Rapporto Ocha sulla settimana 5- 11 luglio 2016

Il 9 luglio, secondo i media israeliani, sulla strada 356, nei pressi del villaggio di Tuqu’ (Betlemme), un colono israeliano è stato ferito da spari provenienti da un veicolo con targa palestinese.

Il sospetto autore dell’attacco, secondo quanto riferito, sarebbe fuggito verso il villaggio di Sa’ir (Hebron). Dopo l’attacco, le forze israeliane hanno bloccato tutti gli ingressi e le uscite del villaggio ed hanno avviato operazioni di ricerca-arresto nella zona; nel corso di tali operazioni due palestinesi sono rimasti feriti. Inoltre, il 6 luglio, vicino allo snodo stradale Neve Daniyyel (Betlemme), in un sospetto attacco con auto, un palestinese ha investito un veicolo militare israeliano, ferendo tre soldati. Anche il sospetto autore è rimasto ferito ed è stato successivamente arrestato dalle forze israeliane. Infine, il 5 luglio, una 17enne palestinese è stata ferita dalle forze israeliane con armi da fuoco: secondo una videoregistrazione, avrebbe minacciato i soldati con un coltello ad una fermata d’autobus vicino ad Haris (Salfit).

Il 7 luglio, un palestinese è morto per le ferite riportate nel maggio 2015, quando fu colpito con armi da fuoco dalle forze israeliane nei pressi della recinzione perimetrale di Gaza.

In Cisgiordania, 50 palestinesi, tra cui 14 minori, sono stati feriti nel corso di scontri con le forze israeliane. Quasi tutti i ferimenti sono riferibili ad operazioni di ricerca-arresto, la più ampia delle quali ha avuto luogo nella città di Dura (Hebron), in cui si sono avuti 38 feriti. In totale, in Cisgiordania, questa settimana, le forze israeliane hanno condotto 98 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 95 palestinesi; il governatorato di Hebron registra il più alto numero sia di operazioni che di arresti.

Nella striscia di Gaza, a sud-est di Rafah, il 10 luglio le forze egiziane ha aperto il fuoco verso il territorio palestinese, ferendo una ragazza palestinese 13enne.

Continuano, da parte delle forze israeliane, i blocchi di diversi snodi stradali che collegano villaggi e città palestinesi del governatorato di Hebron; il 2 luglio, dopo l’uccisione, in due distinti episodi, di due coloni israeliani, sulla zona è stata imposta una chiusura generale che intralcia pesantemente l’accesso ai servizi e ai mezzi di sostentamento dei circa 400.000 palestinesi residenti. Il 12 luglio, nel corso di una informativa al Consiglio di Sicurezza, il Segretario generale dell’ONU ha dichiarato che “gli autori dei recenti attacchi terroristici devono assolutamente essere ritenuti responsabili. Tuttavia, le chiusure – come quelle messe in atto in Hebron – così come le demolizioni punitive e la revoca generalizzata dei permessi penalizzano migliaia di palestinesi innocenti e si configurano come punizioni collettive”.

Il 7 luglio, l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha respinto una petizione volta ad evitare la demolizione punitiva della casa di un palestinese di Qabatiya (Jenin) che fu arrestato per aver collaborato, secondo quanto riferito, ad un accoltellamento mortale avvenuto a Gerusalemme Est nel febbraio 2016. Il 25 giugno, l’UN Relief and Works Agency per i Rifugiati di Palestina (UNRWA), ha invitato le autorità israeliane a porre fine alla pratica delle demolizioni punitive.

A Gaza, in almeno sette occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare; non sono stati segnalati feriti, ma pescatori ed agricoltori palestinesi hanno dovuto interrompere il lavoro. In quattro occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza, hanno spianato il terreno ed effettuato scavi.

Nella zona H2 di Hebron, si è verificato un caso di vandalismo contro proprietà palestinese, ad opera, secondo quanto riferito, di coloni israeliani. Inoltre, ancora in questa settimana, ci sono state due manifestazioni di coloni armati che, per protesta contro i recenti attacchi palestinesi contro israeliani, si sono riuniti [nel primo caso] all’ingresso del villaggio di Bani Naim (Hebron) impedendone l’accesso e [nel secondo caso] hanno marciato dall’insediamento di Haggai fino all’insediamento di Otniel (Hebron), intimidendo i palestinesi presenti

Sono stati segnalati tre episodi di lancio di pietre, ad opera di palestinesi contro veicoli israeliani, nei pressi di Beit El (Ramallah), presso l’insediamento di Kiryat Arba (Hebron) e nella città di Hizma (Gerusalemme) con conseguente ferimento di tre israeliani e danni a tre veicoli. In altri due episodi, verificatisi vicino a Betlemme e ad Hebron, palestinesi hanno lanciato bottiglie incendiarie contro veicoli israeliani; non sono stati segnalati danni.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Dall’inizio del 2016, il valico è stato parzialmente aperto per soli quattordici giorni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 30.000 persone sono registrate ed in attesa di attraversare.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 12 luglio, nella città di Ar Ram (Gerusalemme), durante una operazione di ricerca-arresto, un 22enne palestinese è stato ucciso e altri due (entrambi di 20 anni) sono stati feriti da soldati israeliani. Secondo i media israeliani, le forze israeliane, ritenendosi in pericolo, hanno aperto il fuoco. Secondo fonti palestinesi locali, le vittime stavano viaggiando ad alta velocità e non si sono resi conto della presenza dei soldati israeliani che hanno sparato contro di loro. Uno dei feriti è stato arrestato dai soldati israeliani.

Il 12 e il 13 luglio, in Area C (nella città di ‘Anata e presso la confinante comunità beduina di Nord ‘Anata Bedouins) e in Gerusalemme Est (Jabal Al Mukabbir), a causa della mancanza di permessi di costruzione israeliani, le autorità israeliane hanno demolito 23 strutture, sfollando 43 persone, tra cui 25 minori.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




In Cisgiordania le discriminazioni non scarseggiano quando si tratta di acqua

Haaretz

di Amira Hass – 2 luglio 2016

Israele sta chiedendo il rinnovo del Comitato Congiunto per l’Acqua, ma i palestinesi hanno sperimentato che la commissione si limita a rafforzare le colonie e a perpetuare il controllo israeliano sulle risorse idriche

“Convocare il Comitato Congiunto per l’Acqua.” Questo è il mantra israeliano tirato fuori in risposta alle vicende relative alla scarsità d’acqua in Cisgiordania. Da quando i palestinesi hanno iniziato a boicottare per parecchi anni il lavoro del Comitato, si continua a sostenere che non si è potuto ammodernare e riparare le infrastrutture idriche.

Questa è stata anche la replica che Haaretz ha ricevuto la scorsa settimana dall’Autorità Israeliana per l’Acqua e dall’ufficio di coordinamento delle attività governative nei territori, in risposta a un quesito sul perché dall’inizio di giugno la compagnia israeliana delle acque (Mekorot) ha ridotto la quantità di acqua che vende ai palestinesi nel distretto di Salfit e a Nablus.

Mekorot ha dato una risposta simile al settimanale Makor Rishon [giornale di destra e vicino al movimento dei coloni. Ndtr.], che una settimana fa ha dato notizia di una riduzione nell’erogazione dell’acqua in numerose colonie, quartieri e avamposti illegali in Cisgiordania.

Effettivamente dalla fine del 2010 i palestinesi hanno smesso di approvare le richieste di progetti per l’acqua e le fognature presentati dalla controparte israeliana al Comitato Congiunto per l’Acqua (JWC). Inizialmente hanno rifiutato di firmare i verbali delle riunioni. Poi hanno smesso di parteciparvi. Il primo ministro palestinese del tempo era Salam Fayyad, mentre il capo dell’Autorità Palestinese per l’Acqua era il ministro Shaddad Attili. I palestinesi erano arrivati alla conclusione – qualcuno dice con troppo ritardo – che, con il pretesto della condivisione e della reciprocità, Israele stava estorcendo loro un consenso scritto e una manifesta approvazione che consentiva lo sviluppo delle infrastrutture idriche nelle colonie e persino di incrementarne la fornitura d’acqua. Allo stesso tempo stava limitando lo sviluppo e l’espansione delle infrastrutture idriche palestinesi e perpetuando l’ineguale divisione dell’acqua tra israeliani e palestinesi.

Nel 2014, dopo che Rami Hamdallah è diventato primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese, Attili – che gli israeliani consideravano un guastafeste e la causa del problema – è stato sollevato dall’incarico; Mazen Ghoneim è stato nominato al suo posto. Tuttavia, nonostante qualcuno abbia interpretato questo come un cedimento alle pressioni israeliane per riprendere il lavoro del Comitato, la posizione dei palestinesi non è cambiata.

“Il Comitato si riunisce” – cioè è richiesta l’approvazione dell’altra parte – “solo quando si tratta di progetti per i palestinesi,” ha detto la scorsa settimana ad Haaretz il ministro Ghoneim. “Gli israeliani fanno tutto quello che vogliono nelle colonie, quando vogliono. Non chiedono il nostro permesso di costruire ed espandere insediamenti e avamposti, perciò perché dovrebbero ottenere la nostra approvazione per gli acquedotti?”

Un chiara prova è arrivata la scorsa settimana: il 20 giugno il sito web dell’amministrazione per gli appalti del governo israeliano ha pubblicato un bando per un condotto fognario congiunto israelo-palestinese, che sarà posto di fianco al percorso della rete fognaria già esistente tra Givat Ze’ev, Bir Naballah e Al Jib [la prima è una colonia, gli altri due sono villaggi palestinesi. Ndtr.]. L’Autorità Palestinese per l’Acqua ha detto ad Haaretz che ciò viene fatto a sua insaputa.

Secondo COGAT [il Coordinamento per le Attività Governative nei Territori, ente del ministero della Difesa israeliano che si occupa delle attività civili nei Territori Occupati. Ndtr.], si tratta solo di una risistemazione e di un lavoro di manutenzione di una conduttura già esistente, e di conseguenza non richiede il consenso del Comitato. Tuttavia, secondo fonti palestinesi, quando il JWC era operativo i palestinesi dovevano chiedere l’approvazione israeliana per la ristrutturazione (sostituzione e manutenzione) di ogni tubatura esistente – persino nelle aree A e B, che sono sotto il controllo dell’ autorità civile palestinese. Senza tale approvazione, anche per le aree A e B, i Paesi donatori, e soprattutto gli Stati Uniti, non avrebbero finanziato i progetti.

L’articolo 40 degli accordi interinali del 1995 tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che tratta di questioni relative ad acqua e sistema fognario, stabiliva che i palestinesi sarebbero stati nelle condizioni di estrarre circa 118 milioni di m³ annui dall’Acquifero Montano in Cisgiordania. In più l’accordo stabiliva che Israele avrebbe venduto ai palestinesi altri 30 milioni di m³ e che durante il periodo dell’accordo (fino al 1999) avrebbero potuto incrementare la quota di altri 80 milioni di m³ annui dai loro pozzi di perforazione nel bacino orientale o “da altra fonte”.

Secondo i calcoli della Banca Mondiale, la quantità destinata ai palestinesi in Cisgiordania era circa il 20% delle estrazioni dall’Acquifero Montano. Il resto dell’acqua – cioè la maggior parte del totale – era destinata ad Israele per il consumo delle colonie e all’interno di Israele. Il ruolo del JWC era quello di mettere in pratica gli impegni delle parti in base all’articolo 40 e di gestire i sistemi idrici e fognari in Cisgiordania.

All’inizio i palestinesi videro questa norma come una base per estendere la propria indipendenza nel settore idrico. Oggi, 17 anni dopo che l’accordo avrebbe dovuto terminare, secondo i calcoli dell’Autorità Palestinese delle Acque i palestinesi stanno ricevendo solo 103 m³ all’anno dall’Acquifero Montano.

In confronto, secondo uno studio di B’Tselem [organizzazione israeliana per i diritti umani. Ndtr.], i cui dati sono stati aggiornati nel 2013, 28 siti di perforazione di Mekorot nella Valle del Giordano (il Bacino Orientale) producono circa 32 milioni di m³ all’anno, cioè poco meno di un terzo del totale dell’acqua che i palestinesi stanno estraendo da tutto l’Acquifero Montano. La grande maggioranza di quei 32 milioni di m³ è destinata a circa 10.000 coloni ebrei nella Valle del Giordano, per usi domestici ed agricoli, rispetto ai 103 milioni di m³ destinati a tutti i 2,7 milioni di palestinesi della Cisgiordania.

La popolazione palestinese in Cisgiordania è cresciuta di circa un milione dal 1995. In seguito a ciò ora i palestinesi non hanno altra alternativa che comprare una maggiore quantità di acqua da Israele rispetto a quella stabilita originariamente.

Uno studio inglese pubblicato nel 2013 ha rilevato che la discriminazione contro i palestinesi è stata applicata anche dal JWC. Il ricercatore, Jan Selby dell’università del Sussex, ha scoperto che tra il 1995 e il 2008 la proporzione tra i progetti palestinesi approvati dal Comitato (cioè, approvata anche dalla parte israeliana) è stata minore dei progetti che sono stati approvati nelle colonie: è stato approvato non più del 66% delle domande palestinesi di perforare pozzi rispetto al 100% delle richieste israeliane; tra il 50% e l’80% delle richieste per reti di fornitura idrica per la popolazione palestinese è stato approvato, rispetto al 100% per i coloni; e il 58% delle domande di impianti per la purificazione di acque di scolo dei palestinesi rispetto al 96% per i coloni.

Selby ha anche scoperto che la portata degli impianti approvati di stoccaggio dell’acqua degli israeliani è circa cinque volte maggiore di quella delle loro controparti palestinesi – 4.723 cm³ per gli israeliani rispetto ai 965 cm³ per i palestinesi. E il diametro più frequente delle tubature per i palestinesi è di 2 pollici, rispetto agli 8 e 12 pollici per gli israeliani.

Durante lo stesso periodo, i 174 progetti di cisterne/riserve di stoccaggio per i palestinesi avevano una capienza totale di 167.950 cm³ rispetto ai 28 impianti simili per gli israeliani con una capienza totale di 132.250 cm³.

Selby conclude che l’espansione delle infrastrutture nelle colonie è stata portata avanti con l’approvazione dell’Autorità Nazionale Palestinese, perché è apparso chiaro che altrimenti Israele non avrebbe consentito la ristrutturazione e lo sviluppo delle infrastrutture idriche palestinesi.

Fonti dell’Autorità Palestinese per le Acque preferiscono dire oggi che nei primi anni “abbiamo firmato progetti di interesse comune (cioè condutture comuni per le colonie e le comunità palestinesi). Progressivamente ci si è preteso da noi che approvassimo progetti solo per le colonie in cambio dell’approvazione dei nostri progetti.”

Queste fonti hanno aggiunto che i progetti più grandi, che avrebbero potuto essere messi in atto solo nell’area C [sotto totale controllo israeliano e dove si trovano le riserve idriche. Ndtr.] sono anche passati per la complicata burocrazia dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano in Cisgiordania. Ndtr.], che a volte ha ritardato o bloccato la loro messa in opera. E Selby ha scoperto anche che, prima ancora che un progetto venisse sottoposto al processo di approvazione dell’Amministrazione Civile, un progetto israeliano è stato approvato dal Comitato Congiunto delle Acque mediamente entro due mesi, mentre per un progetto palestinese ce ne sono voluti 11.

La ricerca di Selby riassume la crescente frustrazione palestinese e spiega la decisione di lasciare il Comitato Congiunto.

Una portavoce del COGAT ha affermato che “il miglioramento delle condizioni delle infrastrutture idriche in Cisgiordania richiede la progettazione di nuove condutture, in quanto quelle esistenti hanno raggiunto la portata massima e quindi è necessario convocare il Comitato Congiunto per le Acque.”

Ha aggiunto: “Notiamo che alla luce delle difficoltà che l’Autorità Nazionale Palestinese sta continuando a porre al comitato, i progetti idrici e fognari sono stati approvati unilateralmente per dare una prima risposta al problema dell’acqua per entrambe le popolazioni della regione.”

Uri Schor, un portavoce dell’Autorità Israeliana per le Acque, ha detto ad Haaretz: “Nel novembre 2011 il direttore dell’Autorità per le Acque, nel quadro del Comitato Congiunto, ha dato la sua approvazione ai palestinesi per 43 progetti per la ristrutturazione di punti di perforazione esistenti, per la sostituzione e per nuovi punti di perforazione. “Nell’ottobre 2012,” ha scritto, “c’è stato un accordo tra le due parti per fissare il prezzo dell’acqua in più per la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.” Una fonte palestinese ha detto ad Haaretz che le richieste di perforazione approvate dall’autorità erano state presentate molto tempo prima e che l’accordo sui prezzi era stato stabilito solo per un anno.”

Dall’ottobre 2012, ha aggiunto Schor, “il governo palestinese ha preso la decisione politica di non approvare nessun altro progetto israeliano (contravvenendo all’accordo sull’acqua) silurando in tal modo un contesto di collaborazione che ha reso possibile rifornire entrambe le popolazioni della Cisgiordania.”

Invece i palestinesi affermano che il recente taglio massiccio nella fornitura di acqua alle loro comunità ha lo scopo di ricattarli per farli tornare al Comitato Congiunto per le Acque e per “far loro approvare i progetti esclusivamente destinati alle colonie illegali, in modo da renderli apparentemente legali.”

All’Autorità Palestinese per le Acque fanno notare che, proprio come lo status dell’area C e le relazioni economiche (il Protocollo di Parigi), destinate ad essere provvisorie, anche l’articolo 40 e le quote di acqua imposte ai palestinesi dovevano essere temporanei.

Ma quello che doveva essere provvisorio è diventato permanente. I palestinesi dicono che le loro richieste di emendare l’articolo 40 non hanno ricevuto risposta. Oggi l’unica soluzione realistica, affermano, è permettere loro di cominciare subito a perforare nel più ricco Bacino occidentale dell’Acquifero Montano.

Da parte sua, il ministro Ghoneim riassume la posizione israeliana: “Israele ci tratta come clienti di un’impresa e non come un popolo che ha un diritto legale sulle fonti idriche del nostro Paese.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Dopo Mahmoud Abbas, il diluvio per i palestinesi

Haaretz, 29 giugno 2016

di Amira Hass

Se il presidente avesse prestato attenzione alla realtà, a Bruxelles avrebbe parlato di acqua come un esempio della situazione assurda in cui gli israeliani hanno intrappolato i palestinesi

Ancora una volta Mahmoud Abbas ha provocato imbarazzo. Nel suo discorso al parlamento europeo, ha ripetuto cose senza senso in un “rapporto” che era comparso nei media palestinesi pochi giorni prima, secondo il quale il presidente del “Consiglio delle Colonie” avrebbe ordinato di avvelenare i pozzi palestinesi e l’acqua potabile in CIsgiordania.

Nel suo discorso il presidente palestinese lo ha modificato così: “Solo una settimana fa, una settimana, un gruppo di rabbini in Israele ha annunciato, in un comunicato esplicito, la richiesta al loro governo di avvelenare, di avvelenare, l’acqua dei palestinesi.” Un giorno dopo ha smentito questa affermazione attraverso il suo ufficio.

Ma il danno era stato fatto. Abbas è stato accusato di spargere una sanguinaria diffamazione anti-semita – un’accusa logora e scontata che ignora i reali e seri problemi che caratterizzano i massimi dirigenti palestinesi: la loro inconsapevolezza della realtà quotidiana del loro popolo; la mancanza di coordinamento e di scambio di informazioni e di idee tra diversi uffici del governo; il ricorso ad amici, adulatori e mezzi di comunicazione locali, che non verificano le cose, tutti quanti troppo frequentemente sono approssimativi ed esagerano persino quando la verità sulle politiche israeliane è di per sé compromettente.

Secondo la Reuters, la dichiarazione su riportata non era inclusa nella versione ufficiale del discorso (opaco e scontato) che l’ufficio di Abbas ha distribuito in anticipo. Sembra che si sia trattato di un’improvvisazione, come succede nelle riunioni del suo movimento, Fatah, o in un incontro con studenti israeliani, quando ha dichiarato che il coordinamento per la sicurezza con Israele è “sacro”.

Secondo il New York Times il “rapporto” è apparso su un sito web di qualche ufficio dell’OLP (senza specificare quale fosse), da lì è stato ripreso dal sito ufficiale turco “Anadolu” e da un giornale di Dubai. Palestinian Media Watch [organizzazione israeliana che monitora i media palestinesi, in particolare per quanto riguarda il terrorismo. Ndtr.] ha rintracciato un servizio trasmesso dall’emittente televisiva ufficiale palestinese il 20 giugno, che affermava che un’organizzazione dei diritti umani israeliana aveva “rivelato” l’ordine da parte di un rabbino di nome Shlomo Melamed.

Ma non c’è nessuna organizzazione che si chiami “Consiglio delle Colonie”, non c’è nessun rabbino che si chiami Shlomo Melamed e, secondo un articolo del Jerusalem Post (citato da Palestinian Media Watch), nessuna organizzazione israeliana dei diritti umani ha “rivelato” le sue parole.

Se Abbas fosse stato attento alla situazione, a Bruxelles avrebbe parlato di acqua – un problema scottante per il suo popolo, soprattutto durante l’estate – come un esempio dell’assurdità nella quale i palestinesi sono intrappolati. “Noi (e l’Europa con noi)”, potrebbe aver detto, “stiamo rispettando gli accordi di Oslo 17 anni dopo che sono scaduti, come un cammino che porta alla costituzione di uno Stato palestinese. Ma guardate come Israele approfitta della nostra pazienza e continua ad imporre la stessa divisione inumana dell’unica fonte di acqua di cui disponiamo.”

Oggi gli israeliani usano l’86% dell’acquifero montano, mentre le briciole che rimangono – il 14% – sono lasciate ai palestinesi. Invece di dire fesserie sull’avvelenamento dell’acqua, avrebbe potuto parlare della compagnia delle acque Mekorot, che sta tagliando i rifornimenti d’acqua nella zona di Salfit per soddisfare l’aumento della domanda nelle colonie.

E’ vero, non mancano rabbini che hanno detto cose terribili sugli arabi o sui non ebrei in generale. Oltretutto, come parte delle continue vessazioni dei villaggi palestinesi da parte di cittadini ebrei israeliani in Cisgiordania, ci siamo imbattuti nel metodo di gettare carcasse di animali morti nelle cisterne – benché cisterne per l’acqua piovana, come nel villaggio di Kharruba nelle colline a sud di Hebron, o cisterne per raccogliere il flusso d’acqua dalle sorgenti, come a Madma, a sud di Nablus.

Tuttavia, non ci voleva molto per capire che questo “rapporto” era dubbio. Israele e palestinesi bevono dallo stesso acquifero. Quindi “l’avvelenamento dell’acqua” avrebbe colpito tutti. Ed una scarsa conoscenza storica sarebbe stata sufficiente per mettere in guardia Abbas dall’associare acqua, veleno ed ebrei.

Ma così vanno le cose quando si è abituati al ruolo di capo supremo le cui parole sono legge, che viola le decisioni della dirigenza collettiva (e non eletta), che ripetutamente rimanda le elezioni all’interno di Fatah e dell’OLP, che beneficia di un parlamento paralizzato e che non consente un processo democratico per scegliere il suo successore in modo da risparmiare al suo popolo un pericoloso vuoto politico una volta che se ne sia andato.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Secondo un sopravvissuto il ragazzino palestinese stava festeggiando la visita di amici prima di essere ucciso dall’esercito

Ma’an News

22 giugno, 2016

Ramallah (Ma’an) – Dopo mezzanotte di lunedì cinque adolescenti palestinesi stavano tornando a casa dopo aver passato il pomeriggio in una piscina del villaggio di Beit Sira, a ovest di Ramallah, per festeggiare il recente arrivo dal Qatar di alcuni amici che erano venuti a passare l’estate nella loro cittadina d’origine, Beit Ur al-Tahta.

Tuttavia la loro allegria è finita quando un soldato israeliano ha cominciato a sventagliare l’auto con proiettili veri, uccidendo il quindicenne Mahmoud Raafat Badran e ferendo gravemente altri quattro ragazzi, uno dei quali ha raccontato a Ma’an lo svolgimento degli eventi che ha portato alla morte del ragazzino.

Uno dei feriti, il sedicenne Dawood Issam Abu Hassan, ha raccontato a Ma’an che sono stati “sorpresi da un uomo vestito di nero in borghese che è saltato fuori da una Toyota bianca ed ha iniziato a sparare contro di loro.” Il soldato è stato in seguito identificato dai media israeliani come appartenente alla brigata Kfir.

Dawood ha detto che lui e un altro ragazzino che era in auto hanno tentato di scappare dal veicolo dopo che è stato colpito per la prima volta e si sono nascosti sotto un ponte lì vicino per evitare altri colpi di arma da fuoco.

Nel frattempo Mahmoud è stato colpito a morte dalle fucilate e anche due fratelli sono rimasti seriamente feriti nell’episodio. Due dei feriti sono stati identificati da Ma’an come Majdi Badran, 16 anni, che arrivava dal Qatar, ed è stato colpito al torace, e Khaled Badran, in gravi condizioni.

Secondo Dawood le forze israeliane sono arrivate rapidamente ed hanno immediatamente iniziato a sfasciare l’auto palestinese, che si era schiantata contro il guardrail.

I genitori dei ragazzi, appena arrivati dal Qatar, hanno raccontato a Ma’an che stavano viaggiando in un’auto che seguiva quella in cui si trovavano i loro figli e sono stati obbligati ad assistere all’episodio che si è svolto davanti a loro e che hanno definito un “crimine israeliano”.

Gli operatori delle ambulanze della Mezzaluna Rossa palestinese hanno detto che i soldati israeliani hanno impedito ai soccorritori di raggiungere i palestinesi feriti per oltre un’ora e mezza.

Il padre di Mahmoud lavora come ambasciatore per il ministero degli Esteri palestinese in Arabia Saudita da parecchi anni, e fino al 1999 ha scontato una condanna a 15 anni nelle prigioni israeliane.

L’esercito israeliano ha ammesso di avere “erroneamente” aperto il fuoco contro passanti innocenti dopo che giovani palestinesi avrebbero lanciato pietre contro veicoli di coloni israeliani in quella zona. I mezzi di informazione israeliani inizialmente hanno comunicato che Mahmoud e i suoi amici che viaggiavano nell’auto erano “terroristi”.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha detto a Ma’an che al momento dell’incidente alcuni giovani palestinesi avevano lanciato pietre e bottiglie molotov contro automobili di coloni israeliani in circolazione sulla strada 443 a ovest di Ramallah, aggiungendo che “le forze israeliane hanno agito per proteggere altri veicoli dal pericolo immediato, hanno sparato contro i sospetti e i passanti sono stati erroneamente colpiti.”

La strada è la principale via di collegamento tra Gerusalemme e le colonie israeliane illegali nella Cisgiordania occupata, il che la rende una posizione privilegiata per i giovani palestinesi che lanciano pietre in quella zona.

Ai palestinesi è stato totalmente vietato l’uso della strada 443 – denominata “la strada dell’apartheid” dai palestinesi del luogo – fino al 2009, quando una sentenza della Corte Suprema israeliana ha stabilito che il divieto al transito da parte dei palestinesi dovesse essere tolto. Tuttavia le forze israeliane continuano a limitare fortemente l’accesso dei palestinesi alla strada con il posizionamento di checkpoint dove i palestinesi sono obbligati a sottoporsi a pesanti misure di sicurezza per ottenere il permesso di passare.

Martedì l’esercito israeliano ha aperto un’inchiesta sull’uccisione. Tuttavia, secondo l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, solo il 3% delle indagini intraprese dall’esercito israeliano hanno portato all’incriminazione contro soldati, cosa che lascia ai palestinesi ed ai gruppi per i diritti umani pochissime speranze che l’indagine possa avere effettive conseguenze.

Mercoledì il membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina Taysir Khalid, del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP) ha denunciato l’assassinio.

“Il fatto che le truppe israeliane sparino frequentemente agli incroci ed ai checkpoint militari in tutta la Cisgiordania è il risultato naturale dell’educazione prevalente e dell’incoaraggiamento da parte dei circoli militari e politici israeliani,” ha detto Khalid.

Ha aggiunto che prendere di mira giovani palestinesi riflette il “cieco razzismo” che permea la società israeliana.

Martedì il segretario generale dell’OLP Saeb Erekat ha duramente condannato l’omicidio dicendo: “Questo assassinio a sangue freddo riconferma la nostra richiesta al relatore speciale ONU in merito alle esecuzioni extragiudiziarie, sommarie o arbitrarie, perché inizi un’immediata e ampia indagine sulle uccisioni extragiudiziarie israeliane contro i palestinesi, soprattutto bambini,” afferma il comunicato.

“La comunità internazionale ha la responsabilità di smettere di concedere l’impunità ad Israele per i crimini che commette contro la terra e le persone della Palestina occupata.”

Tuttavia il ministro degli Esteri israeliano ha detto in risposta all’omicidio: “Se non fosse per la difficile situazione della sicurezza, che è interamente il risultato dell’istigazione e del terrorismo palestinese, Israele non sarebbe obbligato ad utilizzare la forza per proteggere i propri civili,” nonostante l’ammissione da parte dell’esercito israeliano che Badran non aveva niente a che vedere con il lancio di pietre.

Mahmoud è uno degli oltre 220 palestinesi che sono stati uccisi dalle forze israeliane e dai coloni da quando un’ondata di ribellione politica ha travolto i territori palestinesi e Israele in ottobre. Benché un numero notevole di palestinesi siano stati uccisi in scontri con le forze israeliane, per la maggior parte sono stati colpiti a morte dopo presunti attacchi e tentativi di attacco contro israeliani, con circa 30 israeliani uccisi durante lo stesso periodo.

Gruppi per i diritti umani hanno contestato la narrazione israeliana, sostenendo che le uccisioni di palestinesi da parte delle forze israeliane rappresentano “esecuzioni extragiudiziarie”, in quanto sono state messe in atto anche quando non c’erano minacce di immediato pericolo [per i soldati. Ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA della settimana 28 giugno- 4 luglio 2016

In Cisgiordania e Israele, nel corso di quattro attacchi e presunti attacchi ad opera di palestinesi, due israeliani sono stati uccisi e altri sei feriti; tre dei presunti responsabili degli attacchi sono stati uccisi sul posto

[di seguito il dettaglio degli eventi sopraccitati]. Il 30 giugno, nell’insediamento di Kiryat Arba’ (Hebron), un giovane palestinese ha accoltellato e ucciso una 13enne israeliana ed è stato successivamente ucciso dalle guardie di sicurezza dell’insediamento. Nello stesso giorno, a Netanya (Israele), un palestinese ha accoltellato e ferito due israeliani ed è stato successivamente ucciso da un civile israeliano. Il 1° luglio, nella zona H2 di Hebron, le forze israeliane hanno ucciso una 27enne palestinese che avrebbe tentato di accoltellare uno di loro. Più tardi, nello stesso giorno, sulla strada 60 (Hebron), ignoti hanno aperto il fuoco contro una macchina con targa israeliana, uccidendo un colono israeliano e ferendo la moglie e due figli di 15 e 13 anni; sono quindi fuggiti.

In conseguenza degli attacchi sopra riportati, le forze israeliane hanno chiuso diversi snodi stradali che collegano villaggi e città palestinesi dei governatorati di Hebron e Tulkarem. Gli snodi stradali ancora accessibili sono al momento controllati da posti di blocco, dove i soldati israeliani vagliano veicoli e passeggeri. Le chiusure hanno costretto la popolazione a ricercare percorsi alternativi per raggiungere gli snodi praticabili, con tempi di attesa che vanno da pochi minuti a più di un’ora. Conseguentemente, per i circa 890.000 abitanti dei due governatorati coinvolti [Hebron e Tulkarem], l’accesso ai servizi ed ai mezzi di sostentamento risulta pesantemente intralciato.

A Bani Na’im (governatorato di Hebron), città di 26.500 abitanti e residenza di numerosi presunti autori di recenti attacchi, tutti gli ingressi per il movimento veicolare sono stati bloccati, compreso l’unico ingresso destinato ai casi di emergenza, per definire i quali sono richiesti accordi preventivi. I funzionari israeliani hanno anche annunciato la revoca di permessi di lavoro e commerciali per 2.800 residenti della città, misura che, se attuata per lungo tempo, si prevede possa avere un impatto significativo sull’ economia.

Sempre in relazione con gli attacchi sopra riportati, i mezzi di informazione hanno riferito che Israele ha approvato un piano per la costruzione di circa 800 nuove abitazioni in vari insediamenti colonici israeliani, ed ha annunciato una gara d’appalto per la costruzione di 42 unità abitative nell’insediamento colonico di Kiryat Arba, luogo in cui si è verificato uno degli attacchi [vedi il primo paragrafo]. Contemporaneamente, sempre secondo quanto riferito dai mezzi di informazione, le autorità israeliane hanno approvato i piani per la costruzione di circa 600 unità abitative per i palestinesi residenti a Gerusalemme Est.

Il 1° luglio, al checkpoint di Qalandiya (Gerusalemme), un 63enne palestinese è morto per aver inalato gas lacrimogeno ed altri 21 palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane. L’episodio si è verificato quando un gran numero di uomini e ragazzi, con un’età non corrispondente ai criteri prefissati dalle autorità israeliane [avere meno di 12 o più di 45 anni] per accedere senza permesso a Gerusalemme Est per la preghiera dei venerdì di Ramadan, si sono riuniti presso il checkpoint di ingresso; al loro rifiuto di allontanarsi dall’area, le forze israeliane hanno risposto sparando lacrimogeni e granate assordanti. Almeno altri 16 palestinesi sono rimasti feriti cadendo mentre fuggivano dalla zona. Sono stati segnalati anche alcuni casi di lanci di pietre da parte di palestinesi, con conseguente ferimento di un soldato israeliano. Si stima che, nel quarto venerdì di Ramadan, sia stato concesso l’ingresso in Gerusalemme Est per pregare nella Moschea di Al Aqsa a circa 73.000 palestinesi detentori di documenti di identità della Cisgiordania.

Durante scontri verificatisi in altre zone della Cisgiordania, altri 58 palestinesi, undici dei quali minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Nell’episodio più grave, verificatosi prima di una demolizione punitiva (vedi sotto) nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme), 26 palestinesi sono stati feriti, 20 dei quali con armi da fuoco. Gli altri ferimenti sono stati riportati durante la manifestazione settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e durante operazioni di ricerca-arresto; la maggior quota di feriti è stata riscontrata a Dura (Hebron).

Complessivamente, in Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 89 operazioni di ricerca-arresto ed arrestato 162 palestinesi; il governatorato di Gerusalemme conta il più alto numero di arresti (95, tra cui 27 minori), il governatorato di Hebron il maggior numero di operazioni (28).

Nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme), le forze israeliane hanno distrutto, per punizione, le abitazioni di due palestinesi autori, nel dicembre 2015, di una aggressione con coltello a Gerusalemme Est; nel corso dell’aggressione furono uccisi due coloni israeliani, uno dei quali colpito da “fuoco amico” e gli stessi autori dell’aggressione. A seguito delle demolizioni, due famiglie di rifugiati, composte da nove persone, sono state sfollate.

Il 29 giugno, nella città di Ya’bad (Jenin), tre palestinesi sono morti e 14 sono rimasti feriti nel corso di uno scontro armato tra famiglie palestinesi. Nello stesso giorno, nella città di Nablus, in circostanze non chiare, sconosciuti armati hanno ucciso due membri delle forze di sicurezza palestinesi e gravemente ferito una donna palestinese.

Il 1° luglio, un gruppo armato palestinese ha lanciato un razzo verso la città israeliana di Sderot, danneggiando un edificio. Secondo quanto riferito, il giorno dopo, in risposta a questo attacco, l’esercito israeliano ha effettuato una serie di attacchi aerei contro siti appartenenti a gruppi armati palestinesi; è stato colpito anche un negozio nella parte orientale della città di Gaza, con il ferimento di due palestinesi e danni materiali. Ancora in questa settimana, in almeno quindici occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) a terra e in mare; non sono stati registrati feriti, ma pescatori ed agricoltori palestinesi hanno dovuto interrompere le loro attività.

In tre diversi episodi verificatisi a Burin (Nablus), Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Wadi Fukin (Hebron), decine di alberi di proprietà palestinese, un appezzamento di terreno coltivato e due serre sono state vandalizzate, secondo quanto riferito, da coloni israeliani. Ancora in questa settimana, nei pressi di Huwwara (Nablus), un palestinese è stato colpito da pietre e ferito da un gruppo di coloni israeliani e il suo veicolo danneggiato. Inoltre, in diverse occasioni, coloni israeliani armati si sono riuniti presso gli ingressi delle città di Salfit e Nablus, impedendo l’accesso e intimidendo i palestinesi presenti.

Sono stati riportati tre episodi di lancio di pietre, da parte di palestinesi contro veicoli israeliani sulla strada 60 e 463 (Ramallah) e in Gerusalemme Est, con conseguente ferimento di quattro israeliani e danni a tre veicoli. In altri due casi, vicino a Betlemme ed Hebron, palestinesi hanno lanciato bottiglie incendiarie verso veicoli israeliani; non sono stati segnalati danni.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto in entrambe le direzioni per cinque giorni (29, 30 giugno e 2, 3, 4 luglio), consentendo a quasi 3.000 persone l’uscita e ad oltre 1.600 l’ingresso a Gaza; secondo le autorità palestinesi di Gaza le persone precedentemente registrate ed in attesa di attraversare erano circa 30.000.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli

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Che cosa ci fanno i coloni alla “Marcia per l’Uguaglianza”?

+972 – 20 giugno 2016

di Haggai Matar

I coloni israeliani godono di bilanci preferenziali e sussidi, e giocano un ruolo fondamentale in un sistema di segregazione e espropriazione. Chi gli ha permesso di unirsi alla “Marcia per l’Uguaglianza” con le comunità di Israele più trascurate e svantaggiate?

Questa settimana attivisti sociali israeliani e dirigenti di amministrazioni locali hanno iniziato una marcia verso Gerusalemme, la “Marcia per l’Uguaglianza”, per chiedere uguaglianza nei finanziamenti pubblici per i servizi sociali ed educativi nelle loro trascurate comunità delle aree economicamente e geograficamente periferiche di Israele.

Mentre i manifestanti avanzavano lungo la strada dal deserto del Negev verso Gerusalemme, sono stati raggiunti da alcuni membri della Knesset [il Parlamento israeliano. Ndtr. ], dal capo del più importante sindacato del Paese e da altri.

La lotta in merito ai finanziamenti per l’educazione ed il sistema di welfare destinati alle comunità svantaggiate di Israele è importante e giusta. Anche l’idea di una manifestazione inclusiva, che promuova l’unità tra residenti di comunità periferiche disperse, è ottima. Una tale lotta merita tutto il nostro appoggio.

C’è solo un problema: la partecipazione dei coloni. Tra i partecipanti all’iniziativa, che comprende i sindaci di due delle città israeliane più impoverite, Rahat e Netivot (rispettivamente, un Comune beduino e una cittadina in maggioranza composta da mizrahi [ebrei di origine araba. Ndtr.]), c’erano i dirigenti dei governi locali delle colonie Binyamin, Gush Etzion e delle colline a sud di Hebron, in Cisgiordania. I dirigenti delle colonie non sono arrivati per esprimere solidarietà con le più deboli comunità israeliane, ma piuttosto per cercare e trovare spazio per loro stessi dietro lo striscione impugnato dalle città ignorate e oppresse della periferia israeliana.

La loro partecipazione solleva tre domande inquietanti: in primo luogo, di quale discriminazione nella destinazione dei fondi pubblici soffrono le colonie della Cisgiordania? (Non parlo degli insediamenti degli ortodossi. Le colonie degli ultra-ortodossi effettivamente patiscono di gravi carenze nei finanziamenti). Solo ieri il governo ha approvato il trasferimento di ulteriori 82 milioni di shekel [ quasi 19 milioni di €] agli insediamenti della Cisgiordania, oltre ai 340 milioni [più di 78 milioni di €] che sono stati promessi come parte di un accordo di coalizione.

E si tratta di un’integrazione al bilancio normalmente destinato alle colonie. Questa settimana l’istituto di ricerca “Molad” [gruppo di analisti israeliano di tendenza progressista. Ndtr.] ha evidenziato che i servizi pre-scolastici nelle colonie delle colline di Hebron ricevono per bambino migliaia di shekel in più rispetto a quanti sono destinati ad Ashkelon e ad Ashdod, città all’interno della Linea Verde (confine tra Israele e Cisgiordania prima del ’67. Ndtr.] considerate periferiche. Molad nota che i fondi del governo per lo sviluppo, l’alimentazione e l’agricoltura sono più consistenti negli insediamenti, e in generale il governo investe il 28% in più per un colono della Cisgiordania che per un residente in Galilea [nel nord di Israele. Ndtr.] ( e ciò escludendo i costi aggiuntivi per le spese della sicurezza negli insediamenti della Cisgiordania).

Un altro esempio: il centro Adva [centro indipendente di studi politici di Tel Aviv. Ndtr.] ha scoperto che nel 2014 la spesa pro capite di un’amministrazione locale nelle colonie non ortodosse della Cisgiordania è stata superiore a quanto è stato speso nei 15 Comuni considerati economicamente più importanti all’interno della Linea Verde.

Come ha ripetutamente evidenziato Dani Gutwein [professore di storia ebraica all’università di Haifa, Ndtr.], anche nella sua serie video “Il piatto d’argento” [documentari della rete televisiva israeliana “Canale 8”. Ndtr.], gli insediamenti sono un’alternativa, che Israele ha creato al di fuori dei propri confini, allo Stato sociale. Negli insediamenti le case costano meno, gli investimenti pubblici nell’edilizia e nello sviluppo sono molto più alti e i servizi fondamentali, come i trasporti pubblici, sono sovvenzionati ad un livello significativamente superiore. I servizi pubblici che stanno scomparendo all’interno di Israele abbondano dall’altra parte della Linea Verde.

Uguaglianza sotto un regime militare

A livello più basilare, se prendiamo in considerazione la situazione al di fuori del contesto, ci dovremmo rallegrare che il governo stia ancora investendo nei settori tipici dello Stato sociale, ma questo ci porta alla seconda domanda: quale posto hanno, in una manifestazione per l’uguaglianza, i dirigenti di una classe privilegiata in un regime militare separato in base alla “razza”*? Unendosi alla marcia, i dirigenti delle colonie stanno cercando di rendere normale la propria posizione nella società israeliana, per presentare se stessi semplicemente come un qualunque governo locale delle comunità israeliane, che per caso si trova fuori dai confini dello Stato ed è illegittimo in base alle leggi internazionali. Cercano di eliminare il fatto che la loro stessa esistenza gioca un ruolo attivo nella quotidiana espropriazione dei palestinesi e nella perpetuazione di sistemi giuridici paralleli, uno per gli ebrei e uno per gli arabi.

Mentre i sindaci delle città ebraiche del Negev potrebbero voler marciare insieme a quelli delle vicine cittadine arabe di Hura e Rahat, non si vedrebbero i capi del consiglio dei coloni delle colline a sud di Hebron marciare insieme agli abitanti palestinesi di Susya, sottoposti al regime militare israeliano, in cui loro giocano un ruolo attivo. In virtù della loro partecipazione, i rappresentanti dei coloni hanno apposto un piccolo asterisco sullo striscione della marcia per l’uguaglianza, una nota a pié di pagina che dice: “Uguaglianza, ma non per i palestinesi dei territori occupati.”

Il capo del consiglio regionale dell’insediamento di Shomron, Yossi Dagan, ha enunciato molto chiaramente questo approccio discriminatorio in un editoriale di “Ynet” [sito web di notizie del giornale israeliano “Yedioth Aharonot’. Ndtr.] del lunedì, edizione in ebraico: “Un bambino è un bambino e merita le stesse opportunità, che sia nato a Tel Aviv, a Karnei Shomron o a Taibe.” (Karnei Shomron è una colonia in Cisgiordania, Taibe è una città araba all’interno di Israele).

Certo, ci dovrebbe essere parità di diritti per i bambini di Tel Aviv, Karnei Shomron e Taibe, per quel che riguarda Dagan; ma non per i bambini di Burkin, Nablus o Deir Istiya, città e villaggi palestinesi che soffrono quotidianamente a causa dell’esistenza dell’insediamento che lui guida – per qualche ragione loro rimangono esclusi. E’ qui che Dagan traccia il limite, e si porta dietro tutta la manifestazione per l’uguaglianza.

Perciò, cosa ci fanno i coloni alla manifestazione? Cercano una legittimazione per se stessi. Si stanno ritagliando alleanze con attivisti sociali e sindaci di comunità che effettivamente sono prive di servizi e discriminate, infiltrandosi in una lotta sociale nel tentativo di annullare le differenze tra loro e la reale periferia economica e sociale in Israele.

E questo ci porta alla nostra terza domanda: perché lasciare che si uniscano alla manifestazione? Perché il sindaco di Sakhnin, una grande città araba in Israele, è disposto ad andare insieme a loro? Perché il sindaco di Yerucham, un pacifista del partito laburista, è d’accordo? Perché il “movimento delle periferie” sta marciando con loro, mano nella mano?

Non auguro altro che il successo per la “marcia per l’uguaglianza”, ma fatela senza i coloni.

*i traduttori di Zeitun non condividono l’uso del termine “razza”, ma per rispettare l’opinione dell’autore hanno deciso di mantenere la definizione originale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La “preghiera per la pioggia” della Palestina:in che modo Israele usa l’acqua come un’arma da guerra.

 

di Ramzy Baroud

Ma’an News – 22 giugno 2016

Intere comunità anche in Cisgiordania non hanno accesso all’acqua o hanno avuto una riduzione di circa la metà della fornitura.

Questo sviluppo allarmante è durato per settimane, da quando l’impresa idrica nazionale di Israele, “Mekorot”, ha deciso di interrompere, o ridurre in modo significativo, le sue forniture d’acqua a Jenin, Salfit e a molti villaggi attorno a Nablus, tra le altre zone.

Secondo il primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese Rami Hamdallah, Israele ha intrapreso una “guerra dell’acqua” contro i palestinesi. L’ironia della vicenda risiede nel fatto che quella fornita da “Mekorot” è in realtà acqua palestinese, di cui Israele si è ingiustamente appropriato, proveniente dalle riserve acquifere della Cisgiordania. Mentre gli israeliani, comprese le colonie illegali in Cisgiordania, ne usano la grande maggioranza, i palestinesi ricomprano la loro stessa acqua a prezzi alti.

Riducendo le forniture idriche in un momento in cui i funzionari israeliani stanno progettando di esportare acqua essenzialmente palestinese, Israele ancora una volta sta utilizzando l’acqua come una forma di punizione collettiva.

Non è certo una novità. Ricordo ancora la preoccupazione nella voce dei miei genitori tutte le volte che temevano che la fornitura d’acqua stesse raggiungendo un livello pericolosamente basso. Si trattava di una discussione pressoché quotidiana in casa mia. Ogni volta che scoppiavano scontri tra ragazzini che lanciavano pietre e le forze di occupazione israeliane nei dintorni del campo di rifugiati, noi correvamo istintivamente sempre a riempire i pochi secchi d’acqua e bottiglie che avevamo sparsi in giro per la casa.

Questo accadeva durante la prima Intifada, o rivolta, palestinese scoppiata nel 1987 nei Territori Palestinesi Occupati.

Ogni volta che scoppiavano incidenti, una delle prime azioni messe in atto dall’amministrazione civile israeliana (una denominazione meno sinistra per indicare gli uffici dell’esercito di occupazione israeliano) era punire collettivamente l’intera popolazione di qualsiasi campo di rifugiati si ribellasse.

Le misure prese dall’esercito israeliano divennero copiose, anche se con il tempo si fecero sempre più vendicative: un rigido coprifuoco militare (che significava la chiusura dell’intera zona e il confinamento di tutti gli abitanti nelle loro case, sotto minaccia di morte); l’interruzione della corrente elettrica e la riduzione delle forniture idriche. Ovviamente, queste misure venivano prese solo nella prima fase della punizione collettiva, che durava per giorni o settimane, a volte persino mesi, punendo qualche campo di rifugiati fino alla fame. Poiché c’era poco che i rifugiati potessero fare per sfidare l’autorità di un esercito ben armato, essi investivano ogni loro magra risorsa o tempo a disposizione per ingegnarsi a sopravvivere.

Di qui l’ossessione per l’acqua, perché una volta che la fornitura era interrotta, non c’era niente da fare; tranne, naturalmente, la “Salat Al-Istisqa”, ossia la “Preghiera per la pioggia” che i musulmani osservanti invocano durante i periodi di siccità. Gli anziani del campo insistevano sul fatto che funzionasse davvero, e riportavano storie miracolose del passato, quando questa speciale preghiera aveva dato risultati durante l’estate, quando c’era meno da aspettarsi che piovesse.

In effetti molti più palestinesi che in ogni altra epoca hanno invocato la pioggia nelle loro preghiere dal 1967. Quell’anno, circa 49 anni fa, Israele ha occupato le due regioni rimanenti della Palestina storica: la Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e la Striscia di Gaza. E durante quegli anni, Israele ha fatto ricorso ad una costante politica di punizioni collettive, limitando ogni sorta di libertà e utilizzando il rifiuto di fornire l’acqua come un’arma.

In effetti l’acqua è stata utilizzata come un’arma per soggiogare i palestinesi ribelli durante molte fasi della loro lotta. Di fatto questa storia risale alla guerra del 1948, quando le milizie sioniste hanno interrotto le forniture di acqua a moltissimi villaggi palestinesi attorno a Gerusalemme per permettere la pulizia etnica di quella regione.

Durante la “Nakba” (o “Catastrofe”) del 1948, ogni volta che un villaggio o una cittadina venivano conquistati, le milizie distruggevano immediatamente i suoi pozzi per impedire agli abitanti di tornare. Oggi gli illegali coloni israeliani utilizzano ancora questa tattica.

Anche l’esercito israeliano ha continuato ad utilizzarla, soprattutto durante la prima e la seconda rivolta. Nel corso della seconda Intifada, gli aerei israeliani hanno bombardato il sistema idrico di qualunque villaggio o campo di rifugiati che avevano progettato di invadere e sottomettere. Durante l’invasione del campo di rifugiati di Jenin ed il massacro dell’aprile 2002, le forniture di acqua del campo sono state fatte saltare in aria prima che i soldati entrassero nel campo da ogni direzione, uccidendo e ferendo centinaia di persone.

Gaza rimane finora l’esempio più estremo di punizione collettiva riguardante l’acqua. Durante la guerra è stato preso di mira non solo il sistema idrico, ma anche i generatori di elettricità utilizzati per purificare l’acqua sono stati fatti saltare in aria dal cielo. E finché sarà in vigore l’assedio decennale, ci sono poche speranze di riparare in modo permanente entrambi.

C’è ormai una consapevolezza condivisa del fatto che gli accordi di Oslo siano stati un disastro politico per i palestinesi; è tuttavia meno noto come Oslo abbia facilitato l’attuale crescente diseguaglianza in Cisgiordania. Il cosiddetto “Oslo II”, o accordo interinale israeliano-palestinese del 1995, ha separato il sistema idrico di Gaza dalla Cisgiordania, lasciando così alla Striscia lo sviluppo delle sue fonti di acqua situate all’interno dei confini. Con l’assedio e le periodiche guerre le falde acquifere producono in totale tra il 5 e il 10% dell’acqua potabile. Secondo l’ANERA [ong statunitense che si occupa di interventi umanitari in Medio Oriente. Ndtr.], il 90% dell’acqua di Gaza “non è idonea per il consumo umano.”

Pertanto la maggior parte dei gazawi sopravvive con acqua inquinata dagli scarichi o non potabilizzata. Ma la Cisgiordania dovrebbe, per lo meno teoricamente, godere di un maggior accesso all’acqua rispetto a Gaza. Eppure non è così. La più grande risorsa idrica della Cisgiordania è l'”Acquifero montano”, che include una serie di bacini: settentrionale, occidentale e orientale. La disponibilità di questi bacini da parte degli abitanti della Cisgiordania è limitata da Israele, che nega loro anche l’accesso alle acque provenienti dal fiume Giordano e all'”Acquifero costiero”. “Oslo II”, che era stato pensato come un accordo temporaneo fino al termine dei negoziati per lo status definitivo, ha sancito l’attuale disparità, concedendo ai palestinesi meno di un quinto della quantità di acqua di cui gode Israele.

Ma neppure questo accordo sfavorevole è stato rispettato, in parte perché il comitato congiunto [tra l’ente di controllo israeliano e quello palestinese. Ndtr.] sulla questione dell’acqua concede ad Israele il diritto di veto sulle richieste palestinesi. Praticamente, ciò si traduce nel fatto che il 100% di tutti progetti idrici israeliani ricevono l’approvazione, compresi quelli nelle colonie illegali, mentre circa metà delle richieste palestinesi viene rifiutata.

Attualmente, secondo Oxfam [confederazione di ong internazionali. Ndtr.] Israele controlla l’80% delle risorse idriche palestinesi, mentre “i 520.000 coloni israeliani utilizzano circa sei volte la quantità di acqua rispetto a quella che utilizzano i 2.6 milioni di palestinesi della Cisgiordania.”

Secondo Stephanie Westbrook, che ha scritto sulla rivista israeliana “972”, i motivi che stanno dietro tutto ciò sono evidenti,: “L’impresa che fornisce l’acqua è ‘Mekorot’, l’azienda idrica nazionale israeliana. Non solo ‘Mekorot’ gestisce più di 40 pozzi in Cisgiordania, appropriandosi delle risorse idriche palestinesi, ma in pratica Israele controlla anche le valvole di derivazione, decidendo chi ha l’acqua e chi no.”

“Non c’è da sorprendersi che la priorità venga data alle colonie israeliane mentre il servizio alle città palestinesi è regolarmente ridotto o interrotto,” come in questo momento.

L’ingiustizia di tutto ciò è inoppugnabile. Infatti per circa cinque decenni Israele ha messo in atto le stesse politiche contro i palestinesi senza molte proteste o misure significative da parte della comunità internazionale.

Con le temperature di quest’estate in Cisgiordania, arrivate a 38°, secondo quanto riportato famiglie intere vivono con appena 2-3 litri a testa al giorno. Il problema sta raggiungendo proporzioni catastrofiche. Questa volta la tragedia non può essere ignorata, in quanto le vite ed il benessere di intere comunità sono a repentaglio.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

Ramzy Baroud è un editorialista di fama internazionale, autore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia mai raccontata di Gaza.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA della settimana 14 – 20 giugno 2016

In Area C, nel governatorato di Hebron, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito sette strutture, cinque delle quali si trovavano nel villaggio di Susiya:

sfollati 19 palestinesi, tra cui 12 minori. All’inizio di questo mese, le autorità israeliane avevano annunciato che durante il mese di Ramadan, iniziato il 6 giugno, vi sarebbe stata una sospensione delle demolizioni per mancanza di permessi di costruzione, ad eccezione delle strutture che potessero costituire una minaccia alla sicurezza di Israele.

Il 14 giugno, la Corte Suprema israeliana ha respinto una petizione volta ad evitare la demolizione punitiva delle case di due palestinesi del Campo Profughi di Qalandiya i quali, nel mese di dicembre 2015, a Gerusalemme Est, avevano compiuto una aggressione con coltelli. Nel mese di novembre 2015, Robert Piper, coordinatore umanitario per i Territori palestinesi occupati, aveva invitato le autorità israeliane a fermare le demolizioni punitive poiché costituiscono una forma di punizione collettiva, illegale secondo il diritto internazionale.

È stato riferito che, nel corso delle ultime due settimane, la società idrica israeliana Mekorot ha ridotto la fornitura di acqua a dodici comunità palestinesi comprese nei governatorati di Salfit, Nablus e Jenin. Oltre 53.000 persone residenti in queste aree sono state costrette, per far fronte alle loro necessità domestiche e di sostentamento, ad utilizzare in misura maggiore la costosa acqua da autocisterna. I motivi di questa riduzione restano controversi. In alcune delle comunità colpite, l’8 giugno si è svolta una protesta contro questa situazione.

In due distinti casi, le autorità israeliane hanno confiscato due trattori di proprietà privata, una pompa ed una cisterna che consentivano l’approvvigionamento di acqua per tre famiglie palestinesi residenti nel nord della Valle del Giordano. La confisca è stata motivata, in un caso, con la mancanza delle necessarie autorizzazioni e, nell’altro caso, con il fatto di trovarsi in un’area destinata all’addestramento militare. Ancora nella settimana, in Area C sono stati notificati ordini di arresto-lavori e di demolizione per due invasi per la raccolta dell’acqua, per una scuola materna in costruzione e per sei strutture residenziali disabitate.

In Cisgiordania, 30 palestinesi, dieci dei quali minori, sono stati feriti dalle forze israeliane durante scontri scoppiati nel corso di proteste in Kafr Qaddum (Qalqiliya) e nel Campo Profughi di Ayda (Betlemme), così come nel corso di cinque operazioni di ricerca-arresto, tre delle quali effettuate nel governatorato di Qalqiliya. Il 19 giugno, un ventiduenne palestinese, malato di mente, è morto a causa delle ferite subite dalle forze israeliane durante scontri verificatisi il 4 maggio 2016 nel villaggio di Sa’ir (Hebron). Sempre in questa settimana, un 51enne palestinese è stato aggredito fisicamente in circostanze poco chiare ed è stato ricoverato in ospedale per le cure mediche.

Nella Striscia di Gaza, durante la settimana, in 22 occasioni le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) a terra e in mare; non sono stati registrati feriti. In uno degli episodi, quattro barche da pesca sono state sequestrate e portate in Israele, dieci pescatori palestinesi sono stati arrestati, otto dei quali sono stati rilasciati dopo poche ore.

Nel villaggio di Kafr ‘Aqab (Gerusalemme), nel corso di una operazione di ricerca, in scontri con un gruppo di palestinesi armati, le forze di sicurezza palestinesi hanno ferito alla testa, con armi da fuoco, un 15enne palestinese. Altri due scontri armati si sono verificati tra le forze di sicurezza palestinesi e residenti palestinesi dei Campi Profughi di Ramallah e Jenin; non sono stati segnalati feriti.

Un 23enne palestinese è stato ferito dalla deflagrazione di un residuato bellico (ERW) in una zona agricola in Ash-Shuja’iyeh, ad est di Gaza City. Dalla fine delle ostilità [con Israele] del luglio-agosto 2014, nella Striscia di Gaza 13 palestinesi sono stati uccisi e 108 sono stati feriti da residuati bellici.

Nel secondo venerdì di Ramadan (17 giugno), a circa 73.000 palestinesi, in possesso di documenti di identificazione della Cisgiordania, è stato concesso l’ingresso in Gerusalemme Est occupata per pregare nel Complesso della Moschea di Al Aqsa. I maschi di età superiore ai 45 anni, i ragazzi sotto i 12 anni e le donne di tutte le età hanno potuto attraversare senza alcun permesso. Le autorità israeliane, in conseguenza dell’attacco verificatosi l’8 giugno a Tel Aviv, mantengono ancora la sospensione per circa 83.000 permessi rilasciati a palestinesi della Cisgiordania in occasione del mese di Ramadan.

È stato riferito che, nel villaggio di Huwwara (Nablus), un colono israeliano ha sparato contro un palestinese che, fermo ad un incrocio stradale, attendeva un mezzo pubblico. Sono stati inoltre segnalati, nelle aree di Ramallah e Nablus, due episodi di lancio di pietre da parte di coloni israeliani che hanno provocato il ferimento di due palestinesi e danni ai loro veicoli.

Secondo i media israeliani quattro coloni israeliani, tra cui un minore, sono stati feriti da pietre lanciate da palestinesi contro veicoli israeliani nel villaggio di Huwwara, vicino a Burin (Nablus) e presso il villaggio di Jaba’ (Gerusalemme). Dopo il primo episodio, le forze israeliane hanno chiuso quattro strade della zona per almeno due giorni, ed hanno intensificato le ricerche ai checkpoint. In un altro caso, a Gerusalemme Est, nell’insediamento colonico di Talpiot Est, palestinesi hanno lanciato bottiglie incendiarie contro case, senza causare danni; in risposta, le forze israeliane hanno chiuso con blocchi di cemento una strada nel vicino quartiere di Jabal al Muakkbir. Sono stati segnalati altri cinque casi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte palestinese contro veicoli israeliani, di cui due con danni.

Durante il periodo di riferimento il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Dall’inizio del 2016, il valico è stato parzialmente aperto per soli nove giorni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza oltre 30.000 persone sono registrate ed in attesa di attraversare.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 21 giugno, le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro due veicoli palestinesi, uccidendo un ragazzo di 15 anni e ferendone altri tre, tra cui due minori, che stavano tornando a casa nel villaggio di Beit ‘Ur at Tahta (Ramallah). L’episodio ha fatto seguito al ferimento di tre persone che viaggiavano su una macchina israeliana colpita da pietre; l’esercito israeliano ha confermato che i palestinesi uccisi e feriti non erano implicati in questo episodio. Le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine penale.

Il 21 giugno, nel villaggio Hajja (Qalqiliya), le forze israeliane hanno demolito la casa di famiglia del colpevole di una aggressione con coltello avvenuta nel marzo 2016, nel corso della quale un cittadino straniero e l’autore stesso erano stati uccisi; a causa della demolizione, cinque persone, tra cui due minori, sono state sfollate.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli

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L’acqua è l’unica questione che mette (ancora) in difficoltà Israele con il pretesto della sicurezza e di dio.

di Amira Hass | 22 giugno 2016 | Haaretz

I portavoce israeliani hanno pronte tre risposte da utilizzare quando rispondono alle domande sulla carenza d’acqua nelle città palestinesi della Cisgiordania, che emerge chiaramente rispetto al pieno soddisfacimento idrico delle colonie:

1) Le condutture palestinesi sono vecchie e di conseguenza vi sono perdite d’acqua; 2) i palestinesi si rubano l’acqua tra loro e la rubano agli israeliani; 3) in generale, Israele nella sua grande generosità, ha raddoppiato la quantità d’acqua che distribuisce ai palestinesi in confronto a quella stabilita dagli accordi di Oslo.

Distribuzione”, i portavoce scriveranno nelle loro risposte. Non diranno mai che Israele vende ai palestinesi 64 milioni di m³ d’acqua all’anno invece dei 31 milioni di m³ stabiliti dagli accordi di Oslo. Accordi che sono stati firmati nel 1994 e che era previsto scadessero nel 1999. Non diranno che Israele vende ai palestinesi l’acqua dopo avergliela rubata.

Complimenti per la demagogia. Complimenti per rispondere solo con un ottavo della verità. L’acqua è l’unica questione per cui Israele è (ancora) in difficoltà nel difendere la sua politica discriminatoria, oppressiva e devastante con il pretesto della sicurezza e di dio. Per questo deve confondere e stravolgere questo fatto fondamentale: Israele controlla le risorse idriche. Ed avendone il controllo, impone il contingentamento della quantità di acqua che i palestinesi hanno il permesso di produrre e consumare. In media i palestinesi consumano 73 litri pro capite al giorno. Al di sotto della quantità minima necessaria. Gli israeliani consumano in media 180 litri al giorno, e c’è chi afferma che sono anche di più. E qui, a differenza di là, non troverete migliaia di persone che consumano 20 litri al giorno. D’estate.

Vero, alcuni palestinesi rubano l’acqua. Contadini disperati, i soliti imbroglioni. Se non ci fosse la mancanza d’acqua ciò non accadrebbe. Una gran parte dei ladri sta nell’area C, sotto il pieno controllo di Israele. Per cui, per favore, lasciate all’IDF e alla polizia il compito di trovare tutti i criminali. Ma giustificare la crisi con il furto, questo è un inganno.

Con gli accordi di Oslo, Israele ha imposto una suddivisione vergognosa, razzista , arrogante e brutale delle risorse idriche in Cisgiordania: l’80% agli israeliani (su entrambi i lati della Linea Verde) e il 20 % ai palestinesi ( da pozzi perforati prima del 1967, che i palestinesi continuano a sfruttare; dalla Mekorot, l’azienda idrica, da pozzi da trivellare in futuro dal bacino acquifero montano; da pozzi e da sorgenti per uso agricolo. Tra l’altro, molte sorgenti, si sono prosciugate a causa dei pozzi israeliani troppo profondi o perché i coloni se ne sono impadroniti. Le vie del furto non conoscono confini.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Israele riconosce di aver tagliato le forniture idriche alla Cisgiordania ma incolpa l’Autorità Nazionale Palestinese

Israele sostiene che l’intensa ondata di calore nella regione, insieme al rifiuto dell’Autorità Palestinese per le Acque di approvare un incremento delle infrastrutture ha portato “all’incapacità delle condutture vecchie e insufficienti di far arrivare tutta l’acqua necessaria.”

di Amira Hass – 21 giugno 2016- Haaretz

Dall’inizio di questo mese decine di migliaia di palestinesi hanno patito i pesanti effetti di un drastico taglio nelle forniture idriche della Mekorot, la compagnia israeliana dell’acqua.

Nella regione di Salfit, in Cisgiordania, e in tre villaggi a est di Nablus le abitazioni sono rimaste senza acqua corrente per più di due settimane. Alcune fabbriche hanno chiuso, orti e vivai sono andati in rovina e animali sono morti di sete o sono stati venduti ad allevatori al di fuori delle zone colpite.

La gente ha cercato di arrangiarsi attingendo acqua da pozzi agricoli, comprando acqua minerale o pagando acqua distribuita da grandi cisterne per uso domestico e per innaffiare le loro coltivazioni. Ma procurarsi acqua in questo modo è estremamente dispendioso.

Fonti ufficiali dell’Autorità Palestinese per le Acque hanno affermato ad Haaretz che personale di Mekorot ha detto loro che i tagli nelle forniture dureranno per tutta l’estate. Queste fonti sostengono che gli è stato detto dagli israeliani che c’è una carenza d’acqua e che si deve fare il possibile per garantire che i serbatoi locali di acqua (situati nelle colonie) rimangano pieni in modo da mantenere la pressione necessaria per far scorrere l’acqua attraverso le condutture che portano alle altre colonie ed alle comunità palestinesi.

Impiegati municipali palestinesi affermano che i lavoratori palestinesi dell’Amministrazione civile [in realtà militare, autorità israeliana che governa sui territori occupati. Ndtr.], inviati a regolare le quantità di acqua nelle condutture di Mekorot [compagnia israeliana dei servizi idrici, che fornisce anche i palestinesi. Ndtr.] hanno detto loro che le interruzioni nelle forniture sono state fatte per soddisfare la richiesta di acqua da parte degli insediamenti della zona, in aumento per le alte temperature. Tagli nelle forniture simili ci sono stati lo scorso anno nelle stesse aree, quando avvennero gravi interruzioni del servizio idrico, anche in quel caso durante il Ramadan.

Mekorot non ha voluto rispondere alle domande, indirizzando Haaretz all’Autorità Israeliana delle Acque e al ministero degli Esteri. Uri Schor, portavoce dell’Autorità per le Acque, ha scritto che la quantità di acqua che Israele vende ai palestinesi in tutta la Cisgiordania, compresa la zona di Salfit, è aumentata durante gli anni.

“Si è determinata una carenza idrica sia per israeliani che per palestinesi localizzata nel nord della Samaria a causa del consumo particolarmente elevato dovuto al caldo intenso nella regione,” ha scritto Schor. Ha aggiunto che la carenza è dovuta al fatto che l’Autorità Palestinese delle Acque si rifiuta di approvare un aumento delle infrastrutture idriche in Cisgiordania attraverso il comitato dell’acqua congiunto, “che ha portato all’incapacità delle condutture vecchie e insufficienti di far arrivare tutta l’acqua necessaria nella regione.”

Una fonte della sicurezza israeliana ha detto che anche gli insediamenti [isrealiani] si stanno lamentando della carenza d’acqua.

I palestinesi smentiscono questo ostruzionismo e dicono che l’acqua arriva alle colonie.

Un importante funzionario dell’Autorità Palestinese per le Acque ha negato che il rifiuto palestinese abbia contribuito alla mancanza d’acqua.

“L’Autorità Israeliana sta mentendo all’opinione pubblica,” ha affermato. “Le tubature non necessitano di potenziamento. USAID [agenzia statale USA che si occupa degli aiuti all’estero. Ndtr.], per esempio, ha appena terminato un nuovo condotto a Deir Sha’ar per rifornire la popolazione di Hebron e di Betlemme. Israele dovrebbe aumentare il flusso dalla stazione di pompaggio di Deir Sha’ar e più di mezzo milione di palestinesi riceverebbero la quantità di acqua che gli spetta.

“Peraltro Israele ha proposto un progetto per aumentare la portata di una conduttura che serve le colonie israeliane nella zona di Tekoa, e l’Autorità Israeliana delle Acque sta ricattando l’Autorità Palestinese perché approvi questo progetto in cambio dell’aumento delle forniture dalla stazione di pompaggio di Deir Sha’ar.”

Schor ha fatto l’esempio dei mesi di gennaio-maggio degli ultimi quattro anni, che mostra che quest’anno c’è stato effettivamente un aumento da 2.7 milioni di m³ nel 2013 a 3.48 milioni di m³ della quantità di acqua fornita ai distretti di Salfit e Nablus,.

Ma i dati dell’Autorità Palestinese delle Acque mostrano che nel maggio di quest’anno c’è stato un taglio nelle forniture di acqua alla città di Bidya, con 12.000 residenti, da 50.470 m³ in marzo a 43.440 m³ in maggio. Nel maggio dello scorso anno, Bidya ha ricevuto 45.000 m³.

Nella cittadina di Qarawat Bani Hassan in maggio il consumo è stato superiore a quello di marzo (17.000 m³ rispetto a 15.000 m³), ma nel maggio dell’anno scorso il consumo aveva raggiunto 20.000 m³ e, secondo un funzionario palestinese, non c’è modo di spiegare la riduzione del consumo se non con una caduta delle forniture.

Nel contempo la riduzione delle forniture in giugno è stata molto più netta, fino al 50% all’ora.

Gli accordi di Oslo, che dovevano rimanere in vigore fino al 1999, hanno mantenuto il controllo israeliano sulle fonti idriche della Cisgiordania e sono discriminatorie nella distribuzione dell’acqua. In base agli accordi, Israele riceve l’80% dell’acqua dall’acquifero delle montagne della Cisgiordania, mentre il resto va ai palestinesi. L’accordo non pone limiti alla quantità di acqua che Israele può prelevare, ma impone ai palestinesi un massimo di 118 milioni di m³ dai pozzi esistenti prima degli accordi, e di altri 70 milioni di m³ da nuove perforazioni.

Per varie ragioni tecniche e per imprevisti errori di trivellazione nel bacino orientale dell’acquifero (l’unica parte in cui l’accordo consente ai palestinesi di effettuare perforazioni), in pratica i palestinesi producono meno acqua di quanto stabilito dagli accordi. Secondo B’Tselem [ong israeliana per i diritti umani. Ndtr.], fino al 2014 i palestinesi hanno avuto solo il 14% dell’acqua dell’acquifero. E’ anche per questo che Mekorot sta vendendo ai palestinesi il doppio della quantità di acqua previsto nell’accordo di Oslo, 64 milioni di m³, invece di 31.

Il coordinatore delle attività governative nei territori ha detto: “A causa dell’incremento dei consumi di acqua durante l’estate, è necessario controllare e regolare il flusso per rendere disponibile la maggior fornitura possibile di acqua a tutte le popolazioni. Dato questo problema, il capo dell’Amministrazione Civile ha approvato un regolamento d’emergenza per mettere in funzione la trivella “Ariel 1” e incrementare la quantità di acqua per i residenti della Samaria settentrionale, soprattutto nell’area di Salfit; altri 5.000 m³ di acqua all’ora sono stati approvati anche per le colline di Hebron, a sud.”

Il coordinatore ha anche sottolineato che l’Amministrazione Civile deve lottare contro i furti dalle condutture che arrivano alle comunità palestinesi. Ha detto che solo ieri ha scoperto due furti di acqua dalla conduttura che fornisce l’area di Salfit.

(traduzione di Amedeo Rossi)