlio e vorrei vederlo, ma non posso.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Non lasciar perdere la Linea Verde: questo è il tallone d’Achille di Israele

Al Shabaka

di Nadia Hijab – 15 febbraio 2017

Il poeta Dylan Thomas invitava suo padre – e tutti quelli che si avvicinano alla morte: “Non entrate tranquillamente in quella dolce notte” ma “rabbia, rabbia contro il morire della luce”. La morte della soluzione dei due Stati è stata preannunciata per circa 20 anni, dopo che è risultato chiaro che Israele ha firmato il processo di pace di Oslo nel 1993 senza l’intenzione di permettere che si costituisse uno Stato palestinese sovrano.

Eppure la luce si è rifiutata di morire. E’ stato interesse di ogni Paese, compresi Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina/Palestina (OLP/Palestina), mantenere qualche scintilla di vita nella possibilità dei due Stati nonostante l’incessante colonizzazione israeliana dei Territori Palestinesi Occupati (TPO) che ha finora insediato qui circa 200 colonie e 600.000 coloni, azioni che in base alle leggi internazionali rappresentano crimini di guerra.

Per i palestinesi che vivono nella zona grigia dell’occupazione le libertà fondamentali di vita, libertà, movimento, salute e accesso all’acqua, tra le altre, sono quotidianamente negate.

Rifugiati ed esiliati palestinesi sono sostanzialmente lasciati al loro destino, e i cittadini palestinesi di Israele devono fare i conti come possono con la discriminazione e la spoliazione da parte dello Stato israeliano. Oltretutto, lo stallo dell’entità politica palestinese impedisce un’azione politica collettiva efficace dei palestinesi.

Tuttavia, se i palestinesi sono troppo impotenti, per il momento, per poter uscire da questa zona grigia, la destra israeliana e il movimento dei coloni pensa di non esserlo. Nel corso dei decenni ha incrementato la propria forza e si è infiltrata nell’esercito, nel sistema politico e giudiziario, e il suo considerevole potere è stato totalmente sostenuto e finanziato dallo Stato israeliano. Né gli USA né l’Unione Europea hanno fatto pagare il prezzo della colonizzazione della Cisgiordania, compresa Gerusalemme est. Al contrario gli USA, l’UE e i suoi Stati membri, e Paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’Amercia latina, vogliono mantenere relazioni militari e commerciali con Israele.

Il movimento dei coloni non vuole più vivere nell’oscurità dello scenario dei due Stati: mira alla chiarezza di una annessione formale del resto dei TPO (Israele ha già annesso illegalmente Gerusalemme) o almeno dell’Area C [in base agli accordi di Oslo, il territorio palestinese sotto totale controllo provvisiorio di Israele. Ndtr.], che rappresenta circa il 60% della Cisgiordania. Per ora questo è l’obiettivo del leader della destra israeliana e ministro dell’Educazione Naftali Bennett, che ha trionfalmente annunciato che “l’era dello Stato palestinese è finita”, dopo che Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali americane.

La legge che il partito di Bennett “Casa Ebraica” ha fatto approvare alla Knesset [il parlamento israeliano. ndtr.] il 6 febbraio 2017 per “regolarizzare” gli avamposti illegali come Amona, costruiti su terreni di proprietà privata palestinese, ha l’intenzione di stabilire una volta per tutte chi detiene la proprietà della terra palestinese e chi ha il potere reale in Israele. La legge è stata descritta come un furto di terra persino in Israele, tra avvertimenti che la mossa potrebbe condurre il Paese davanti alla Corte Penale Internazionale.

L’inorridita risposta della comunità internazionale alla legge di “regolarizzazione” è stata quasi comica. Il ministro degli Esteri tedesco ha detto che la sua fiducia nell’impegno del governo israeliano per la soluzione dei due Stati è stata “scossa nelle fondamenta”, mentre la Francia ha chiesto ad Israele di ritirare la legge e di onorare i suoi impegni. Dov’erano loro negli ultimi 50 anni, quando questi crimini di guerra erano in corso? Tutte le colonie che Israele ha costruito, sia su terreni incolti che sulle rovine di terre e case palestinesi, sono illegali in base alle leggi internazionali, come il crescente sfruttamento delle risorse naturali palestinesi.

Inoltre il continuo uso della forza da parte di Israele per mantenere l’occupazione impedisce al popolo palestinese di godere del proprio diritto all’autodeterminazione internazionalmente riconosciuto. Al momento le potenze mondiali stanno sperando che una sentenza della Corte Suprema israeliana contro la legge eviti loro di dover fare qualcosa per bloccare le pratiche neocoloniali di Israele.

Israele non può legalizzare le sue conquiste: ciò minaccerebbe l’ordine mondiale

Ciò che questo episodio ha dimostrato, più di ogni altra cosa, è che, nonostante tutte le sue manovre, Israele non è stato ancora in grado di cancellare completamente la Linea Verde [il confine tra Israele e Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967. Ndtr.] e di legalizzare l’acquisizione permanente dei TPO. Fino ad ora, la comunità internazionale non riconosce la sua annessione formale di Gerusalemme est o le sue pretese unilaterali su Gerusalemme ovest. Il mondo ribadisce che Gerusalemme ha uno status separato (corpus separatum) in base al piano di spartizione del 1947 e il suo status può essere concordato soltanto attraverso negoziati.

Anche se la comunità internazionale non ha chiamato Israele a risponderne in modo effettivo – per esempio, la tanto strombazzata etichettatura da parte dell’Unione Europea dei beni provenienti dalle colonie che entrano nel mercato UE ha avuto un impatto minimo – non firmerà il consenso sul progetto di colonizzazione israeliana e non gli concederà legittimità agli occhi del mondo.

In breve, Israele non può ripetere l’originaria vittoria del movimento sionista con la creazione di uno Stato in Palestina, includendo l’espansione delle frontiere di quello Stato ben oltre quelle stabilite nel piano di spartizione del 1947, su cui si era basata la sua esistenza. Siamo nel secolo sbagliato per questo progetto colonialista.

La Linea Verde – la linea dell’armistizio alla fine della lotta tra gli eserciti arabi e israeliano nel 1949 – è alla base del rifiuto della comunità internazionale di legalizzare l’occupazione israeliana perché separa quello che il mondo considera come lo Stato di Israele dal territorio che ha occupato nel 1967 e i suoi atti illegali al suo interno.

Cosa ancora più importante, lo status dei TPO non è solo qualcosa che riguarda il popolo palestinese: coinvolge qualunque altro Stato esposto a una perdita di territorio. E la minaccia posta dai cambiamenti unilaterali da parte israeliana alla stabilità dell’ordine internazionale preoccupa in particolare l’Europa, che ha subito due guerre mondiali.

Questa è la ragione per cui la risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza ONU, approvata il 23 dicembre 2016, non è importante solo per i palestinesi: è significativa per tutto l’ordine del Dopoguerra, perché riafferma l’illegalità delle colonie e l’applicazione delle leggi internazionali – comprese le leggi che regolano l’occupazione militare – per territori che sono soggetti a un’ occupazione.  E questa è la ragione per cui la risposta di Israele è stata così rabbiosa: la sua possibilità di cancellare la Linea Verde ha subito un duro colpo.

Benché l’ipocrisia della comunità internazionale sia chiara nel trattamento molto diverso tra l’occupazione israeliana della Palestina e l’occupazione russa della Crimea, entrambi sono fondati sulle stesse leggi internazionali. Forse l’affermazione più importante espressa dalla nuova amministrazione USA è stata quella che ha fatto l’ambasciatrice USA all’ONU, Nikky Hayley, al Consiglio di Sicurezza riguardo al riacutizzarsi della violenza in Ucraina all’inizio di questo mese. Ha chiesto la fine immediata dell’occupazione russa della Crimea ed ha dichiarato che gli USA non toglieranno le sanzioni sulla Russia finché la Crimea non sarà restituita all’Ucraina. Date le parole calorose di Trump nei confronti della Russia, la dichiarazione è stata una sorpresa, ma senza dubbio gradita dagli europei.

A questo punto lasciar perdere la Linea Verde sarebbe un grave, forse mortale, errore. Il carattere illegale delle attività di Israele nei TPO ribadisce la possibilità dei palestinesi di perseguire Israele ed i dirigenti israeliani nelle corti internazionali e nazionali. E’ anche un elemento importante per potenziare gli sforzi del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), fondato e diretto dalla società civile palestinese.

Al momento i tentativi a livello statale hanno avuto solo modesti successi perché Israele si è posizionato in modo da essere importante per la comunità internazionale nel commercio, nello sviluppo degli armamenti e dal punto di vista geopolitico. Il palesamento delle vere intenzioni dei dirigenti israeliani riguardo all’acquisizione permanente dei TPO con la forza rende questo il momento opportuno per una spinta congiunta da parte dell’OLP/Palestina per, quanto meno, il bando completo dei prodotti delle colonie e la fine degli accordi con lo Stato israeliano e con le imprese del settore privato, come le banche, che finanziano le colonie.

La Linea Verde non riguarda lo Stato unico piuttosto che i due Stati

La Linea Verde è vista come il confine sul quale si dovrebbe fondare la soluzione dei due Stati. Tuttavia sostenere che i palestinesi non dovrebbero lasciar perdere la Linea Verde non è un’affermazione di appoggio al risultato politico della soluzione dei due Stati. E’ piuttosto un argomento per utilizzare ogni possibile ed efficace fonte di potere a disposizione senza abbandonare i diritti inalienabili dei palestinesi.

E’ importante perorarne la causa in questo momento perché sempre più voci tra i palestinesi e nel movimento di solidarietà con la Palestina stanno invocando uno spostamento dell’obiettivo politico palestinese dalla soluzione dei due Stati allo Stato unico o verso una lotta per i diritti civili. Queste voci probabilmente aumenteranno ancora di più in vista dell’anniversario dei 50 anni di occupazione il prossimo giugno, con i palestinesi sia in Israele che nei TPO che affrontano alcune della più drastiche minacce israeliane alla loro esistenza sulla loro terra da quando l’occupazione è iniziata.

E’ naturale che un popolo alla ricerca di diritti nazionali ed umani e i suoi alleati dovrebbero pretendere chiarezza in merito e unità sull’obiettivo politico finale. Oltretutto la crescente divisione tra, da una parte, coloro i quali sostengono uno Stato unico o una lotta per i diritti civili, di cui sono attivisti palestinesi ed i loro sostenitori della base, e dall’altra parte quelli che sposano i due Stati, molti dei quali sono funzionari palestinesi e uomini d’affari (così come sionisti progressisti), è stata dannosa per la capacità palestinese di coalizzarsi attorno ad un’azione comune.

Sfortunatamente, in questa fase non è possibile raggiungere una definizione chiara dell’ apparato politico palestinese sull’obiettivo finale. E’ stato possibile riguardo allo Stato unico dal 1969 al 1974, quando il programma dell’OLP era basato su uno Stato democratico laico. E’ stato possibile anche riguardo ai due Stati negli anni tra la dichiarazione di indipendenza palestinese del 1988 e il successivo riconoscimento di Israele fino alla fine degli anni ’90 e il fallimento del processo di Oslo.

Oggi i palestinesi non hanno la forza di raggiungere un obiettivo politico finale per il prossimo futuro. Ciò non dovrebbe e non deve impedire di lavorare per ottenere risultati intermedi, senza compromettere diritti fondamentali. Questa è, in effetti, la posizione presa dal movimento BDS : si basa sui diritti e non sulla “soluzione”. Non sposando uno scopo politico finale, il movimento può arrivare al più largo numero di palestinesi e attori della solidarietà, consentendo ad ognuno di agire a modo suo per contrastare le violazioni dei diritti da parte di Israele. Possono, in effetti, concentrarsi sull’occupazione e/o sui diritti dei cittadini palestinesi di Israele e/o sui diritti dei rifugiati palestinesi.

Sulla questione dell’obiettivo finale si spreca una grande quantità di energie che sarebbero meglio utilizzare per sviluppare strategie specifiche per far pagare ad Israele il costo dell’occupazione e della violazione dei diritti. Queste energie possono essere usate sia per un approccio basato sui diritti per comunicare con la società civile, o per un approccio basato sulla soluzione per raggiungere i governi e il mondo degli affari. Né è necessario negare un risultato politico finale dei due Stati di Israele e Palestina, in cui tutti i cittadini godano dei diritti umani, o di uno Stato unico palestinese-israeliano in cui tutti godano dell’intera gamma di diritti.

Quindi non ha senso abbandonare nessuna delle linee di forza a disposizione per bloccare e ribaltare le azioni illegali di Israele e promuovere i diritti dei palestinesi, compresa, forse sopratutto, la Linea Verde. Le questioni più immediate sono come prevenire le imminenti trappole dei negoziati guidati dall’amministrazione Trump, approfittando al contempo dell’obiettivo dello stesso Israele che rivela le sue vere intenzioni verso i TPO in modo che diventi impossibile per chiunque far finta di niente.

Fare i conti con i negoziatori

La mossa della destra israeliana per legalizzare i suoi avamposti ha evidenziato la realtà che, nonostante il suo preponderante potere, non ha a disposizione una via unilaterale per un riconoscimento internazionale del suo status nei territori. Solo l’OLP/Palestina come rappresentante del popolo palestinese può accettare un cambiamento dello status che permetta ad Israele di prendere una parte del suo “bottino” – e dovrebbe essere scontato che non lo deve fare; la società civile palestinese deve fare ogni sforzo per assicurarsi che non lo faccia. Il prossimo futuro è ricco di pericoli e sfide che richiederanno strategie ed azioni palestinesi chiare e condivise.

Uno dei maggiori pericoli è il desiderio di Trump di fare un accordo tra Palestina e Israele. Probabilmente Israele accentuerà le pressioni economiche e militari che esercita sui palestinesi sotto occupazione, che sono già notevolmente oppressi. Inoltre l’approccio dell’amministrazione è già pesantemente a loro sfavore data la nomina del sostenitore dei coloni per antonomasia, David Friedman, come ambasciatore USA. La sfida ora è riflettere a fondo su come l’OLP/Palestina possa resistere a questa pressione, con l’appoggio dei (e la pressione dai) cittadini palestinesi di Israele e internazionale, e quali strategie possa adottare per non apparire “quella del rifiuto a negoziare”, non soccombere sotto la pressione (anche dai Paesi arabi), e possa esercitare una pressione opposta. Anche all’interno si devono identificare modi per ridurre gradualmente il coordinamento per la sicurezza con Israele, che non potrebbe essere giustificato nei momenti migliori, ma ora non può più essere assolutamente perdonato.

Un’ altra minaccia ha a che fare con le tensioni che possono sorgere tra la società civile palestinese e il movimento di solidarietà con la Palestina negli USA, che è uno dei maggiori punti di forza per il popolo palestinese, se e quando l’OLP/Palestina intraprenderà negoziati sponsorizzati dall’amministrazione Trump. Il movimento di solidarietà con la Palestina e i suoi alleati naturali – comprese le comunità nere, latine e dei nativi americani – non può ipotizzare una situazione che “normalizzi” accordi con l’amministrazione Trump e le sue componenti nazionaliste bianche e razziste. Inoltre sta per diventare difficile mantenere viva l’attenzione sulla Palestina con così tanti problemi in concorrenza tra loro che si troveranno ad affrontare i cittadini americani – compresi l’accesso alle cure mediche, l’ambiente, l’educazione e i diritti dei lavoratori.

Comunque la situazione può cambiare entro due anni. La mobilitazione di vasti settori della società civile americana sui diritti dei migranti, sulle cure mediche e sull’educazione, e contro il razzismo e le discriminazioni potrebbero cambiare drasticamente la composizione del Congresso alle elezioni di medio termine, con un passaggio dal partito Repubblicano a quello Democratico. E le forze progressiste, così come i sostenitori della causa palestinese – compreso l’appoggio a sanzioni contro Israele – stanno crescendo all’interno del partito Democratico.

Anche l’Europa, l’altra area importante, è preoccupata. L’UE è alle prese con l’uscita della Gran Bretagna, le minacce dell’elezione di dirigenti di estrema destra in Paesi chiave e l’imprevedibilità della nuova amministrazione USA. Ma gli europei temono anche l’indebolimento dell’ordine mondiale, e le azioni di Israele potrebbero fornire opportunità alla società civile per fare pressione sui rispettivi governi perché esercitino le loro responsabilità e smettano di accordarsi con enti israeliani che svolgono attività oltre la Linea Verde, o prendano in considerazione il tipo di sanzioni applicate contro la Russia dopo la sua occupazione della Crimea.

L’OLP/Palestina si è mossa su fronti che possono e sono stati portati avanti con maggiore efficacia, come l’adesione della Palestina alla Corte Penale Internazionale (CPI) e il suo impegno con il Consiglio dei Diritti Umani [commissione dell’ONU. Ndtr.], compresa la decisione del Consiglio di creare un database di tutte le imprese impegnate in attività illegali nei TPO. L’ingresso in questi organismi può anche essere utilizzato dalle organizzazioni palestinesi dei diritti umani che sono direttamente impegnate con la CPI e il Consiglio dei Diritti Umani, tra le altre organizzazioni internazionali, in coordinazione con o tramite attività di pressione dell’OLP/Palestina.

E l’approvazione della Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, nonostante tutti i suoi difetti, compreso il sostegno al coordinamento per la sicurezza con Israele, può ancora essere considerata come una vittoria dell’OLP/Palestina. Benché non siano mancate risoluzioni simili, la loro riconferma oggi è stato un ammonimento a Israele che dovrà affrontare una grande lotta nei suoi tentativi di formalizzare la sua acquisizione illegale del territorio con la forza. Oltretutto la risoluzione 2334 si è spinta oltre i precedenti testi dell’ONU chiedendo “a tutti gli Stati” di “fare distinzioni nei loro accordi” tra il territorio israeliano e i territori occupati nel 1967.

Questa è la ragione per cui Israele sta contrastando duramente la risoluzione 2334, anche a livello dei singoli Stati negli USA. Alcuni Stati USA stanno già cercando di reagire contro i successi del movimento BDS boicottando imprese che rifiutano di fare affari nelle colonie – circa 20 Stati hanno leggi a questo scopo. Ora ci sono Stati che stanno specificamente citando la risoluzione 2334 come parte del loro contrattacco. Per esempio lo Stato dell’Illinois ha messo in guardia l’UE contro l’incoraggiamento a imprese perché seguano la stessa strada, sostenendo che “l’adozione di sanzioni ai sensi della ” Risoluzione 2334 (che di fatto non menziona la minaccia di sanzioni) potrebbe “portare imprese dell’UE al rischio di violare le leggi dell’Illinois.”

La mancanza di progressi decisivi verso la realizzazione di diritti per i prossimi anni lascia di fronte a tempi cupi i palestinesi che vivono sotto occupazione e assedio da parte di Israele, i palestinesi cittadini di Israele ed i rifugiati palestinesi. Tuttavia ci sono ancora ragioni di speranza, compresa la resilienza della società civile palestinese e l’ingresso che l’OLP/Palestina ha ottenuto alla CPI, tra le altre aree. La brama della destra israeliana di prendere il potere in Israele e di completare l’annessione della Palestina determinerà altre opportunità di azione. Mentre la società civile americana si mobilita contro Trump, è tempo di resistere, difendere le conquiste, approfittare delle opportunità ed evitare le concessioni. Ed è tempo di difendere la Linea Verde.

Nadia Hijab è direttrice esecutiva di Al-Shabaka, la rete politica palestinese, di cui è stata cofondatrice nel 2009. E’ una assidua ospite e commentatrice sui media e ricercatrice presso l’Istituto di Studi Palestinesi [istituto di ricerca con sedi a Beirut, Ramallah, Parigi e Washington. Ndtr.]. Il suo primo libro, “Womanpower: The Arab Debate on Women at Work ” [Potere delle donne: il dibattito arabo su donne e lavoro], è stato pubblicato da Cambridge University Press, ed è coautrice di “ Citizens Apart: A Portrait of the Palestinian Citizens of Israel”  [Cittadini separati: un ritratto dei cittadini palestinesi di Israele] (I.B. Tauris).

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 7-20 febbraio 2017 (due settimane)

Il 9 febbraio, un 19enne palestinese di Beita (Nablus), ha ferito cinque civili israeliani con arma da fuoco e coltello in un mercato della città di Petah Tikva (Israele) ed è stato successivamente arrestato.

Dall’inizio del 2017, quattro soldati israeliani sono stati uccisi e altri 23 israeliani sono rimasti feriti in attacchi compiuti da palestinesi.

Il 10 febbraio, un 25enne palestinese di Tulkarem è morto in un ospedale israeliano dove era in cura per le ferite riportate nel novembre 2016, quando venne colpito dalle forze israeliane, durante un suo presunto tentativo di accoltellamento. Secondo fonti palestinesi, l’uomo, malato di cancro, si stava recando all’ospedale di Nablus per effettuare la chemioterapia ed è stato colpito mentre correva per prendere un taxi nei pressi del checkpoint di Huwwara (Nablus). Prima di essere consegnato, il suo corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane per una settimana.

In Cisgiordania, durante molteplici scontri con le forze israeliane, sono stati feriti 29 palestinesi, tra cui nove minori. La maggior parte dei ferimenti si è verificata durante le operazioni di ricerca-arresto e nel corso delle manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Ni’lin (Ramallah); in quest’ultimo villaggio la manifestazione ha commemorato i 12 anni di proteste anti-Barriera attuate dalla comunità locale. In due distinti episodi, nella città di Qalqiliya e nel villaggio di Bizzariya (Nablus), scontri verificatisi nei pressi di scuole hanno provocato il ferimento di cinque studenti.

Tre operai palestinesi sono morti e sei sono rimasti feriti in quattro diversi casi di crollo di tunnel per il contrabbando tra Gaza e l’Egitto. In questo settore le attività di contrabbando di merci si sono significativamente ridotte dalla metà del 2013, in seguito alla distruzione o al blocco dei tunnel attuato dalle autorità egiziane sul loro lato. Inoltre Il 7 dicembre, ad est di Gaza City, due membri palestinesi di un gruppo armato morirono ed un altro rimase ferito, in seguito al crollo di un tunnel militare.

Nella Striscia di Gaza, in almeno 40 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti o in avvicinamento alle Aree ad Accesso Riservato (ARA) imposte da Israele su terra ed in mare. Non sono stati segnalati feriti, ma il lavoro di agricoltori e pescatori è stato più volte interrotto. Quattro palestinesi sono stati arrestati dalle forze israeliane: un mercante in transito al valico di Erez (sotto controllo israeliano) e altri tre che tentavano di entrare illegalmente in Israele. Inoltre, in due distinti episodi, le forze israeliane sono entrate in Gaza ed hanno svolto operazioni di spianatura del terreno e scavi nei pressi della recinzione perimetrale.

A Gerusalemme Est e in Area C, per mancanza dei permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito 29 strutture di proprietà palestinese, sfollando 32 persone, tra cui 20 minori, e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 87. Fra le strutture interessate figura una rete idrica, finanziata da donatori, che serviva due comunità di pastori: Humsa al Bqia’a e Al Hadidiya, nel nord della Valle del Giordano. In meno di due mesi, questa è la seconda demolizione messa in atto contro la stessa rete idrica. In un altro episodio, durante una operazione di ricerca-arresto nella città di Hebron, le forze israeliane hanno distrutto una struttura agricola appartenente ad una famiglia di sette persone.

Il 19 febbraio, le autorità israeliane hanno consegnato ordini di arresto lavori contro quasi tutte le strutture della Comunità beduina palestinese di Khan al Ahmar-Abu al Helu (140 persone), che si trova nella zona C del governatorato di Gerusalemme. Fra le strutture coinvolte vi è una scuola primaria, finanziata da donatore, costruita con pneumatici e fango, utilizzata da circa 170 bambini provenienti da cinque comunità beduine palestinesi. Al leader della Comunità è stato detto che non hanno altra scelta se non trasferirsi in uno dei due “siti di rilocalizzazione” prestabiliti [da Israele] per il trasferimento delle 46 comunità beduine della Cisgiordania centrale (circa 7.000 persone a rischio di trasferimento forzato). Il Coordinatore Umanitario per i Territori occupati palestinesi, Robert Piper, ha visitato Khan al Ahmar ed ha richiamato Israele a fermare le pressioni sulla comunità ed al rispetto del diritto internazionale.

Nella zona di Silwan di Gerusalemme Est, coloni israeliani si sono trasferiti in una parte di casa palestinese che, secondo quanto riferito, avevano acquistato dai proprietari palestinesi. Silwan è stato bersaglio di intensa attività di insediamento che ha posto centinaia di residenti a rischio di sfollamento. Durante la stessa settimana, sempre a Silwan, per mancanza di permessi di costruzione israeliani (quasi impossibili da ottenere) le autorità israeliane hanno consegnato ordini di demolizione nei confronti di otto edifici che ospitano circa 120 persone.

In vari episodi che vedono coinvolti coloni israeliani, sono stati registrati il ferimento di tre palestinesi e danni significativi alle proprietà. In questi episodi sono compresi l’aggressione fisica e il ferimento di una ragazza palestinese di 14 anni, ad Hebron nella zona della città controllata da Israele, e di un giornalista palestinese, nei pressi dell’insediamento di Ofra (Ramallah). Inoltre, nei pressi di Beit Ummar (Hebron), un palestinese è stato investito e ferito dal veicolo di un colono israeliano; secondo fonti palestinesi, suffragate da riprese video, si sarebbe trattato di uno speronamento intenzionale. Vandalismi su proprietà palestinesi sono state riportate in tre episodi distinti: l’uccisione di una pecora e il ferimento di altre due a Tell al Himmeh (Tubas); la vandalizzazione di oltre 350 alberi e alberelli di proprietà palestinese nel villaggio di Al-Khader (Betlemme); il danneggiamento di un pozzo d’acqua utilizzato da più di 50 agricoltori a Deir Istiya (Salfit).

I media israeliani hanno riferito almeno 18 episodi di lanci di pietre e bottiglie incendiarie contro veicoli israeliani da parte di palestinesi: feriti quattro coloni israeliani, tra cui una donna, a Gerusalemme, Ramallah e Betlemme. Sono stati riferiti anche danni a diversi veicoli israeliani.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto per tre giorni in ingresso e per un giorno in uscita: è stata consentita l’uscita dalla Striscia di Gaza a 1.527 persone e il rientro a 1.373. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

¡

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 21 febbraio, un tribunale militare israeliano ha condannato a 18 mesi di prigione un soldato israeliano che, nel marzo 2016, nella città di Hebron, uccise un palestinese ferito che aveva effettuato una aggressione. Secondo la sentenza del tribunale, l’uomo ferito, al momento dell’uccisione, era steso a terra e non costituiva alcun pericolo.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

þ




La tracotanza militare rappresenta un disastro

Amira Hass, 21 febbraio 2017 Haaretz

L’idea che Israele possa essere cambiato o sconfitto con gli strumenti in cui eccelle – guerra e uccisioni – è la definitiva identificazione con la mentalità israeliana.

Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, afferma che i missili di Hezbollah possono raggiungere l’impianto nucleare israeliano nella città di Dimona, nel Negev. E’ difficile sospettare che intenda causare la morte di decine o centinaia di migliaia di palestinesi nella vicina Gaza e nel Negev, o provocare loro malattie letali. Hezbollah è riuscita a cacciare dal proprio Paese l’occupazione israeliana. Per questo Hezbollah ed il popolo libanese meritano apprezzamento. Però oggi le sue affermazioni possono essere interpretate come millanteria, cosa che più di ogni altra rivela paura e debolezza.

Nella Striscia di Gaza è stato eletto alla guida del movimento [Hamas] un nuovo leader, Yahya Sanwar. Hamas è un partito moderno ed organizzato, che tiene regolari elezioni interne, benché clandestine, un’impresa che Fatah non è mai riuscita a realizzare neppure operando alla luce del sole ed in relativa libertà. Hamas cambia i suoi capi e nessuno di loro decide le linee politiche da solo, al contrario della situazione all’interno di Fatah.

A Gaza si dice che Sanwar è stato eletto perché ha acquisito grandi capacità di leadership in prigione, e che è modesto, ascolta gli altri ed è equilibrato. Ma anche se lui aderisce all’attuale tendenza politica per evitare un conflitto armato, l’ala militare della sua organizzazione lavora incessantemente per armarsi e migliorare le proprie potenzialità. Le sue ostentate parate militari inviano un messaggio, anche quando Iz al-Din al-Qassam (ala militare di Hamas, ndtr.) smette di sparare.

Le parate e le promesse creano un’atmosfera di ‘resistenza’. Scatenano l’immaginazione del popolo che stiamo opprimendo e schiacciando, dando loro una speranza, un filo di speranza a cui aggrapparsi. Ma ci si dimentica di alcuni fatti: dopo la guerra in Libano del 2006, Hezbollah non ha osato aprire un secondo fronte quando Gaza veniva attaccata da tre offensive israeliane. Dal momento del rapimento di Gilad Shalit nel giugno 2006 fino all’offensiva del dicembre 2008, Israele ha ucciso 1.132 abitanti della Striscia di Gaza. Di questi, 604 erano legati a gruppi armati, ma non tutti avevano necessariamente preso parte agli scontri. Dei civili uccisi, 207 erano minori e 89 erano donne. Erano anche parte del prezzo pagato per il rilascio di Sanwar e di altri.

Il profilo personale di Sanwar che appare sui siti web di Hamas attesta che ha messo a morte dei collaborazionisti nell’ambito di una strategia incentrata sulla deterrenza. Sono passati trent’anni e il collaborazionismo non è diminuito. L’assassinio – ovviamente di solito di pesci piccoli e di innocenti – non si è dimostrato efficace.

Questa settimana un portavoce che partecipava ad una conferenza in Iran ha detto che Hamas dispone di gruppi armati in Cisgiordania. Le loro attività sono forse riuscite in passato a fermare l’orgia colonialista israeliana? No. Non ci sono riuscite neanche le tattiche diplomatiche, anche questo è vero. Ma se il risultato è lo stesso, perché scegliere la strada senza uscita che comprende uccisioni, arresti e distruzioni? Potreste dire che è una domanda ingenua e femminile, e noi rispondiamo: questa è una tattica fallimentare e maschile.

I palestinesi lamentano che i loro figli adottano i concetti di Israele ed interiorizzano il disprezzo nei loro confronti. Ma l’idea che Israele possa essere cambiato o sconfitto con i mezzi in cui eccelle – guerra ed uccisioni – è proprio l’estrema identificazione con la mentalità israeliana.

Israele ha un costante interesse ad esagerare la minaccia militare costituita dalle due organizzazioni religiose islamiche. Questa tendenza va di pari passo con la sistematica distorsione della realtà attraverso la presentazione degli ebrei come vittime dei palestinesi. Entrambe le organizzazioni islamiche hanno interesse a che Israele le consideri esageratamente temibili. Questo accresce il loro peso politico.

Israele procede senza campagne militari a tutto campo, usando la violenza burocratica, il sadismo organizzato, la concentrazione dei palestinesi in enclaves e l’assedio. Ma per le sue esigenze politiche interne ed estere sa molto bene, quando necessario, come usare la tracotanza militare. Allora questo rappresenta un disastro che richiede anni per una pur debole ripresa. Non bisogna tirare questa corda. Bisogna trovare altri metodi di lotta.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Manifestanti organizzano un sit in alla scuola di Khan al-Ahmar, che è nella lista delle demolizioni

Ma’an News

Betlemme- 23 febbraio 2017

Giovedì il ministero dell’Educazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha organizzato un sit in di protesta nella scuola del villaggio beduino di Khan al-Ahmar nella Cisgiordania occupata contro l’ ordine imminente del governo israeliano per la demolizione della scuola e dell’intero villaggio.

I manifestanti hanno condannato l’ordine israeliano di demolizione della scuola di Khan al-Ahmar – che fornisce il servizio a 150 studenti tra maschi e femmine – ed hanno espresso la propria rabbia nei confronti dell’esercito israeliano, che prende di mira una scuola per bambini e “cerca di escluderli dal diritto all’istruzione”.

Il ministro dell’Educazione Sabri Sedim ha fatto appello a tutti i palestinesi “perché resistano e si oppongano ai progetti israeliani e alle violazioni contro l’educazione e contro le comunità beduine che svelano l’orribile volto dell’occupazione,” aggiungendo che il ministero “realizzerà tutti gli sforzi possibili per bloccare le pratiche israeliane e denunciarle sui media e nei tribunali.”

La scorsa settimana le autorità israeliane hanno emesso ordinanze di demolizione di 40 case e della scuola elementare del villaggio, compresi ordini di blocco dei lavori nei confronti di varie strutture del villaggio, che si trova nell’Area C – più del 60% della Cisgiordania sotto totale controllo israeliano e luogo di frequenti demolizioni da parte di Israele.

Al momento abitanti locali hanno detto a Ma’an che forze israeliane hanno imposto la chiusura militare della zona prima di consegnare gli ordini di demolizione, mentre a insegnanti e studenti della scuola è stato impedito l’accesso all’edificio.

Nonostante il fatto che la comunità, e la scuola in particolare, siano state minacciate di demolizione dal governo israeliano da anni, gli abitanti del luogo hanno detto che la consegna di avvisi di demolizione per ogni singola casa rappresenta un colpo senza precedenti.

Mercoledì funzionari dell’ONU hanno visitato la comunità beduina ed hanno definito la situazione “inaccettabile”. ” Khan al-Ahmar è una delle comunità più vulnerabili della Cisgiordania, che lotta per conservare uno standard minimo di vita di fronte alle pesanti pressioni da parte delle autorità israeliane per spostarla in un luogo di ricollocazione stabilito,” ha affermato in un comunicato Robert Piper, il coordinatore per l’aiuto umanitario e per le attività di sviluppo dell’ONU per i territori palestinesi occupati, aggiungendo che “questo è inaccettabile e deve finire.”

Khan al-Ahmar, come altre comunità beduine della regione, è minacciata di trasferimento da Israele in quanto si trova nel conteso “Corridoio E1”, stabilito dal governo israeliano per collegare Gerusalemme est annessa [a Israele] con la grande colonia di Maale Adumim.

Le autorità israeliane pianificano di costruire nell’E1 migliaia di abitazioni per le colonie solo per ebrei, il che dividerebbe in effetti la Cisgiordania e renderebbe la creazione di uno Stato palestinese contiguo – come previsto dalla soluzione dei due Stati per il conflitto israelo-palestinese – praticamente impossibile.

I gruppi per i diritti umani e i membri della comunità beduina hanno fortemente criticato i piani di ricollocazione da parte di Israele per i beduini che risiedono nei pressi delle colonie israeliane illegali di Maale Adumim, sostenendo che lo spostamento rimuoverebbe palestinesi autoctoni con lo scopo di espandere le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, in violazione delle leggi internazionali.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Leggi la trascrizione integrale: la conferenza stampa congiunta di Trump e Netanyahu

Haaretz | 15 febbraio 2017

La prima conferenza stampa congiunta del presidente USA Trump e del primo ministro israeliano Netanyahu.

IL PRESIDENTE TRUMP: Molte grazie. Grazie. Oggi ho l’onore di dare il benvenuto al mio amico, il primo ministro Benjamin Netanyahu, alla Casa Bianca. Con la sua visita, gli Stati Uniti riconfermano ancora una volta il proprio legame indissolubile con il nostro benamato alleato, Israele. La collaborazione tra i nostri due Paesi, basata sui valori da noi condivisi, ha promosso la causa della libertà dell’uomo, della dignità e della pace. Questi sono gli elementi fondamentali della democrazia.

Lo Stato di Israele è un simbolo per il mondo di resistenza di fronte all’oppressione – non posso pensare a nessun altro Stato che abbia passato quello che è toccato a loro – e di sopravvivenza di fronte al genocidio. Non dimenticheremo mai quello che ha sopportato il popolo ebreo.

La vostra perseveranza di fronte all’ostilità, la vostra democrazia aperta di fronte alla violenza e il vostro successo nell’affrontare grandi avversità è veramente fonte d’ispirazione. Le sfide per la sicurezza che Israele ha dovuto affrontare sono enormi, compresa la minaccia delle ambizioni nucleari dell’Iran, di cui io ho parlato parecchio. Uno dei peggiori accordi che abbia mai visto è quello con l’Iran. La mia amministrazione ha appena imposto nuove sanzioni e farò ancora di più per evitare che l’Iran possa mai sviluppare – intendo dire mai – armi nucleari.

La nostra assistenza per la sicurezza nei confronti di Israele è attualmente a un livello record, garantendo che Israele abbia la capacità di difendersi dalle minacce, che purtroppo sono molte. I nostri due Paesi continueranno a crescere. Abbiamo una lunga storia di cooperazione nella lotta contro il terrorismo e contro coloro che non danno valore alla vita umana. America e Israele sono due Nazioni che onorano il valore di ogni vita umana.

Questa è una delle molte ragioni per cui rifiuto azioni scorrette e di parte contro Israele alle Nazioni Unite – che hanno appena trattato Israele, secondo me in modo molto, molto scorretto – o in altri forum internazionali, così come il boicottaggio che prende di mira Israele. La nostra amministrazione è impegnata a lavorare con Israele e con i nostri comuni alleati nella regione verso una maggiore sicurezza e stabilità. Ciò include lavorare per un accordo di pace tra Israele e i palestinesi. Gli Stati Uniti incoraggeranno un accordo di pace, e veramente un grande accordo. Lavoreremo su questo con molto, molto impegno. E’ molto importante anche per me – qualcosa che vogliamo fare. Ma sono le stesse parti in causa che devono negoziare direttamente un accordo. Noi staremo dietro di loro; lavoreremo con loro.

Come per ogni negoziato che abbia successo, entrambe le parti dovranno arrivare a compromessi. Lo sa, giusto? (risate)

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Entrambe le parti.

IL PRESIDENTE TRUMP: Voglio che il popolo israeliano sappia che gli Stati Uniti stanno dalla parte di Israele nella lotta contro il terrorismo. Come lei sa, primo ministro, le nostre due Nazioni condanneranno sempre gli atti di terrorismo. La pace richiede che le Nazioni rispettino la dignità della vita umana e siano una voce per tutti coloro che sono in pericolo e dimenticati.

Questi sono gli ideali a cui tutti aspiriamo e sempre aspireremo e per cui siamo impegnati. Questo sarà il primo di molti altri incontri produttivi. E io, di nuovo, primo ministro, la ringrazio molto per essere con noi oggi.

Grazie, primo ministro.

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Presidente Trump, la ringrazio per l’ospitalità davvero molto calorosa, che lei e Melania avete dimostrato nei miei confronti, nei confronti di mia moglie Sara e di tutta la nostra delegazione. Per me, per lo Stato di Israele, è stato così chiaramente evidente nelle parole che ha appena detto – che Israele non ha nessun miglior alleato degli Stati Uniti. E voglio assicurarle che gli Stati Uniti non hanno nessun migliore alleato che Israele.

La nostra alleanza è stata particolarmente forte, ma sotto la sua direzione sono convinto che lo diventerà ancora di più. Sono ansioso di lavorare con lei per potenziare notevolmente la nostra alleanza in ogni campo – nella sicurezza, nella tecnologia, nell’informatica e nel commercio, e in molti altri settori. E io sicuramente accolgo con favore la sua sincera richiesta che Israele venga trattato in modo corretto nei contesti internazionali e che le calunnie e il boicottaggio di Israele siano fortemente avversati dal potere e dalla posizione morale degli Stati Uniti d’America.

Come lei ha detto, la nostra alleanza si basa su un legame profondo di valori e interessi comuni. E, sempre più, questi valori ed interessi sono sotto attacco da parte di una forza malvagia: il terrorismo radicale islamico. Signor presidente, lei ha mostrato grande chiarezza e coraggio nell’affrontare la sfida a viso aperto. Lei chiede di affrontare il regime terroristico iraniano, impedendo all’Iran di realizzare questo terribile affare dell’ arsenale nucleare. E lei ha detto che gli Stati Uniti sono impegnati a impedire che l’Iran abbia armi nucleari. Lei invoca la sconfitta dell’ISIS. Credo che, sotto la sua guida, potremo contrastare la crescente marea dell’Islam radicale. E in questo grande compito, come in molti altri, Israele ed io saremo con lei.

Signor presidente, nello sconfiggere l’Islam militante, possiamo cogliere un’opportunità storica – perché, per la prima volta nella mia vita, e per la prima volta nella storia del mio Paese, Paesi arabi della regione non vedono Israele come un nemico, ma sempre più come un alleato. E credo che sotto la sua direzione questo cambiamento nella nostra regione crei un’opportunità senza precedenti per rafforzare la sicurezza e promuovere la pace.

Cogliamo insieme questo momento. Rafforziamo la sicurezza. Chiediamo nuovi orizzonti di pace. Portiamo la straordinaria alleanza tra Israele e gli Stati Uniti a livelli ancora maggiori.

Grazie. Grazie, signor presidente.

IL PRESIDENTE TRUMP: Grazie, grazie ancora.

Risponderemo ad alcune domande. David Brody, Televisione Cristiana [CBN, televisione evangelica di destra. Ndtr.]. David.

D.: Grazie, signor presidente, signor primo ministro. Entrambi avete criticato l’accordo nucleare con l’Iran e talvolta avete anche chiesto di annullarlo. Mi chiedo se non siate preoccupati per quanto riguarda non solo il consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Flynn, che da poco non è più qui, ma anche alcuni di quei fatti che si sono verificati in Russia riguardo alle comunicazioni – se questo non stia ostacolando del tutto questo accordo, e se ciò impedirà all’Iran di diventare uno Stato nucleare oppure no.

E in secondo luogo, riguardo alle colonie, siete entrambi sulla stessa lunghezza d’onda? Come definite esattamente quanto riguarda la questione delle colonie? Grazie.

IL PRESIDENTE TRUMP. Michael Flynn, il generale Flynn, è una persona stupenda. Penso che sia stato trattato in modo veramente, veramente scorretto dai media – come li chiamo io, i media bugiardi, in molti casi. E penso che sia stata veramente una cosa triste che sia stato trattato così male. Penso, inoltre, anche da parte dell’intelligence – sono filtrati documenti, sono stati divulgati dei fatti. Sono azioni criminali, e ciò è continuato per molto tempo – prima di me. Ma ora continua, e ci sono persone che stanno cercando di utilizzarle come alibi per la terribile sconfitta dei democratici con Hillary Clinton.

Penso che sia veramente, veramente scorretto quello che è succeso al generale Flynn, il modo in cui è stato trattato, e i documenti che sono stati illegalmente – lo sottolineo – illegalmente divulgati. Molto, molto scorretto.

Il merito alle colonie, vorrei che vi soffermaste un attimo sugli insediamenti. Troveremo una soluzione. Ma vorrei che si facesse un accordo. Penso che si farà un accordo. So che ogni presidente lo avrebbe voluto. La maggior parte di loro non ha iniziato fino a fine [mandato] perché non ha mai pensato che fosse possibile. E non è stato possibile perchè non l’hanno fatto.

Ma Bibi [Netanyahu] ed io ci conosciamo da molto tempo – un uomo abile, grande negoziatore. E penso che stiamo per raggiungere un accordo. Potrebbe essere un accordo più complessivo e migliore di quanto le persone in questa stanza abbiano mai sentito parlare. E’ possibile. Per cui state a vedere quello che faremo.

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Proviamoci.

IL PRESIDENTE TRUMP: Non sembra molto ottimista, ma -(Risate) – è un buon negoziatore.

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Questa è “l’arte dell’accordo.” (Risate)

IL PRESIDENTE TRUMP: Voglio anche ringraziare – voglio anche ringraziare – Sara, per favore, ti puoi alzare? Su sei così adorabile e sei stata così carina con Melania. Lo apprezzo moltissimo. (Applausi). Grazie. E’ il tuo turno.

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Sì, prego, andiamo avanti.

D. Molte grazie. Signor presidente, nella sua visione per la nuova pace in Medio Oriente lei è pronto ad abbandonare la nozione della soluzione dei due Stati che è stata adottata dalla precedente amministrazione? E lei sarà disposto ad ascoltare idee diverse dal primo ministro, come alcuni dei suoi alleati gli stanno chiedendo di fare, per esempio, l’annessione di parti della Cisgiordania e nessuna limitazione per la costruzione delle colonie? E un’altra domanda: sta per concretizzare la sua promessa di spostare l’ambasciata USA in Israele a Gerusalemme? E se è così, quando?

E, signor primo ministro, lei è venuto qui stasera per dire al presidente che sta facendo marcia indietro rispetto alla soluzione dei due Stati?

Grazie.

IL PRESIDENTE TRUMP: Sto guardando ai due Stati e allo Stato unico, e mi piace la soluzione che piace alle due parti. (Risate). Sono molto contento di quello che piace alle due parti. Posso accettare una o l’altra.

Ho pensato per un momento che quella dei due Stati sembrasse la più facile per entrambi. Ma onestamente, se Bibi e i palestinesi – se Israele e i palestinesi sono contenti, sono contento di quella che loro preferiscono.  

Riguardo allo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, mi piacerebbe che succedesse. Ce ne stiamo occupando molto, molto seriamente. Ce ne stiamo occupando con molta attenzione – molta attenzione, credetemi. E staremo a vedere cosa succede. Va bene?

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Grazie. Ieri ho letto che un funzionario americano ha detto che se chiedi a cinque persone a cosa assomiglierebbero due Stati, otterresti otto risposte diverse. Signor presidente, se lei chiede a cinque israeliani, avrà in cambio 12 risposte diverse. (Risate).

Ma piuttosto che occuparmi di etichette, voglio occuparmi di sostanza. E’ ciò che ho sperato di fare per anni in un mondo che è assolutamente ossessionato dalle etichette e non dalla sostanza. Per cui ecco la sostanza: ci sono due prerequisiti che ho esposto due anni fa – parecchi anni fa, e non sono cambiati.

Primo, i palestinesi devono riconoscere lo Stato ebraico. Devono smettere di chiedere la distruzione di Israele. Devono smettere di formare il loro popolo per la distruzione di Israele

Secondo, in qualunque accordo di pace, Israele deve conservare il controllo predominante per la sicurezza sull’intera zona ad ovest del fiume Giordano. Perché se non l’abbiamo, sappiamo quello che succederà – perché altrimenti avremo un altro Stato terroristico radicale islamico nelle zone palestinesi che farà esplodere la pace, farà esplodere il Medio Oriente.

Ora, sfortunatamente, i palestinesi rifiutano categoricamente entrambi i prerequisiti per la pace. Primo, continuano a sostenere la distruzione di Israele – nelle loro scuole, nelle moschee, nel libri di testo. Dovete leggerli per crederci.

Negano persino, signor presidente, il nostro legame storico con la nostra patria. E penso che dovreste chiedervi: perché – perché gli ebrei sono chiamati così? Bene, i cinesi sono chiamati cinesi perchè vengono dalla Cina. I giapponesi sono chiamati giapponesi perchè vengono dal Giappone. Bene, gli ebrei sono chiamati giudei perché vengono dalla Giudea. E’ la nostra terra ancestrale. Gli ebrei non sono colonialisti stranieri in Giudea.

Perciò, sfortunatamente, non solo i palestinesi negano il passato, ma avvelenano anche il presente. Danno il nome di assassini di massa, che hanno ucciso israeliani, a pubbliche piazze, e devo dire che hanno assassinato anche americani. Finanziano – danno sussidi mensili a famiglie di assassini, come la famiglia del terrorista che ha ucciso Taylor Force, un magnifico giovane americano, un laureato di West Point, che è stato accoltellato a morte mentre visitava Israele.

Perciò questa è la fonte del conflitto – il costante rifiuto palestinese di riconoscere lo Stato ebraico all’interno di qualunque confine: questo costante rifiuto. Questa è la ragione per cui non abbiamo la pace. Ora, ciò deve cambiare. Voglio che cambi. Non solo non ho abbandonato questi due prerequisiti per la pace; sono diventati ancora più importanti a causa della crescente ondata di fanatismo che ha travolto il Medio Oriente ed ha anche, sfortunatamente, infettato la società palestinese.

Quindi voglio che questo cambi. Voglio questi due prerequisiti per la pace – sostanza, non etichette – voglio che siano reintrodotti. Ma se qualcuno pensa che io, in quanto primo ministro di Israele, responsabile della sicurezza del mio Paese, voglia ciecamente andare verso uno Stato palestinese terrorista che vuole la distruzione del mio Paese, si sbaglia di grosso.

I due prerequisiti per la pace – riconoscimento dello Stato ebraico e le necessità di sicurezza di Israele a ovest del Giordano- rimangono in vigore. Dobbiamo cercare nuove vie, nuove idee su come ripristinarli e come mandare avanti la pace. E io credo che la grande opportunità per la pace venga da un approccio regionale che coinvolga i nostri nuovi alleati arabi nella ricerca di una pace più complessiva e una pace con i palestinesi.

E io sono ansioso di discuterne nei dettagli con lei, signor presidente, perché penso che se lavoriamo insieme, abbiamo una possibilità.

IL PRESIDENTE TRUMP: E ne abbiamo discusso, ed è una cosa che è molto diversa, che non è mai stata discussa prima. Ed è veramente una faccenda molto più grande, molto più importante, in un certo senso. Coinvolgerà molti, molti Paesi e coprirà un territorio molto ampio. Per cui non sapevo che stesse per parlarne, ma è così e questo è… ora che lo ha fatto, penso che sia una cosa enorme e che abbiamo una collaborazione veramente buona da popoli che in passato non avrebbero mai, non hanno mai neanche pensato di farlo. Per cui vedremo come questo funzionerà.

Katie di Townhall [sito conservatore di notizie. Ndtr.]. Dov’è Katie? Là. Katie.

D. Grazie, signor presidente. Nelle sue considerazioni iniziali lei ha detto che entrambe le parti dovranno arrivare a compromessi quando si arriverà a un accordo di pace. Lei ha menzionato un blocco alle colonie. Ci può esporre qualche altro compromesso specifico a cui lei sta pensando, sia per gli israeliani che per i palestinesi?

E, signor primo ministro, che cosa si aspetta dalla nuova amministrazione su come modificare l’accordo nucleare con l’Iran o annullarlo del tutto, e come lavorare complessivamente con la nuova amministrazione per combattere la crescente aggressività dell’Iran, non solo negli ultimi mesi ma anche negli ultimi due anni?

IL PRESIDENTE TRUMP: E’ davvero una domanda interessante. Penso che gli israeliani debbano dimostrare una certa flessibilità, il che è difficile, difficile da fare. Dovranno dimostrare il fatto che vogliono davvero fare un accordo. Penso che il nostro nuovo concetto che abbiamo discusso in effetti per un po’ di tempo è qualcosa che consenta loro di mostrare maggiore flessibilità di quella che hanno avuto in passato perché c’è un canovaccio molto più ampio da recitare. E penso che lo faranno.

Penso che a loro piacerebbe molto arrivare ad un accordo o non sarei contento e non sarei qui e non sarei così ottimista. Io penso davvero che loro – posso dire dal punto di vista di Bibi e di Israele, credo davvero che vogliano fare un accordo e che vogliano vedere un grande accordo.

Penso che i palestinesi debbano liberarsi di parte dell’odio che hanno insegnato loro fin dall’infanzia. Hanno insegnato loro un odio terribile. Ho visto quello che insegnano. E tu puoi parlare anche lì di flessibilità, ma iniziano dalla tenera età e nelle scuole. E devono riconoscere Israele – dovranno cominciare a farlo. Non c’è modo di fare un accordo se non sono disposti a riconoscere un Paese veramente grande e importante. E penso che saranno disponibili anche a questo. Ma ora credo anche, Katie, che avremo altri attori ad un livello molto alto, e penso che ciò renderà più facile sia ai palestinesi che a Israele ottenere qualcosa.

Va bene? Grazie. Domanda molto interessante. Grazie.

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Lei ha chiesto dell’Iran. Una cosa è impedire che l’Iran abbia armi nucleari – una cosa che il presidente Trump ed io crediamo di essere molto impegnati a fare. E noi stiamo naturalmente per discutere di questo.

Oltre a questo penso che il presidente Trump abbia guidato un’importante iniziativa nelle ultime settimane, appena ha assunto la presidenza. Ha sottolineato che ci sono violazioni, violazioni iraniane sui test dei missili balistici. Tra l’altro su questi missili balistici c’è scritto in ebraico “Israele deve essere distrutto.” Il palestinese… anzi, il ministro degli Esteri iraniano Zafir ha affermato, bene, i nostri missili balistici non sono pensati contro nessun Paese. No. Scrivono sul missile in ebraico: “Israele deve essere distrutto.”

Per cui sfidare l’Iran sulle sue violazioni in merito ai missili balistici, imporre sanzioni contro Hezbollah [gruppo armato sciita libanese. Ndtr.], impedirglielo, far pagare a loro per il terrorismo che fomentano in tutto il Medio Oriente ed altrove, molto al di là [del Medio Oriente] – credo che sia un cambiamento che è chiaramente evidente da quando il presidente Trump ha assunto la presidenza. Ne sono lieto. Penso che sia – lasciatemelo dire molto esplicitamente: credo che sia molto tardi, e penso che se lavoriamo insieme – e non solo gli Stati Uniti e Israele, ma molti altri nella regione che vedono in faccia le grandi dimensioni e il pericolo della minaccia iraniana, allora ritengo che possiamo respingere l’aggressività iraniana e il pericolo. E si tratta di qualcosa che è importante per Israele, per gli Stati arabi, ma penso che sia di vitale importanza per l’America. Quei tizi stanno sviluppando ICBM [missili balistici intercontinentali]. Stanno sviluppando – vogliono arrivare ad avere un arsenale nucleare, non una bomba, centinaia di bombe. E vogliono avere la capacità di lanciarli ovunque sulla terra, compreso, e soprattutto, un giorno, sugli Stati Uniti.

Quindi è una cosa importante per tutti noi. Mi rallegro del cambiamento, e intendo lavorare con il presidente Trump molto da vicino in modo che possiamo contrastare questo pericolo.

IL PRESIDENTE TRUMP: Ottimo. Avete qualcun altro?

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Moav?

D. Signor presidente, a partire dalla sua campagna elettorale ed anche dopo la sua vittoria, abbiamo assistito ad un’impennata di incidenti antisemiti negli Stati Uniti. E mi chiedo cosa lei dica a quelli, tra la comunità ebraica negli Stati Uniti, e in Israele, e forse in tutto il mondo, che credono e sentono che la sua amministrazione sta giocando con la xenofobia e forse con toni razzisti.

E, signor primo ministro, lei è d’accordo con quello che ha appena detto il presidente in merito alla necessità per Israele di limitare o bloccare l’attività di colonizzazione in Cisgiordania? E una piccola aggiunta alle domande del mio amico – una semplice domanda: ha abbandonato la sua visione per la fine del conflitto della soluzione dei due Stati, come l’ha enunciata nel discorso di Bar-Ilan [università israeliana. Ndtr.], o lei continua ad appoggiarla? Grazie.

IL PRESIDENTE TRUMP: Voglio solo dire che siamo molto onorati dalla vittoria che abbiamo avuto – 306 voti del collegio elettorale. Non pensavamo di superare i 220. Lo sa, vero? Non c’era modo di arrivare a 221, ma allora hanno detto che non si poteva arrivare a 270. E c’è un enorme entusiasmo in giro.

Dirò che stiamo per avere pace in questo Paese. Stiamo per porre fine al crimine in questo Paese. Stiamo per fare ogni cosa in nostro potere per porre fine al razzismo a lungo covato e ad ogni altra cosa che sta succedendo, perché molte cose malvagie sono successe per un lungo periodo di tempo.

Credo che una delle ragioni per cui ho vinto le elezioni è che abbiamo una Nazione molto, molto divisa. Molto divisa. E, auspicabilmente, sarò in grado di fare qualcosa a questo proposito. E, sapete, è stata una cosa molto importante per me.

Riguardo alla gente – gli ebrei- molti amici, una figlia che è appena arrivata qui, un genero e tre bellissimi nipoti. Penso che vedrete degli Stati Uniti molto diversi nei prossimi tre, quattro o otto anni. Penso che avverranno molte cose buone, e state per vedere molto amore. State per vedere molto amore. Va bene? Grazie.

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Credo che la questione delle colonie non sia al centro del conflitto, né lo stia davvero guidando. Penso che sia un problema, deve essere risolto nel contesto dei negoziati di pace. E penso che dobbiamo parlare anche di questo, il presidente Trump ed io, in modo da arrivare ad una comprensione, quindi non dobbiamo continuare a scontrarci tutto il tempo su questo problema. E stiamo per discuterne.

Sulla domanda che ha fatto, lei con la sua domanda è proprio tornato sul problema di cui ho parlato. E’ l’etichetta. Cosa intende Abu Mazen per due Stati, va bene? Cosa intende? Uno Stato che non riconosce lo Stato ebraico? Uno Stato che è fondamentalmente disposto ad attacchi contro Israele? Di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando del Costarica, o stiamo parlando di un altro Iran?

Quindi ovviamente ciò significa cose diverse. Vi ho detto quali sono le condizioni che credo siano necessarie per un accordo: sono il riconoscimento dello Stato ebraico e il controllo della sicurezza di Israele- di Israele – nell’intera area. Altrimenti stiamo solo fantasticando. Altrimenti avremo un altro Stato fallito, un’altra dittatura islamista terrorista che non lavorerà per la pace ma per distruggerci, ma anche per distruggere ogni speranza – ogni speranza – per un futuro pacifico per il nostro popolo.

Quindi sono stato molto chiaro in merito a queste condizioni, e non sono cambiate. Non ho cambiato. Se lei legge quello che ho detto otto anni fa, è proprio questo. E l’ho ripetuto ancora e ancora e ancora. Se lei vuole occuparsi di etichette, si occupi di etichette. Io mi occuperò di cose concrete.

E in conclusione, se posso rispondere a qualcosa che conosco per esperienza personale. Conosco da molti anni il presidente Trump, e per accennare a lui e alla sua gente – i suoi collaboratori, alcuni dei quali conosco, anche loro, da molti anni. Posso rivelare, Jared, da quanto ti conosco? (Risate.) Bene, non è mai stato piccolo. E’ sempre stato grande. E’ sempre stato alto.

Ma io conosco il presidente e la sua famiglia e i suoi collaboratori da molto tempo, e non c’è maggior sostenitore del popolo ebraico e dello Stato ebraico del presidente Donald Trump. Penso che dovremmo smetterla con questa storia.

IL PRESIDENTE TRUMP: Molte grazie. Molto gentili. Lo apprezzo molto.

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Grazie.

(traduzione di Amedeo Rossi)