La legge che mette in evidenza la vera natura colonialista di Israele

di Oren Yiftachel

14 dicembre 2016, Haaretz

Sia che si tratti di terra coltivata (Negev) che incolta (Cisgiordania), si troverà uno stratagemma legale per trasferirla da mani arabe a  ebraiche|Opinione

Durante il periodo coloniale il concetto giuridico di terra nullius è stato utilizzato per definire terre senza diritti di sovranità o proprietà come terre di nessuno. Ciò per centinaia di anni ha fornito agli europei una giustificazione legale per strappare il controllo di territori e persone ai quattro angoli della terra. Questo concetto, reso ora nullo, affermava tra le altre cose, che le terre dei popoli nativi di America, Africa, Asia ed Australia, che non erano formalmente accatastate o gestite in modo “moderno”, erano da considerarsi “prive” di diritti legali.

Questo approccio ha avuto varie versioni, a seconda di chi comandava, ma la sostanza era la stessa: tutto ciò che aveva preceduto l’invasione europea -storia, cultura, agricoltura e leggi tradizionali – era cancellato. Il principale strumento che permetteva agli europei di esercitare il controllo, oltre alla violenza, era la legge. L’invasore, che era anche il legislatore, garantiva che l’accaparramento delle terre a danno dei nativi sarebbe sempre rimasto coperto da un ingannevole e mistificatorio velo di “legalità”.

[Il concetto di] terra nullius, come un modo di pensare e una “categoria” di sistemi legali, ha operato nel mondo fino a XX° secolo inoltrato, quando è emersa una legislazione opposta, che sostiene i diritti umani e riconosce quelli dei popoli indigeni. La nuova tendenza ha gradualmente ammesso che anche le culture e i popoli colonizzati hanno i propri legittimi sistemi di leggi, di proprietà e di governo.

Nel caso “Mabo” del 1992, la Corte Suprema australiana ha formalmente ribaltato il concetto giuridico di terra nullius, e molti altri Paesi hanno fatto altrettanto. La dichiarazione ONU sui diritti dei popoli indigeni del 2007 delinea le nuove norme internazionali, che rispettano le leggi consuetudinarie e proibiscono l’appropriazione di terre e risorse dei nativi o il trasferimento forzato di comunità autoctone.

La scorsa settimana il controverso disegno di legge israeliano noto come “Legge per la Regolarizzazione”, che intende legalizzare insediamenti ebraici (“avamposti”) non autorizzati in Cisgiordania ha superato la prima lettura. Questo disegno di legge può a buon diritto far parte della legislazione globale sulla terra nullius. Può darsi che sia in ritardo di un secolo, ma, in nome dell’occupazione e dell’insediamento coloniale -in questo caso, ebraico -, questa legge cancellerà la validità dei precedenti sistemi di proprietà in vigore da secoli. Come hanno ribadito i dirigenti dei coloni (“Smettiamola di chiedere scusa!”), nessuno gli impedirà di violare le leggi internazionali e ignorare etica e giustizia.

E’ una classica posizione colonialista. Proprio come i colonizzatori che hanno importato le loro leggi dalle capitali europee, gli abitanti di Amona (tutti coloni ebrei, naturalmente) mirano a importare le loro leggi dallo Stato occupante. Bisogna sottolineare che, secondo le norme internazionali, nessuno Stato ha l’autorità di emanare leggi riguardanti territori al di fuori dei propri confini nazionali o dichiarare proprietà di quello Stato terreni di questi territori.

Naturalmente ciò non significa che non ci siano milioni di ettari di terre ebraiche e israeliane che sono stati acquisiti o registrati in modo corretto, o che il diritto degli ebrei all’autodeterminazione sia minacciato. Per niente. Questa consapevolezza mette in una luce più chiara l’ingiustizia dell’appropriazione di terre attraverso inganni legali, mentre un tale furto non è per niente necessario allo Stato ebraico.

Comunque è altresì importante non esagerare l’importanza della legge attualmente in discussione, in quanto aggiunge solo un ulteriore, ancora più brutale livello al sistema che è iniziato 70 anni fa, attraverso il quale le terre palestinesi sono state trasferite agli ebrei con mezzi che “legalizzano” l’esproprio da parte dello Stato.

La messa in pratica dell’approccio della terra nullius è iniziata nel 1948 e si è aggravata dopo il 1967 – quando l’esproprio a danno di singoli individui ha riguardato le collettività, impedendo la realizzazione di uno Stato palestinese. E’ importante ricordare nell’attuale polemica che lo Stato per 70 anni ha cancellato, attraverso iniziative legali contorte e riguardanti la sicurezza, la maggior parte dei precedenti diritti legittimi dei palestinesi.

Stando così le cose, il cosiddetto “forte dissenso”, di cui si parla, tra persone che sarebbero a favore della “certezza del diritto”- Isaac Herzog [del partito Laburista. Ndtr.], Benny Begin [del Likud. Ndtr.] e Avichai Mendelblit [capo della procura militare. Ndtr.]– e “trasgressori della legge”, come Naftali Bennett e Uri Ariel [ministri e dirigenti del partito di estrema destra dei coloni. Ndtr.], può essere visto come una mossa di facciata. La nuova legislazione nella sua essenza non è nuova. Cambierà semplicemente i tempi: invece di dichiarare che le terre in apparenza erano di proprietà dello Stato ebraico fin da prima dell’insediamento dei coloni, la legge permetterà di dichiarare che lo sono dopo anni di insediamento delle colonie.

Ogni arabo che vive nelle Galilee, nel Triangolo [zona centro-settentrionale di Israele a maggioranza palestinese. Ndtr.] e soprattutto nel Negev può testimoniare che metodi simili sono stati utilizzati anche là per svuotare il sistema autoctono dei diritti di proprietà. In quelle regioni lo Stato ha spesso dichiarato terre arabe “vuote” o “abbandonate”, “morte” o “necessarie per finalità pubbliche (ebraiche)”, ed ha trasferito la proprietà a ebrei.

I metodi per trasformare in ebraiche terre palestinesi in Cisgiordania sono dettagliati in un nuovo rapporto di B’tselem, sotto il titolo “Espellere e sfruttare”. Questo rapporto documenta nei particolari la recente storia di terreni attorno a tre località palestinesi nei pressi di Nablus: Azmut, Deir al-Khatab e Salem. Il quadro generale è noto e inquietante: vasti appezzamenti di terre dei villaggi sono stati progressivamente trasferiti a ebrei attraverso varie misure che hanno incluso la creazione di aree di sicurezza, strade asfaltate ad accesso limitato, costituzione di avamposti illegali, registrazione come proprietà abbandonate e destinazione di territori a riserve naturali.

Il rapporto completa un ampio studio di B’tselem del 2012 intitolato “Sotto le mentite spoglie della legalità”, che ha documentato i modi in cui Israele ha manipolato le leggi ottomane ed inglesi per trasferire terre private palestinesi in mani israeliane ed ebraiche. Il rapporto ha dimostrato per la prima volta che Israele non solo ha gravemente violato le leggi internazionali, ma anche quelle nazionali, stravolgendo le norme fondiarie ottomane e britanniche. Ciò nonostante l’obbligo per lo Stato di conservare ogni norma legale già esistente nelle regioni occupate.

Il processo distorto in Cisgiordania si basa sul fatto di dichiarare che terre incolte nelle zone agricole dei villaggi possono essere dichiarate terre statali – benché, secondo il diritto ottomano, ognuna di tali terre non coltivate debba essere prima offerta ai precedenti proprietari, poi al villaggio di appartenenza o essere venduta con un’asta pubblica.

Israele ha ignorato le clausole più scomode del diritto ottomano e le ha sostituite con ordinanze del Mandato [inglese sugli ex territori dell’impero ottomano. Ndtr.], che erano concepite per delimitare le terre pubbliche in un contesto completamente diverso. Questa distorsione ha fornito le basi di una massiccia ed illegale “israelificazione” delle terre palestinesi. Inutile dire che i governanti ottomani e inglesi che hanno emanato queste leggi non hanno mai espropriato terre palestinesi (o ebraiche) in questo modo.

Fin dal 1970 Israele ha utilizzato una simile manipolazione della legge nel Negev, dichiarando terre non formalmente registrate in due momenti storici diversi – nel 1858 e nel 1921 – come “mewat”, ossia “terre morte”. Queste sono presumibilmente terre incolte, non occupate, abbandonate e periferiche, senza proprietario e pertanto terre statali. Israele ha fatto tutto ciò nonostante l’appartenenza storica delle terre ai beduini, molte delle quali erano coltivate e occupate, secondo le leggi tradizionali e riconosciute dagli ottomani e dagli inglesi.

Tutti lo sapevano, comprese le istituzioni sioniste che pagarono a caro prezzo vasti terreni dei beduini, con l’approvazione delle autorità britanniche. Tuttavia anche qui lo Stato ignora le parti scomode della storia e della legge, classificando in seguito queste terre come “morte”. In casi giudiziari recenti lo Stato sta fondamentalmente dicendo ai beduini: “I vostri padri e nonni non lo sapevano, ma vi stiamo dicendo che erano occupanti abusivi, e le terre che avete ereditato o comprato sono dello Stato.”

I tribunali hanno approvato questa interpretazione soprattutto in base alla precedente cultura giuridica in vigore in Israele, che si basa su vecchie sentenze. Queste vennero emesse in un periodo in cui i proprietari di terre arabi erano privi di potere e non avevano le risorse per sfidare l’espropriazione mascherata di legalità.

Il confronto tra la Cisgiordania e il Negev pone in evidenza il persistente e continuo processo di giudeizzazione sotto il regime israeliano. Che la terra sia coltivata (Negev) o incolta (Cisgiordania), sarà trovato un escamotage legale per trasferirla da mani arabe a ebraiche, rendendola quindi “terra nullius” – terra svuotata dei diritti originari.

Alla luce di questa lunga e distorta storia giuridica, è forse preferibile per chi desidera pace e giustizia che la legge per la legalizzazione sia totalmente accolta, e non respinta dalla Knesset o dall’Alta Corte di Giustizia. Ciò ci risparmierà le false distinzioni tra l’attuale legislazione e le precedenti discutibili leggi per l’espropriazione, e spazzerà via le differenze tra Amona e Ofra [colonia israeliana legittima secondo le leggi israeliane. Ndtr.] o tra Salem e ‘Araqib [rispettivamente un villaggio palestinese della Cisgiordania e uno beduino nel Negev israeliano. Ndtr.]. La legge metterà chiaramente in evidenza quello che Israele ha fatto per anni di nascosto: prendere il controllo colonialista delle terre palestinesi mettendo in atto la propria versione della dottrina della terra nullius, annullata e invalidata dalle leggi internazionali.

Se approvata, la nuova legislazione metterà l’approccio israeliano nel posto che gli compete, come parte di un oscuro periodo coloniale i cui tempi sono passati. Forse ciò scatenerà un processo di trasformazione e decolonizzazione ad ampio raggio, così urgentemente necessario nella nostra terra lacerata.

L’autore insegna geografia politica e giuridica nel Negev ed è un ex copresidente di B’tselem.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto Ocha del periodo 29 novembre- 12 dicembre ( due settimane)

L’8 dicembre, al checkpoint di Za’tara (Salfit), le forze israeliane hanno ucciso un 18enne   palestinese;secondo quanto riferito, avrebbe tentato un’aggressione con il coltello.

Dall’inizio del 2016, questo è il secondo episodio del genere accaduto presso questo checkpoint, collocato in un nodo strategico che consente il controllo della principale arteria di traffico verso il nord della Cisgiordania (Road 60) e verso la Valle del Giordano. Un episodio simile, accaduto il 10 dicembre al posto di blocco di Qalqiliya Nord, si è concluso con l’arresto di una ragazza palestinese di 15 anni, sospettata di aver tentato di accoltellare un soldato israeliano; non sono stati segnalati feriti israeliani.

Le autorità israeliane hanno trattenuto il cadavere del giovane palestinese ucciso nell’episodio di cui sopra. Al momento risultano trattenuti 27 cadaveri di palestinesi, alcuni dei quali da più di otto mesi.

Il 4 dicembre la Protezione Civile Palestinese di Gaza ha recuperato i corpi di quattro persone da un tunnel utilizzato per il contrabbando nel tratto lungo il confine con l’Egitto; il tunnel era crollato il 27 novembre scorso. In quest’area l’attività di contrabbando è in gran parte ferma dalla metà del 2013, dopo la distruzione o il blocco della stragrande maggioranza delle gallerie ad opera delle autorità egiziane. Inoltre, in seguito al crollo di un tunnel militare ad est di Gaza City, il 7 dicembre due membri palestinesi di un gruppo armato sono morti ed un altro è rimasto ferito.

In Cisgiordania, nel corso di molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 39 palestinesi, tra cui 11 minori. Cinque dei feriti si sono avuti nella Striscia di Gaza, vicino al valico di Nahal Oz (chiuso da tempo), durante scontri scoppiati nel corso di proteste in prossimità della recinzione perimetrale. I restanti ferimenti (34) si sono verificati in Cisgiordania: nel corso di operazioni di ricerca-arresto (la maggior parte), durante la manifestazione settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya), e durante scontri con le forze israeliane presenti all’ingresso del Campo profughi di Shu’fat (Gerusalemme Est). Inoltre, secondo i media israeliani, in due distinti episodi verificatisi vicino all’incrocio di Jaba’ (Gerusalemme) e nel villaggio di Deir Nidham (Ramallah), quattro soldati israeliani sono stati feriti dal lancio di pietre ad opera di palestinesi.

A Gaza, in almeno 24 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti o in avvicinamento ad Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare. In un’altra occasione, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza ed hanno effettuato un’operazione di spianatura del terreno. Non sono stati segnalati feriti, ma il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto.

In Cisgiordania, forze israeliane hanno condotto quasi 100 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato circa 120 palestinesi, tra cui 29 minori; tre di questi sono sospettati di aver partecipato al lancio di pietre contro le forze israeliane presenti all’ingresso della Scuola Maschile di As Sawiya (Nablus). Una delle operazioni di ricerca, per la quarta volta nel corso del 2016, ha avuto come obiettivo l’Università Al Quds di Gerusalemme. A Gaza, sei palestinesi, tra cui quattro pescatori, un uomo che tentava di entrare illegalmente in Israele ed un mercante che rientrava in Gaza, sono stati arrestati dalle forze israeliane. Inoltre, una barca da pesca è stata sequestrata.

In zona C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 17 strutture, sfollando 17 persone e diversamente coinvolgendone altre 356. La metà delle strutture colpite si trovavano in Area C, presso quattro comunità beduine e pastorali palestinesi; tra esse quella di Susiya (Hebron), dove sono state sequestrate parti di un impianto fotovoltaico utilizzato dalla Comunità. Sulla maggior parte delle strutture di Susiya incombono ordini di demolizione e la Comunità è esposta ad un elevato rischio di trasferimento forzato.

In quattro occasioni, per consentire l’addestramento militare, le forze israeliane hanno temporaneamente sfollato, per diverse ore ogni volta, 85 persone appartenenti a due comunità di pastori nel nord della Valle del Giordano (Khirbet ar Ras al Ahmar e Humsa al Bqai’a). Nella prima Comunità, le autorità israeliane hanno anche sequestrato un trattore e consegnato un ordine di arresto lavori per una rete elettrica. Entrambe le comunità si trovano in un’area designata come “zona per esercitazioni a fuoco”; tali zone costituiscono quasi il 30% dell’Area C. Finora, nel 2016, ci sono stati 27 episodi di sfollamento temporaneo per consentire esercitazioni militari; tali episodi sono parte del contesto coercitivo che spinge i residenti ad andarsene.

Sempre in Area C, nel governatorato di Hebron, le autorità israeliane hanno emesso ordini di demolizione e di stop-lavori contro due abitazioni in costruzione ed un muro di contenimento ad Al Baqa’a e Beit Ummar, e contro quattro strutture abitative e di sussistenza nella zona di Masafer Yatta. Inoltre, le autorità israeliane hanno sequestrato quattro veicoli di proprietà palestinese: un bulldozer utilizzato per un progetto di ristrutturazione/risanamento (finanziato da un donatore), nel villaggio di As Sawiya (Nablus); una autocisterna per le acque reflue in Einun (Tubas); due veicoli privati nel villaggio di Azzun Atma (Qalqiliya). Per questi ultimi c’era il sospetto che fossero coinvolti nel trasporto di lavoratori illegali in Israele.

A Gerusalemme Est, per mancanza dei permessi di costruzione rilasciati da Israele, il Comune ha consegnato ordini di demolizione contro 13 edifici in Al Bustan, zona di Silwan, minacciando di sfollare circa 100 palestinesi. Negli ultimi anni, Silwan è stato soggetto ad intense attività di insediamento, incluso un progetto per la realizzazione di un complesso turistico in Al Bustan che, se fosse realizzato, comporterebbe lo sfollamento di più di 1.000 residenti palestinesi; altre centinaia di residenti sono a rischio di sfollamento a motivo delle procedure di sfratto avviate da organizzazioni di coloni.

Nel periodo di riferimento sono stati registrati cinque attacchi di coloni israeliani con conseguenti ferimenti di palestinesi o danni alle proprietà; tra questi la vandalizzazione di almeno 200 alberelli di ulivo di proprietà palestinese nel villaggio di Turmus’ayya (Ramallah). Altri due episodi si sono verificati nella zona di Nablus: l’aggressione fisica di un anziano palestinese vicino al villaggio di As Sawiya e il danneggiamento del raccolto dovuto a bestiame lasciato pascolare su un terreno coltivato presso il villaggio di Salim. Altri due episodi collegati a coloni si riferiscono a lancio di pietre contro veicoli palestinesi, presso il villaggio di Nahhalin (Betlemme) e il villaggio di Deir Istiya (Salfit), con relativo danneggiamento di due veicoli.

Coloni israeliani hanno collegato una rete idrica alla sorgente naturale di “Ein al Sha’ra” nel villaggio di Madama (Nablus), per pompare l’acqua verso l’insediamento colonico Yitzhar. Una indagine effettuata da OCHA nel 2011* aveva rilevato che, in Cisgiordania, trenta sorgenti erano sotto il pieno controllo di coloni ed inaccessibili ai palestinesi, mentre altre 26 sorgenti erano a rischio di acquisizione / impossessamento da parte di coloni.

* nota: in calce al presente report sono riportate le prime righe di tale indagine

I media israeliani hanno riferito che, durante il periodo di due settimane, si sono verificati quattro episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: non sono state provocate vittime, ma sono stati segnalati danni a parecchi veicoli.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto per tre giorni (10, 11 e 12 dicembre) per i casi umanitari: è stata consentita l’uscita dalla Striscia di Gaza a 2.021 persone ed il rientro a 1.510. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, dall’inizio del 2016, circa 20.000 persone sono registrate ed in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

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* Quanto segue è tratto dall’indagine OCHAoPt: “Come avviene l’espropriazione – impatto umanitario dell’impossessamento delle sorgenti da parte dei coloni”

“Negli ultimi anni, in Cisgiordania, un numero crescente di sorgenti d’acqua locate nei dintorni di insediamenti israeliani sono diventate bersaglio di azioni di coloni che hanno eliminato, o mettono a rischio, l’accesso a queste sorgenti ed il loro utilizzo da parte dei palestinesi. Un’indagine effettuata da OCHA nel corso del 2011 ha individuato un totale di 56 di tali sorgenti che, in grande maggioranza, si trovano in Area C (93%), su appezzamenti di terreno registrati dall’Amministrazione Civile Israeliana (ICA) come proprietà privata di palestinesi (almeno 84%).

Trenta (30) di queste sorgenti sono risultate essere sotto il pieno controllo dei coloni ed i palestinesi non hanno possibilità di accedere ad esse. In tre quarti di questi casi (22 sorgenti), i palestinesi sono stati dissuasi dall’accesso alle sorgenti tramite atti di intimidazione, minacce e violenze perpetrate da coloni israeliani. Nei restanti 8 casi di sorgenti sotto il pieno controllo dei coloni, l’accesso dei palestinesi è stato impedito da ostacoli fisici, tra cui la recinzione delle aree in cui si trovano le sorgenti e la loro annessione de facto agli insediamenti colonici (quattro casi) o l’isolamento, causato dalla Barriera, delle aree sorgive dal resto della Cisgiordania e la loro successiva designazione come “zona militare chiusa” (quattro casi).

Le altre 26 sorgenti sono a rischio di impossessamento da parte di coloni. Questa categoria comprende le sorgenti che sono diventate l’obiettivo di sistematici “tour” da parte di coloni, e/o di pattugliamento da parte degli incaricati della sicurezza degli insediamenti colonici. Mentre, al momento del sondaggio, i palestinesi potevano comunque accedere ed utilizzare queste sorgenti, agricoltori e residenti palestinesi hanno riferito che la presenza costante di gruppi di coloni armati nella zona ha un effetto intimidatorio che ne scoraggia l’accesso e l’uso.

Contemporaneamente all’eliminazione o alla riduzione degli accessi dei palestinesi, in 40 delle 56 sorgenti individuate nell’indagine, coloni israeliani hanno cominciato a modificare le aree circostanti come “aree di attrazione turistica”. Lavori realizzati per questo scopo comprendono, tra gli altri, la costruzione o la ristrutturazione di piscine; la messa in opera di tavoli da picnic e di ripari per l’ombreggiatura; la pavimentazione di strade che conducono alla sorgente; l’installazione di cartelli che riportano il nome ebraico della sorgente … ”

Indagine completa (in lingua inglese):

https://www.ochaopt.org/documents/ocha_opt_springs_report_march_2012_english.pdf

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Un ministro israeliano: non c’è nessun problema morale nell’espropriare terre in Cisgiordania

di Almog Ben Zikri – 30 novembre 2016. Haaretz

Il ministro dell’educazione Bennett afferma che il problema non sono i singoli avamposti, ma lo status complessivo delle case in Cisgiordania: “Quello che stiamo cercando di fare è inserire norme in vigore in Israele anche in Giudea e Samaria.”

Il ministro dell’Educazione Naftali Bennett ha affermato mercoledì [30 novembre] che non ci sono “problemi etici” per Israele nell’esproprio di terre ai palestinesi in Cisgiordania. Alla domanda se una nuova legge che renderà legali avamposti illegali dei coloni sarebbe in contraddizione con i valori etici ebraici, Bennett ha risposto che “non ci sono problemi etici per lo Stato” nell’appropriazione di terre di proprietari privati “nel caso ciò si ritenga necessario”, se viene pagata in cambio una compensazione.

Il governo israeliano è stato messo in agitazione dall’imminente evacuazione dell’avamposto illegale di Amona, costruito su terre palestinesi proprietà di privati e condannato alla demolizione dalla Corte Suprema israeliana. Mentre alcuni ministri e legislatori di destra, compreso Bennett, sperano di evitare l’evacuazione con una legge, altri, tra cui il primo ministro Benjamin Netanyahu, si sono uniti a consulenti legali del governo nel mettere in guardia sulle possibili conseguenze per Israele.

Parlando alla conferenza di Sderot nel collegio universitario “Sapir”, Bennett ha detto che “Amona non è il problema in Giudea e Samaria “, usando il nome biblico per riferirsi alla Cisgiordania. “Il problema sono le migliaia di unità abitative che hanno lo stesso status (legale).” Storicamente, ha affermato, “quando Israele ha voluto fondare delle comunità, ha espropriato terre private…è stato così a Carmiel, a Gerusalemme ed anche in Giudea e Samaria.”

Bennett ha aggiunto che “quello che stiamo cercando di fare a questo proposito è inserire norme in vigore in Israele anche in Guidea e Samaria. Questa è la ragione per cui si fa tanto rumore…ciò ha un’importanza rilevante. “

Tensioni politiche

Il consiglio per la sicurezza di Israele è stato convocato mercoledì mattina per oltre due ore per discutere della cosiddetta legge “per la regolarizzazione”, che intende legalizzare avamposti illegali dei coloni.

I parlamentari stavano per votare su due bozze della norma, ma il governo ha deciso di posticipare il voto al prossimo martedì dopo il lungo dibattito. Una delle due bozze propone di dare l’autorizzazione retroattivamente alle enclave [ebraiche] per evitare l’evacuazione della colonia di Amona in Cisgiordania, e l’altra contraria all’autorizzazione. Le votazioni erano previste nonostante l’opposizione del procuratore generale Avichai Mendelblit contro questa misura.

Il consiglio per la sicurezza ha rimandato a mercoledì mattina un dibattito su Amona programmato per martedì, dopo che Netanyahu si era ammalato d’influenza, ma poi lo ha di nuovo rinviato.

L’Alta Corte di Giustizia ha stabilito che Amona, costruita su terre palestinesi di proprietà di privati, deve essere evacuata entro il 25 dicembre.

Se approvate, entrambe le misure saranno discusse da uno speciale comitato della Knesset per decidere quale delle due debba essere sottoposta a una seconda o terza votazione in modo da essere convertita in legge.

Mercoledì di primo mattino il comitato per la Costituzione, la Legge e la Giustizia della Knesset ha votato a favore, aprendo la strada a un voto in seduta plenaria.

Il partito Kulanu [di centro. Ndtr.] del ministro delle Finanze Moshe Kahlon si oppone alla cosiddetta versione retroattiva.

Una fonte del partito di estrema destra Habayit Hayehudi [‘Casa ebraica’, del ministro Naftali Bennett. Ndtr.] ha affermato che Kulanu ha accettato di attenersi alla disciplina di coalizione su entrambe le versioni. Ma fonti di Kulanu hanno detto che “non c’è un nuovo accordo sulla questione”, e che il partito si oppone alla legge. Il portavoce di Kahlon ha rifiutato di pronunciarsi.

(Traduzione di Amedeo Rossi)

 




La Palestina dopo Abbas: possibili scenari e strategie per affrontarli

22 novembre 2016

Al-Shabaka

di  Hani al-Masri, Noura Erakat, Jamil Hilal, Sam Bahour, Jaber Suleiman, Diana Buttu, Wajjeh Abu Zarifa, Alaa Tartir 

Sintesi

Nei mesi che hanno preceduto le elezioni americane, le dispute tra le fazioni palestinesi sono andare infiammandosi in previsione del dopo-Abbas.

Si spera che il settimo congresso di Fatah, a lungo rimandato, previsto per il 29 novembre 2016, dia qualche indicazione su quale sarà la transizione dei poteri, rispondendo alla domanda su come e quando Mahmoud Abbas darà le dimissioni da uno o tutti gli incarichi che ricopre: presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), capo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e di Fatah, la più grande fazione politica palestinese.

Con l’elezione di Donald Trump Israele crede di avere le mani libere per fare tutto quello che vuole nei Territori Palestinesi Occupati (TPO) e altrove, rendendo una transizione della dirigenza palestinese ancora più difficile. In questa tavola rotonda gli analisti politici di Al-Shabaka prendono in esame i diversi scenari di una Palestina del dopo-Abbas. Mentre alcuni, come Hani Masri, ritengono che i palestinesi abbiano molto da temere da un vuoto di potere in termini di ulteriore frammentazione e interferenze esterne, altri, come Noura Erakat sostengono che i palestinesi hanno molto da guadagnare, data l’opportunità per un cambiamento. Jamil Hilal mette in guardia contro i pericoli di uno scontro violento per il potere e invita ad un cambiamento in direzione di una lotta per i diritti collettivi del popolo palestinese nel suo complesso, piuttosto che sul destino di un singolo o del suo gruppo d’elite. Sam Bahour prende in esame i diversi precedenti ed attori e nota che le altre fazioni dell’OLP hanno perso ogni influenza che avrebbero potuto avere una volta perché la loro esistenza politica è garantita dall’autorità che essi potrebbero cercare di sfidare.

Jaber Suleiman, che scrive dal Libano, avverte che un collasso dell’ANP potrebbe provocare un’ondata di migrazioni o spostamenti verso la Giordania [ East Bank nell’originale] e una ripresa dei progetti israeliani che prevedono di governare in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza insieme alla Giordania e all’Egitto, con conseguenze per le comunità palestinesi in Libano e altrove. Diana Buttu spera che nuovi dirigenti annullino i disastrosi effetti degli accordi di Oslo, chiedano conto ad Israele delle sue azioni e costruiscano strategie dal basso per rafforzare, piuttosto che semplicemente “gestire”, l’ANP. Riconsiderando i vari esiti possibili Wajjeh Abu Zarifa invita i palestinesi a consolidare lo Stato di Palestina riconosciuto dall’ONU creando un’assemblea costituente. Il direttore del programma di Al-Shabaka ha fatto da moderatore alla tavola rotonda.

Hani Al-Masri

Non è scontato che Abbas lasci presto il suo incarico. Ci sono indizi che suggeriscono che egli probabilmente cercherà di prolungare il suo mandato spingendo per convocare il settimo congresso generale di Fatah. Ciò bloccherebbe anche il ritorno di Mohammed Dahlan [dirigente di Fatah espulso dal partito ed attualmente residente negli Emirati Arabi Uniti. Ndtr.] nel Comitato Centrale di Fatah come successore di Abbas o come un attore che potrebbe decidere in merito e controllare il suo successore. Il fatto che non esistano alternative nazionali, poiché la maggior parte di coloro che sono citati come possibili successori sono della stessa scuola di pensiero, conferma questo scenario.

Lo scenario del post-Abbas dipende dai tempi della sua uscita di scena, cioè se in seguito al congresso generale di Fatah, o della riunione del Consiglio Nazionale Palestinese, o della fine delle divisioni tra Fatah e Hamas o del ritorno di Dahlan in Fatah. Se Abbas dovesse andarsene prima che si tenga il congresso e si ripristini l’unità, la lotta per la successione sarà durissima e porterà probabilmente al caos ed a lotte intestine. Ciò potrebbe provocare il collasso dell’ANP, la frammentazione in molte autorità diverse, o diventare subordinata a Israele sulla falsariga dell’Armata del Sud del Libano [corpo militare cristiano a cui Israele ha affidato il controllo del Sud del Libano dal 1979 al 2000. Ndtr.]. Se Abbas abbandona i suoi incarichi dopo aver raggiunto un accordo su un vice presidente di Fatah, un vice presidente dell’OLP e un vice presidente dell’ANP – invece di assegnare i tre incarichi a una sola persona, come è avvenuto da quando è stata fondata l’ANP – allora è probabile che ciò ridurrà il caos.

Gli scenari del dopo-Abbas dipendono anche dal modo in cui se ne andrà, se dando le dimissioni, per malattia o perché assassinato. Quest’ultima ipotesi scatenerebbe la prospettiva peggiore, alla luce della minaccia di Dahlan secondo cui non permetterà ad Abbas di impadronirsi di Fatah impossessandosi del suo settimo congresso. Un altro scenario prevede un’alleanza tra Dahlan e Hamas, benché quest’ultima non dovrebbe concretizzarsi, in quanto Hamas potrebbe capire che la sua ostilità contro Dahlan e l’alleanza di Paesi arabi che lo appoggia (Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrain) è maggiore di quella contro Abbas.

I palestinesi hanno molto da temere dal vuoto di potere, che potrebbe dare ad Israele, al Quartetto Arabo [composto dai 4 Stati arabi succitati. Ndtr.], ai takfiri1 e a gruppi estremisti, o ad Hamas e ad altre fazioni palestinesi di sinistra o islamiste, l’opportunità per impadronirsi del potere. I due scenari più probabili sarebbero il controllo da parte di Israele o il ritorno della tutela araba sui palestinesi. Nessuno di questi scenari è auspicabile, soprattutto da quando i Paesi arabi, come l’Arabia Saudita, che cercherebbero di esercitare il proprio controllo, hanno stretti rapporti con Israele ed hanno intensificato la collaborazione con esso per lottare contro il terrorismo, i movimenti takfiri, l’Iran e la Fratellanza Musulmana.

Per scongiurare questi scenari sfavorevoli, i gruppi di sinistra ed altre forze politiche palestinesi, così come la società civile e i gruppi nazionali del settore privato, devono recuperare il discorso sulla liberazione e sui diritti, ridefinire il progetto nazionale e ricostituire il movimento nazionale in modo che si basi su una vera partecipazione politica democratica, con l’obiettivo di tenere elezioni a tutti i livelli. Queste elezioni non dovrebbero essere intese come un mezzo per vincere il conflitto interno, ma piuttosto come una competizione in un contesto unitario.

Il dibattito su questi problemi dovrebbe trascendere quello dei circoli elitari in modo che diventi più accessibile all’opinione pubblica nel suo complesso. Può essere fatto attraverso i media tradizionali e sociali, conferenze popolari e nazionali a livello regionale e nazionale, e possibilmente con petizioni, sit-in e manifestazioni.

Noura Erakat

Mahmoud Abbas controlla un’istituzione – l’ANP – che si riproduce in ognuna delle sue varie parti a prescindere dal capo dello Stato. La sua funzione dipende da finanziatori e controllori esterni, compresi gli Stati Uniti ed Israele, che hanno interesse a lasciarla intatta, soprattutto per la sua funzione amministrativa che riduce il peso quotidiano dell’occupazione mentre contribuisce a contenere il conflitto. In più, il 40% della popolazione palestinese lavora nel settore pubblico e quindi ha interesse nella prosecuzione dello status quo che, benché dannoso per i suoi interessi fondamentali, è al contempo indispensabile per il suo livello di vita e la sua sopravvivenza.

Lo scenario più probabile del dopo-Abbas vedrà un leader ad interim in carica finché potranno essere fissate le elezioni. La maggior parte delle previsioni su un successivo capo di Stato comprende attori ben noti, come Mohammed Dahlan e Jibril Rajoub. Basata sull’appoggio esterno ed interno come sull’ampiezza della minaccia che ha portato contro Abbas e la vecchia guardia di Fatah, la candidatura di Dahlan è realistica quanto terrificante. I passati tentativi di escludere dalle votazioni la Striscia di Gaza e di emarginare le prospettive elettorali di Hamas indicano che una simile scelta si dimostrerebbe estremamente conflittuale.

Gli scenari peggiori riguardano un collasso dell’ANP e la presa del potere da parte di Israele o delle forze rivali di Hamas. Tuttavia é improbabile che Hamas rischi uno scontro diretto con Israele in Cisgiordania, a meno che sia preparata anche ad un’altra escalation nella Striscia di Gaza e una contemporanea offensiva israeliana in Cisgiordania. Ciò è improbabile, a meno che il risultato ridefinisca lo status quo in suo favore, il che è poco plausibile dato il minor appoggio dal basso ad Hamas in Cisgiordania ed il costo di un impegno su due fronti. I dirigenti di Hamas probabilmente insceneranno proteste durante le elezioni e le utilizzeranno per legittimare ulteriormente il loro controllo sulla Striscia di Gaza, piuttosto che fare uso della forza.

Il popolo palestinese ha più da guadagnare che da perdere dal vuoto di potere, in quanto crea l’opportunità per un cambiamento, e un cambiamento strutturale è necessario per ottenere la liberazione dei palestinesi. Una nuova leadership dovrebbe sconfessare le deleterie strutture dell’ANP, dichiarare nullo e vuoto il contesto di Oslo, cessare la cooperazione economica e nel campo della sicurezza con Israele e insistere nel proseguire una lotta di liberazione.

Una simile ridefinizione radicale dipende dalla mobilitazione popolare da parte di un movimento di massa critico. La meticolosa frammentazione legale, politica e sociale della popolazione palestinese operata da Israele ha ostacolato ha formazione di un simile movimento. E’ necessaria una concomitanza imponderabile e imprevedibile di fattori per superare questa frammentazione. La rinuncia di Abbas potrebbe essere uno tra questo insieme di fattori, ma non è sufficiente.

Il cambiamento più probabilmente verrà in ultima analisi da un gruppo di giovani della base che non sia legato all’attuale contesto istituzionale e sia più creativo e meno timoroso riguardo alle prospettive future. Questo gruppo attualmente non esiste, se non in nuce nel panorama palestinese a Iqrit, Haifa, Ramallah, Gerusalemme, Gaza City e Nablus.

Jamil Hilal

Istituzioni nazionali aperte e legittime non si otterranno grazie alle elezioni di un successore di Abbas perché queste istituzioni non stanno funzionando. Il Congresso Nazionale Palestinese (CNP) non è stato operativo dagli accordi di Oslo, e le istituzioni legislative, giudiziarie ed esecutive dell’ANP sono state spaccate politicamente, territorialmente e istituzionalmente dal giugno 2007, quando Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza. Fatah, in quanto partito politico di governo, sta sperimentando i propri conflitti interni, con la fazione di Mohammed Dahlan opposta alla dirigenza di Abbas.

Di conseguenza, una piccola elite politica all’interno della dirigenza di Fatah, e non il popolo palestinese nel suo complesso, deciderà chi comanderà dopo Abbas. Senza istituzioni nazionali esistenti che rappresentino le varie comunità palestinesi nella Palestina storica e nella diaspora, la questione della dirigenza non può essere risolta in modo soddisfacente. Continueranno ad esserci conflitti finché non saranno costituite istituzioni nazionali rappresentative, ma, data la divisione tra Fatah e Hamas, la probabilità di una simile costituzione è remota.

Ogni lotta di potere violenta per la leadership all’interno di Fatah comporterà una maggiore frammentazione politica e geografica e una maggiore intromissione israeliana, regionale e internazionale nelle questioni politiche, economiche e sociali palestinesi.

Il gioco a indovinare chi probabilmente succederà ad Abbas non è giustificato da una preoccupazione per gli interessi nazionali palestinesi, ma dagli interessi israeliani e di quei poteri regionali ed internazionali che sono preoccupati per la propria posizione di potere.

L’attenzione dei palestinesi dovrebbe concentrarsi sulla ricostruzione della loro rappresentanza nazionale su basi democratiche ed inclusive, per includere tutte le comunità palestinesi all’interno e fuori dalla Palestina storica. La loro preoccupazione dovrebbe essere la lotta per i diritti collettivi del popolo palestinese nel suo complesso, piuttosto che il destino di un individuo o del suo gruppo dirigente. I palestinesi devono ricostituire l’influenza e la posizione palestinese sotto forma di istituzioni, associazioni, visioni e strategie che non scelgano solo i dirigenti politici ma anche quelli delle comunità. Questi dirigenti dovrebbero cercare di unificare tutti i palestinesi nella lotta per la libertà, la dignità, il diritto al ritorno e l’autodeterminazione. Qualunque altro sforzo è semplicemente un diversivo o un miraggio.

Sam Bahour

Quando nel 2004 è morto Arafat, la Legge Fondamentale Emendata della Palestina – l’equivalente di una costituzione – è stata rispettata: il Consiglio Legislativo Palestinese (CLP) e il suo presidente hanno assunto il potere per 60 giorni finché si sono tenute le elezioni. Oggi, dato che non c’è un CLP in funzione e il suo presunto presidente è di Hamas, è probabile che questa legge non verrà rispettata. Semmai verranno invocate “misure straordinarie” per mantenere il controllo. Ciò potrebbe significare che il Comitato Centrale di Fatah deciderà e ricorrerà al Comitato Esecutivo dell’OLP, controllato da Fatah, per mettere in atto la decisione. Le altre fazioni dell’OLP, avendo perso ogni influenza di secondo livello che una volta avevano, potrebbero opporsi a questa decisone, ma ciò determinerebbe uno scontro con i burocrati, che oggi ne certificano l’esistenza politica. Dato che Fatah è molto divisa, non è chiaro se sarà in grado di accordarsi su una singola personalità o su un meccanismo per svolgere il ruolo di comando. Per soddisfare progetti personali in conflitto, potrebbe verificarsi una divisione dei compiti tra i capi dell’Autorità Nazionale Palestinese e l’OLP.

I timori per il futuro sono molti. Il principale è il timore di ingerenze regionali o internazionali nelle decisioni nazionali. I palestinesi ne hanno già fatto esperienza negli anni scorsi e queste ingerenze potrebbero avere effetti devastanti se verrà loro permesso di aggravarsi o incrementarsi. Un altro timore è che la dirigenza dell’ANP possa tentare di impossessarsi del potere, date le sue risorse, il riconoscimento internazionale e le forze di sicurezza. Un’altra preoccupazione è che uno dei capi delle forze di sicurezza possa tentare di prendere il controllo politico; tuttavia ciò non è probabile poiché nessuna delle forze di sicurezza è autosufficiente. Per ultimo c’è il rischio che Israele piazzi uno dei suoi agenti nel ruolo di comando. Un’altra e più probabile azione di Israele potrebbe essere dichiarare Gaza come Stato palestinese e rafforzare ulteriormente la presenza israeliana in Cisgiordania, forse con una totale annessione. Se Israele scegliesse questo approccio e Hamas a Gaza fosse disponibile a questa iniziativa, l’attuale divisione sarebbe irrimediabile.

Per garantire quel poco di rappresentatività che rimane nel sistema politico palestinese e per contrastare le minacce succitate, i palestinesi devono chiedere due azioni immediate: 1) che Abbas convochi elezioni per reinsediare il CLP, con la consapevolezza che, pur solo i palestinesi della Cisgiordania, potrebbe rapidamente essere operativo ed avere una qualche legittimazione popolare2; 2) che il Comitato Direttivo provvisorio dell’OLP, che comprende tutta l’OLP come anche le fazioni nazionali, sia convocato con il mandato di consentire la formazione e il riconoscimento di nuovi partiti politici. Ciò potrebbe fissare un percorso per ridefinire il sistema politico palestinese attraverso una rappresentanza proporzionale per mezzo dell’organo più importante dell’OLP, il Consiglio Nazionale Palestinese (CNP).

Jaber Suleiman

Avremo probabilmente a che fare con due principali scenari del dopo-Abbas. Il primo è il caos. L’uscita di scena di un presidente che ha monopolizzato il processo decisionale, così come l’incapacità del sistema politico palestinese di rinnovare la propria legittimità scaduta, minaccia di rendere questa lotta per il potere non un disaccordo politico, ma uno scontro interno e un’ulteriore divisione. Tale situazione probabilmente provocherà una completa separazione delle due autorità a Gaza e a Ramallah, e divisioni ancora maggiori in Cisgiordania, con Hamas che controlla la sua parte meridionale. Le ingerenze arabe e regionali, soprattutto da parte del Quartetto Arabo, aggiungerebbero altra confusione. Anche Israele, che è interessato a confermare le sue asserzioni secondo cui i palestinesi sono incapaci di governarsi da soli e indegni di un’autorità autonoma, per non parlare di uno Stato, potrebbe avere un ruolo.

Questo scenario potrebbe culminare nel collasso dell’ANP e provocherebbe un’ondata di migrazioni o di spostamenti verso la Giordania [Easta Bank nel testo originale]. Questo spostamento di popolazione con ogni probabilità rilancerebbe progetti come lo schema di Shimon Peres di condivisione del governo della Cisgiordania e della Striscia di Gaza con Giordania ed Egitto, ma in una nuova forma in cui l’ANP/OLP sostituirebbe Giordania ed Egitto. Una simile prospettiva avrebbe un impatto disastroso sull’unità della collettività palestinese in Libano, soprattutto a causa del fatto che i palestinesi in quel Paese a stento sono riusciti a evitare le conseguenze della divisione tra palestinesi e ad appoggiare un progetto nazionale unitario che riguardi i diritti inalienabili dei palestinesi, oltre alla loro lotta per i diritti umani fondamentali in Libano.

Il secondo scenario sarebbe una transizione pacifica del potere attraverso una dirigenza nazionale ad interim, accettata in seguito ad un accordo di riconciliazione come quello del Cairo. Questa dirigenza dovrebbe modificare i rapporti tra l’OLP e l’ANP, dato che l’ANP è uno strumento dell’OLP e non viceversa. E avrebbe la necessità di realizzare una riforma realmente democratica delle strutture dell’OLP, soprattutto il Consiglio Nazionale Palestinese, così come riguardo ai rapporti dell’ANP con lo Stato e i meccanismi del processo decisionale dell’ANP.

Israele ed alcuni partiti arabi avverserebbero questa prospettiva perché vorrebbero piuttosto controllare la “carta” palestinese. Quindi ciò non solo richiede la volontà politica di tutte le fazioni nazionali, soprattutto Fatah e Hamas, ma anche la mobilitazione della “maggioranza silenziosa” palestinese, cioè di tutti gli ambiti nazionali popolari in Palestina e nella diaspora. L’obiettivo sarebbe di riunire un blocco sociale di questa maggioranza in grado di esercitare pressione sulle fazioni in modo che scelgano una transizione pacifica e ricostruiscano il sistema politico e le sue istituzioni nazionali su basi democratiche.

Diana Buttu

Dopo Abbas, sono possibili vari scenari: una transizione pacifica del potere attraverso il presidente del Consiglio Legislativo Palestinese (CLP); una lotta di potere tra singole personalità all’interno di Fatah o nell’OLP, che culmini in una molteplicità di “leader”; un vuoto di potere finché si organizzino e si tengano elezioni. Dato il caos che Abbas ha determinato, e la concomitante confusione nei partiti politici palestinesi, è improbabile che vengano organizzate elezioni in breve tempo.

I leader palestinesi dovrebbero attivarsi per una riconciliazione con Hamas e fare accordi per una ANP/OLP del dopo-Abbas che porti avanti una strategia per la liberazione della Palestina e inizi a rappresentare i palestinesi che vivono in Israele. Questa strategia vedrebbe nuovi dirigenti che annullino i disastrosi effetti degli accordi di Oslo, rendendo Israele responsabile delle sue azioni e costruendo strategie dal basso per rafforzare, piuttosto che semplicemente “gestire”, l’ANP.

Lo spettro politico e la società civile palestinese potrebbero anche utilizzare il cambiamento di leadership per ricostruire l’OLP in modo che sia rappresentativa della società palestinese ed anche del suo cambiamento generazionale. Tale strategia significherebbe anche capitalizzare la forza del popolo palestinese nel suo complesso e dei suoi movimenti e porre fine a inutili negoziati bilaterali. Come primo passo la Palestina deve rompere il giogo del ricatto finanziario che attualmente lega l’ANP/OLP a questi negoziati bilaterali. Oltre a ciò, coinvolgendo i palestinesi di Israele, l’OLP potrebbe finalmente iniziare a diventare rappresentativa di tutti i palestinesi, piuttosto che aderire solo formalmente a questa inclusione, mentre in realtà marginalizza i palestinesi che non vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Un vuoto di potere sarebbe un grave diversivo dal concentrarsi su questa strategia ed è certamente il sogno di Israele, permettendogli di dividere, conquistare ed usare il periodo di caos per costruire altre colonie.

Wajjeh Abu Zarifa

Se Abbas rimane al potere a breve termine, il primo scenario possibile è tenere elezioni presidenziali e legislative in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e a Gerusalemme come deciso nell’accordo del Cairo. Tuttavia questa eventualità è improbabile alla luce delle profonde divisioni e della diffidenza tra Fatah e Hamas. Il secondo scenario è tenere le elezioni presidenziali e legislative quando possibile, e se Gaza dovesse boicottarle, le elezioni sarebbero organizzate in Cisgiordania. Anche questa è un’ipotesi improbabile, in quanto approfondirebbe le divisioni e accentuerebbe le probabilità di una secessione. Oltretutto Israele non acconsentirebbe a tenere le elezioni a Gerusalemme, il che favorirebbe la separazione di Gerusalemme.

Se Abbas si dimettesse, ci sarebbe una serie di possibili scenari, compreso che il presidente della Corte Costituzionale diventi il presidente dell’ANP fino alle elezioni, o che la presidenza dell’ANP venga assegnata al Comitato Esecutivo dell’OLP, con il segretario dell’OLP come presidente interinale. C’è anche un’ipotesi che è più pratica e logica, benché non sia costituzionale o legale: il primo ministro, nelle sue funzioni di capo del potere esecutivo, assume i poteri del presidente dell’ANP. Le elezioni presidenziali e legislative si tengono entro 60 giorni e necessitano del consenso nazionale. Tuttavia, una simile prospettiva, benché sia la più logica, è praticamente impossibile date le attuali divisioni.

Quindi tutte le forze politiche devono essere invitate a un dialogo serio per mettere a punto i meccanismi necessari per superare le attuali divisioni, attuare l’accordo del Cairo e tenere elezioni presidenziali e legislative prima che Abbas dia le dimissioni. I palestinesi hanno anche bisogno di convocare la struttura della dirigenza provvisoria dell’OLP e il comitato incaricato di riformare l’OLP per ripristinare il Consiglio Nazionale Palestinese e tenere una seduta, riunendo tutti i partiti, comprese Hamas e la Jihad Islamica. Devono essere formati il Comitato Centrale dell’OLP e il Comitato Esecutivo e nominato un nuovo presidente. A più lungo termine i palestinesi devono consolidare lo Stato di Palestina riconosciuto dall’ONU creando un’assemblea costituente composta da membri del Comitato Centrale, del Consiglio Legislativo, del governo e del Comitato esecutivo per stilare una costituzione palestinese ed eleggere un presidente.

Note:

  1. Takfir è accusare una persona di essere un infedele ed è diventata un’ideologia fondamentale dei gruppi militanti (vedi ad esempio Oxford Islamic Studies e Le Monde Diplomatique)

  2. Haytham Al-Zubi ha proposto quest’ipotesi di accordo in un editoriale del 2013. Vedi “Calm Constitutional Advice to the Palestinian President,” Al-Quds, 20 luglio 2013.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 15 -28 novembre 2016 (due settimane)

Il 22 e 25 novembre, in due distinti episodi verificatisi a Gerusalemme Est, al checkpoint di Shu’fat ed a quello di Qalandiya, le forze israeliane hanno ucciso, con armi da fuoco, due palestinesi, uno dei quali quattordicenne: secondo fonti israeliane, si presume che entrambi fossero aggressori con coltello.

Nessun soldato israeliano è rimasto ferito negli episodi citati. Le autorità israeliane hanno trattenuto i corpi dei palestinesi uccisi; in totale sono ora trattenuti sei cadaveri di palestinesi. Dall’inizio del 2016, 73 palestinesi, tra cui 21 minori, e otto israeliani, tra cui una ragazza, sono stati uccisi durante aggressioni e presunte aggressioni effettuate da palestinesi della Cisgiordania. Le risposte delle forze israeliane ad alcuni di questi episodi hanno sollevato preoccupazione circa un possibile uso eccessivo della forza ed esecuzioni extragiudiziali.

Un altro palestinese di 22 anni è stato ucciso dalle forze israeliane il 18 novembre, con armi da fuoco, in scontri avvenuti nel corso di una manifestazione presso la recinzione perimetrale della Striscia di Gaza. Nei Territori palestinesi occupati (oPt), nel corso di molteplici scontri, le forze israeliane hanno anche ferito 34 palestinesi, tra cui quattro minori. In Cisgiordania, tali scontri sono scoppiati durante operazioni di ricerca-arresto, durante le manifestazioni settimanali a Ni’lin (Ramallah) e Kafr Qaddum (Qalqiliya) contro la Barriera e contro gli insediamenti, e contro la costruzione di un nuovo insediamento-avamposto [illegale anche per la legge israeliana] nel nord della Valle del Giordano. Tre soldati israeliani sono rimasti feriti ad opera di palestinesi, per lancio di bottiglie incendiarie e pietre.

Una donna palestinese è stata uccisa il 16 novembre nel Campo Profughi di Balata (Nablus), durante uno scontro a fuoco tra Forze di Sicurezza palestinesi e civili palestinesi. La donna non era coinvolta negli scontri, scoppiati nel corso di una operazione di ricerca-arresto nel Campo. Tre membri delle Forze di Sicurezza sono rimasti feriti.

Gli incendi boschivi, divampati tra il 22 e il 27 novembre in molteplici località israeliane ed in alcune zone dei Territori palestinesi occupati (oPt), hanno determinato vasti sfollamenti di popolazione. La polizia israeliana ha avviato indagini su possibili casi di incendio doloso ed ha arrestato alcuni sospetti. In Cisgiordania, circa 380 famiglie sono state temporaneamente evacuate dalle loro case negli insediamenti colonici israeliani di Dolev, Talmon e Halamish (Ramallah); secondo i media, in quest’ultimo insediamento 15 case sono state bruciate completamente e altre 25 sono state danneggiate. Almeno sei persone hanno riportato lesioni per inalazione di fumo. Gli incendi hanno raggiunto la città di Huwwara (Nablus), dove è stato danneggiato un ettaro di terra coltivata. Le forze antincendio palestinesi sono state dispiegate sia in Israele che negli insediamenti colonici della Cisgiordania per sostenere gli sforzi di Israele contro gli incendi.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 252 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 243 palestinesi. Il governatorato di Gerusalemme ha registrato la più alta quota di arresti (103, di cui 35 minori) e di operazioni (62), incluse le due operazioni compiute nell’Università Al Quds, in Abu Dis (Gerusalemme).

A Gaza, in almeno 16 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti o in avvicinamento alle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare. In un’altra occasione, le forze israeliane sono entrate in Gaza ed hanno svolto un’operazione di spianatura del terreno. Non sono stati segnalati feriti, ma il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto. Sei palestinesi sono stati arrestati, tra cui due pescatori che sono stati costretti a togliersi i vestiti e nuotare verso le imbarcazioni della marina israeliana, mentre la loro barca e le reti da pesca sono state sequestrate. Altri quattro civili sono stati arrestati mentre tentavano di entrare illegalmente in Israele.

Per la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o requisito 18 strutture, sfollando 42 palestinesi, tra cui 30 minori, e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 60 persone. In Ma’azi Jaba, una delle comunità colpite nel governatorato di Gerusalemme, le autorità hanno demolito nove tra strutture abitative e di sostentamento che erano state fornite come assistenza umanitaria. Questa è una delle 46 comunità della Cisgiordania centrale a rischio trasferimento forzato in conseguenza di un piano israeliano per “rilocalizzarli”.

In cinque comunità dell’Area C, Khirbet ar Ras al Ahmar e Ibziq (entrambe in Tubas), Jit (Qalqiliya) e Ash Shuyukh (Hebron), le autorità israeliane hanno sequestrato tre trattori e due bulldozer, adducendo quale motivazione il loro impiego in costruzioni illegali. Nel villaggio di Ya’bad (Jenin), per violazione delle norme ambientali, le forze israeliane hanno sequestrato quattro veicoli e 150 tonnellate di legna per la produzione di carbone, fonte di sostentamento per almeno 1.000 lavoratori.

In cinque occasioni, per consentire l’addestramento militare, le forze israeliane hanno sfollato temporaneamente 210 persone, inclusi 123 minori, appartenenti a due comunità di pastori palestinesi nel nord della Valle del Giordano (Khirbet ar Ras al Ahmar e Ibziq). Le due comunità devono far fronte a ripetute demolizioni e restrizioni ai loro spostamenti che acuiscono le crescenti preoccupazioni legate al rischio di trasferimento forzato. In altre tre occasioni, nella stessa area, le forze israeliane hanno effettuato esercitazioni militari in prossimità della comunità di pastori palestinesi di Khirbet Tel al Himma, con conseguenti danni alle proprietà e limitazioni negli spostamenti; per due volte, dalla fine del settembre 2016, tale comunità ha subito demolizioni.

Sono stati registrati tre attacchi di coloni israeliani che hanno causato lesioni a palestinesi o danni alle loro proprietà; in particolare, l’aggressione fisica e il ferimento di tre uomini palestinesi in due distinti episodi avvenuti nella zona H2 di Hebron e danni ad un veicolo palestinese, per lancio di pietre, ad Hebron. Inoltre, non inclusi nel conteggio, a Gerusalemme Est, Hebron e Tubas sono stati segnalati almeno tre episodi di aggressione e intimidazione contro palestinesi.

Secondo i media israeliani, ci sono stati otto casi di lancio di pietre ad opera di palestinesi contro veicoli israeliani; ne sono conseguiti il ferimento di un colono israeliano e danni ad almeno sei veicoli, oltre che alla metropolitana leggera di Gerusalemme.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto per tre giorni (16-18 novembre): è stata consentita l’uscita dalla Striscia di Gaza a 1.702 persone e il rientro a 947. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, dall’inizio del 2016, circa 20.000 persone sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.




Un pogrom scuote un villaggio palestinese strangolato dai coloni israeliani

di Gideon Levy e Alex Levac – 11 novembre 2016 Haaretz

Una dozzina di coloni mascherati che brandivano coltelli e bastoni e gridavano “morte agli arabi” ha attaccato cinque contadini palestinesi che stavano raccogliendo olive. “Sono venuti per uccidere”, ha detto una vittima.

E’ stato un pogrom [attacchi antisemiti contro la popolazione ebraica nei Paesi dell’Est Europa. Ndtr.].

I sopravvissuti sono cinque pacifici contadini palestinesi che parlano un ebraico smozzicato e lavorano nell’edilizia in Israele, con permessi di ingresso validi. Durante i fine settimana coltivano ciò che è rimasto delle loro terre, la maggior parte delle quali sono state depredate a favore dei coloni che strangolano il loro villaggio, Janiya, fuori Ramallah. Sono convinti di essere sopravvissuti solo per miracolo all’attacco di sabato scorso.

“Pogrom” è davvero la sola parola per descrivere quello che hanno subito. “Vi uccideremo!” hanno gridato gli assalitori, mentre picchiavano gli uomini sulla testa e sul corpo con mazze e tubi di ferro, e brandivano coltelli a serramanico. L’unico “crimine” dei palestinesi, che stavano raccogliendo le loro olive quando i coloni si sono gettati su di loro, era il fatto di essere palestinesi che hanno avuto l’ardire di lavorare la loro terra.

Il periodo della raccolta delle olive è tradizionalmente la stagione dei pogrom in Cisgiordania, ma questo è stato uno dei più violenti. Nessun rappresentante ufficiale israeliano ha condannato l’assalto, nessuno si è indignato. Uno degli aggrediti è stato medicato con 10 punti in testa, un altro ha avuto un braccio e una spalla rotti, un terzo zoppica, un quarto ha perso gli incisivi. Solo uno è riuscito a scappare agli assalitori, ma anche lui si è fatto male quando si è ferito a una gamba sul terreno roccioso mentre fuggiva.

I contadini, che giorni dopo l’aggressione erano ancora in stato di shock per questa brutta esperienza, sono stati portati via dai compaesani; le olive sono rimaste sparse sul terreno. Ora hanno paura di tornare nell’oliveto. Questo fine settimana, si sono ripromessi, manderanno giovani di Janiya a prendere quello che avevano raccolto e a finire il lavoro. Per quanto riguarda loro, con il corpo e l’anima acciaccati, dicono di non essere in grado di fare niente.

Gli assalitori, circa una dozzina di coloni mascherati, si vedono in un video girato da un abitante, Ahmed al-Mazlim, mentre, palesemente in preda all’eccitazione per la loro azione, tornano alle loro baracche, sparse sotto la colonia di Neria, nota anche come “Nord Talmon”, tra Modi’in e Ramallah. Questo è stato il loro “oneg Shabbat” la loro festa del sabato: scendere nella valle e picchiare persone che stavano lavorando la propria terra, innocenti quanto indifese, forse addirittura con l’intenzione di uccidere. Un fine settimana pacifico.

Si vedono i coloni risalire lentamente verso le baracche del loro avamposto illegale, che si trova sulla collina sotto Neria. Non hanno fretta, in fin dei conti nessuno li sta inseguendo. Alla fine si siedono sulla soglia di una delle baracche per dissetarsi con una borraccia.

Non avevo mai visto prima criminali lasciare la scena del delitto con tale indifferenza. Forse erano esausti del loro lavoro – picchiare arabi – stanchi ma contenti. Yotam Berger, il giornalista di Haaretz che è stato il primo a pubblicare il video, ha visitato le baracche il giorno dopo il pogrom. Sapeva bene che dei coloni vivevano lì, anche se le strutture erano vuote quando è arrivato. Fino a quel momento non erano stati fatti arresti, ed esperienze precedenti suggeriscono che non ne verrà fatto nessuno. La polizia sta indagando.

Janiya, un piccolo villaggio di 1.400 anime nella parte centrale della Cisgiordania, si guadagnava di che vivere lavorando la sua terra finché gran parte di questa è stata portata via dalle vicine colonie, dalla fine degli anni ’80. Poche regioni sono altrettanto popolate di coloni come questa; pochi villaggi hanno avuto tanta terra rubata come Janiya. Degli originali 50.000-60.000 dunam (5.000-6.000 ettari) posseduti dai suoi abitanti, solo 7.000 (700 ettari) rimangono di loro proprietà. Il villaggio è stato strangolato.

Da una buona posizione ai suoi confini, si può vedere la valle in cui è stato perpetrato l’attacco, e le colonie vicine. La nostra guida è Iyad Hadad, un ricercatore sul campo dell’organizzazione per i diritti umani israeliana B’Tselem. Sotto di noi le case di Talmon A confinano con le rimanenti terre di Janiya, molto vicino alle case dei paesani. Basta allungare la mano per toccarle; un altro progetto di espansione e arrivano fin dentro Janiya.

A destra, verso sudest, c’è la colonia di Dolev, a vantaggio dei cui abitanti Israele ha bloccato per anni la strada principale per Ramallah. Appollaiata sulla collina c’è Talmon B; lì vicino c’è Talmon C; e là, all’orizzonte, si trova Talmon D. Sulla cima della collina, ad una certa distanza, c’è una base dell’esercito israeliano.

Ogni cima di collina rappresenta un’altra minaccia per il tranquillo villaggio. Neria si trova sopra l’uliveto della famiglia Abu Fuheida e i pendii terrazzati che scendono da lì. Le costruzioni della “gioventù delle colline” [gruppo di giovani coloni molto violenti. Ndtr.] sono sparse su tutto il territorio, tra le varie Talmon, a decine di metri le une dalle altre.

La valle è tranquilla. Alcuni degli oliveti ora sono di proprietà delle colonie; quando si fa la raccolta, ci si mette d’accordo con l’esercito israeliano. Per esempio, la scorsa settimana le olive sono raccolte nelle parti di Talmon A coltivate dai palestinesi. Ma l’aggressione da parte dei coloni è stata perpetrata in un luogo in cui il coordinamento non è richiesto, perché non è proprietà di alcuna colonia.

Siamo alla fine della stagione del raccolto, e questo è un canalone chiamato Natashath. E’ sabato mattina, una giornata stupenda, e cinque membri della famiglia Abu Fuheida – Sa’il, Hassan, Sabar, Sa’ad e Mohammed – scendono all’oliveto di famiglia, dove hanno una settantina di ulivi. Sono circa le 8,30; non ci sono altri contadini lì attorno. Portano sacchi (“Nessun coltello”, chiarisce subito uno di loro) sparsi per terra per raccogliere le olive cadute, con una bottiglia di Coca Cola, pomodori, pane pita e affettati. Non è una buona annata per le olive, il raccolto è stato scarso.

Lavorano fino a mezzogiorno, si siedono per mangiare e ritornano alle scale. Il loro piano è di finire il raccolto entro il pomeriggio. Ma in quel momento gli aggressori gli piombano addosso all’improvviso: i raccoglitori, sulle scale, con la testa in mezzo ai rami, non li vedono. Solo Sa’il, con i suoi 57 anni il più vecchio del gruppo e l’unico che non è su una scala, riesce a scappare, ferendosi solo fuggendo in preda al panico.

Secondo Sa’il e il suo fratello ferito, Hassan, erano 10, forse 15 assalitori. Sembravano giovani e robusti. Uno dei quattro che hanno aggredito Hassan portava occhiali; Hassan ha visto solo i suoi occhi. E’ stato quello che gli ha inflitto i colpi peggiori, aggiunge Hassan. Tutti avevano tubi, mazze, randelli o coltelli. Ce n’era anche uno che sembrava di vedetta: è rimasto sulla collina vicino a Neria, con un fucile, osservando a quanto pare quello che stava succedendo. “Morte agli arabi! Morte agli arabi!” gridavano gli aggressori. “Vi uccideremo, porci.”

Sa’il: “Erano aggressivi, violenti, non ho mai visto un attacco del genere. Erano venuti per uccidere.”

I contadini si sono precipitati giù dalle scale, dritti nelle mani degli assalitori, che hanno afferrato prima Sabar, poi Hassan, circondandoli, alcuni coloni per ogni palestinese, e li hanno percossi. Sabar è stato il primo a perdere conoscenza, Hassan dice di essere svenuto anche lui. Gli autori del pogrom hanno cercato di colpirli in testa, ma Hassan se l’è protetta con le mani. La sua mano destra ora è bendata, con dei punti e fasciata, ha perso quattro denti e ha anche un labbro tagliato. Si muove a malapena e parla a fatica.

L’aggressione è durata tra i cinque e i dieci minuti. Uno dei cugini, Mohammed, ad un certo punto è riuscito a scappare, dopo essere stato leggermente ferito, e ha chiesto aiuto al villaggio. Quando gli aggressori se ne sono andati, i feriti sono stati portati via su ambulanze ed auto private all’ospedale pubblico di Ramallah. Hassan ha raccontato di aver ripreso conoscenza in casa di suo fratello, dove era stato portato dagli abitanti del villaggio prima di essere trasportato in ospedale. Quando si è alzato gli è venuto un capogiro. Era sicuro che sarebbe morto, dice Hassan, un lavoratore edile (“con regolare permesso”) a Rishon Letzion [in Israele. Ndtr.].

Solo Hassan e Sa’il erano al villaggio quando ci siamo andati questa settimana (le altre tre vittime erano andate al comando della regione di Binyamin per testimoniare alla polizia). La loro casa era affollata di visitatori che confortavano gli aggrediti. Gli assalitori sono pazzi, ci ha detto il loro cugino Sahar: “Odiano gli arabi, odiano l’odore degli arabi, vedono un arabo e lo vogliono calpestare. Vogliono ucciderci. Non vogliono arabi qui. E fanno quello che vogliono.”

Ci siamo seduti all’ombra della buganvillea nel cortile della casa della famiglia. Ho chiesto ad Hassan cosa pensi di quello che è successo. Un tenue sorriso ha attraversato le sue labbra ferite mentre ripeteva: “Non so cosa pensare. Succede ogni anno.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La risposta dei palestinesi agli incendi in Israele: se fossero intenzionali, sarebbe una follia.

di Amira Hass – 25 novembre 2016, Haaretz

Gli incendi in Israele sono stati acclamati in commenti online da Gaza e da Paesi arabi, ma molti altri palestinesi dicono: questi sono i nostri alberi e le nostre terre, quindi perché distruggerli?

“Cosa pensate del fatto che l’incendio sia scoppiato vicino a voi, accanto alla base militare di Neveh Yair?” ho chiesto per telefono, parlando ad amici del villaggio di Nabi Saleh, in Cisgiordania, dopo essermi assicurata che il fuoco fosse sufficientemente lontano e loro fossero in salvo.

“Oh, è l’esercito.” ha detto un amico – ancor prima che fosse data la notizia che un soldato sbadato potesse aver gettato via una sigaretta accesa.

La gente del villaggio ha smesso di contare quante volte i loro campi hanno preso fuoco a causa di granate assordanti e di lacrimogeni lanciati dai soldati per reprimere manifestazioni contro il furto di una sorgente da parte dei coloni.

Aggiornamenti in tempo reale: incendi imperversano in Israele da quattro giorni

“Siete sicuri che non siano intenzionali?” ho chiesto; era chiaro che mi stavo riferendo alla possibilità che un palestinese avesse appiccato il fuoco.

Un amico ha affermato: “E’ impossibile. E se qualcuno lo avesse fatto di proposito, sarebbe folle, irrazionale e sbagliato. Sono la natura e l’ambiente ad essere danneggiati: alberi ed animali.”

C’erano informazioni su un incendio scoppiato nei pressi della colonia di Mevo Horon, e sull’evacuazione di escursionisti dal “Canada Park” nell’enclave di Latrun. Ho chiamato un conoscente che vive nel villaggio di Beit Liqya, al di là della barriera di separazione [cioè in territorio israeliano. Ndtr.].

“Cosa pensi che sia accaduto?” chiedo dopo essermi assicurata che stesse bene. “Qualcuno ha buttato una sigaretta da un’auto di passaggio,” ha sostenuto.

Il mio conoscente è originario di Beit Nuba. L’esercito espulse i residenti di questo villaggio e dei villaggi circostanti di Yalo e Imwas subito dopo che furono conquistati nella guerra del 1967. Mevo Horon fu costruito sulle terre di Beit Nuba. Il Fondo Nazionale Ebraico [organizzazione che promuove la colonizzazione della Palestina. Ndtr.] ha costruito il “Canada Park” sulle rovine di Yalo e Imwas. Il nome commemora gli ebrei canadesi che hanno donato fondi per crearlo.

” Secondo te l’incendio non è intenzionale?” ho chiesto. Il mio conoscente ha pensato che mi stessi riferendo ai sospetti che i palestinesi avessero appiccato il fuoco.

“In primo luogo, nessun palestinese ha il permesso di entrare in quell’area, salvo gli operai che si guadagnano lo stipendio nella colonia,” ha detto. “Secondo, ci sono i nostri alberi là, i nostri morti sepolti nei cimiteri, le cisterne d’acqua scavate dai nostri nonni. Ci ritorneremo, perché distruggerli?”

Le informazioni sui siti di notizie arabi sono deliranti. Ci sono commenti secondo cui l’entità (sionista) sarà bruciata – come punizione per la legge che proibisce di diffondere il richiamo alla preghiera con altoparlanti, la mano di dio. Ci sono citazioni dal Corano che avvalorano questo, come anche critiche all’Autorità Nazionale Palestinese, che vorrebbe ancora una volta offrire le proprie attrezzature per combattere gli incendi.

Un esame approssimativo mostra che molte delle persone che si rallegrano risiedono in Paesi limitrofi (Egitto, Giordania). Gli abitanti di Gaza che tifano per gli incendi rivelano solo quanto il blocco israeliano della Striscia li abbia separati dal resto del loro popolo. Non sanno che ci sono palestinesi che vivono ad Haifa e nei dintorni? Non sanno che ci sono carcerati palestinesi nella prigione di Damon (costruita sul villaggio di Damon distrutto nel 1948)?

Ovviamente ci sono molti altri post, scritti da palestinesi, che si prendono gioco di quelli che plaudono e sono furiosi contro di loro perché dimenticano che “gli alberi sono i nostri, la terra è la nostra, il Paese è il nostro.”

Qualcuno ha scritto: “Smettetela con le fesserie. Gli incendi sono scoppiati anche in Giordania. Per che cosa dio la starebbe punendo?” I sospetti comuni contro i palestinesi espressi dal ministro dell’Educazione Naftali Bennett e dal primo ministro Benjamin Netanyahu si diffondono nel sottobosco israeliano di arroganza e pregiudizio.

“Il sospetto automatico nasconde una profonda, sorprendente visione, non solo ignoranza e razzismo, ” ha affermato un amico palestinese della Galilea. ” A quanto pare gli ebrei israeliani si rendono conto che l’oppressione e l’espropriazione del popolo palestinese da parte di Israele e la nostra perdita della speranza stanno prendendo dimensioni apocalittiche. Gli israeliani si aspettano che la nostra risposta all’oppressione sia anch’essa apocalittica. E non lo è.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA del periodo 1 – 14 novembre 2016 (due settimane)

Nei pressi dell’insediamento colonico israeliano di Ofra (Ramallah), le forze israeliane hanno ucciso, con arma da fuoco, un 23enne palestinese mentre tentava di aggredire con un coltello i soldati israeliani. Questo episodio porta a 73 il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane, dall’inizio del 2016, nel corso di attacchi e presunti attacchi.

Un altro palestinese è stato ferito con arma da fuoco, e successivamente arrestato, in un presunto tentativo di accoltellamento verificatosi nel villaggio di Huwwara (Nablus). In nessuno di tali episodi sono stati riportati ferimenti di israeliani. In un altro caso, ad un posto di blocco vicino alla città di Tulkarem, palestinesi hanno aperto il fuoco e ferito un soldato, riuscendo poi a fuggire.

Nei Territori Palestinesi Occupati (oPt), nel corso di molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 57 palestinesi, tra cui 19 minori. Nove dei ferimenti si sono verificati nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale e in mare. I rimanenti feriti sono stati registrati in Cisgiordania: durante scontri scoppiati nel corso di operazioni di ricerca-arresto (la maggior parte), durante le manifestazioni settimanali contro la Barriera e gli insediamenti a Ni’lin (Ramallah) e Kafr Qaddum (Qalqiliya) e nel corso di eventi commemorativi del 12° anniversario della morte dell’ex presidente palestinese Yasser Arafat.

In tre diversi episodi, che hanno visto coinvolte forze israeliane e coloni, altri nove palestinesi, tra cui tre minori, sono stati feriti mentre raccoglievano olive sui propri terreni. In particolare: in una zona vicino all’insediamento colonico israeliano di Qedumim (Qalqiliya), in circostanze poco chiare, soldati israeliani hanno aggredito fisicamente due persone che erano entrate nella propria terra dopo aver ottenuto una “preventiva autorizzazione” all’accesso; nel villaggio Al Janiya (Ramallah), coloni israeliani hanno fisicamente aggredito quattro persone che stavano lavorando vicino all’insediamento colonico di Talmon; altre quattro persone sono rimaste ferite, nei pressi di Bani Na’im (Hebron), dall’esplosione di una granata assordante abbandonata dalle forze israeliane. In altri due episodi, sempre nel contesto della raccolta delle olive, coloni israeliani hanno vandalizzato 70 ulivi in Sa’ir (Hebron) mentre, presso l’insediamento colonico di Shave Shomron (Nablus), hanno raccolto olive da alberi di proprietà palestinese.

In Cisgiordania, in Area C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 47 strutture di proprietà palestinese, sfollando 26 palestinesi, dieci dei quali minori, e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 330 persone. Nove di queste strutture erano state fornite come assistenza umanitaria, in risposta a demolizioni precedenti. Dall’inizio del 2016, il numero di strutture prese di mira ammonta a 1.033: più del doppio rispetto al dato relativo allo stesso periodo del 2015. Nel periodo di riferimento sono stati emessi almeno 24 ordini di demolizione, di arresto-lavori e di sfratto.

Nella comunità pastorale di Khirbet Tana (Nablus), i funzionari israeliani hanno sequestrato un generatore elettrico e una macchina per il taglio dei metalli, appartenenti ad una organizzazione assistenziale; hanno inoltre fatto rilievi fotografici di strutture precedentemente fornite come assistenza; tra queste, una struttura adibita a scuola, quattro cisterne per l’acqua e sei ricoveri abitativi. La comunità si trova all’interno di un’area dichiarata da Israele “zona per esercitazioni a fuoco” e, dall’inizio del 2016, ha subito quattro ondate di demolizioni.

In una dichiarazione rilasciata il 10 novembre, Robert Piper, Coordinatore delle Nazioni Unite per gli Aiuti Umanitari e lo Sviluppo, ha condannato il continuo osteggiamento dell’assistenza umanitaria da parte delle autorità israeliane, affermando che “colpire i più vulnerabili tra i vulnerabili ed impedire loro di ricevere assistenza – in particolare con l’arrivo dell’inverno – è inaccettabile e contraddice gli obblighi di Israele quale potenza occupante”.

In tre occasioni, per consentire l’addestramento militare, le forze israeliane hanno trasferito, per diverse ore ogni volta, 23 famiglie (123 persone, tra cui 59 minori) appartenenti a due comunità di pastori palestinesi nel nord della Valle del Giordano (Khirbet ar Ras al Ahmar e Ibziq). Le due comunità devono far fronte anche ad ripetute demolizioni e restrizioni ai loro spostamenti che acuiscono le crescenti preoccupazioni legate al rischio di trasferimento forzato.

Cinque famiglie palestinesi (29 persone) che vivono nella zona di Silwan di Gerusalemme Est, hanno ricevuto avvisi di sfratto connessi a cause intentate da organizzazioni di coloni israeliani che rivendicano la proprietà delle abitazioni. Un sondaggio esplorativo, effettuato a Gerusalemme Est da OCHA [Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari], indica che su almeno 180 famiglie palestinesi pende una causa di sfratto presentata contro di loro principalmente da organizzazioni di coloni israeliani: sono pertanto a rischio di sfollamento più di 818 palestinesi, tra cui 372 minori.

Nella zona H2 di Hebron, controllata da Israele, coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito un ragazzo palestinese che si stava recando a scuola. Nel corso del periodo di riferimento almeno quattro episodi di lancio di pietre da parte di coloni israeliani hanno causato danni a veicoli palestinesi.

Secondo i media israeliani, si sono verificati otto casi di lancio di pietre ad opera di palestinesi contro veicoli israeliani: ferito un colono israeliano, danneggiati almeno sei veicoli e la metropolitana leggera di Gerusalemme. Vicino a Betlemme un altro veicolo è stato danneggiato da un ordigno esplosivo.

A Rafah, nella Striscia di Gaza, un 15enne palestinese è stato ferito dall’esplosione di un residuato bellico con il quale stava giocando nei pressi della scuola.

In almeno 23 occasioni durante il periodo cui si riferisce questo Rapporto (due settimane), le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti o in avvicinamento ad Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare della Striscia di Gaza. In altri tre casi, le forze israeliane sono entrate nelle ARA di terra per livellare il terreno ed effettuare scavi. Non sono stati segnalati feriti, ma è stato interrotto il lavoro di agricoltori e pescatori.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, nell’ultimo giorno del periodo di riferimento [14 novembre] è stato eccezionalmente aperto per i casi umanitari, consentendo l’uscita dalla Striscia di Gaza a 386 palestinesi ed il rientro a 274 (dopo tale data il passaggio è rimasto ancora aperto per alcuni giorni). Secondo le autorità palestinesi di Gaza, dall’inizio del 2016, circa 20.000 persone sono registrate ed in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah. Il valico è stato eccezionalmente aperto il 6 novembre, per consentire a una delegazione di 93 palestinesi l’ingresso in Egitto; è stato quindi riaperto il 12 novembre per consentire il loro rientro.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




E’ la fine del mondo?

di Gideon Levy, 10 novembre 2016

Haaretz

Potrà accadere una di queste due cose: o Trump sarà Trump, oppure il Presidente Trump non sarà lo stesso Trump che abbiamo conosciuto.

Prima confessione: ho sperato che Donald Trump venisse eletto. Seconda confessione: la sua elezione mi spaventa. Basta pensare a Rudolf Giuliani in una posizione preminente nel suo governo, che forse influenzerà la sua politica nei confronti di Israele, per essere colti dal panico. La mia compagna Catherine si è chiusa nella sua stanza, ancor più arrabbiata e terrorizzata: è preoccupata per l’ambiente e per il futuro del suo paese. E’ sicura che Trump distruggerà l’ambiente e che permetterà a Vladimir Putin di invadere la Svezia.

Questa paura di Trump che sta percorrendo il mondo, e forse anche alcuni dei suoi elettori – com’è accaduto per i sostenitori della Brexit in Gran Bretagna che in seguito hanno rimpianto il proprio voto, però in misura molto maggiore – è la paura dell’ignoto. Ed ancor più è la paura dell’inconoscibile. Questa paura ricorda il terrore del 1977 quando andò al potere (in Israele, ndtr.) Menachem Begin. Metà della nazione entrò nel panico, e si fece a gara dovunque nel prefigurare scenari apocalittici. Begin farà la guerra, Begin porterà al fascismo. Alla fine, Begin ha fatto davvero la guerra (contro il Libano, ndtr.) , come avrebbe fatto qualunque altro primo ministro israeliano rispettabile, ma Begin ha fatto anche la pace, come nessun altro primo ministro israeliano prima o dopo di lui ha fatto. E Begin non ha condotto al fascismo.

Ho sperato che Trump venisse eletto perché sapevo che l’elezione di Hillary Clinton, i cui valori da molto tempo sono cambiati, avrebbe anche significato una continuazione dell’occupazione israeliana. Il mio mondo è piccolo, lo ammetto: l’occupazione mi interessa più di ogni altra cosa e per me poche cose potrebbero essere peggio di un presidente che continui a finanziarla. Se lei fosse stata eletta, in posti come Yitzhar e Itamar (colonie israeliane in Cisgiordania, ndtr.) avrebbero stappato bottiglie di champagne. Con il denaro di Haim Saban (imprenditore israeliano naturalizzato statunitense, tra i più ricchi del mondo, finanziatore di Hillary Clinton e della campagna contro il BDS, ndtr.) e l’eredità di Barak Obama, l’America non avrebbe osato fare pressioni su Israele. La fine del mondo, in altre parole.

Anche Benjamin Netanyahu dovrebbe essere preoccupato. Un Trump che perde interesse per il Medio Oriente potrebbe anche essere un Trump che non appoggia l’occupazione. L’esultanza dei coloni è prematura. Potrebbe anche trasformarsi in un grido di dolore. Certo Trump non sarà mai amico dei palestinesi, esattamente come non sarà mai amico di tutti i deboli del mondo, ma potrebbe dimostrarsi un vero isolazionista ed in quanto tale annullare il cieco, automatico e sconcertante sostegno del suo paese ad Israele.

Dopo tutto è stato eletto in larga misura grazie alle sue promesse di eliminare il “politicamente corretto”. In America il sostegno alla prosecuzione dell’occupazione israeliana è politicamente corretto. Perciò, nella mia ottica localistica, questa è stata la ragione per cui ho sperato nella vittoria di Trump.

Al contempo la vittoria di Trump mi spaventa. Come spesso accade quando le fantasie diventano realtà, la realtà fa più paura del previsto. Non c’è bisogno di elencare tutte le sue idee bigotte, la sua retorica incendiaria, tutti gli aspetti del suo terribile personaggio. Ha promesso di perpetuare l’uso della tortura durante gli interrogatori, di annullare l’accordo con l’Iran, di utilizzare eventualmente armi nucleari. Cos’altro serve per terrorizzare chiunque sia sano di mente? Tuttavia la sua promessa di trasferire l’ambasciata americana a Gerusalemme è ridicola: sicuramente i diplomatici americani non saranno entusiasti di vivere a Gerusalemme e comunque il trasferimento dell’ambasciata probabilmente non è molto importante.

Potrà accadere una delle due cose: o Trump sarà Trump, oppure il Presidente Trump non sarà lo stesso Trump che abbiamo imparato a conoscere. Lui stesso probabilmente non sa chi sarà. Il suo discorso della vittoria di mercoledì suggeriva la seconda possibilità. Se Trump manterrà la sua parola e le sue promesse della campagna elettorale, questo significherà una terribile tragedia per l’America e per il mondo, e forse una piccola speranza per Israele: il Trump originale non esiterà a trascurare Israele ed il risultato potrebbe andare a suo beneficio.

Paradossalmente, ciò che è negativo per il mondo e per l’America potrebbe essere positivo per Israele: un presidente ignorante ed isolazionista, che si disinteressa del mondo, pretende che tutti i paesi paghino per l’aiuto americano ed ha intenzione di distruggere i sacri dogmi, potrebbe essere un presidente che dà una salutare scossa ad Israele.

Mercoledì ha segnato la fine del mondo? Forse sì, forse no.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Lieberman: La prossima guerra di Gaza sarà l’ultima

Middle East Monitor – 24 ottobre 2016

Nota redazionale .Un’intervista a un personaggio dell’estrema destra israeliana che non promette niente di buono. Anche se poi cerca di vestire i panni del politico con la ricetta per risolvere il conflitto israelo-palestinese.  Abbiamo ritenuto utile pubblicarla per dovere di informazione.

 

Il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman, in un’intervista al quotidiano Al-Quds, ha promesso che la prossima guerra contro Gaza sarà l’ultima.

Il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman, in un’intervista al quotidiano Al-Quds, ha promesso che la prossima guerra contro Gaza sarà l’ultima.

L’intervista in sé è stata oggetto di critiche, in quanto alcuni palestinesi hanno sostenuto che il giornale non avrebbe dovuto concedere a Lieberman una tribuna per le sue idee.

Lieberman ha sostenuto che “non abbiamo nessuna intenzione di scatenare una guerra con i nostri vicini nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, in Libano e in Siria.” Ma, ha aggiunto, “nella Striscia di Gaza c’è l’intenzione di eliminare lo stato di Israele, proprio come gli iraniani.”

Ed ha continuato. “Anche se non intendiamo dare inizio ad un nuovo conflitto con loro (nella Striscia di Gaza), se scatenano una nuova guerra contro Israele, sarà per loro l’ultima guerra. Voglio ribadire che sarà la guerra finale per loro perché noi li distruggeremo completamente.”

L’ampia intervista ha toccato una quantità di argomenti, compresa l’idea di Lieberman di un rapporto permanente con i palestinesi.

Lieberman ha affermato di aver “ accettato la soluzione dei due stati e sostengo personalmente questa soluzione”, ma “il problema sta nella….leadership palestinese.” Ha poi aggiunto: “Io non credo in una efficace occupazione e penso sia meglio per i due popoli essere separati.”

Approfondendo ciò che intende con soluzione dei due stati, Lieberman ha detto: “Credo che il giusto criterio non sia terra in cambio di pace; io preferisco lo scambio di terra e abitanti.” Nello specifico, Lieberman ha dichiarato che importanti colonie illegali, quali “Ma’ale Adumim, Giv’at Ze’ev, Gush Etzion e Ariel [le prime due a Gerusalemme est, la terza a sud di Gerusalemme nei pressi del confine con la Cisgiordania, Ariel in mezzo alla Cisgiordania. Ndtr]”, saranno “parte di Israele in ogni tipo di soluzione.”

Al contempo, in base al piano di Lieberman, i cittadini palestinesi di zone come Umm el-Fahm [città arabo israeliana di 45.000 abitanti che si trova vicino alla Cisgiordania. Ndtr.] si troverebbero all’interno di un futuro stato palestinese; “questa gente si definisce palestinese,” perciò “lasciamo che siano palestinesi”, ha detto. “Ci saranno due patrie”, ha affermato, “una ebrea e una palestinese, e non uno stato palestinese ed uno stato binazionale.”

Alla luce del fatto che “è difficile convincere palestinesi ed israeliani ad arrivare ad un accordo su uno status definitivo”, Lieberman pensa che “il primo passo per convincere il popolo che questo è possibile potrebbe consistere in un drastico miglioramento della situazione economica e nella lotta alla disoccupazione, alla povertà e alla frustrazione tra i palestinesi.”

Al contempo, agli israeliani “dobbiamo garantire sicurezza ed assenza di terrorismo e spargimenti di sangue per un determinato periodo di tempo.” Secondo Lieberman, soltanto dopo “tre anni di vero progresso economico per i palestinesi e tre anni senza terrorismo e vittime israeliane” sarà possibile ” creare un clima di fiducia.”

Lieberman, lui stesso un colono della Cisgiordania, ha detto al giornale: “Ho molti vicini palestinesi e parlo con la gente comune, come gli agricoltori, non con la leadership politica.”

Negli ultimi quattro mesi ho incontrato parecchi palestinesi, soprattutto uomini d’affari, e sono stati incontri piacevoli. Ho chiesto loro quale fosse il maggiore ostacolo allo sviluppo dell’economia e mi hanno detto apertamente che il maggiore intralcio è rappresentato da Abu Mazen (Mahmoud Abbas) e dalla sua cerchia.

Lieberman ha detto ad Al-Quds che c’è bisogno di “ripartire da zero” e che quindi “dobbiamo anzitutto costruire la fiducia tra i due campi, non tra i leader, ma tra la gente.” Ha aggiunto: “Il problema è che non c’è fiducia tra i due popoli ed un rapporto solamente tra i leader non è sufficiente. Noi abbiamo bisogno di più sicurezza e i palestinesi di più benessere.”

Riferendosi alla Striscia di Gaza, Lieberman ha detto che Israele “ha intenzione di approvare i progetti della Turchia per elettricità, acqua, desalinizzazione e depurazione.” Secondo il ministro della difesa, “il problema è che Hamas ha ricevuto centinaia di migliaia di dollari da quando è andato al potere e, invece di investirli in impianti di energia e in infrastrutture idriche, li ha investiti in armi.”

Alla domanda se fosse intenzionato a parlare con Hamas, Lieberman ha risposto: “Non posso parlare con qualcuno che ogni giorno fa dichiarazioni che dicono noi vi odiamo, vogliamo distruggervi, cancelleremo Israele dalla carta geografica, vi getteremo in mare, ecc.”

Ha aggiunto che “prima che Hamas prendesse il controllo, Gaza era aperta” e che “c’era un passaggio sicuro tra Gaza e la Giudea e Samaria (la Cisgiordania).” Ha poi continuato: “Quando vedremo che la smetteranno con i tunnel e i razzi, noi saremo disposti ad aprire le aree industriali a Erez e Karni. Vogliamo anche investire nel porto e nell’aeroporto.”

Riguardo agli sviluppi nella regione, Lieberman ha dichiarato: “Non abbiamo alcuna richiesta o rivendicazione da parte dei nostri vicini. Abbiamo dato il Sinai all’Egitto, abbiamo un trattato di pace con la Giordania e relazioni diplomatiche con il Libano e non abbiamo rivendicazioni.”

Ha aggiunto: “La primavera araba o l’inverno arabo hanno completamente modificato la situazione nel mondo arabo e noi non abbiamo avuto niente a che vedere con tutto questo. Il 99% di tutte le vittime e il bagno di sangue si verifica tra gli stessi musulmani e non con gli israeliani.”

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)