Arare senza difesa

 Amira Hass – 30 gennaio 2017, Haaretz

L’ufficiale dell’esercito israeliano ha chiesto a due dei suoi sottoposti di dare una mano contro tre coloni che aggredivano palestinesi. Lo ha chiesto – bell’affare.

Un soldato dell’esercito israeliano ha ignorato la richiesta del suo comandante di aiutare lui e altri quattro soldati a sopraffare tre coloni. I coloni avevano violato un ordine militare entrando in terra palestinese per disturbare lavori di aratura.

O, come l’ha spiegato il portavoce dell’esercito: “Il comandante di compagnia in servizio durante l’incidente ha fatto segno a uno dei suoi soldati di andare ad aiutarlo. Ma, dato che ha avuto rapidamente ragione (dei coloni), il comandante ha informato solo in seguito che il soldato non era accorso. Alla fine, il comandante di compagnia ha svolto un’indagine e ha fatto rapporto ai suoi superiori.”

Ma Amiel Vardi, un attivista dell’organizzazione arabo-ebraica “Ta’ayush”, ha detto di aver visto il gesto dell’ufficiale a due soldati che stavano vicino alla loro jeep guardando i loro compagni che cercavano di arrestare i coloni. “Non è successo niente; i soldati non sono andati. E allora il comandante ha mandato da loro uno dei soldati che erano con lui, ma è ritornato da solo,” ricorda Vardi, che era stupito di vedere due soldati che manifestavano un tale disprezzo per i loro compagni.

E’ vero, è una notizia vecchia: è successo un mese fa. Ma, durante una conversazione casuale, vari attivisti di “Ta’ayush” hanno detto ad Haaretz che il fatto è stato più drammatico di come lo hanno descritto i media israeliani. Perciò lo stiamo riconsiderando qui, insieme a un video che può essere visto nella versione in rete di questo articolo.

Iniziamo ricordando qualche fatto. Per anni i coloni della zona di Sussia hanno aggredito gli abitanti di questo eroico villaggio della Cisgiordania e gli hanno impedito l’accesso a circa 3.000 dunam (300 ettari) di terre agricole (mentre facevano pressione anche per la demolizione di tutte le loro case).

In seguito ad un’ estenuante battaglia legale da parte degli abitanti – con l’assistenza di “Rabbini per i Diritti Umani” e dell’avvocato Quamar Mashraqi Assad, compreso un appello all’Alta Corte di Giustizia – l’esercito ha gentilmente accettato di emettere ordini militari che vietano agli israeliani di entrare in una quantità totale di circa 400 dunams [40 ettari. Ndtr.].

Non è un granché. Ma persino lì i coloni aggressori stanno continuando le loro azioni. Perciò “Ta’ayush” scorta i contadini.

L’attivista di “Ta’ayush” Michal Peleg mi ha permesso di rubare la sua testimonianza diretta. “In una fredda mattina di sabato, il 31 dicembre 2016, in un piccolo campo sotto il villaggio di Sussia, una famiglia stava arando: tre uomini, una donna, un ragazzo e un bambino (la famiglia Nawajah), un aratro di ferro attaccato a due asini, difficile arare in profondità, terra pietrosa. Prima hanno educatamente chiesto all’intruso di andarsene dal campo. Questi, che ha detto di chiamarsi Daoud, ha scherzato con i soldati e ogni tanto si scatenava, minacciando e spingendo gli aratori ed i loro asini.

I soldati hanno continuato a chiedergli per piacere di andarsene. Egli ha chiesto una prova, un ordine. Lo hanno richiesto e gli hanno mostrato una mappa in cui la zona era segnata come preclusa agli israeliani a causa di precedenti aggressioni. L’ebreo si è messo a ridere e se n’è andato.

“L’aratura è ripresa. Gli uomini e la donna hanno spinto forte i muli e li hanno incitati ad accelerare, in quanto ora erano spaventati.

“Come prevedibile, l’ebreo è tornato, insieme ad altri due uomini, ed i tre hanno invaso il campo, camminando con arroganza in giro tutti contenti. I soldati hanno tentato di bloccarli. I tre li hanno aggrediti, spingendoli e colpendoli. Con grande fatica i soldati hanno sopraffatto i delinquenti e li hanno gettati a terra.

La famiglia stava lì vicino in silenzio; la donna stava piangendo. E anche noi, i sei israeliani, siamo stati da una parte a guardare quello che stava succedendo, filmando e cercando di proteggere gente che non ha il diritto di alzare una mano o neppure di dare una spinta per proteggere se stessa, figuriamoci il proprio terreno. Abbiamo chiesto che l’autorità della zona portasse via gli intrusi e permettesse ai proprietari della terra di continuare ad ararla.

E’ arrivata la polizia. Gli intrusi sono stati arrestati. Ma l’aratura non è ricominciata.”

Il campo si trova nei pressi di una cisterna d’acqua. La terra attorno alla cisterna era ostruita da spazzatura, e non lontano da lì è stato scritto uno slogan con delle pietre, in ebraico: ‘Vendetta’, con in più una stella di David. Il proprietario palestinese del terreno è arrivato per togliere l’immondizia, con il nostro aiuto.

Abbiamo chiamato la polizia perché prendesse nota dello slogan ‘vendetta’. Poi lo abbiamo tolto. Gli ebrei di (della colonia di) Susya hanno chiamato l’esercito israeliano per impedirci di toglierlo dalla terra araba di proprietà privata. L’esercito non ha acconsentito alla loro richiesta. Questo è stato il contesto dell’aggressione dei delinquenti.”

Peleg continua: “Ogni attacco contro ebrei, che siano civili o soldati, ha ‘colore’ – cioè protagonisti, vicini, interviste, amici, descrizioni, riprese dal vivo, dettagli…Se non fosse stato per l’arresto degli ebrei, assolutamente nessuno avrebbe sentito parlare di questo fatto.

Per cui c’è un po’ di colore. L’ebreo che si è intrufolato nel campo era un giovane grosso, muscoloso. Ci sono voluti due o forse tre soldati per bloccarlo. Era anche su di giri, gridava e cantava.

“Quando se ne stava steso a terra sotto due soldati ansimanti, ha iniziato a cantare piano ‘Ahi papà, ahi mamma, mi stanno picchiando, picchiando, mamma.’ Nessuno lo stava picchiando, naturalmente. I suoi amici ridevano. Noi tutti -cioè, noi tutti israeliani – eravamo partecipi della burla insita in questa canzone del ghetto; tutti noi sapevamo che era un adagio a proposito del cosacco derubato [la storia si riferisce ad un cosacco che prima depreda, uccide e violenta gli ebrei, poi si lamenta di essere stato derubato da loro. Ndtr.].”

“Solo gli arabi non l’hanno colto. Loro hanno visto la realtà: cruda, spudorata, sfrontata violenza da parte di quelli che sono al di sopra della legge e non hanno paura di soldati, poliziotti o giudici – la stessa legge, gli stessi soldati, poliziotti, amministrazione (militare) e giudici che, in qualunque momento, possono distruggere, o persino prendersi, le loro vite.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 10 – 23 gennaio 2017 (due settimane)

In Cisgiordania, nel corso di tre distinti episodi, le forze israeliane hanno ucciso, con armi da fuoco, tre palestinesi.

Tra essi un minore 17enne, ucciso il 10 gennaio all’ingresso del villaggio di Tuqu’ (Betlemme), durante scontri che hanno visto lanci di pietre e di bottiglie incendiarie. Gli altri due morti sono un 32enne palestinese, ucciso lo stesso giorno, in circostanze controverse, durante una operazione di ricerca nel Campo profughi di Al Far’a (Tubas) ed un uomo di 44 anni, ucciso il 17 gennaio ad un posto di blocco vicino alla città di Tulkarem: a quanto riferito, avrebbe tentato di pugnalare un soldato israeliano. Secondo i media, le autorità israeliane hanno aperto un’indagine sul primo episodio.

In Area C e Gerusalemme Est, per mancanza dei permessi edilizi israeliani, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 44 strutture, sfollando 17 palestinesi, tra cui cinque minori, e coinvolgendone altri 3.300. Due dei casi più rilevanti sono avvenuti in Area C, presso due piccole comunità di pastori: a Jericho (Al Jiftlik-Abu al ‘Ajaj) e Nablus (Tell al Khashabeh) dove sono state demolite 19 strutture, di cui 15 fornite come assistenza umanitaria. Sempre in Area C, vicino alla città di Hebron (Al Buweib), le autorità israeliane hanno distrutto parte di una strada agricola, colpendo la sussistenza di circa 3.000 persone. Altre 11 strutture non abitative sono state demolite nella zona di Jabal al Mukabber di Gerusalemme Est, dove viveva l’autore dell’aggressione dell’8 gennaio scorso [aggressione con camion, riportata nel Rapporto precedente]: 45 persone sono state colpite da queste demolizioni.

Sempre in seguito all’aggressione con camion dell’8 gennaio, la municipalità di Gerusalemme ha consegnato notifiche avverso circa 80 edifici della zona di Jabal Al Mukabber, relative a “violazioni di pianificazione e zonizzazione”. Una prima valutazione effettuata da OCHA prevede che, se sarà dato seguito a tali notifiche, più di 240 famiglie (circa 1.200 persone) che vivono negli edifici coinvolti rischieranno lo sfollamento. È stato anche riferito che la casa di famiglia del colpevole, prima della demolizione punitiva, è stata oggetto di provvedimenti da parte delle autorità.

In Cisgiordania, durante molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 26 palestinesi, tra cui dodici minori. Il numero più alto di ferimenti (10) sono stati registrati nella città di Ar Ram (Gerusalemme), durante scontri scoppiati nel corso di una demolizione. Altri scontri, con conseguenti ferimenti, si sono verificati durante le manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Ni’lin (Ramallah); all’entrata della città di Hizma (Gerusalemme) e nel villaggio Tuqu ‘(Betlemme); in seguito all’ingresso di coloni israeliani alla Tomba di Giuseppe nella città di Nablus; infine, durante quattro operazioni di ricerca-arresto.

In totale, in Cisgiordania, nel periodo di riferimento, le forze israeliane hanno condotto 199 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 288 palestinesi. Il numero più alto di operazioni (67) e di arresti (97) si è avuto nel governatorato di Gerusalemme.

Nella Striscia di Gaza, in almeno 38 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso – o hanno sparato direttamente contro – palestinesi presenti o in avvicinamento ad Aree ad Accesso Riservato (ARA), imposte da Israele su terraferma ed in mare. Come risultato, sono stati segnalati cinque palestinesi feriti, tra cui tre pescatori e una bambina di dieci anni. In altri sei casi, le forze israeliane hanno arrestato undici palestinesi: due commercianti che stavano attraversando il valico di Erez controllato da Israele, cinque pescatori in mare e altri tre civili che cercavano di entrare illegalmente in Israele.

Secondo fonti dei Consigli di villaggio, in due distinti episodi verificatisi a Beit Lid (Tulkarem) e Turmus’ayya (Ramallah), 56 alberi di proprietà palestinese sono stati vandalizzati da coloni israeliani. Inoltre, a Burqa (Nablus), un palestinese è stato fisicamente aggredito e ferito da un gruppo di coloni israeliani mentre lavorava sul proprio terreno. In Cisgiordania coloni israeliani ed altri gruppi israeliani sono entrati in diversi siti religiosi, innescando con palestinesi alterchi e scontri conclusi senza feriti. I siti interessati comprendono il Complesso Al Haram Ash Sharif / Monte del Tempio a Gerusalemme Est, un santuario nel villaggio Sabastiya (Nablus) e le Piscine di Salomone nel villaggio di Al-Khader (Betlemme).

I media israeliani hanno riportato 17 casi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli di coloni israeliani: sono stati segnalati danni a diversi veicoli, ma nessun ferito. Inoltre, nell’attraversamento di Shu’fat (Gerusalemme Est), la metropolitana leggera ha subito danni per lancio di sassi da parte di palestinesi.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è rimasto chiuso in entrambe le direzioni. Nel corso del 2016 il valico è stato parzialmente aperto per soli 44 giorni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, inclusi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

¡

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 25 gennaio, all’ingresso dell’ insediamento di Kochav Ya’akov (Ramallah), le forze israeliane hanno ucciso un palestinese nel corso di una presunta aggressione tramite speronamento con auto; non sono stati segnalati feriti israeliani.

Il 26 gennaio, il Ministero degli Interni israeliano ha annunciato la revoca dei “permessi di ricongiungimento familiare” ad un certo numero di membri della famiglia del palestinese che, l’8 gennaio, ha messo in atto una aggressione contro soldati israeliani.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

þ




Basta seminare il panico: in Palestina e Israele un unico Stato democratico è possibile

di Ramzy Baroud, 10 gennaio 2017, Middle East Monitor

Già molto prima del 28 dicembre scorso -quando il Segretario di Stato John Kerry è salito sul palco del Dean Acheson Auditorium di Washington DC per pontificare sull’incerto futuro della soluzione a due Stati e sulla necessità di salvare Israele da se stesso -Il tema della creazione di uno Stato Palestinese è stato di primaria importanza.

Infatti, nonostante ciò che si crede comunemente, lo sforzo per costituire uno Stato palestinese accanto ad uno ebraico risale a molto prima della Risoluzione Onu 181 del novembre 1947. Quella famigerata risoluzione chiedeva la partizione della Palestina in tre entità: uno Stato ebraico, uno palestinese e un controllo internazionale su Gerusalemme.

Una lettura più accurata della storia può mettere in evidenza molti riferimenti allo Stato palestinese (o arabo) tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo.

L’idea dei due Stati è eminentemente occidentale. Nessun partito o leader palestinese ha mai pensato che la divisione della Terra Santa fosse davvero un’opzione. Allora una simile idea è sembrata assurda, in parte perché, come evidenziato da Ilan Pappe nel suo “La Pulizia Etnica della Palestina”, “quasi tutte le terre coltivate in Palestina appartenevano alla popolazione indigena (araba), (mentre) solo il 5.8 % era di proprietà di ebrei nel 1947”.

Un precedente, ma altrettanto importante, rimando ad uno Stato Palestinese fu fatto dalla commissione Peel, una commissione britannica d’inchiesta presieduta da Lord Peel, che venne inviato in Palestina per indagare sulle motivazioni alla base di uno sciopero generale, una rivolta e più tardi di una ribellione armata che iniziò nel 1936 e si protrasse per circa 3 anni.

La commissione stabilì che le “cause sottostanti ai disordini” fossero sostanzialmente due: il desiderio di indipendenza dei palestinesi e l’astio e il timore per la costituzione della patria nazionale per gli ebrei”. Quest’ultima fu promessa dal governo britannico alla Federazione Sionista della Gran Bretagna e dell’Irlanda nel 1917, nota in seguito come la dichiarazione Balfour.

La commissione Peel consigliò la spartizione della Palestina storica in uno Stato ebraico e in uno palestinese, che sarebbe stato incorporato nella Transgiordania [l’attuale Regno di GIordania. Ndtr.], con enclavi riservate al governo mandatario britannico.

Nel lasso di tempo di 80 anni tra quella raccomandazione e l’avvertimento di Kerry secondo cui la soluzione a due Stati sarebbe “seriamente in pericolo”, davvero poco è stato fatto in termini di passi concreti verso la costituzione di uno Stato palestinese. Ancor peggio, gli Stati Uniti hanno fatto uso ripetutamente del loro potere di veto all’ONU per impedire la costituzione dello Stato palestinese, nonché utilizzato il loro potere politico ed economico di intimidazione nei confronti di chi avesse (anche solo simbolicamente) riconosciuto uno Stato palestinese. Hanno giocato inoltre un ruolo chiave nel finanziare gli insediamenti ebraici illegali in Cisgiordania e a Gerusalemme, rendendo l’esistenza di uno Stato palestinese virtualmente impossibile.

Il punto ora è: perché l’Occidente continua ad utilizzare la “soluzione a due Stati” come parametro politico per giungere ad una risoluzione del conflitto israelo-palestinese mentre, allo stesso tempo, assicura che la sua stessa richiesta di risoluzione non diventi mai una realtà?

La risposta sta, parzialmente, nel fatto che fin dall’inizio la “soluzione a due Stati” non è mai stata concepita fin dall’inizio per essere realizzata. Come il “processo di pace” ed altre finzioni, ha avuto lo scopo di promuovere tra i palestinesi e il mondo arabo l’idea che esista un importante obiettivo per cui battersi, nonostante esso sia inattuabile.

Ma anche quell’obiettivo è stato condizionato da una serie di richieste risultate fin dall’inizio irrealistiche. Storicamente, i palestinesi hanno dovuto rinunciare alla violenza (la loro resistenza armata all’occupazione militare israeliana), acconsentire a varie risoluzioni dell’ONU, (benché Israele ancora rifiuti di riconoscerle), accettare il “diritto” di Israele ad esistere in quanto Stato ebraico, e così via. Lo Stato palestinese, prima ancora di essere costituito, avrebbe dovuto essere demilitarizzato, diviso tra Cisgiordania e Gaza ed escludere buona parte di Gerusalemme Est occupata.

Furono offerte numerose soluzioni “creative”, per ridurre ogni timore israeliano che l’inesistente Stato palestinese, nel caso fosse stato creato, potesse costituire una minaccia per Israele. Talvolta, la discussione in corso riguardava l’idea di una confederazione tra Palestina e Giordania, altre volte, come nelle proposte più recenti del capo del Jewish Home Party [La Casa Ebraica, partito di estrema destra dei coloni. Ndtr], il ministro israeliano Naftali Bennett, quella di trasformare Gaza in uno Stato indipendente e di annettere a Israele il 60% della Cisgiordania.

E quando gli alleati di Israele, delusi dall’ascesa della destra ebraica e dall’ostinazione del primo ministro Benjamin Netanyahu, insistono nell’affermare che è giunto il momento della soluzione a due Stati, esprimono i loro timori sotto forma di un amore estremo. L’attività delle colonie israeliane sta infatti “consolidando enormemente l’irreversibile realtà dello Stato unico” ha detto Kerry la settimana scorsa nel suo discorso politico.

Tale realtà dovrebbe costringere Israele o ad un compromesso circa l’identità ebraica dello Stato (come se avere una identità etnico/religiosa in un moderno Stato democratico fosse una precondizione normale) oppure a lottare contro il fatto di diventare uno Stato di apartheid (come se ciò non fosse già una realtà).

Kerry ha messo in guardia Israele circa il fatto che sarebbe rimasta solo l’opzione di porre i palestinesi “sotto occupazione militare permanente” privandoli della maggior parte delle libertà fondamentali”, aprendo così la strada ad uno scenario di “separazione e disuguaglianza”.

Mentre ci si preoccupava della disintegrazione della possibilità della “soluzione a due Stati”, pochi in realtà hanno cercato di comprendere la realtà dal punto di vista palestinese.

Per i palestinesi, il dibattito sulla necessità di Israele di scegliere tra essere uno Stato democratico o confessionale è risibile. Infatti per loro la democrazia israeliana si applica integralmente solo ai cittadini di origine ebraica e a nessun altro, mentre i palestinesi sono sopravvissuti per decenni dietro muri, recinti, prigioni ed enclave assediate, come nella Striscia di Gaza.

E lo scenario di apartheid fatto di “separazione e diseguaglianza” evocato da Kerry, con due ordinamenti giuridici, due diverse normative e due realtà applicate a due diversi gruppi sullo stesso territorio, si è realizzato nel momento stesso in cui lo Stato di Israele è stato fondato nel 1948.

Secondo un recente sondaggio, due terzi dei palestinesi, stanchi delle illusioni della loro stessa leadership fallimentare, concordano oggi sul fatto che la soluzione a due Stati non sia realizzabile. E questo numero tende ad aumentare tanto velocemente quanto le massicce iniziative di colonizzazione illegale che costellano Gerusalemme e la Cisgiordania occupate.

Questo non è un argomento contro la soluzione a due Stati; quest’ultima è esistita semplicemente come espediente per tranquillizzare i palestinesi, prendere tempo e delimitare il conflitto ad un orizzonte politico illusorio. Se gli Stati Uniti fossero stati davvero interessati alla soluzione a due Stati, avrebbero tenacemente combattuto per realizzarla decenni fa.

Dire oggi che la soluzione a due Stati è superata, significa accettare l’illusione che sia mai stata possibile.

Ciò detto, conviene a tutti capire che la coesistenza, in uno Stato democratico, non è uno scenario oscuro che determinerebbe la fine per la regione.

E’ tempo di abbandonare illusioni irrealizzabili e concentrare tutte le energie per promuovere la coesistenza, basata sull’eguaglianza e la giustizia per tutti.

Infatti, ci può essere tra il fiume [Giordano] e il mare [mediterraneo], un unico Stato,che sia uno Stato democratico per tutta la sua popolazione, indipendentemente dall’etnia o dal credo religioso.

Ramzy Baroud è un editorialista internazionalmente riconosciuto, autore e il fondatore di Palestine Chronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre è stato un combattente per la libertà: la storia non detta di Gaza”(My FatherWas a Freedom Fighter: Gaza’sUntold Story)

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore stesso e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Ma’an News Agency.

(traduzione di Viviana Codemo)




Quello che i soldati israeliani non dicono mai alle loro madri

Haaretz Gideon Levy, 15 gennaio 2017

Non c’è praticamente nessun servizio operativo nell’esercito israeliano che non comporti per i soldati il compiere missioni spregevoli come quella descritta qui di seguito.

Si sono radunati in una stretta via, in una notte fredda e scura. Erano tesi. Il grido di un lontano sciacallo ha rotto il silenzio. Per alcuni questa era la prima missione operativa. L’avevano sempre sognata ed erano stati a lungo addestrati. L’adrenalina scorreva, proprio come volevano. Era quello per cui si erano arruolati.

Prima di uscire hanno mandato messaggini ai propri familiari per dire loro di non preoccuparsi. Quando si è levato il sole e sono tornati in salvo alla base, li hanno nuovamente inviato dei messaggi. Le loro madri non hanno chiesto che cosa avevano fatto e loro non glielo hanno detto. Succede sempre così. I familiari sono orgogliosi di loro: sono dei soldati che combattono.

Quando si sono messi in riga prima di partire, i comandanti hanno controllato il loro equipaggiamento e munizioni ed impartito gli ultimi ordini. L’ufficiale di intelligence ha parlato loro dei due ricercati: devono essere trovati, ad ogni costo. Poi i soldati sono usciti nella notte. Trenta soldati. Sono saliti a piedi in cima alla collina.

Hanno raggiunto l’obiettivo poco dopo mezzanotte. Il villaggio era profondamente addormentato, i fari di sicurezza arancione della colonia di là dalla strada ammiccavano distanti. Ed è stato dato l’ordine: attaccare!

Si sono avventati contro la porta posteriore della casa e l’hanno scossa finché non è stata quasi scardinata. Dal secondo piano è uscita una luce fioca ed un uomo è sceso in pigiama, ancora mezzo addormentato, per aprire il cancello di metallo. Nessuno di loro si è chiesto che cosa ci facesse là. Forse questo accadrà quando saranno maturati ancora un po’.

I primi quattro sono entrati con i fucili spianati, i volti coperti da maschere nere; si vedevano solo gli occhi. Hanno spinto indietro lo sbalordito palestinese. Lui ha tentato di spiegare loro che i bambini stavano dormendo e non voleva che si svegliassero vedendo un soldato mascherato sopra il loro letto.

I soldati volevano Tariq. Ed anche Maliq. Hanno ordinato al palestinese di portarglieli. I due ricercati dormivano in una stanza tutta blu, comprese le lenzuola. I soldati li hanno svegliati con delle grida. I ricercati si sono destati nel panico.

I soldati gli hanno ordinato di alzarsi. Poi li hanno afferrati per le braccia, li hanno spinti in due stanze separate e chiusi dentro. Altri soldati hanno fatto irruzione nella casa, i cui abitanti nel frattempo si erano tutti svegliati. Mahmoud, di sei anni, ha incominciato a gridare: “Papà, papà!”

I soldati hanno ammonito i due di non osare partecipare ad altre manifestazioni. “La prossima volta vi spareremo o vi arresteremo”, hanno detto a Maliq. Lui è rimasto chiuso dentro per 40 minuti, finché i soldati non se ne sono andati. Andandosene, hanno lanciato delle granate stordenti nei cortili delle case cui passavano accanto – la ciliegina sulla torta.

Tutto questo è successo circa 10 giorni fa a Kafr Qaddum. Succede ogni notte in tutta la Cisgiordania.

I due ricercati avevano 11 e 13 anni. Tariq non ha ancora ripreso a parlare e Maliq ha un sorriso spaventato. Da quella notte dormiranno solo nel letto dei genitori. Mahmoud ha incominciato a bagnare il letto. Il grande spiegamento di soldati è arrivato a notte fonda solo per spaventarli e forse anche per tenere alta la tensione.

L’unità dei portavoce dell’esercito israeliano non si è vergognata di dire: “I soldati hanno parlato con dei giovani che avevano preso parte ad una regolare manifestazione a Qaddum.” Ecco che cosa fanno i soldati israeliani: tengono colloqui intimidatori di notte con dei bambini. Per questo si sono arruolati. Di questo vanno fieri.

Vale la pena notare che Kafr Qaddum è un luogo degno di rispetto. Ha lottato per circa cinque anni, con coraggio e determinazione, per riaprire la sua strada di accesso – che era bloccata a causa della colonia di Kedumim. La colonia era cresciuta proprio ai bordi della strada, provocando la sua chiusura.

Venerdì scorso Amos Harel ha parlato su Haaretz della drastica diminuzione del numero di giovani di buona famiglia che vogliono fare il servizio militare in unità di combattimento. La polizia di frontiera attualmente è l’unità più ambita e le sue porte sono prese d’assalto dalle frange più deboli della società, che Israele cinicamente istiga contro i palestinesi, al punto che tutti loro vogliono essere come il sergente Elor Azaria [condannato per aver ucciso un attentatore palestinese inerme, ndtr].

Forse è un bene che i benestanti abbandonino il servizio militare nei territori. O forse è un male, perché lasciano il posto ad altri. Oggi non c’è praticamente nessun servizio operativo nell’esercito israeliano che non comporti il compiere spregevoli missioni come l’operazione a Kafr Qaddum.

Questo venerdì, oppure il prossimo, Tariq e Maliq torneranno a manifestare in strada e forse tireranno anche pietre. Non dimenticheranno tanto velocemente il terrore di quella notte; quel terrore plasmerà la loro coscienza.

E i soldati? Continueranno ad essere degli eroi, ai propri occhi ed a quelli della loro gente.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Rapporto OCHA 27 dicembre- 9 gennaio 2017

L’8 gennaio, un 28enne palestinese ha guidato un camion contro un gruppo di soldati israeliani radunati sulla passeggiata panoramica vicina all’insediamento colonico di Talpiot Est, in Gerusalemme Est, uccidendo tre soldatesse e un soldato e ferendone altri 15.

L’autore, proveniente dalla vicina zona di Jabal al Mukabber, è stato ucciso sul posto e il suo corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane. Il Coordinatore Speciale delle Nazioni Unite per il Processo di Pace in Medio Oriente, Nickolay Mladenov, ha fortemente condannato l’attacco. Ancora in Gerusalemme Est (al checkpoint di Qalandiya), il 30 dicembre, le forze israeliane hanno sparato e ferito una 35enne palestinese che, secondo fonti israeliane, si era diretta verso di loro con un coltello e non si era fermata all’alt. Nel 2016, in attacchi e presunti attacchi da parte di palestinesi della Cisgiordania, sono stati uccisi 13 israeliani e 80 palestinesi aggressori e presunti aggressori.

In zona C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 86 strutture, sfollando 160 palestinesi, tra cui 91 minori, e coinvolgendone altri 370. L’episodio più grave ha avuto luogo nella comunità pastorizia di Khirbet Tana (Nablus), dove sono state demolite 49 strutture abitative e di sussistenza, 30 delle quali fornite precedentemente come assistenza umanitaria. La comunità si trova in una zona designata dalle autorità israeliane come “zona per esercitazioni militari a fuoco”. Tali aree costituiscono quasi il 30% dell’Area C e sono abitate da più di 6.200 palestinesi. Nella prima settimana del 2017, il numero di strutture prese di mira è oltre tre volte la media settimanale del 2016, anno che ha visto il numero più alto di demolizioni da quando, nel 2009, OCHA ha iniziato il monitoraggio sistematico.

In Cisgiordania, durante molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 34 palestinesi, tra cui otto minori. I ferimento sono avvenuti durante quattro distinte operazioni di ricerca-arresto; nel corso della manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya), Ni’lin e Bil’in (Ramallah); all’ingresso della città di Ar Ram (Gerusalemme) e nel villaggio di Tuqu’ (Betlemme); nella città di Hebron, durante due cortei funebri seguiti alla restituzione dei corpi di due palestinesi sospettati di attacchi contro israeliani. I corpi erano stati trattenuti per più di 100 giorni.

Complessivamente, in questo periodo, sono stati consegnati alle famiglie i corpi di quattro palestinesi sospettati di attacchi contro israeliani; i corpi di altri otto presunti autori sono ancora trattenuti dalle autorità israeliane; alcuni da più di otto mesi.

Il 4 gennaio, lungo la costa di Gaza, sono stati trovati i resti del corpo di un pescatore palestinese. Tre giorni dopo le forze navali israeliane hanno riferito di essersi scontrati con la sua barca e di averla danneggiata, causandone il rovesciamento. Nel complesso, durante il periodo di riferimento, in almeno 22 occasioni le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro palestinesi presenti o in avvicinamento ad Are ad Accesso Riservato (ARA), di terra o di mare. In un altro caso, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ed hanno compiuto operazioni di spianatura del terreno.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 161 operazioni di ricerca e/o arresto ed hanno arrestato 212 palestinesi; 12 di questi sono stati arrestati presso checkpoints “volanti” e durante manifestazioni. Le quote più alte di operazioni (44) e di arresti (71, di cui 19 minori) si sono avute nel governatorato di Gerusalemme.

Coloni israeliani si sono trasferiti in due edifici vuoti nella zona di Silwan di Gerusalemme Est: secondo quanto riferito, dopo averli acquistati dai proprietari palestinesi. Silwan è stato il bersaglio di intensa attività di insediamento e di iniziative che comprendono un piano per la realizzazione di un complesso turistico nel quartiere di Al Bustan che, se venisse portato a compimento, comporterebbe lo sfollamento di più di 1.000 residenti palestinesi; nella stessa area altre centinaia di residenti rischiano lo sfollamento a causa di procedure di sfratto promosse da organizzazioni di coloni.

In Cisgiordania, in più occasioni durante il periodo di riferimento, coloni ed altri gruppi israeliani si sono introdotti in vari siti religiosi, innescando alterchi e scontri con palestinesi; non ci sono stati feriti. I siti interessati comprendono il Complesso di Al Haram Ash Sharif / Monte del Tempio, a Gerusalemme Est, un santuario nel villaggio di Kifl Haris (Salfit) e la Tomba di Giuseppe nella città di Nablus.

I media israeliani hanno riferito nove episodi di attacchi, con lancio di pietre e bottiglie incendiarie, da parte di palestinesi contro veicoli o abitazioni di coloni israeliani; non vi sono state vittime, ma sono stati segnalati danni a diversi veicoli.

Durante il periodo relativo al presente Rapporto, il lato egiziano del valico di Rafah è rimasto chiuso in entrambe le direzioni. Nel corso del 2016 il valico è stato parzialmente aperto per soli 44 giorni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, inclusi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

¡

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

In seguito all’aggressione verificatasi l’8 gennaio (vedi sopra), le Autorità israeliane hanno demolito quattro strutture nella zona di Jabal al Mukabber di Gerusalemme Est ed inoltre, adducendo la mancanza di permessi di costruzione, hanno emesso avvisi contro decine di case appartenenti alla famiglia allargata dell’aggressore. Il Ministero degli Interni israeliano ha anche espresso la sua intenzione di revocare i permessi di ricongiunzione familiare ad almeno 14 membri della famiglia allargata. È stato riferito che la casa di famiglia del responsabile dell’aggressione, prima della sua demolizione punitiva, era stata oggetto di misure da parte delle autorità. I provvedimenti di cui sopra hanno esposto decine di palestinesi al rischio di sfollamento.

Il 10 gennaio, nel corso di una operazione di ricerca nel Campo profughi di Al Far’a (Tubas), le forze israeliane hanno ucciso un palestinese; le circostanze dell’episodio rimangono controverse.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

þ




Le ragioni per cui l’attaccante palestinese a Gerusalemme non è stato scoraggiato.

Amira Hass | 9 gennaio, 2017 |Haaretz

Fadi al-Qanbar conosceva tutte le conseguenze della sua azione, le ha viste molte volte prima, ma i palestinesi considerano le ritorsioni israeliane come parte naturale di una politica complessiva nei loro confronti, non come una reazione.

Che Fadi-al-Qanbar abbia programmato l’attacco di domenica con il camion a Gerusalemme oppure che si sia trattato di una decisione presa d’impulso, sapeva benissimo quale punizione collettiva era in serbo per la sua famiglia.

Sapeva che il suo corpo non sarebbe stato restituito alla famiglia per la sepoltura – un atto particolarmente umiliante e doloroso. Sapeva che i suoi parenti sarebbero stati immediatamente arrestati e picchiati durante la detenzione. Che alcuni avrebbero potuto essere cacciati dal lavoro che hanno a Gerusalemme Ovest .Che le parenti prive di una carta d’identità israeliana sposate a residenti di Gerusalemme si sarebbero trovate espulse dalle loro case e separate dai loro figli. La sua famiglia sarebbe stata perseguitata dalla polizia e dalle autorità dello Stato, sapeva queste cose da mesi, e forse da anni, che la casa della famiglia sarebbe stata demolita. Tutte queste cose sono successe ad altri aggressori palestinesi di Gerusalemme Est.

Nel solo quartiere di Jabal Mukkaber, negli ultimi sei mesi del 2015 Israele ha demolito tre case e sigillato altre due. Tutte appartenevano a famiglie di terroristi. “Sigillare” significa versare cemento nell’appartamento fino a pochi centimetri dal soffitto.

Secondo Hamoked – il Centro per la Difesa degli Individui –, tra il luglio del 2014 e la fine di dicembre del 2016 Israele ha demolito 35 case palestinesi e ne ha sigillate altre sette; di queste sei e quattro rispettivamente erano a Gerusalemme Est.

Il fatto che i genitori, i figli, i nonni, i nipoti e le nipoti che hanno perso le loro case e che non avevano niente a che fare con l’attacco è irrilevante. Israele e i giudici della Suprema Corte considerano le demolizioni come una punizione legittima e un efficace strumento di deterrenza nei confronti di coloro che pensano di compiere un attacco terroristico.

Inoltre, Qanbar sicuramente sapeva che i suoi figli non soltanto avrebbero sofferto della perdita del padre ma che sarebbero diventati o violenti o isolati, e che, se in età scolare, i loro risultati scolastici ne avrebbero sofferto come anche la loro salute. Ma non è stato scoraggiato.

Il fallimento della deterrenza

Gli analisti e i politici nel caso di Qanbar hanno trovato ogni genere di ragioni del fallimento della deterrenza: lo Stato islamico; un attacco dovuto all’emulazione; l’essere stato un ex detenuto ( un’ apparentemente falsa rivendicazione fatta da Hamas che Israele si è affrettata a fare propria) e un incitamento dell’Autorità palestinese riguardante il possibile spostamento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme. Come al solito le interpretazioni sono fuorvianti e fuori luogo.

Un gruppo di soldati in divisa non è una visione neutrale per qualsiasi palestinese. Quelli sono l’aspetto e la divisa di chi irrompe a decine ogni notte nelle case dei palestinesi, di chi uccide donne e minori ai checkpoint, di chi viene mandato ad attaccare la Striscia di Gaza e di chi accompagna le forze della Amministrazione Civile per demolire le cisterne d’acqua, i gabinetti chimici, le baracche di lamiera e le tende. Il fatto che gli israeliani abbiano cancellato questi avvenimenti dalla loro agenda non significa che non esistano.

Senza dubbio gli israeliani ritengono che senza queste misure di deterrenza il numero degli aggressori palestinesi sarebbe più alto. O al contrario che vi sarebbe una maggiore repressione. I palestinesi, tuttavia, considerano le ritorsioni israeliane come una parte naturale di una politica complessiva nei loro confronti, non come una reazione. Quando Israele non demolisce come misura punitiva , sta demolendo non consentendo di costruire e di svilupparsi. Quando non arresta la gente per attacchi mortali o per averli presumibilmente progettati, Israele arresta bambini per cercare di reprimere la lotta popolare. Con o senza attacchi mortali espande le colonie, strangola l’economia palestinese e pianifica espulsioni forzate dai villaggi e dalle case di Gerusalemme.

Così il motivo per cui questi episodi non organizzati e individuali non si sono trasformati in una più ampia insurrezione non deve essere attribuito all’ intrinseca abilità israeliana di produrre sofferenze sempre maggiori. Per quanto Hamas cerchi di dare pubblicità a questo attacco quale prova che l’Intifada di Gerusalemme non è morta, è chiaro che la gente più in generale non è interessata a ciò. Nonostante la frammentazione sociale e geografica, una dirigenza debole e litigiosa, nel popolo palestinese c’è una maturità politica che è consapevole della inevitabilità dell’insurrezione, ma che si devono aspettare tempi migliori.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Le pazienti di Gaza[malate]di cancro: il divieto israeliano di lasciarci entrare per curarci è “una condanna a morte”

Jack Khoury | 7 gennaio 2017 | Haaretz

Le pazienti di Gaza definiscono il divieto e i ritardi che impediscono loro di accedere alle cure mediche in Israele e in Cisgiordania“ una condanna a morte premeditata ”

Decine di donne malate di cancro nella Striscia di Gaza hanno reso pubblica una protesta contro il rifiuto di Israele di farle entrare nel Paese per curarsi. Le donne affermano che gli impedimenti o i ritardi per essere curate sono “una condanna a morte premeditata”.

Questa è la prima protesta di pazienti gazawi contro il divieto israeliano di curarsi fuori dalla Striscia di Gaza organizzata da quando, nel 2006, è iniziata la chiusura dell’enclave. Le donne dicono che la protesta è la conseguenza di un forte aumento di malati, in particolare quelli di cancro, che non possono uscire da Gaza per curarsi in Israele, a Gerusalemme Est o in Cisgiordania dopo anni in cui ciò era consentito.

La protesta è guidata da Iman Shanan di 47 anni, a cui nel 1999 è stato diagnosticato un cancro al seno e le cui condizioni da allora sono migliorate grazie alla cura. Recentemente nel timore di una recrudescenza del male, è stata indirizzata all’ospedale Assuta di Tel Aviv per degli esami per individuare cellule cancerogene.

Per tre volte ha chiesto di andare all’ospedale [a fare] gli esami, ma ogni volta la sua richiesta è stata respinta. Shanan, che è a capo dell’ONG “Programma di aiuto e speranza per l’assistenza ai malati di cancro a Gaza”, ha riferito a Haaretz che l’iniziativa della protesta è partita dopo la richiesta di numerose donne per le quali il divieto di curarsi fuori da Gaza ha significato letteralmente una condanna a morte.

Shanan dice che il numero di rifiuti di lasciare Gaza per cure mediche è drammaticamente aumentato, per motivi definiti da Israele problemi di sicurezza.

Nelle ultime due settimane le donne hanno manifestato due volte davanti agli uffici della Croce Rossa e alla sede di Gaza degli uffici del Comitato di affari amministrativi palestinesi, che coordina con le autorità israeliane le partenze dei malati dalla Striscia. Nelle due proteste le donne portavano cartelli in cui chiedevano un permesso per andare a curarsi in Cisgiordania e in Israele. Hanno anche attuato per un giorno uno sciopero della fame .

Una delle manifestanti, la 27enne Majar Naizi, anche lei un tempo malata di tumore al seno, è stata indirizzata all’Assuta per esami al fine di localizzare cellule cancerogene. Ha subito cure a Gerusalemme Est nel 2014 e nel 2015, ma la sua richiesta di uscire per degli esami programmati per il 1 novembre [2016] è stata respinta.

“La mia salute peggiora e devo capire come andare avanti”, ha detto questa settimana. “Non posso assumere medicine senza conoscere le mie condizioni, i medici stanno pensando di prescrivermi le medicine senza che io abbia fatto gli esami per il fatto che non posso avere il permesso per farli, ma ciò potrebbe procurarmi gravi conseguenze”.

Sausen Kadih, di 49 anni, a cui è stato diagnosticato un tumore al cervello lo scorso giugno, in un primo tempo è stata autorizzata a curarsi in un ospedale di Ramallah, ma nell’ultimo mese i permessi non sono stati concessi e la sua domanda è stata respinta. L’esercito israeliano non ha risposto alle sue richieste di rispettare le visite previste.

Sihan al-Tatri di 53 anni, soffre di leucemia linfatica e deve sottoporsi alla chemioterapia una volta ogni tre settimane all’Ospedale Vittoria Augusta di Gerusalemme Est. Tatri è entrata in Israele due volte e ha fatto il trattamento, ma, nel momento in cui ha cercato di fare il terzo, le è stato negato l’ingresso. La sua domanda è “sotto esame” e [nel frattempo] ha già perso due appuntamenti per la cura. Il prossimo è fissato per lunedì [9 gennaio].

“A causa del ritardo nella cura, mi sento debole e devo ricominciare tutto da capo” ha detto. “Se non mi danno il permesso mi stanno condannando a morte. Quale Paese può acconsentire che noi moriamo perché non abbiamo avuto il diritto a curarci?

L’ONG “Medici per i Diritti Umani (PHR)”, che aiuta i malati di Gaza ad ottenere il permesso per uscire dalla Striscia di Gaza e curarsi, sostiene che lo scorso anno il numero dei dinieghi del permesso ai malati per andare a curarsi è aumentato del 44%. L’ONG afferma che nel 2016 sono state respinte 69 domande, rispetto alle 48 del 2015 e alle 23 del 2014.

L’ONG PHR ha chiesto al coordinatore dell’attività di governo nei territori occupati (COGAT) di permettere ad alcuni malati di partire da Gaza per curarsi. Il COGAT ha risposto che, per quanto riguarda Gaza, la politica di Israele verso i civili non cambia e che centinaia di persone entrano in Israele attraverso il checkpoint di Erez per ricevere cure mediche in Israele, in Cisgiordania e all’estero, e che il loro numero negli ultimi anni è persino aumentato.

(traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Analisi: un colpo di fortuna insperato? La presidenza Trump potrebbe essere un bene per la Palestina

4 gennaio 2017, Maannews
di Ramzy Baroud
Israele ha le vertigini. Il 20 gennaio ci sarà una specie di secondo natale e Donald Trump è un gioviale vecchio Babbo Natale che porterà doni.

Tutto è già scritto, dal momento che il presidente eletto Trump ha nominato, come prossimo ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, un estremista, David Friedman, che ha intenzione di trasferire l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme e appoggia l’espansione delle colonie illegali che hanno già frantumato l’ipotetico stato di Palestina in bantustan di tipo sudafricano.

Quindi deve suonare strano, se non assolutamente provocatorio, insinuare che una presidenza Trump potrebbe essere il colpo di grazia di cui i palestinesi, e di fatto l’intero Medio Oriente, hanno bisogno per liberarsi del peso di una politica estera americana autoritaria, arrogante e futile che è durata per decenni.

Senza dubbio una presidenza Trump è palesemente terribile per i palestinesi nel breve termine. Il personaggio non prova nemmeno a mostrare la minima imparzialità o un’ombra di equilibrio nel suo approccio al più duraturo e delicato conflitto del Medio Oriente.

Secondo il flusso quasi ininterrotto dei suoi tweets, Trump sta contando i giorni fino a quando potrà mostrare ai leaders israeliani quanto filo-israeliana sarà la sua amministrazione. Poco dopo che gli Stati Uniti il 23 dicembre si sono astenuti dal voto sulla Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che ha condannato le illegali colonie israeliane, il presidente eletto ha twittato: “Per quanto riguarda l’ONU, le cose cambieranno dopo il 20 gennaio.”

Trump è di nuovo ricorso a Twitter, poco dopo che John Kerry ha pronunciato un importante discorso politico sul conflitto israelo-palestinese, in cui il segretario di stato ha rimproverato Israele di compromettere la soluzione dei due stati ed ha definito l’attuale governo di Benjamin Netanyahu il più a destra della storia di Israele.

Nella sua replica Trump ha invitato Israele a “tener duro” fino al suo insediamento il 20 gennaio. Anche i leaders israeliani guardano a quella data, quelli del calibro di Naftali Bennett, capo del partito estremista Casa Ebraica, si attendono una ‘riconfigurazione’ delle relazioni tra Israele e Stati Uniti, una volta che Trump sarà presidente.

Inoltre Bennett, che è anche il ministro dell’educazione di Israele, lo scorso novembre ha dichiarato ai giornalisti: “Abbiamo l’opportunità di reimpostare la struttura di tutto il Medio Oriente, dobbiamo cogliere questa opportunità e sfruttarla.”

Una delle imminenti opportunità offerte dalla presidenza Trump, ha detto Bennett, è che “l’epoca dello stato palestinese è tramontata.”

Certo, Kerry ha ragione; l’attuale governo israeliano è il più di destra ed il più estremista, una prospettiva destinata a non cambiare presto, dato che riflette fedelmente il clima politico e sociale del paese.

Leggete come ha risposto Bennett al discorso di Kerry.

Kerry mi ha citato tre volte nel suo discorso, senza nominarmi, per dimostrare che noi siamo contrari ad uno stato palestinese”, ha detto, “perciò lasciatemelo dire esplicitamente: sì. Se dipendesse da me, non creeremo un altro stato terrorista nel cuore del nostro paese.”

All’insistenza di Kerry sul fatto che Gerusalemme dovrebbe essere la capitale sia di Israele che della Palestina, Bennett ha risposto: “Gerusalemme è stata la capitale degli ebrei per 3.000 anni. Sta scritto nella Bibbia, apritela e leggetela.”

La presa del fanatismo religioso sulla politica di Israele è irreversibile, quanto meno nel futuro prevedibile. Mentre nel passato i politici ebrei laici utilizzavano i precetti religiosi per attrarre i fedeli ebrei in cambio dei loro voti e per popolare le colonie illegali, adesso sono i gruppi religiosi che stabiliscono i criteri delle principali politiche israeliane.

E allora come può tutto questo essere un bene per i palestinesi? In parole povere: la chiarezza.

Da quando funzionari statunitensi di medio livello hanno accettato di incontrare una delegazione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) in Tunisia alla fine degli anni ’80, gli Stati Uniti hanno scelto un cammino piuttosto inverosimile per fare la pace. Subito dopo che gli Stati Uniti hanno “reclutato” con riluttanza l’OLP – una volta che quest’ultima ha dovuto superare mille ostacoli politici per ottenere un cenno di assenso americano – sono rimasti gli unici a definire che cosa comportasse la “pace” tra Israele ed i suoi vicini palestinesi ed arabi.

La Casa Bianca ha stabilito i parametri del “processo di pace”, ha costretto in parecchie occasioni gli arabi ad approvare qualunque “visione” della pace gli Stati Uniti ritenessero conveniente ed hanno diviso gli arabi tra ‘moderati’ e ‘radicali’, basandosi esclusivamente su come un determinato paese avrebbe recepito i dettami di ‘pace’ degli USA nella regione.

Senza alcun mandato, gli Stati Uniti si sono auto-nominati ‘ un onesto intermediario per la pace’, ed hanno fatto di tutto per compromettere il rispetto di quegli stessi parametri che avevano posto per raggiungere la supposta pace. Mentre arrivava a definire la costruzione delle colonie illegali israeliane un ‘ostacolo alla pace’, Washington finanziava le colonie e l’esercito di occupazione incaricato di proteggere quelle entità illegali; faceva appello a ‘costruire la fiducia’ mentre, nello stesso tempo, finanziava l’esercito israeliano e giustificava le guerre di Israele a Gaza e la sua eccessiva violenza nella Cisgiordania e a Gerusalemme occupate.

In altri termini, per decenni, gli Stati Uniti hanno fatto esattamente il contrario di ciò che predicavano pubblicamente.

La schizofrenia politica americana sta toccando il suo massimo in questo momento. Mentre Obama ha osato fare una cosa incredibile a dicembre – quando si è astenuto dal voto su una risoluzione che chiedeva ad Israele di porre fine alle sue colonie illegali in Cisgiordania – solo poche settimane prima ha concesso ad Israele “ il più cospicuo finanziamento militare nella storia.”

Nel corso degli anni il cieco appoggio americano ad Israele ha accresciuto le aspettative di quest’ultimo al punto che adesso prevede che il sostegno continui, anche quando Israele è governato da estremisti che stanno ulteriormente destabilizzando una regione già fragile ed instabile. Nella logica israeliana queste aspettative sono del tutto razionali.

Gli Stati Uniti hanno svolto la funzione di facilitatori dell’aggressività politica e militare israeliana, tenendo buoni i palestinesi e gli arabi con vuote promesse, a volte con minacce, elemosine e semplici parole.

I cosiddetti ‘palestinesi moderati’, del genere di Mahmoud Abbas e della sua Autorità Nazionale Palestinese, sono stati debitamente rabboniti, certo, perché hanno ottenuto i privilegi del ‘potere’, insieme al riconoscimento politico statunitense, permettendo intanto ad Israele di conquistare tutto ciò che rimaneva della Palestina.

Ma quel tempo è certamente finito. Finché gli USA continueranno a permettere l’intransigenza di Israele, una presidenza Trump probabilmente segnerà un totale abbandono del linguaggio ambiguo di Washington.

Il male non sarà più un bene, ciò che è sbagliato non è giusto e il militarismo non è fare la pace. Di fatto, Trump è destinato a mostrare la politica estera americana per quello che veramente è ed è stata per decenni. La sua presidenza probabilmente porrà tutte le parti in causa di fronte ad una difficile scelta su dove collocarsi riguardo alla pace, alla giustizia e ai diritti umani.

Anche i palestinesi dovranno fare una scelta, affrontare la realtà durata decenni con un fronte unito, oppure schierarsi al fianco di coloro che intendono ‘ riconfigurare’ il futuro del Medio Oriente sulla base di una fosca interpretazione delle profezie bibliche.

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato internazionalmente, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ‘Mio padre era un combattente per la libertà: storia non raccontata di Gaza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Adeguarsi alla perniciosa occupazione israeliana

 Amira Hass – 1 gennaio 2017, Haaretz

A.B. Yehoshua si mette in riga dividendo i palestinesi in varie categorie e quindi ignora le loro difficoltà complessive.

Lo scrittore A.B. Yehoshua (“Alleviare la perniciosità dell’occupazione”, Haaretz, 31 dicembre) ha ragione quando collega la parola “perniciosità” a occupazione. Ma sotto le mentite spoglie dell’innovazione, dell’audacia e di considerazioni umanitarie, la sua proposta per un temporaneo e parziale allentamento della perniciosità si adegua alla tradizionale politica israeliana: dividere il popolo palestinese in varie categorie burocratiche, in enclaves separate e distanti, e naturalmente senza chiedere la loro opinione.

Per sembrare audace, ma per proporre qualcosa che è proprio quello che il governo del ministro dell’Educazione Naftali Bennett e la ministra della Giustizia Ayelet Shaked (entrambi di Habayit Hayehudi [estrema destra dei coloni. Ndtr.]) vogliono, alcuni dei fatti citati da Yehoshua vengono stravolti. Qui di seguito alcuni di questi stravolgimenti:

* “Uno spazio binazionale”. Non c’è bisogno di andare fino ai miseri quartieri congegnati da Israele a Gerusalemme est per giocare con l’idea di un “laboratorio” di vita binazionale. E’ vero che il popolo palestinese è stato disperso da quando è stato espulso dalla propria terra d’origine nel 1948. Ma non ha mai smesso di essere una nazione per questa ragione, compreso il milione e mezzo di palestinesi che sono attualmente cittadini israeliani. Israele nei suoi confini riconosciuti è uno spazio binazionale, indipendentemente della sue definizioni e dalle discriminazioni che opera a danno dei suoi cittadini palestinesi.

* “La Striscia di Gaza è del tutto separata da Israele.” Non è vero. I due milioni di residenti della Striscia di Gaza sono registrati nell’anagrafe controllata da Israele. Come i palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Come Yehoshua e come me. La carta d’identità rilasciata ad ogni sedicenne di Gaza necessita dell’approvazione israeliana. E’ Israele che decide se, quanti e quali palestinesi che tornano dall’estero otterranno la residenza in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. La moneta corrente in uso nella Striscia è lo shekel.

Circa un quarto dei gazawi ha familiari in Cisgiordania, nella Gerusalemme est occupata e nello stesso Israele. Tutti i residenti di Gaza hanno proprietà immobiliari del passato, di famiglia, e legami affettivi all’interno di Israele, indipendentemente da quello che noi decidiamo per loro.

* “L’Area A è soggetta alla legislazione civile e militare palestinese.” Non è esatto. Nell’Area A i palestinesi hanno poteri civili e di polizia, ma non militari. Quando ogni settimana i nostri soldati fanno incursioni nei quartieri e nelle case in questa zona, le forze di sicurezza palestinesi si devono nascondere nelle loro basi. Se si oppongono all’invasione dell’esercito israeliano – le uccidiamo o le condanniamo per terrorismo.

* “(Sono) i palestinesi che vivono nell’Area C che si confrontano con l’occupazione israeliana, affrontando sia i coloni che l’esercito.” Di cosa stai parlando? I coloni non discriminano e vessano chiunque, e sono impazienti di mettere le mani nella “C” sulla terra di palestinesi che vivono ovunque in Cisgiordania

* “Il numero di palestinesi che abitano nell’Area C è solo di circa 100.000.” Da dove esce questo numero? Bimkom [associazione di urbanisti e architetti israeliani che opera per una gestione collettiva del territorio. Ndtr.], “Pianificatori per diritti di progettazione”, nel 2008stimava che nell’Area C vivessero 150.000 palestinesi. Un mini-censimento condotto dall’ufficio Onu per il coordinamento degli Affari Umanitari nei territori palestinesi occupati ha trovato che alla fine del 2013 il numero era raddoppiato -300.000. Alcuni vivono in comunità che si trovano totalmente nell’Area C, altri in comunità divise tra C, A e B, che sono in ogni caso categorie artificiose, in contraddizione con qualunque logica di pianificazione. Quello che è certo è che circa 30.000 beduini nell’Area C sarebbero contenti di tornare nella loro terra nel Negev, da cui sono stati espulsi nel 1948. Accanto alle comunità di Al-Arakib e di Ummal-Hiran, che, come sappiamo, sono prospere e godono dei molti diritti che Israele ha concesso loro… [riferimento polemico al modo in cui sono trattati i beduini con cittadinanza israeliana. Ndtr.]

* “Residenza con diritti (sociali) di base.” Naturalmente il modello è quello dello status di residenti dei palestinesi di Gerusalemme est, o, per essere più precisi, i deliri israeliani su quanto sia bella lì la vita dei palestinesi. Se fosse così bella, come mai abbiamo trasformato circa l’80% di loro in poveri a carico dell’assistenza sociale? Oltre alla situazione di inferiorità socio-economica in cui abbiamo gettato i palestinesi di Gerusalemme, il loro stesso status di residenti è molto precario. Dipende dalle norme di ingresso in Israele, in altre parole, si riferisce a questi cittadini come se avessero scelto di spostarsi e vivere in Israele, piuttosto che essere stati invasi da Israele.

Pertanto è uno status sottoposto a condizioni, che Israele può revocare a suo piacimento, secondo criteri che esso stesso ha stabilito (provare di avere lì il “centro della propria vita” o “lealtà allo Stato”). Prima del 1994 (quando le autorità civili sono state trasferite all’Autorità Nazionale Palestinese), Israele poteva espellere residenti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza come voleva, e revocare il loro status. Gli accordi di Oslo hanno abolito questa prerogativa dell’occupante (una delle poche clausole positive). A Gerusalemme i palestinesi rimangono più che mai esposti al pericolo di espulsione e di revoca della residenza. Ora Yehoshua vuole aggiungervi altre 100.000 persone?

* “Questo permesso di residenza impedirebbe l’espropriazione delle loro terre (o renderla molto più difficile).” Di cosa sta parlando Yehoshua? La residenza – proprio come la cittadinanza – non protegge i palestinesi dal furto della loro terra e dall’espulsione dalle loro case. Silwan. Isawiyah. Jabal Mukkaber. Sakhnin. Jaffa. Al-Arakib. Sono esempi sufficienti?

La deformazione rende più facile creare una separazione emotiva ed intellettuale dal siginificato dei fatti. La separazione è comprensibile. E’ difficile ammettere che l’ideologia sionista e la sua creazione – Israele – abbiano dato vita a un mostro ladro, razzista, arrogante che ruba acqua, terra e storia, che ha le mani insanguinate con la scusa della sicurezza, che per decenni ha deliberatamente pianificato l’attuale pericolosa situazione di bantustan, da entrambi i lati della Linea Verde [che divide Israele dai territori occupati. Ndtr.]. Tutto ciò che Yehoshua sta facendo è mettersi in riga e suggerire un’altra sotto-definizione che aiuti la burocrazia israeliana a dividere in categorie il popolo palestinese e separarlo dai suoi luoghi e dalla sua terra.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Alleviare la malvagità dell’occupazione israeliana

di A.B. Yehoshua | 31 dicembre, 2016 |Haaretz

Dobbiamo dare [il permesso di] residenza israeliano ai centomila palestinesi che vivono nella parte della Cisgiordania controllata da Israele, al fine di ridurre la sofferenza di coloro che vivono sulla prima linea dell’occupazione

Le osservazioni che ho fatto alla conferenza dell'”Istituto per la Ricerca Politica di Gerusalemme” agli inizi di questo mese hanno creato molto scalpore. Alla conferenza i relatori hanno presentato le attività nelle aree comuni a favore di differenti comunità dell’area della grande Gerusalemme, in particolare degli ebrei e dei palestinesi. Io ho parlato dell’importanza di questi territori anche come una sorta di laboratorio per una convivenza binazionale nell’intero territorio della Terra di Israele- considerando la deprimente e difficile eventualità che la soluzione dei due Stati non si possa realizzare e che israeliani e palestinesi verranno lentamente trascinati, lo vogliano o no, verso una qualche forma di Stato binazionale o federale.

Sono passati quasi 50 anni dalla guerra dei Sei Giorni nel 1967. Durante questo periodo sono rimasto attaccato con entusiasmo e determinazione all’idea della soluzione dei due Stati – Israele e Palestina, che vivano l’uno accanto all’altro in pace e riconoscendosi a vicenda – e ho agito coerentemente con tale convincimento.

Ritengo ancora che questa sia la soluzione giusta ed etica al conflitto. E benché alcuni in entrambi gli schieramenti, israeliani e palestinesi, hanno rifiutato per anni di riconoscere la legittimità di questa soluzione, lentamente è diventata la soluzione accettabile all’intera comunità internazionale, compresa larga parte del mondo arabo, fino a essere finalmente codificata negli accordi di Oslo del 1993.

Perfino l’attuale governo di estrema destra in Israele ha adottato ufficialmente la soluzione a due Stati; tuttavia sul terreno nell’ultimo decennio non si è visto alcun serio tentativo israeliano di fare un passo per la sua realizzazione. Parallelamente è chiaro che l’Autorità palestinese, che a sua volta ha ufficialmente adottato la soluzione a due Stati, sta sta evitando seri negoziati con il governo israeliano per realizzare concretamente questa soluzione.

La stessa Gerusalemme la cui parte orientale, secondo quanto prevede la soluzione a due Stati, avrebbe dovuto essere la capitale dello Stato palestinese, è diventata fisicamente sempre di più una città unica. La possibilità di istituire un confine internazionale che la attraversi sembra piuttosto irrealistica.

Gli Stati Uniti e i Paesi europei hanno fallito nell’imporre ad entrambi i contendenti la soluzione a due Stati non solo a parole ma anche di fatto. Questo è particolarmente vero per la parte israeliana, che continua a espropriare terra palestinese per la crescita e l’espansione delle colonie nella Cisgiordania.

I trattati di pace con la Giordania e l’Egitto possono ancora essere conservati, ma quei due Paesi sono costretti a fare i conti con i loro seri problemi, e le loro preoccupazioni a favore dei palestinesi sono solo belle parole. Il mondo arabo sta andando a pezzi e si sta disintegrando in guerre civili sanguinose e ha perso ogni influenza e interesse nei confronti del conflitto israelo-palestinese. Di conseguenza, l’idea dei due Stati sta diventando sempre più problematica.

E cosa sta succedendo nei territori palestinesi? La Striscia di Gaza è ora del tutto separata da Israele senza la presenza di israeliani, siano civili o militari. Per Israele Gaza è una sorta di piccolo Stato nemico, un posto dove scoppiano occasionalmente brevi guerre con Israele. Ma la Striscia di Gaza non è sotto totale assedio, dal momento che ha un confine indipendente con l’Egitto e vi è anche un varco per il cibo e le merci tra Gaza e Israele.

La Cisgiordania in base agli accordi di Oslo è divisa in tre aree: l’area A, B e C. Le aree A e B comprendono il 40% circa della Cisgiordania, mentre l’area C costituisce il rimanente 60% del territorio. Le aree A e B, dove si trovano le maggiori città e paesi palestinesi, sono sotto il governo dell’Autorità palestinese.

L’area A è soggetta alla legislazione civile e militare palestinese. L’area B è soggetta solamente dall’amministrazione civile palestinese, mentre quella militare è sotto il controllo di Israele. Questo significa che la maggior parte dei palestinesi in queste aree vivono sotto una forma di parziale e limitata autonomia e hanno una polizia semi-militarizzata al loro servizio che, in qualche misura, collabora con le forze di sicurezza israeliane per prevenire il terrorismo.

Tutte le colonie si trovano nell’area C. Secondo stime prudenti, il numero dei coloni [si aggira attorno ai] 450.000, circa la metà dei quali vive nelle città. Il numero dei palestinesi che abitano

nell’area C è solamente di circa 100.000 e sono persone che sono in continuo conflitto con i coloni, specialmente quelli estremisti, riguardo all’esproprio delle terre, alle minacce sulle strade, allo sradicamento degli olivi e al vergognoso sfruttamento come lavoratori sottopagati. Questi palestinesi sono sotto la continua sorveglianza dell’esercito israeliano, della polizia e dei servizi di sicurezza.

Data la situazione generale del mondo, che tende verso nazionalismi di destra estrema, data la deplorevole situazione del mondo arabo, lo scarso interesse nei confronti del conflitto israelo-palestinese in atto per più di 140 anni, e dati il governo di estrema destra d’Israele e la passività dell’Autorità palestinese- sembra chiaro che la soluzione dei due Stati per due popoli sta divenendo sempre più impossibile. Così dobbiamo cominciare a pensare ad altre soluzioni parziali, di natura federale , che aggirino l’attuale impossibilità di stabilire un confine internazionale definito tra i due popoli nella terra di Israele.

Nella prima fase, per alleggerire il peso dell’occupazione ( le cui propaggini avvelenano la democrazia anche all’interno dei confini israeliani), è necessario concedere il permesso di residenza ai 100.000 palestinesi che vivono nell’area C e che si confrontano con l’occupazione israeliana, affrontando sia i coloni che l’esercito.

Questi permessi di residenza ai palestinesi prima di tutto gli garantiranno i diritti fondamentali che hanno i coloni che abitano intorno e vicino a loro. In altre parole, i benefici del sistema di sicurezza sociale, l’accesso alle cure sanitarie, i sussidi di disoccupazione, il minimo salariale, la libertà di movimento e un migliore status legale nei confronti delle autorità giudiziarie e della legge israeliane. Tale permesso di residenza potrebbe prevenire l’esproprio delle loro terre ( o renderlo molto più difficile) per mezzo delle varie ignobili proposte di legge per legalizzare la costruzione su terra privata palestinese, oppure per mezzo di ordinanze militari arbitrarie, abusando di loro in quanto soggetti senza diritti.

Contrariamente a quello che è stato insinuato nelle reazioni al mio discorso, concedere il permesso di residenza non significherà l’annessione dell’area C ad Israele. Lo status di questo territorio rimarrebbe lo stesso di oggi: un territorio conteso il cui status sarà deciso in un futuro negoziato tra palestinesi e israeliani, analogamente a quello di Gerusalemme est. Se nel contesto di una soluzione a due Stati Gerusalemme sarà parte dello Stato palestinese, allora il permesso di residenza israeliano, che i 250.000 palestinesi che vivono lì già posseggono, non sarà di ostacolo ad un accordo.

Ho più volte detto che continuerò a sostenere la soluzione a due Stati, proprio come l’ho sostenuta nei 50 anni precedenti. Ma è impossibile non provare a migliorare , anche di poco, la situazione delle migliaia di palestinesi che vivono nell’area C, dove un’occupazione perniciosa avvelena la loro esistenza giorno e notte.

Il nostro urgente dovere umanitario di ridurre la sofferenza umana– nella misura in cui non confligga con il raggiungimento di un giusto accordo nel futuro – viene prima di principi semplicistici. Un palestinese cinquantenne che è nato durante l’occupazione e la affronta di continuo in prima linea, merita di ricevere da subito diritti sostanziali e immediati, anche se solo parziali, al fine di migliorare la sua situazione.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)