Rapporto OCHA sulla settimana 17- 23 maggio 2016

Una 17enne palestinese è stata uccisa dalla polizia di frontiera israeliana mentre si avvicinava al checkpoint di Beit Iksa, a nord di Gerusalemme. Secondo i media israeliani, prima di essere colpita, la ragazza aveva sollevato un coltello e non aveva rispettato l’ordine di fermarsi.

Non sono stati segnalati feriti tra le forze israeliane. Dall’inizio del 2016, nel corso di aggressioni e presunte aggressioni, le forze israeliane hanno ucciso 52 palestinesi sospetti aggressori, mentre, nel corso dell’ultimo trimestre del 2015, ne furono uccisi 89. Le circostanze di molti episodi hanno creato preoccupazione per l’uso eccessivo della forza.

Le autorità israeliane hanno restituito alle loro famiglie i cadaveri di cinque palestinesi, sospettati di aver perpetrato attacchi contro israeliani. Vengono tuttora trattenuti i corpi di altri nove palestinesi. Il 24 maggio, le autorità israeliane hanno comunicato che avrebbero sospeso la consegna dei cadaveri, a causa di un episodio di presunta violazione delle condizioni concordate per lo svolgimento dei funerali.

In Cisgiordania almeno 49 palestinesi, tra cui quattro minori e una donna, sono stati feriti dalle forze israeliane, in prevalenza durante scontri; la maggior parte dei ferimenti si sono verificati durante le manifestazioni per commemorare il 68° anniversario di quello che, in riferimento ai fatti del 1948, i palestinesi definiscono “Al-Nakba” [la Catastrofe]: in particolare ad Al ‘Eizariya e Silwan (Gerusalemme) e a Ni’lin (Ramallah). Altri feriti si sono avuti nelle manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya); a Deir Isitya (Salfit), durante una protesta contro la recinzione di una strada principale che impedisce l’accesso alla terra e durante alcune delle 82 operazioni di ricerca-arresto svoltesi nella settimana. Il lancio di lacrimogeni in uno degli scontri verificatisi nel campo profughi di Al Fawwar (Hebron) ha appiccato il fuoco e bruciato 45 ulivi e viti. A Gaza, durante le manifestazioni presso la recinzione, due palestinesi sono stati feriti con armi da fuoco.

Nella Striscia di Gaza, in almeno 13 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) lungo la recinzione perimetrale e in mare. In uno di questi casi un contadino è stato ferito, mentre dieci pescatori, tra cui un minore, sono stati costretti a togliersi i vestiti e nuotare verso le imbarcazioni delle forze navali israeliane, dove sono stati arrestati. Pur mancando una comunicazione ufficiale o una delimitazione, le aree fino a 300 metri dalla recinzione perimetrale sono considerate zone “vietate”, fatta eccezione per gli agricoltori che possono avvicinarsi fino a 100 metri; tuttavia fino a 1.000 metri le aree sono considerate ad alto rischio, e ciò ne scoraggia la coltivazione.

Il 22 maggio, le autorità israeliane hanno annunciato la revoca del divieto di importazione di cemento per il settore privato nella Striscia di Gaza. Il divieto, in vigore dal 3 aprile 2016, era motivato dalla preoccupazione israeliana per il possibile dirottamento di materiali da costruzione verso gruppi armati e dalla scoperta di un tunnel sotterraneo sotto il confine tra Gaza ed Israele.

Le forze israeliane hanno bloccato temporaneamente due delle strade principali per il villaggio Hizma (Gerusalemme), impedendo l’accesso veicolare a circa 7.000 persone. Ciò ha fatto seguito alla esplosione, verificatasi la settimana precedente al checkpoint di Hizma (che controlla l’accesso a Gerusalemme Est), di un ordigno artigianale che ferì un soldato.

A Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito tre case palestinesi ed un locale per la preghiera, sfollando 26 persone, tra cui nove minori, e coinvolgendone altre otto. Dall’inizio del 2016, a Gerusalemme Est sono state demolite 72 strutture (di cui tre per motivi punitivi), rispetto alle 79 dell’intero anno 2015.

Il 18 maggio, un tribunale israeliano si è pronunciato a favore di una organizzazione di coloni che rivendicava la proprietà di tre appartamenti e due negozi nella zona di Sheikh Jarrah di Gerusalemme Est, ordinandone lo sgombero entro il 10 giugno 2016. Quattro famiglie sono a rischio imminente di sfollamento. A Gerusalemme Est, la creazione di insediamenti israeliani nel cuore dei quartieri palestinesi ha inasprito le tensioni e compromesso le condizioni di vita dei palestinesi residenti.

Nella zona H2 della città di Hebron, sotto controllo israeliano, un gruppo di coloni israeliani è entrato in una casa palestinese ed ha aggredito fisicamente e ferito un 16enne palestinese e suo padre. Le forze israeliane sono intervenute e, in base alle affermazioni dei coloni israeliani che sostenevano di essere stati antecedentemente aggrediti dai due, hanno arrestato il ragazzo e suo padre.

Secondo i media israeliani, un bus israeliano che transitava vicino al villaggio di Tuqu ‘(Betlemme) e la metropolitana leggera di Gerusalemme hanno subito danni: il primo per uno sparo e la seconda per il lancio di una bottiglia, presumibilmente ad opera di palestinesi.

Durante il periodo di riferimento il valico di Rafah è stato chiuso sul lato egiziano. L’ultima volta è stato aperto l’11 e il 12 maggio, dopo 85 giorni consecutivi di chiusura. Secondo le autorità palestinesi, almeno 30.000 persone, di cui circa 9.500 malati e 2.700 studenti, sono registrate e in attesa di attraversare. Dall’inizio del 2016, le autorità egiziane hanno aperto il valico di Rafah solo per cinque giorni su 144.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




Rapporto OCHA della settimana 10-16 maggio 2016

A Gerusalemme Est, tre israeliani, tra cui due donne anziane, sono stati feriti con coltelli in due distinte aggressioni. La polizia israeliana ha arrestato il sospetto autore palestinese di una delle aggressioni, mentre, nel secondo caso, i responsabili sono fuggiti.

Al checkpoint di Hizma (Gerusalemme), secondo quanto riferito, un soldato israeliano è stato ferito dall’esplosione di un ordigno; in relazione a questo episodio, sono stati arrestati due palestinesi. Dall’inizio di aprile 2016, è stato registrato un calo significativo, rispetto ai mesi precedenti, nella frequenza di aggressioni palestinesi e presunte aggressioni contro israeliani.

Nei Territori palestinesi occupati, in scontri con le forze israeliane sono rimasti feriti almeno 78 palestinesi, tra cui 32 minori. La maggior parte degli scontri si sono verificati durante le manifestazioni per commemorare il 68° anniversario di quello che, riferendosi al 1948, i palestinesi chiamano “al-Nakba” [la catastrofe]*. Lacrimogeni sparati dalle forze israeliane in due degli scontri hanno appiccato il fuoco e parzialmente bruciato 30 alberi a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e parte di una casa a Kafr ad Dik (Salfit).

* nota di Assopace: il 14 maggio 1948 gli ebrei proclamarono unilateralmente la nascita dello Stato di Israele. L’intervento degli Stati Arabi scatenò la prima delle guerre arabo-israeliane. Gli israeliani, vincitori, occuparono parte del territorio destinato dall’ONU ai palestinesi: circa 600.000 ebrei, in fuga dai paesi arabi, trovarono rifugio in Israele mentre circa 750.000 palestinesi fuggirono nei paesi arabi vicini (campi profughi).

In un altro episodio, in cui non ci sono stati scontri, un incendio è scoppiato vicino al villaggio di Beit ‘Awa (Hebron) a seguito del lancio di bengala (razzi illuminanti) da parte delle forze israeliane: sono bruciati circa 25 ettari di terra coltivata ad ulivo. Le circostanze di questo episodio rimangono poco chiare.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 78 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 106 palestinesi; il più alto numero di arresti (31) è stato registrato nel governatorato di Gerusalemme. Due di queste operazioni hanno innescato scontri che hanno provocato il ferimento di quattro palestinesi. Nella Striscia di Gaza, in Aree di mare ad Accesso Riservato, 12 pescatori, tra cui quattro minorenni, sono stati costretti a togliersi i vestiti e nuotare verso imbarcazioni delle forze navali israeliane dove sono stati arrestati.

Le forze israeliane hanno revocato le restrizioni imposte nel novembre 2015 sull’accesso dei palestinesi non residenti ad alcune parti della città di Hebron attraverso due punti di controllo chiave (Container e Gilbert checkpoint); nonostante questa facilitazione, il movimento dei palestinesi all’interno dell’area di insediamento israeliano della città rimane soggetto a forti restrizioni. A Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno vietato a due palestinesi l’accesso alla Moschea di Al Aqsa per due e tre mesi rispettivamente, a motivo del loro coinvolgimento in proteste contro l’ingresso di coloni israeliani nello stesso sito.

L’11 e il 12 maggio, in occasione della Giornata della Commemorazione [dei soldati caduti e delle vittime del terrorismo] e della Giornata dell’Indipendenza di Israele [è lo stesso evento che i palestinesi ricordano come al-Nakba], le autorità israeliane hanno dichiarato una chiusura generale della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, impedendo ai titolari di permesso di accedere ad Israele e a Gerusalemme Est, eccetto casi umanitari urgenti ed alcune altre eccezioni. Tutti i valichi commerciali sono stati chiusi.

Le autorità israeliane hanno consegnato alle loro famiglie i cadaveri di due palestinesi, sospettati di aver perpetrato attacchi contro israeliani. Sono ancora trattenuti i cadaveri di altri 13 palestinesi.

In Area C della Cisgiordania, le autorità israeliane hanno demolito o confiscato 16 strutture di proprietà palestinese per mancanza dei permessi di costruzione. Il 16 maggio, nella comunità beduina palestinese di Jabal al Baba (Gerusalemme), sette container ad uso abitativo, finanziati da donatori, sono stati demoliti ed i materiali per realizzarne altri tre sono stati confiscati. Tale Comunità si trova in una zona destinata [da Israele] all’espansione dell’insediamento colonico di Ma’ale Adumim (il piano E1) ed è una delle 46 comunità beduine nella Cisgiordania centrale a rischio di trasferimento forzato a causa di un piano di “rilocalizzazione” avanzato dalle autorità israeliane. Altri sei strutture di sostentamento sono state demolite nei villaggi di Al Walaja (Betlemme) e Deir al Ghusun (Tulkarem).

Nel corso della settimana sono stati registrati due aggressioni da parte di coloni, con lesioni o danni a palestinesi: nella zona H2 della città di Hebron, una palestinese e sua figlia sono state fisicamente aggredite e ferite da un gruppo di coloni israeliani; in Asfeer (Hebron), un villaggio palestinese situato nella zona chiusa dietro la Barriera, circa 30 coloni hanno vandalizzato la recinzione di una casa e molestato la famiglia, invitandoli a lasciare la zona.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto l’11 e 12 maggio. A fronte di oltre 30.000 persone registrate e in attesa di attraversare, tra cui circa 9.500 malati e 2.700 studenti, è stata consentita l’uscita da Gaza a 739 palestinesi e l’ingresso a 1.220. Questa apertura è avvenuta dopo 85 giorni consecutivi di chiusura – il periodo più lungo dal 2007.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

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nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

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Analisi: gli arabi hanno tradito la Palestina?

30 aprile 2016, aggiornato 2 maggio 2016, Ma’an News

Di Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato a livello internazionale, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non detta di Gaza”

All’età di 21 anni ho attraversato il confine da Gaza all’Egitto per conseguire una laurea in scienze politiche. Il momento non avrebbe potuto essere peggiore. L’invasione irachena del Kuwait nel 1990 aveva condotto ad una coalizione internazionale guidata dagli USA e ad un grave conflitto, che alla fine ha spianato la strada all’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003. Mi resi conto che i palestinesi vennero da subito “odiati” in Egitto a causa dell’appoggio di Yasser Arafat all’Iraq a quell’epoca. Solo non conoscevo la portata di quel presunto “odio”.

E’ stato in un modesto albergo del Cairo, dove ho pian piano speso i pochi denari egiziani che avevo a disposizione, che ho incontrato Hajah Zainab, una gentile vecchia custode che mi ha trattato come un figlio. Aveva un aspetto malsano, camminava zoppicando e si appoggiava ai muri per prendere fiato prima di proseguire nei suoi incessanti lavori domestici. I tatuaggi sul suo viso, un tempo disegnati accuratamente, erano diventati macchie di inchiostro raggrinzito che deturpava la sua pelle. Eppure la gentilezza dei suoi occhi aveva la meglio e appena mi vedeva mi abbracciava e piangeva.

Hajah Zainab piangeva per due motivi: aveva pena per me perché avevo a che fare con un ordine di deportazione del Cairo – per la sola ragione che ero un palestinese nel momento in cui Arafat appoggiava Saddam Hussein, mentre Hosni Mubarak sceglieva di allearsi con gli Stati Uniti. La mia disperazione cresceva e mi angosciava la possibilità di affrontare l’intelligence israeliana, lo Shin Bet, che poteva convocarmi nei suoi uffici una volta che avessi attraversato il confine per tornare a Gaza. L’altro motivo era che l’unico figlio di Hajah Zainab, Ahmad, era morto combattendo gli israeliani nel Sinai.

La generazione di Zainab considerava le guerre dell’Egitto con Israele, quella del 1948, del 1956 e del 1967, come guerre in cui una delle cause principali era la Palestina. Nessuna politica egoista e nessun condizionamento mediatico avrebbe potuto modificare ciò. Ma la guerra del 1967 fu quella della totale sconfitta. Con l’appoggio diretto e massiccio degli Stati Uniti e di altre potenze occidentali, gli eserciti arabi furono sonoramente sconfitti, battuti su tre differenti fronti. Gaza, Gerusalemme est e la Cisgiordania furono perdute, insieme alle Alture del Golan, la Valle del Giordano ed anche il Sinai.

Fu allora che i rapporti di alcuni paesi arabi con la Palestina iniziarono a cambiare. La vittoria di Israele ed il costante appoggio di Stati Uniti e dell’ occidente convinsero alcuni governi arabi ad abbassare le loro pretese e auspicavano che anche i palestinesi facessero lo stesso. L’Egitto, che era stato il portabandiera del nazionalismo arabo, cedette ad un senso collettivo di umiliazione ed in seguito ridefinì le sue priorità con l’obbiettivo di liberare la propria terra dall’occupazione israeliana. Privi della cruciale leadership egiziana, gli stati arabi si divisero in campi differenti, ogni governo con la propria strategia. La Palestina intera era allora sotto controllo israeliano e gli arabi lentamente si allontanarono da una causa che un tempo era considerata la causa principale della nazione araba.

La Guerra del 1967 pose anche fine al dilemma di un’azione indipendente palestinese, di cui si appropriarono quasi del tutto vari paesi arabi. Inoltre la guerra spostò l’attenzione sulla Cisgiordania e Gaza e consentì alla fazione palestinese Fatah di rafforzare la propria posizione alla luce della sconfitta araba e della conseguente divisione.

Tale divisione venne alla luce pienamente al summit di Khartoum dell’agosto 1967, in cui i leaders arabi si scontrarono su priorità e definizioni. Le conquiste territoriali di Israele dovrebbero ridefinire lo status quo? Gli arabi dovrebbero concentrarsi sul ritorno alla situazione precedente il 1967 o a quella precedente il 1948, quando la Palestina storica fu occupata per la prima volta ed i palestinesi furono fatti oggetto di una pulizia etnica?

Il 22 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottò la Risoluzione 242, che rispecchiava il desiderio dell’amministrazione americana Johnson di avvantaggiarsi del nuovo status quo: il ritiro di Israele “dai territori occupati” in cambio della normalizzazione con Israele.

Il nuovo linguaggio del periodo immediatamente successivo al 1967 allarmò i palestinesi, che si resero conto che qualunque assetto politico futuro avrebbe ignorato la situazione preesistente alla guerra.

Infine, l’Egitto combatté e celebrò la sua vittoria nella Guerra del 1973, che gli consentì di consolidare il controllo sulla maggior parte dei suoi territori perduti. Alcuni anni dopo, gli accordi di Camp David nel 1979 divisero ancor di più le fila degli arabi e posero fine alla solidarietà ufficiale dell’Egitto con i palestinesi, garantendo allo stato arabo più popoloso un controllo condizionato sul proprio territorio nel Sinai. Le ripercussioni negative di quell’accordo non possono essere sopravvalutate. Comunque il popolo egiziano, nonostante il passare del tempo, non ha mai veramente normalizzato i rapporti con Israele.

In Egitto esiste ancora una frattura tra il governo, il cui comportamento si basa sull’urgenza politica e sull’autoconservazione, ed il popolo che, nonostante una campagna anti-palestinese imposta su vari media, è come sempre determinato a rifiutare la normalizzazione con Israele finché la Palestina non sia libera. A differenza del ben finanziato circo mediatico che negli ultimi anni ha demonizzato Gaza, gli amici di Hajah Zainab dispongono di pochissimi programmi in cui possono apertamente esprimere la loro solidarietà con i palestinesi. Nel mio caso, sono stato abbastanza fortunato da imbattermi nella vecchia custode che piangeva per la Palestina e per il suo unico figlio tanti anni fa.

Tuttavia quello stesso spirito, di Zainab, mi si è presentato nuovamente nel mio percorso di viaggi, diverse volte. Lo incontrai in Iraq nel 1999. Era incarnato in una vecchia venditrice di verdura che viveva a Sadr City. Lo incontrai in Giordania nel 2003. Si trattava di una taxista, con una bandiera palestinese che sventolava dal suo specchietto retrovisore. Era anche una giornalista saudita in pensione che incontrai a Gedda nel 2010, e una studentessa marocchina incontrata in un giro di conferenze a Parigi nel 2013. Aveva poco più di vent’anni. Dopo il mio intervento, mi disse piangendo che la Palestina per il suo popolo era come una ferita aperta. “Prego ogni giorno per una Palestina libera”, mi disse, “come facevano i miei defunti genitori in ogni preghiera.”

Hajah Zainab è anche l’Algeria, tutta l’Algeria. Quando la nazionale di calcio palestinese ha incontrato la squadra algerina, lo scorso febbraio, si è verificato uno strano fenomeno mai visto prima, che lasciò molti attoniti. I tifosi algerini, tra i più accesi amanti del calcio di ogni dove, hanno tifato per i palestinesi, per tutta la partita. E quando la squadra palestinese ha segnato un goal, è stato come se gli spalti si incendiassero. L’affollato stadio è esploso in un canto entusiasta per la Palestina e solo per la Palestina. Allora, gli arabi hanno tradito la Palestina? La domanda si sente spesso ed è spesso seguita da un affermativo “si, lo hanno fatto”. I media egiziani che fanno dei palestinesi dei capri espiatori a Gaza, i palestinesi perseguitati ed affamati a Yarmouk in Siria, la scorsa guerra civile in Libano, le vessazioni dei palestinesi in Kuwait nel 1991 e più tardi in Iraq, sono esempi spesso citati. Adesso alcuni sostengono che la cosiddetta “primavera araba” sia stata l’ultimo colpo di grazia alla solidarietà araba con la Palestina.

Vi prego di non fare confusione. Il risultato della sfortunata “primavera araba” è stato una grandissima delusione, se non un tradimento, non solo per i palestinesi, ma per la maggior parte degli arabi. Il mondo arabo è diventato il terreno per sporche politiche tra vecchi e nuovi avversari. Se i palestinesi ne sono stati vittime, i siriani, gli egiziani, i libanesi, gli yemeniti ed altri lo stanno diventando anche loro.

Si deve fare una chiara distinzione politica del termine “arabi”. Arabi possono essere dei governi non eletti altrettanto quanto lo può essere una gentile vecchietta che guadagna due dollari al giorno in un infimo albergo del Cairo. Arabe sono le potenti elites che si preoccupano solo dei propri privilegi e ricchezze, mentre non gli importa né dei palestinesi né delle loro proprie nazioni, ma lo sono anche tanti popoli, differenti, unici, emancipati, oppressi, che si trovano in questo momento storico a consumarsi per la propria sopravvivenza e lottano per la libertà.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA della settimana 26 aprile- 2 maggio

Il 27 aprile, una 23enne palestinese, madre ed incinta, e il fratello 16enne sono stati uccisi vicino al checkpoint di Qalandiya (Gerusalemme), secondo quanto riferito da personale della società di sicurezza privata israeliana che presidia il checkpoint.

Le circostanze sono controverse: secondo fonti israeliane, i due portavano dei coltelli e non hanno obbedito all’alt impartito dalle forze israeliane; testimoni oculari palestinesi hanno riferito che il personale di sicurezza ha aperto il fuoco sulla donna che era entrata per errore nella corsia del checkpoint riservata ai veicoli e, successivamente, hanno sparato al fratello accorso per aiutarla. Le autorità israeliane trattengono ancora i loro corpi, insieme a quelli di 16 palestinesi sospettati di aver perpetrato attacchi [contro israeliani] negli ultimi sei mesi.

Nel villaggio di Beit Ur al Foqa (Ramallah), una 16enne palestinese è stata ferita con arma da fuoco durante un presunto tentativo di aggressione contro soldati israeliani. I media israeliani hanno riferito che lei e la sua amica portavano un coltello, una siringa e un biglietto d’addio. Entrambe le ragazze sono state arrestate e non sono stati segnalati feriti tra i soldati israeliani. Secondo i media israeliani, nella Città Vecchia di Gerusalemme, un colono israeliano 60enne è stato accoltellato e ferito da un palestinese; è stato inoltre riferito che il presunto aggressore è fuggito, ma è stato successivamente arrestato.

Durante la settimana, vicino alla colonia di Efrata (Betlemme), un bambino israeliano è stato ferito sull’auto su cui viaggiava, colpita da pietre; inoltre, a Gerusalemme Est, la metropolitana leggera è stata danneggiata da una pietra (o bottiglia), si sospetta, lanciata da palestinesi.

Nei Territori palestinesi occupati, in scontri con le forze israeliane, sono stati feriti 85 palestinesi, tra cui 20 minori. La maggior parte di questi scontri sono scoppiati nel corso di proteste: la manifestazione settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya) che, da sola, registra 43 feriti; ad Abu Dis (Gerusalemme) e al Campo profughi di Al Jalazun (Ramallah) contro la recente uccisione di palestinesi; durante manifestazioni nei pressi della recinzione di confine tra Gaza ed Israele. In un caso, nei pressi della Al Khader School (Betlemme), un ragazzo di 10 anni è stato urtato e ferito da una jeep israeliana.

In Cisgiordania, a seguito dell’ingresso di coloni e di altri gruppi israeliani in vari siti religiosi in occasione della Pasqua ebraica, sono stati registrati parecchi alterchi e scontri tra palestinesi e forze israeliane. I siti coinvolti includono: il Complesso della Spianata delle Moschee / Monte del Tempio a Gerusalemme Est; il villaggio di Al Karmel nel sud di Hebron; le Piscine di Suleiman presso il villaggio di Al Khader (Betlemme); il villaggio Sebastiya (Nablus); la Tomba di Giuseppe a Nablus. In quest’ultima località, le forze israeliane hanno ferito, con arma da fuoco, un 17enne palestinese. La polizia israeliana ha vietato a quattro palestinesi, per due settimane, l’ingresso nel Complesso della Spianata delle Moschee / Monte del Tempio e, in un altro caso, secondo quanto riferito, ne ha allontanato otto visitatori israeliani.

Nella Striscia di Gaza, in almeno 21 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in Aree ad Accesso Riservato, di terra e di mare, ed hanno arrestato due pescatori dopo averli costretti a spogliarsi e nuotare verso le imbarcazioni israeliane, dove sono stati tratti in arresto. In quattro occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza, hanno spianato il terreno ed effettuato scavi.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 45 operazioni di ricerca-arresto arrestando 93 palestinesi: il governatorato di Gerusalemme registra la quota più alta di arresti (65, tra cui 10 minori), per la maggior parte effettuati nella moschea di Al Aqsa.

Per la prima volta in sette anni, a Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno iniziato ad aprire, per due ore al giorno, il cancello sulla Barriera a Dahiyat al Barid, consentendo ai possessori di documenti di identificazione di Gerusalemme, l’utilizzo di un percorso più breve tra Ramallah e le comunità vicine. Le forze israeliane hanno anche riaperto un cancello stradale, chiuso da ottobre 2015, all’ingresso orientale del villaggio di ‘Ein Yabrud (Ramallah), consentendo a circa 11 comunità il transito veicolare verso la strada 60. Un altro cancello stradale, che conduce al villaggio Jamma’in (Nablus), è stato chiuso questa settimana, costringendo i residenti ad una lunga deviazione.

Per mancanza dei permessi rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito tre strutture di sussistenza ed hanno confiscato due serbatoi per l’acqua in un settore dell’Area C della città di Qalqiliya. Il provvedimento interessa 10 famiglie di rifugiati palestinesi, tra cui 32 minori.

In questa settimana non sono stati segnalati attacchi di coloni con vittime o danni [a palestinesi]. Tuttavia, a sud di Yatta (Hebron), coloni israeliani hanno impedito a contadini palestinesi di accedere ai loro terreni che si trovano oltre la Barriera.

Durante la settimana, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è rimasto chiuso in entrambe le direzioni, portando a 77 giorni il periodo di chiusura ininterrotta; il più lungo a partire dal 2007. Le autorità di Gaza hanno segnalato che risultano registrate e in attesa di attraversare più di 30.000 persone, tra cui circa 9.500 malati e 2.700 studenti.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Dal 4 maggio la tensione lungo il confine tra Gaza e Israele è in aumento, concretizzata in una serie di attacchi fra gruppi armati palestinesi ed esercito israeliano. Secondo le prime notizie dei media, una palestinese è stata uccisa ed altri quattro civili palestinesi (di cui tre minori) e un soldato israeliano sono rimasti feriti.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

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L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

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nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per esplicitare informazioni che gli estensori dei Rapporti considerano note
ai lettori
abituali. In caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese.

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Rapporto Ocha della settimana 19-25 aprile 2016

Durante la settimana non sono state registrate uccisioni di palestinesi o israeliani. Nei Territori palestinesi occupati, in scontri con le forze israeliane, sono stati feriti 70 palestinesi, tra cui 11 minori.

La maggior parte di questi scontri sono scoppiati nel corso di proteste: ad Abu Dis (Gerusalemme), contro la recente uccisione di palestinesi; a Ni’lin (Ramallah), contro la Barriera; a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante la manifestazione settimanale; durante manifestazioni nei pressi della recinzione di confine tra Gaza ed Israele. I numeri di questa settimana includono sette palestinesi feriti in scontri con le forze israeliane durante una demolizione punitiva.

Nella Striscia di Gaza, in almeno 26 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in Aree ad Accesso Riservato (ARA) a terra e in mare, ferendo un pescatore e arrestandone altri sette, confiscando una barca e distruggendone un’altra. Due degli arrestati sono stati costretti a spogliarsi e nuotare verso le imbarcazioni della marina israeliana, sulle quali sono stati trattenuti in detenzione preventiva.

Le autorità israeliane trattengono ancora i corpi di 16 palestinesi uccisi nel corso di episodi verificatisi negli ultimi sei mesi. Secondo i media israeliani, nel marzo 2015, il Primo Ministro israeliano, ha dato istruzioni alle autorità competenti di fermare, fino a nuova comunicazione, la restituzione dei corpi di palestinesi sospettati di aver perpetrato attacchi contro israeliani.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 74 operazioni di ricerca-arresto; il maggior numero nel governatorato di Hebron (20 operazioni). In totale sono stati arrestati 132 palestinesi; la quota più alta di arresti è stata registrata nel governatorato di Gerusalemme: 66, tra cui 19 minori, soprattutto nella città vecchia di Gerusalemme (23 arresti) e nel quartiere di Al ‘Isawiya (23 arresti, tra cui 15 minori).

Durante la settimana, le forze israeliane hanno chiuso il checkpoint di Al Jalama (Jenin), impedendone l’attraversamento a piedi ai lavoratori palestinesi; il checkpoint è tuttavia rimasto aperto per il movimento dei veicoli. Per diverse ore è stata chiusa anche la strada tra Azzun (Qalqiliya) e Jit (Nablus) mentre era in corso una marcia di coloni israeliani, tenutasi tra gli insediamenti di Karnei Shomron e Kedumim. A Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno emesso ordini di polizia e ordini giudiziari che vietano, per 15 giorni, a 24 palestinesi di entrare nella Spianata delle Moschee/Monte del Tempio; ad altri cinque è stato vietato, fino a 10 giorni, di entrare a Gerusalemme. I provvedimenti sono motivati dal fatto che gli interessati sono stati implicati in proteste contro l’ingresso nel Complesso di coloni israeliani e di altri gruppi israeliani. Secondo i media israeliani, in seguito a presunte violazioni delle prescrizioni imposte da Israele, a due israeliani è stato proibito l’ingresso nel Complesso ed almeno altri 13 ne sono stati allontanati.

Nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme), le autorità israeliane hanno effettuato una demolizione punitiva contro la casa di famiglia di un palestinese sospettato di aver ucciso, il 25 gennaio 2016, una colona israeliana. Di conseguenza, è stata sfollata una famiglia di otto persone, di cui cinque minori. Nel mese di novembre 2014, il coordinatore umanitario per Territori palestinesi occupati ha chiesto la fine delle demolizioni punitive, sottolineando che “le demolizioni punitive sono una forma di sanzione collettiva, vietata dal diritto internazionale”. Inoltre, nella zona di Sur Bahir di Gerusalemme Est, per la mancanza di un permesso di costruzione rilasciato da Israele, le autorità israeliane hanno costretto una famiglia ad auto-demolire un ampliamento della loro casa.

Questa settimana sono stati registrati due attacchi di coloni con conseguenti danni materiali: ad Husan (Betlemme), il danneggiamento di circa 7 ettari di terra agricola palestinese inondata da acque di scolo, pompate dall’insediamento colonico di Betar Illit; a Far’ata (Qalqiliya), il furto di attrezzi agricoli. Segnalato inoltre, non incluso nel conteggio, il ferimento di due palestinesi, di cui uno in modo grave, investiti da veicoli con targa israeliana. In uno dei due casi si trattava di un minore al quale le forze israeliane hanno prestato i primi soccorsi.

Una carrozza della metropolitana leggera, nell’attraversamento del quartiere di Shu’fat, a Gerusalemme Est, è stata colpita e danneggiata da una pietra (o bottiglia) lanciata, si sospetta, da palestinesi.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, continua a restare chiuso in entrambe le direzioni da ormai 70 giorni consecutivi. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare 30.861 persone, tra cui circa 9.500 malati e 2.700 studenti.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 27 aprile, una 23enne madre di due figli e il fratello 16enne sono stati uccisi dalle forze israeliane al checkpoint di Qalandiya a Gerusalemme, in circostanze poco chiare. I corpi sono ancora trattenuti dalle autorità israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

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nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per esplicitare informazioni che gli estensori dei Rapporti considerano note
ai lettori
abituali. In caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese.

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La nuova pericolosa tattica israeliana di deportazione da Gerusalemme

13 aprile 2016 -* Al-Shabaka e Ma’an News

 

Di : Munir Nuseibah

Israele è esperto nel creare nuovi rifugiati e sfollati interni palestinesi, approfittando di ogni opportunità per farlo e sfruttando crisi momentanee per promuovere misure permanenti.

Ora sta utilizzando le recenti violenze nei Territori Palestinesi Occupati (TPO) per introdurre un nuovo cambiamento nella sua politica di lunga data di revoca del permesso di residenza per espellere i palestinesi da Gerusalemme est.

Questo nuovo concetto (“tradimento della fedeltà” allo Stato di Israele) è ora utilizzato per revocare la residenza ai palestinesi gerosolimitani, oltre alla possibile demolizione delle loro case. Il governo israeliano sta presentando queste azioni come misure di normale applicazione della legge, ma alcuni studi mostrano che sono parte della sua continua politica di espulsioni forzate, con lo scopo di produrre cambiamenti demografici a lungo termine e di garantire una schiacciante maggioranza ebraica a Gerusalemme. Il sistema giudiziario israeliano e i comandi dell’esercito fin dal 1948 [anno di nascita dello Stato di Israele. Ndtr.] hanno utilizzato una serie di metodi per ridurre al minimo il numero di palestinesi nelle aree cadute sotto controllo israeliano, come ho descritto in uno dei primi editoriali di Al-Shabaka (“Decenni di espulsione dei palestinesi: come Israele lo ha fatto”).

Queste misure hanno incluso l’uso della forza delle armi, restrizioni allo status civile dei palestinesi, restrizioni al diritto di costruire ed espropriazione delle proprietà (soprattutto beni immobili), tra gli altri, per obbligare la maggioranza della popolazione palestinese a diventare rifugiata o sfollata interna. L’ultimo cambiamento israeliano rappresenta un punto di svolta che probabilmente produrrà migliaia di nuove vittime del trasferimento di popolazione. Si tratta della terza svolta normativa di questo tipo nei tentativi israeliani di “sfoltire” la popolazione palestinese di Gerusalemme, come si discuterà più sotto. Lo spostamento forzato dei palestinesi è parte del sistema giudiziario israeliano: deve essere compreso e avversato in modo più deciso dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e dalla comunità internazionale come è stato fatto dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani in una nuova campagna.

I primi due punti di svolta: “Il centro della vita”

La continua politica di Israele di revoca della residenza si basa sulla posizione sempre più esplicita che i palestinesi a Gerusalemme non sono altro che immigrati stranieri che possono essere facilmente spostati fuori da quello che Israele considera il suo territorio legittimo. Dopo che Israele ha occupato e annesso illegalmente Gerusalemme est durante la guerra arabo-israeliana del 1967, ha considerato i gerosolimitani palestinesi “residenti” in Israele, senza diritto di voto per il parlamento israeliano, in modo da evitare di aggiungere un notevole numero di non-ebrei tra i suoi cittadini. Con il passare del tempo, il ministero dell’Interno, con il consenso della Corte Suprema israeliana, ha sviluppato sistemi creativi per revocare questo precario status. In seguito a ciò, dal 1967 più di 14.000 residenze a Gerusalemme sono state revocate, molte delle quali dopo il cosiddetto processo di pace iniziato nei primi anni ’90.

I governi israeliani che si sono succeduti hanno accuratamente scelto la tempistica di nuove modifiche normative per ampliare le possibilità di revoca della residenza, prendendo a pretesto crisi puntuali per farlo. Due importanti casi aiutano a definire i pilastri dell’attuale sistema di revoca della residenza. Il primo è stato il caso dell’attivista pacifista Mubarak Awad, andato negli Stati Uniti nel 1970, dove si sposò con una cittadini americana. Awad era attivo nel promuovere la resistenza nonviolenta prima e durante la Prima Intifada, la rivolta popolare palestinese tra il 1987 e il 1991. Nel 1987 fece domanda al ministero dell’Interno per rinnovare la propria carta d’identità come residente a Gerusalemme solo per apprendere che la sua residenza israeliana era stata revocata in seguito al fatto che viveva negli USA ed aveva ottenuto la cittadinanza americana. Con il senno di poi, ciò è particolarmente ironico ora che circa il 15% dei coloni che espellono i palestinesi nei TPO sono ebrei con doppia cittadinanza americana e israeliana.

Di conseguenza Awad presentò una petizione alla Corte Suprema israeliana in cui spiegava che il suo diritto di vivere nella sua città natale non avrebbe dovuto essere compromesso per il fatto di trovarsi all’estero. Egli affermò che i palestinesi gerosolimitani dovrebbero avere uno status irrevocabile di residenti, dal momento che non possono essere considerati semplici immigrati in Israele. La Corte Suprema rigettò i suoi argomenti e approvò la revoca della sua residenza. Con una sentenza che ha dell’incredibile, la Corte affermò che le sue idee politiche erano state un fattore che il ministero dell’Interno aveva preso in considerazione quando aveva deciso di revocare la sua residenza.

Per dare un fondamento a questo argomento, il ministero aveva allegato il parere di un ufficiale dei servizi di sicurezza israeliani (Shabak), con lo pseudonimo di “Yossi”, che affermava che Awad sosteneva la soluzione di uno Stato unico e invocava la disobbedienza civile. Benché la Corte non abbia fondato esplicitamente la sua decisione su questo parere, vi fece frequentemente riferimento nella sua sentenza. Creando un nuovo precedente, la Corte decise che lo status di residente potesse essere negato quando il “centro della vita” di un residente non era più in Israele. Al di là del dramma personale di Awad, ciò che è particolarmente importante è che questo precedente legale sia stato in seguito utilizzato per negare la residenza a migliaia di gerosolimitani.

Nel 1995 la Corte Suprema ha emesso un altro verdetto cardine contro Fathiyya Shiqaqi, la moglie di Fathi Shiqaqi, fondatore del movimento della Jihad Islamica. Residente a Gerusalemme, Shiqaqi è stata obbligata ad andarsene con suo marito, deportato in Siria nel 1988. Sei anni dopo è tornata a Gerusalemme ed ha cercato di rinnovare la sua carta d’identità e di registrare i suoi tre figli. Il ministero dell’Interno ha rigettato la sua richiesta e le ha ordinato di lasciare il Paese. Da allora Israele ha revocato la residenza in base ad un’ordinanza scritta dal ministero se il residente era stato assente per sette anni di fila o aveva ottenuto una residenza permanente all’estero o un’altra cittadinanza. Benché il caso di Shiqaqi non rispecchiasse queste condizioni, la Corte Suprema ha di nuovo approvato la revoca della sua residenza, in quanto Shiqaqi viveva all’estero con suo marito e il “centro della sua vita” non era più in Israele.

Dopo questo secondo punto di svolta migliaia di palestinesi residenti che vivevano fuori dai confini municipali di Gerusalemme in Cisgiordania, a Gaza o all’estero hanno iniziato a perdere lo status di residenti. Questo alto numero di vittime di espulsioni forzate non era necessariamente coinvolto in una qualunque attività politica. La revoca della residenza è dipesa esclusivamente dal criterio del “centro della vita”.

Questi due importanti casi sembra siano stati scelti a proposito. Nella società ebreo-israeliana, molto pochi si identificherebbero nella difficile condizione di un accademico che sostiene la disobbedienza civile o della moglie di uno jihadista islamista. Tuttavia, una volta stabiliti questi precedenti, tutta la popolazione palestinese di Gerusalemme è diventata a rischio.

Il terzo punto di svolta: “ Tradimento della fedeltà”

L’ultimo punto di svolta nella politica israeliana di revoca della residenza ha le sue radici nella revoca da parte del ministero israeliano degli Interni di tre membri eletti nel Congresso Legislativo Palestinese (CLP), così come del ministro palestinese degli Affari di Gerusalemme, nel 2006. Il ministero sosteneva che avevano violato il loro “impegno minimo di lealtà verso lo Stato di Israele”, in seguito alla loro elezione nel CLP e la loro appartenenza ad Hamas. Le organizzazioni dei diritti umani israeliane e palestinesi si sono indignate per l’introduzione della “fedeltà” come nuovo criterio legale di stato civile e la questione è rimasta in sospeso presso la Corte Suprema fin dal 2006. Se la Corte Suprema dovesse approvare questa misura, le autorità israeliane avrebbero a disposizione un nuovo pretesto per l’espulsione forzata, come ha affermato Hasan Jabarin, direttore dell’organizzazione per i diritti umani “Adalah” di Haifa.

Tuttavia il recente scoppio di violenza nei TPO ha fornito ad Israele l’opportunità di agire senza dover aspettare il verdetto della Corte Suprema. Già il 14 ottobre 2015 il “Gabinetto di Sicurezza” israeliano ha emesso una decisione secondo cui “i diritti di residenza permanente di terroristi saranno revocati,” senza dare una definizione di terrorista. Una settimana dopo, il ministero dell’Interno ha notificato a quattro palestinesi, sospettati di aver commesso azioni violente contro cittadini israeliani (tre dei quali accusati di aver lanciato pietre), che il ministero aveva preso in considerazione l’adozione del potere discrezionale per revocare la loro residenza perché le azioni criminali di cui erano accusati dimostravano una “chiara violazione della fedeltà” verso lo Stato di Israele. Nel gennaio 2016 il ministero ha emesso una decisione ufficiale di revoca della residenza contro i quattro gerosolimitani.

Quindi non è più sufficiente per i palestinesi di Gerusalemme vivere effettivamente a Gerusalemme e conservare il “centro della propria vita” in città. Dai gerosolimitani palestinesi ci si aspetta che rispettino il nuovo criterio indefinito di “fedeltà”. L’organizzazione per i diritti umani israeliana HaMoked, con sede a Gerusalemme, ha contestato questa nuova politica presso la Corte Suprema israeliana. Tuttavia la Corte non ha ancora preso una decisione sul caso. Allo stesso modo è ancora pendente il caso dei quattro leader politici palestinesi la cui residenza è stata revocata nel 2006.

Nessuno sa ancora quanti permessi di residenza sono stati revocati in base al relativamente nuovo criterio della “fedeltà”, ma almeno alcuni altri casi sono in attesa di sentenza alla Corte Suprema. HaMoked ha presentato una richiesta sulla base della legge sulla libertà d’informazione per obbligare il ministero dell’Interno a rivelare questa informazione.

Vale la pena ricordare che le leggi umanitarie internazionali proibiscono la pretesa di fedeltà di una popolazione sotto occupazione. Quindi, giustificare una revoca della residenza in base alla “violazione della fedeltà” è contrario alle leggi internazionali. Oltretutto non ci sono giustificazioni per revocare la residenza di chiunque sia sospettato di un atto di violenza perché il sistema penale israeliano punisce già ogni atto di violenza – così come molti atti non violenti – commessi dai palestinesi.

Da una prospettiva legale e storica più ampia, Israele dovrebbe ricordare che gli spostamenti forzati sono un crimine di guerra se messi in atto in un territorio occupato e un crimine contro l’umanità se molto diffusi o sistematici. Le ultime misure del governo israeliano unite a quelle già esistenti potrebbero configurare il criterio dello spostamento sistematico come equivalente a un crimine contro l’umanità.

Resistere alla politica di espulsione forzata

La lotta contro la revoca della residenza a Gerusalemme ha per lo più avuto luogo nelle corti di giustizia israeliane e finora è stata, in generale, persa. I tentativi di parecchie organizzazioni dei diritti umani palestinesi ed israeliane di sostenere presso la Corte Suprema israeliana che i gerosolimitani non sono immigrati ma nativi che hanno un diritto incondizionato di vivere nella loro città sono falliti. La Corte Suprema israeliana ha sostenuto che il diritto dei gerosolimitani palestinesi di vivere a Gerusalemme est dovrebbe continuare ad essere in mano al potere discrezionale del ministero dell’Interno. L’attuale governo di destra israeliano sta utilizzando questa discrezionalità per promuovere rapidamente l’espulsione di più palestinesi possibile da Gerusalemme.

Inoltre non ci sono contromisure chiare a livello diplomatico ed internazionale contro le azioni punitive di Israele. L’OLP ha ottenuto il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU e quindi ha aderito ad una serie di importanti convenzioni sui diritti umani e sul diritto umanitario internazionale, compreso lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (CPI). Tuttavia, non è ancora chiaro quale uso lo Stato di Palestina intenda fare di questo status e di queste convenzioni per resistere alle revoche della residenza a Gerusalemme.

La maggior parte dei ricorsi dopo che la Palestina ha aderito alla CPI sono stati centrati sui crimini che hanno avuto luogo durante la guerra contro Gaza, che ovviamente è importante. Tuttavia vorrei sostenere che la questione delle espulsioni forzate non lo è di meno. A Gerusalemme ed in altre parti della Cisgiordania le espulsioni forzate sono parte del regime giuridico israeliano. Sono state implementate attraverso leggi israeliane, ordinanze amministrative e decisioni dei tribunali. Nel caso specifico di Gerusalemme, le istituzioni giuridiche e amministrative israeliane non prendono nemmeno in considerazione gli argomenti delle leggi internazionali perché Israele considera Gerusalemme israeliana e non un territorio occupato.

Israele deve ricevere il forte messaggio dalle istituzioni giuridiche internazionali e dagli ambienti diplomatici che, nonostante la definizione israeliana, la comunità internazionale considera Gerusalemme occupata e il trasferimento dei suoi civili un reato penale.

Di fronte a questa situazione, varie organizzazione palestinesi dei diritti umani di Gerusalemme est e altrove in Cisgiordania (Al-Quds University’s Community Action Center, St. Yves, Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center (JLAC), the Civic Coalition for Palestinian Rights in Jerusalem, Badil, Al-Haq e Al-Quds Human Rights Clinic) hanno lanciato recentemente una campagna per resistere alla nuova politica israeliana di espulsioni contro i gerosolimitani. La campagna è iniziata portando questo problema davanti al Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU per sollevarlo davanti alla diplomazia internazionale ed ai professionisti dei diritti umani.

La campagna si è concentrata sul porre termine alla revoca punitiva della residenza perché non è ancora stata approvata dalla Corte Suprema israeliana, rendendo questo provvedimento più facile da impugnare. Se, tuttavia, la Corte decidesse che questa politica è legittima, essa verrà inserita nel sistema giuridico israeliano e molto probabilmente espellerà molti altri palestinesi da Gerusalemme.

Istituzioni pubbliche palestinesi, così come organizzazioni della società civile, dovrebbero lavorare duramente contro le politiche sistematiche di Israele di espulsioni forzate. Mentre i palestinesi in generale hanno la sensazione che le leggi internazionali non siano state molto utili alla causa palestinese, questa non dovrebbe essere portata come scusa per abbandonare la battaglia legale. Questa lotta non dovrebbe riguardare solo le istituzioni legali di Israele e le loro politiche discriminatorie, ma dovrebbe anche essere intrapresa a livello internazionale. La stessa Corte Suprema israeliana potrebbe riconsiderare il suo sostegno alle politiche discriminatorie se avesse la sensazione di essere sotto esame.

Rimane da vedere se la pressione della campagna locale palestinese ribalterà la politica di revoca punitiva della residenza. Ciò che è certo, comunque, è che i diritti dei palestinesi a Gerusalemme meritano molta maggiore attenzione e che il problema della revoca della residenza a Gerusalemme deve essere all’ordine del giorno. Avvocati palestinesi, organizzazioni dei diritti umani e istituzioni devono approfittare dell’occasione offerta dall’adesione della Palestina ad una serie di trattati sui diritti umani per incrementare la loro pressione sulla comunità internazionale. E’ ora che la comunità internazionale rispetti i propri obblighi di prendere tutte le misure a disposizione per porre fine al crimine delle espulsioni forzate, obblighi i responsabili a rendere conto di tali politiche e inverta i loro effetti indennizzando le vittime, compreso il loro diritto di tornare nelle proprie case. Centrare le campagne sui diritti legati ad un singolo problema può essere più efficace da un punto di vista legale che impostare campagne complessive che intendano mettere in evidenza molteplici ingiustizie.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia di notizie Ma’an.

*Al-Shabaka è un’organizzazione no-profit indipendente il cui scopo è educare e promuovere il dibattito pubblico sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi internazionali.

Questo articolo di fondo è stato scritto dal redattore politico di al-Shabaka Munir Nuseibah, avvocato dei diritti umani e docente dell’università Al-Quds di Gerusalemme. E’ professore presso la facoltà di legge della Al Quds, direttore e cofondatore della Al-Quds Human Rights Clinic e direttore del Centro per l’Azione Comunitaria di Gerusalemme.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA della settimana 29 marzo- 4 aprile

Per la prima settimana, da quasi sei mesi, non sono state registrate vittime, né palestinesi né israeliane. Ottantotto palestinesi, tra cui 18 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane nei Territori palestinesi occupati.

La maggior parte delle lesioni (76%) sono state registrate il 30 marzo, durante le dimostrazioni per ricordare la “Giornata della Terra”, compresi sei ferimenti presso la recinzione perimetrale nella Striscia di Gaza; seguono le lesioni nel corso di operazioni di ricerca-arresto. Queste ultime comprendono incursioni in Azzun ‘Atma (Qalqiliya) e Ya’bad (Jenin), con conseguenti danni materiali e confisca di due veicoli, e un blitz in una scuola a Ras Al Amud, a Gerusalemme Est. 30 gli episodi in cui le forze israeliane hanno aperto il fuoco nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare di Gaza: feriti due palestinesi a 350 metri dalla recinzione. Inoltre, le forze navali israeliane hanno cannoneggiato una barca da pesca ad ovest della città di Rafah, distruggendola completamente.

Le forze israeliane hanno continuato a vietare il passaggio dei maschi palestinesi tra i 15 e i 25 anni attraverso due checkpoint che controllano l’accesso alla zona H2 di Hebron. Questo provvedimento si aggiunge ad altre rigide restrizioni, in vigore da ottobre 2015, in materia di accesso dei palestinesi a questo settore. Nel periodo in esame, le forze israeliane hanno rimosso le restrizioni che erano state imposte, la scorsa settimana, al villaggio di Beit Fajjar (Betlemme) e che avevano impedito l’ingresso e l’uscita dal villaggio alla maggior parte dei residenti; tali restrizioni furono imposte in seguito ad un attacco palestinese contro soldati israeliani vicino a Salfit, nel corso del quale i presunti responsabili furono uccisi. Le forze israeliane hanno riaperto anche l’ingresso occidentale della città di Hebron, che si raccorda alla strada 35 e al checkpoint commerciale di Tarqumiya.

Il 31 marzo e il 4 aprile, nella città di Hebron e Qabatiya (Jenin), le autorità israeliane hanno effettuato quattro demolizioni punitive contro le case di famiglia di presunti autori di due attentati verificatisi nel mese di dicembre 2015 e febbraio 2016. Conseguentemente 21 palestinesi, tra cui sette minori, sono stati sfollati e tre strutture adiacenti alle abitazioni demolite hanno subito danni; inoltre, nel corso degli scontri scoppiati tra palestinesi e forze israeliane durante due delle demolizioni, sono stati registrati 15 feriti. Dal gennaio 2016, 12 strutture sono state demolite per motivi punitivi, sfollando 62 persone, tra cui 27 minori. Nel mese di novembre 2015, il Coordinatore Umanitario per i Territori palestinesi occupati richiese di porre termine a tale pratica, sottolineando che “le demolizioni punitive sono una forma di sanzione collettiva, perciò vietate dal diritto internazionale”.

Per mancanza dei permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito 36 strutture. Come risultato, 28 palestinesi, tra cui 11 minori, sono stati sfollati e altri 110 risultano coinvolti. Di queste strutture, 16 si trovavano a Gerusalemme Est, 5 nel governatorato di Ramallah, 5 nel governatorato di Gerico, 4 nel governatorato di Jenin, 4 nel governatorato di Nablus, 2 nel governatorato di Hebron. Di queste strutture 4 erano state finanziate da donatori, tra cui una strada agricola di due chilometri, in Qaryut. Nel villaggio di Jinba, situato nell’area di Masafer Yatta, designata dalle autorità israeliane come “zona militare per esercitazioni a fuoco”, le forze israeliane hanno sequestrato circa 160 pecore per il fatto che pascolavano nei pressi della “Linea Verde” (la Linea di Armistizio del 1949). Nel 2016, ad oggi [in circa tre mesi], sono già state effettuate 513 demolizioni, pari al 94% di tutte le demolizioni effettuate nell’arco del 2015 (547).

Il 23 marzo, nel villaggio di Ya’bad (Jenin), le forze israeliane hanno occupato una casa abitata, convertendola, a quanto pare, in un punto di osservazione militare; ne risultano colpite tre famiglie di 25 membri, tra cui 19 minori. Secondo il proprietario, le forze israeliane sostengono che, da quella zona, palestinesi abbiano lanciato pietre contro veicoli di coloni israeliani.

Nel governatorato di Hebron, il veicolo di un colono israeliano ha subito danni dal lancio di pietre, si sospetta, da parte di palestinesi. Durante la settimana, nel villaggio di Huwwara (Nablus), in due occasioni, le forze israeliane hanno costretto circa 250 negozi a chiudere per diverse ore, in risposta a presunti lanci di pietre, verificatisi nella zona, ad opera di palestinesi.

In Cisgiordania, lungo la strada Ramallah-Nablus, un veicolo palestinese ha subito danni in seguito a lanci di pietre. Inoltre, sono stati registrati almeno tre episodi di intimidazione che avevano lo scopo di allontanare dei pastori, tra cui due minori, dai pascoli circostanti le colonie israeliane di Yitzhar (Nablus), Mitzpe Yair (Hebron) e Carmelo (Hebron).

Il 3 aprile 2016, le autorità israeliane, pur mantenendo le attuali 6 miglia nautiche quale limite di pesca lungo la costa settentrionale della Striscia di Gaza, hanno ampliato da 6 a 9 miglia nautiche la zona di pesca lungo la costa meridionale. Le restrizioni sono in corso dal 1999, ma dal 2013 Israele, attraverso arresti, utilizzo del “fuoco di avvertimento” e confisca/distruzione di strumenti di lavoro, aveva imposto il limite di pesca a 6 miglia nautiche lungo l’intera costa di Gaza e una “zona vietata” di 1,5 miglia nautiche lungo i confini marittimi settentrionali tra le acque di Gaza e quelle di Israele. Gli accordi di Oslo* (1993-1995) prevedevano un limite di pesca di 20 miglia nautiche. Oltre 35.000 palestinesi dipendono da questo settore per il loro sostentamento.

* nota di Assopace: gli Accordi di Oslo (1993-1995, conclusi a Oslo e firmati a Washington) furono la conclusione di una serie di negoziati condotti tra il Governo israeliano e l’OLP (Organizzazione per la Liberazione Palestina) come avvio di un processo di pace. Alla presenza di Bill Clinton, la stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat sanciva gli accordi.

A partire dal 3 aprile, le autorità israeliane hanno sospeso l’importazione di cemento in Gaza per il settore privato, affermando che una notevole quantità del medesimo non era stata consegnata ai destinatari autorizzati, ma era stata dirottata. L’importazione di cemento a Gaza per il settore privato, dopo un divieto assoluto imposto dal 2007, aveva ripreso nel mese di ottobre 2014, come parte del GRM (Meccanismo di Ricostruzione di Gaza).

Dal 26 marzo, a causa della mancanza di carburante, la Centrale elettrica di Gaza è stata costretta a ridurre del 50% l’attività (la potenza è stata limitata a 35 MW), determinando una media giornaliera di 18 ore di interruzione di corrente. Al momento l’erogazione dei servizi di base, tra cui la sanità e l’acqua, avviene solo grazie alla distribuzione di combustibile per far funzionare i generatori di emergenza degli enti erogatori.

Durante il periodo di riferimento il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare oltre 30.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 malati.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

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L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

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nota 2: in caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese. Nella versione italiana non sono riprodotti i

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Rapporto OCHA della settimana 22- 28 marzo 2016

Il 22 marzo, nella città di Hebron, due palestinesi hanno accoltellato e ferito un soldato israeliano: uno dei palestinesi è stato ucciso e l’altro ferito dalle forze israeliane. Una registrazione video della scena, relativa a pochi minuti successivi all’accaduto, mostra un soldato israeliano che spara alla testa del sospetto assalitore ferito che giace a terra senza costituire alcuna evidente minaccia.

Il soldato è stato arrestato dalle autorità israeliane ed è attualmente indagato. Nickolay Mladenov, Coordinatore Speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, ha duramente condannato la “apparente uccisione extragiudiziale”. Il Portavoce dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani ha espresso la preoccupazione che l’uccisione potrebbe non essere un episodio isolato. Dal 1° ottobre 2015, in risposta agli attacchi ed ai presunti attacchi contro israeliani nei Territori occupati ed in Israele, le forze israeliane hanno ucciso sul posto 136 sospetti aggressori palestinesi, tra cui 32 minori. [grassetto corsivo di Assopace]

Dopo l’episodio citato sopra, le forze israeliane hanno vietato, fino a nuovo avviso, il passaggio dei maschi palestinesi tra i 15 ei 25 anni attraverso i due vicini checkpoint che controllano l’accesso alla zona H2 di Hebron. Questo provvedimento si aggiunge ad altre rigide restrizioni, in vigore da ottobre 2015, relative all’accesso dei palestinesi a questa zona. Durante la settimana le forze israeliane hanno attenuato le restrizioni di movimento imposte, la scorsa settimana, al villaggio di Beit Fajjar (Betlemme), in seguito ad un attacco; le restrizioni impedivano l’ingresso e l’uscita dal villaggio alla maggior parte dei residenti.

All’indomani dell’uccisione [del sospetto assalitore palestinese], coloni israeliani hanno circondato la casa del palestinese autore del filmato e, secondo quanto riferito, lo hanno minacciato ripetutamente. Nella sua dichiarazione, il Portavoce dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani ha ricordato alle autorità israeliane il loro dovere di proteggere quest’uomo da possibili rappresaglie, essendo testimone oculare chiave dell’uccisione.

Secondo i media israeliani, il Primo Ministro israeliano ha dato ordine alle autorità competenti di fermare, fino a nuovo avviso, la restituzione dei corpi di palestinesi sospettati di attacchi contro israeliani. Attualmente le autorità israeliane trattengono 14 corpi di tali palestinesi, uccisi in episodi verificatisi nell’arco degli ultimi cinque mesi.

Nei Territori palestinesi occupati gli scontri con le forze israeliane hanno provocato il ferimento di 33 palestinesi, tra cui 15 minori. Sette dei ferimenti si sono verificati nella Striscia di Gaza, nei pressi della recinzione perimetrale, nel contesto di proteste settimanali ed i rimanenti in Cisgiordania. La maggior parte delle lesioni sono state registrate durante operazioni di ricerca-arresto. Queste ultime includono incursioni nella Arab American University di Jenin, nella sede di un Ente di beneficenza nella città di Tulkarem ed in una scuola elementare nel villaggio di Tell (Nablus): in tutti questi episodi sono stati registrati danni materiali e confisca di computer e documenti. In 21 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento sia verso aree [della Strisca di Gaza] vicine alla recinzione, sia in mare, contro barche da pesca palestinesi, costringendo agricoltori e pescatori ad allontanarsi.

In otto episodi di lanci di pietre [da parte palestinese] verificatisi nei governatorati di Betlemme, Ramallah e Gerusalemme Est, hanno riportato danni almeno tre veicoli di coloni, un autobus e carrozze della metropolitana leggera. Questa settimana, lungo la Strada 60, vicino al villaggio di Beit Ummar (Hebron), le autorità israeliane hanno completato una recinzione alta sei metri, con lo scopo, secondo quanto riferito, di prevenire lanci di sassi contro veicoli israeliani.

Nei pressi dei villaggi di Burin (Nablus) e Haris (Salfit), in due casi, coloni israeliani hanno aggredito e ferito due palestinesi. Inoltre, sulla Strada 60, nei pressi del bivio che conduce alla città di Yatta (Hebron), un bambino di sei anni è stato investito e ferito da un’auto; si sospetta ad opera di un colono israeliano fuggito senza prestare soccorso.

Per la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito 60 strutture, 19 delle quali erano state fornite dall’assistenza umanitaria per rimediare a precedenti demolizioni. Come conseguenza delle demolizioni, 95 palestinesi, tra cui 40 minori, sono stati sfollati. Tutte queste strutture, tranne due, si trovavano in aree destinate [da Israele] all’addestramento militare e designate come “zone per esercitazioni a fuoco”; tali aree coprono il 30% dell‘Area C. L’episodio più grave si è verificato a Khirbet Tana (Nablus) ed ha costituito la terza ondata di demolizioni in questa comunità nel 2016. A seguito di una visita presso la comunità, Robert Piper, Coordinatore Umanitario per i Territori palestinesi occupati, ha espresso allarme per il rischio di trasferimento forzato che minaccia la comunità.

Il 23 marzo, nel villaggio di Hizma (Gerusalemme), le forze israeliane hanno occupato una casa in costruzione, trasformandola, a quanto pare, in un punto di osservazione militare. Secondo il proprietario, le forze israeliane hanno utilizzato la casa con cadenza settimanale a partire dall’ottobre 2015.

Il Ministero della Salute di Gaza ha comunicato che, il 29 marzo, un bambino è morto per ipotermia e un fratello è stato trovato in condizioni critiche. La famiglia dei bambini è una delle 1.150 famiglie che risiedono in rifugi temporanei e roulotte donate come aiuto umanitario a coloro le cui case sono state distrutte durante il conflitto del luglio-agosto 2014.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014, ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare oltre 30.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 malati.

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 31 marzo, nella città di Hebron, le autorità israeliane hanno demolito la casa di famiglia del sospetto autore di un accoltellamento che causò la morte di un colono israeliano; il sospetto autore venne ucciso.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: in caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese. Nella versione italiana non sono riprodotti i

dati statistici ed i grafici.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivol

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Rapporto OCHA della settimana 15- 21 marzo 2016

Le forze israeliane hanno ucciso quattro palestinesi, tra cui un 17enne, presunti autori di tre accoltellamenti che hanno provocato il ferimento di due soldati israeliani.

Gli episodi hanno avuto luogo nella città di Hebron, allo svincolo di Gush Etzion (Hebron), e all’ingresso dell’insediamento colonico di Ariel (Salfit). Dall’inizio del 2016, attacchi e presunti attacchi palestinesi hanno provocato la morte di quattro israeliani, di un cittadino straniero e di 45 palestinesi (tutti, tranne uno, presunti responsabili di attacchi) [1].

In seguito ad uno degli attacchi di cui sopra, e fino alla fine del periodo di riferimento, le forze israeliane hanno bloccato o predisposto checkpoints sulle strade principali del villaggio di Beit Fajjar (Betlemme), dove i presunti responsabili risiedevano; previa autorizzazione è stato consentito l’ingresso e l’uscita solo ai casi umanitari e agli insegnanti. Il 17 marzo, le autorità israeliane hanno riaperto l’ingresso principale del villaggio di Beit Ur At Tahta (Ramallah) che, a seguito di un attacco palestinese, era rimasto chiuso dall’11 marzo; è stato così ripristinato il normale collegamento tra altri cinque villaggi e la città di Ramallah.

Il 15 marzo, un rifugiato palestinese è morto per le ferite riportate a fine febbraio 2016, in scontri scoppiati nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme), durante un’operazione militare israeliana finalizzata a proteggere due soldati israeliani che erroneamente si erano ritrovati all’interno del Campo. Nel corso della stessa operazione era rimasto ucciso un altro palestinese.

Le autorità israeliane hanno consegnato il corpo di un palestinese sospettato di aver compiuto un attentato a Gerusalemme Est nel mese di dicembre 2015. Il rilascio è stato subordinato all’impegno, da parte della famiglia, di limitare a 30 il numero dei partecipanti ai funerali e al pagamento di 20.000 NIS [nuovo siclo israeliano, circa 4.660 euro], quale garanzia per il rispetto di tale disposizione. Continuano ad essere trattenuti dalle autorità israeliane i corpi di altri 14 palestinesi, sospettati di aver compiuto attacchi contro israeliani nel corso degli ultimi cinque mesi.

Nei Territori palestinesi occupati gli scontri con le forze israeliane hanno provocato il ferimento di 49 palestinesi, tra cui 10 minori. Sette dei ferimenti sono avvenuti nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale, ed i rimanenti in Cisgiordania. Circa il 63% delle lesioni sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno richiedente un trattamento medico; le rimanenti da proiettili di gomma, armi da fuoco ed aggressioni fisiche.

Nella zona di Betlemme e di Gerusalemme Est cinque episodi di lanci di pietre [da parte palestinese] hanno causato il ferimento di due coloni israeliani e danni al veicolo di un colono, ad un autobus e ad una carrozza della metropolitana leggera.

Nel villaggio di Duma (Nablus) una casa è stata data alle fiamme: lesi due coniugi per inalazione di fumo e inagibile, per gli ingenti danni, la loro casa. L’uomo ferito è l’unico testimone oculare dell’attacco incendiario avvenuto, nello stesso villaggio, nel luglio 2015, quando persero la vita tre membri della famiglia Dawabsheh (un colono israeliano accusato di quell’attacco è attualmente sotto processo). Secondo fonti palestinesi, anche l’incendio doloso di questa settimana è stato effettuato da coloni israeliani; tuttavia, la polizia israeliana, che ha aperto un’indagine sul caso, ritiene improbabile che l’attacco sia opera di coloni. Ancora in questa settimana, nei governatorati di Ramallah e Nablus, due veicoli palestinesi hanno subito danni per lanci di pietre da parte di coloni israeliani.

Per la mancanza di permessi di costruzione israeliani, le autorità israeliane hanno demolito 20 strutture, o costretto i proprietari ad autodemolirle: coinvolte 73 persone, tra cui 33 rifugiati. La metà di queste strutture si trovavano nel governatorato di Gerusalemme (la maggior parte in Gerusalemme Est), tre nel governatorato di Betlemme, sette nel governatorato di Nablus. Inoltre, nella città di Hebron, le forze israeliane hanno chiuso con ordine militare un negozio di verdura appartenente al sospetto autore di una sparatoria avvenuta nel marzo 2015, mentre in Khallet Hijeh e Beit Fajjar (Betlemme) hanno requisito macchinari e veicoli per lavori non consentiti in Area C.

L’8 marzo, le autorità israeliane, con l’obiettivo dichiarato di regolarizzare centinaia di unità abitative di un insediamento colonico costruito senza autorizzazione, hanno annunciato l’aggiornamento dei confini riportati in una precedente dichiarazione di “terra di stato”, in una zona in cui già si trova l’insediamento colonico di Eli. La dichiarazione si riferisce a circa 220 ettari di terra in Al Lubban ash Sharqiya, As Sawiya e Qaryut (Nablus). In un altro caso, in Area C, nei pressi del villaggio di Jayyus (Qalqiliya), le autorità israeliane hanno sradicato e sequestrato 150 alberi, rivendicando la zona come “terra di stato”. Nell’Area C della Cisgiordania, quasi tutta la “terra di stato” è stata posta sotto la giurisdizione degli insediamenti israeliani.

Durante il periodo di riferimento il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare oltre 30.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 malati.

[1] I totali includono un passante palestinese 17enne, ma non comprendono tre israeliani uccisi in Israele in un attentato perpetrato da un cittadino israeliano di origine palestinese, che è stato successivamente ucciso.

 

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Secondo le prime notizie dei media, il 24 marzo, nella città di Hebron, due palestinesi hanno accoltellato e ferito un soldato israeliano e sono stati successivamente uccisi dalle forze israeliane.

Il 23 marzo, nella comunità di Khirbet Tana (Nablus) in Area C, per mancanza dei permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito 53 strutture, di cui 22 abitazioni. Dall’inizio di febbraio questo è il terzo caso di demolizioni che coinvolge questa comunità.

Tra il 23 ed il 27 marzo, a motivo di una festività ebraica, le autorità israeliane hanno sospeso l’ingresso a Gerusalemme Est e in Israele ai palestinesi titolari di permesso, fatta eccezione per i casi umanitari e per i dipendenti delle Nazioni Unite e delle Organizzazioni Non Governative (ONG).

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

le traduzioni in italiano sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

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nota 2: in caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese. Nella versione italiana non sono riprodotti i

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La disgregazione politica, la cultura e l’identità nazionale palestinese

16 marzo 2016

Al-Shabaka

di Jamil Hilal

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no-profit il cui obiettivo è di stimolare e far progredire il dibattito pubblico sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi internazionali.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Jamil Hilal è un sociologo indipendente e scrittore palestinese ed ha pubblicato molti libri e numerosi articoli sulla società palestinese, il conflitto arabo-israeliano e sui problemi del Medio Oriente.

Il campo politico palestinese, dominato dall’Organizzazione della Liberazione della Palestina (OLP) fin dalla fine degli anni ’60, è stato disintegrato da quando in base agli accordi di Oslo è stata fondata l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Qual è stato l’impatto della supremazia dell’OLP e quali sono state le ripercussioni della sua disgregazione per la classe politica palestinese? E fino a che punto la disgregazione del campo politico ha colpito quello culturale e il suo contributo all’identità nazionale palestinese? Queste sono le questioni affrontate in questo articolo.

Il predominio dell’OLP nel contesto politico palestinese è iniziato nel 1968 dopo la battaglia di Al-Karameh [città giordana in cui avvenne uno scontro tra l’esercito israeliano, quello giordano e i guerriglieri palestinesi e fu considerato una sconfitta per gli israeliani. Ndtr.], che le ha permesso di istituire un relazione centralizzata con le comunità palestinesi nella Palestina storica, in Giordania, in Siria, in Libano, nel Golfo, in Europa e nelle Americhe. Queste comunità hanno sostanzialmente accettato l’OLP come proprio unico rappresentante legittimo, nonostante le influenze esterne su di essa, compresa la sua pesante dipendenza da aiuti esterni, gli alti e bassi dei suoi rapporti con il Paese di residenza e le sue relazioni regionali ed internazionali. In conseguenza di ciò, le condizioni e caratteristiche specifiche di ogni comunità sono state ignorate, così come le prerogative nazionali, sociali e organizzative.

Dalla sua posizione dominante, l’OLP è stata anche in grado di consolidare le pratiche delle elite politiche comuni al mondo arabo e a livello internazionale, ma che non avrebbero dovuto mettere radici all’interno del popolo palestinese a causa della sua dispersione territoriale e della lotta per la liberazione. Il fatto che l’OLP sia emersa ed abbia funzionato in un contesto regionale ed internazionale ostile alla democrazia sia in teoria che in pratica ha contribuito a questo sviluppo. La regione araba è stata dominata da regimi con un’ideologia totalitaria e nazionalistica, così come da monarchie ed emirati teocratici autoritari; la democrazia era vista come un concetto occidentale estraneo e colonialista. Allo stesso tempo, l’OLP e le sue fazioni hanno formato alleanze con i paesi socialisti e del Terzo Mondo, pochi dei quali godevano della democrazia politica. La natura parassitaria delle istituzioni e delle fazioni dell’OLP e la dipendenza dall’aiuto e dal sostegno di Paesi arabi e socialisti non democratici ha rafforzato un approccio elitario e non-democratico alla politica.

Un terzo aspetto dell’egemonia dell’OLP è stato che le sue fazioni sono state sottoposte a una militarizzazione formale fin dall’inizio, in parte a causa dei conflitti armati dell’OLP con regimi arabi ostili e in parte per il fatto di essere costantemente attaccate da Israele. Questa militarizzazione formale, opposta alle tattiche belliche della guerriglia, ha aiutato a giustificare la relazione estremamente centralizzata tra la dirigenza politica e i suoi sostenitori.

Tra gli anni ’70 e i ’90 le fazioni e le istituzioni dell’OLP hanno sofferto molti duri colpi a causa dei cambiamenti della situazione regionale e internazionale. Questi hanno incluso l’espulsione dalla Giordania in seguito agli scontri armati nel 1970-71; la guerra civile scoppiata in Libano nel 1975, l’invasione israeliana nel 1982, l’espulsione dell’OLP dal Paese e i massacri di Sabra e Shatila; la guerra contro i campi palestinesi in Libano del 1985-86. La Prima Intifada (la rivolta popolare) contro Israele in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza alla fine del 1987 è stata anche il periodo nel quale l’islam politico per la prima volta ha occupato il contesto politico palestinese (1988). Il collasso dell’Unione Sovietica alla fine del 1989, la prima guerra del Golfo nel 1990-91 e il conseguente isolamento finanziario e politico dell’OLP hanno notevolmente eroso le sue alleanze e le sue fonti di finanziamento.

Le ripercussioni della disgregazione

Durante la Prima Intifada, l’elite politica palestinese non ha capito l’importanza di riorganizzare il movimento nazionale palestinese né di ricostruire le relazioni tra la dirigenza centralizzata e le varie comunità palestinesi. Inoltre l’OLP non ha trovato un modo per affrontare l’islamismo politico quando è emerso sulla scena palestinese come una filiazione della “Fratellanza musulmana” e non ha integrato Hamas nelle istituzioni politiche palestinesi. Allo stesso tempo, Hamas non si è ridefinito come un movimento nazionale. Il movimento politico palestinese, che è stato in un primo tempo indicato come un movimento nazionale o come una rivoluzione ha iniziato a essere citato come “il movimento nazionale ed islamico.”

Infatti la Prima Intifada ha portato la dirigenza politica a centralizzare ulteriormente i processi decisionali: ha firmato gli accordi di Oslo senza consultare le forze politiche e sociali all’interno o fuori dalla Palestina. Oslo ha fornito all’OLP la razionalizzazione politica, organizzativa ed ideologica per marginalizzare le istituzioni rappresentative nazionali palestinesi che esistevano, con l’argomento che stava costruendo il nucleo di uno Stato palestinese. L’ANP è stata esclusa dall’occuparsi dei palestinesi in Israele ed ha perso interesse fin da subito verso i palestinesi in Giordania. I suoi rapporti con loro, così come con i palestinesi in Libano, in Siria, nei Paesi del Golfo, in Europa e in America sono stati largamente ridotti a formalità burocratiche attraverso le sue ambasciate e gli uffici di rappresentanza in quei Paesi.

Quando la definizione dell’ANP come un’autorità con un autogoverno limitato su alcune parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza non ha portato ad uno Stato palestinese, le elite politiche sono state private di un potenziale centro di sovranità statale; ciò ha accelerato la disgregazione del movimento nazionale. La vittoria di Hamas nelle elezioni legislative del 2006 ed il suo controllo sulla Striscia di Gaza nel 2007 hanno contribuito alla frammentazione dell’autorità di auto-governo in due entità sovrane, una rimasta su una parte della Cisgiordania e l’altra nella Striscia di Gaza. Entrambe queste autorità rimangono sottoposte all’occupazione ed al controllo di uno Stato coloniale d’insediamento che continua a colonizzare in modo aggressivo la terra e ad espellere palestinesi dai due lati della Linea Verde [il confine tra Israele e la Giordania precedente all’occupazione del 1967. Ndtr.]

La disgregazione del campo politico nazionale ha avuto una serie di ripercussioni. Le istituzioni rappresentative nazionali sono svanite e le elite politiche locali sono diventate dominanti. I dirigenti hanno derivato la loro “legittimazione” dalla loro posizione del passato nel partito o nell’organizzazione e dalla loro interazione diplomatica con Stati regionali ed istituzioni internazionali. Il discorso che è prevalso localmente ed internazionalmente ha ridotto la Palestina ai territori occupati nel 1967 e il popolo palestinese a quelli che vivono sotto l’occupazione israeliana, marginalizzando quindi i rifugiati e gli esiliati così come i palestinesi con cittadinanza israeliana. L’apparato di sicurezza in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza è cresciuto considerevolmente come dimensioni e come destinatario di risorse nel bilancio generale. La natura parassitaria delle autorità nelle due aree era legata alla dipendenza dagli aiuti esterni e dal trasferimento di fondi, e l’influenza dei capitali privati nelle loro economie si è accresciuta.

Ci sono stati anche significativi mutamenti fondamentali nella struttura sociale in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Questi mutamenti includono la comparsa di una classe media relativamente estesa che fornisce di personale le istituzioni e le agenzie dell’ANP in aree come l’educazione, la salute, la sicurezza, le finanze e la pubblica amministrazione, così come nei settori di nuovi servizi, in quelli bancari e nelle molte ONG che sono state fondate. Intanto la classe lavoratrice si è ridotta di dimensioni. Le disuguaglianze tra diversi segmenti della società sono aumentate e il tasso di disoccupazione è rimasto alto, soprattutto tra i giovani ed i neolaureati. La mentalità dell’ “impiego pubblico” si è diffusa, sostituendo la forma mentis del combattente per la libertà. Benché Fatah e Hamas si autodefiniscano come movimenti di liberazione, sono stati trasformati in strutture gerarchiche e burocratiche e mirano in buona misura alla propria sopravvivenza.

Le elite politiche ed economiche non si vergognano di ostentare i propri privilegi ed il proprio benessere nonostante continui l’occupazione coloniale repressiva. La classe media in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sa molto bene che i propri standard e stili di vita sono legati all’esistenza di queste due autorità di auto-governo. Tuttavia la maggior parte della popolazione rimane sottoposta all’oppressione ed all’umiliazione da parte delle forze militari israeliane e dei coloni armati, e non patisce solo per la mancanza di una vita decente e di un futuro lavorativo, ma anche della mancanza di una qualunque soluzione nazionale in futuro. L’assedio draconiano di Israele ed Egitto contro Gaza rimane più che mai pesante, punteggiato di devastanti guerre israeliane, e la pulizia etnica dei palestinesi da Gerusalemme continua inesorabile, per mezzo di espulsioni, cancellazione di permessi e una vasta gamma di altre modalità.

Queste condizioni costituiscono la premessa per una situazione esplosiva nei territori occupati nel 1967. Però, poiché l’OLP, i partiti politici, il settore privato e la maggior parte delle organizzazioni della società civile non si sono mobilitati o non hanno potuto mobilitarsi contro l’occupazione, gli scontri con le forze di occupazione militare di Israele e con i coloni nell’”ondata di collera” in corso dall’ottobre 2015 sono rimasti per lo più atti individuali, con caratteristiche locali, senza una visione unitaria e una dirigenza nazionale.

La disgregazione del campo politico palestinese ha anche portato ad una crescente oppressione e discriminazione contro le comunità palestinesi in tutta la Palestina storica così come nella diaspora. I cittadini palestinesi nella parte di Palestina che è diventata Israele nel 1948 devono far fronte a una serie crescente di leggi discriminatorie. Anche i rifugiati palestinesi in e da Siria, Libano, Giordania ed altrove devono affrontare discriminazioni ed abusi. Soprattutto, lo status della causa palestinese ha conosciuto un passo indietro nel mondo arabo e a livello internazionale, una situazione esacerbata dalle guerre interne ed esterne in alcuni Paesi arabi.

Eppure la cultura fiorisce e alimenta l’identità nazionale

Oggi il popolo palestinese non ha né uno Stato sovrano né un efficace movimento di liberazione nazionale. Tuttavia c’è un considerevole rafforzamento dell’identità nazionale palestinese, dovuto in buona parte al ruolo del settore culturale nel mantenimento e nell’arricchimento della narrazione palestinese. Il ruolo della cultura per alimentare l’identità ed il patriottismo palestinesi ha una lunga storia. Dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948 e la sconfitta delle elite politiche dell’epoca e del movimento nazionale, la minoranza palestinese in Israele ha sostenuto l’identità nazionale attraverso un significativo fiorire culturale: poesia, narrativa, musica e cinema.

Lo scrittore e giornalista palestinese Ghassan Kanafani lo ha colto nel suo notevole libro sulla letteratura resistenziale palestinese (al-adab al-mukawim fi filistin al-muhtala 1948-1966 [Letteratura della resistenza nella Palestina occupata. Ndtr.]), pubblicato a Beirut nel 1968. Altre figure letterarie fondamentali comprendono i poeti Mahmoud Darwish e Samih Al Qasim, il sindaco di Nazareth e poeta Tawfik Zayyad e lo scrittore Emile Habibi, sia nelle sue opere, come il “Pessottimista”, che attraverso il giornale comunista Al-Ittihad, di cui è stato uno dei fondatori.

Negli anni ’50 e ’60, quando gli israeliani hanno mantenuto i cittadini palestinesi sotto governo militare, la letteratura, la cultura e le arti sono servite a rafforzare e proteggere la cultura e l’identità arabe e la narrazione nazionale palestinese. Questi lavori sono stati letti in tutto il mondo arabo e altrove, e hanno permesso ai rifugiati palestinesi e agli esiliati di conservare la propria identità attraverso i continui legami con la cultura e l’identità della propria patria.

I “palestinesi del 1948”, come sono spesso definiti nel discorso palestinese, hanno giocato anche un ruolo nell’informare gli altri palestinesi ed arabi sul modo in cui l’ideologia sionista modella la politica israeliana e sui meccanismi di controllo repressivo. Molti degli studiosi ed intellettuali palestinesi del ’48 sono approdati nei centri di ricerca palestinesi ed arabi a Beirut, a Damasco e altrove ed hanno aiutato a sviluppare questa comprensione.

Da allora, soprattutto in periodi di crisi politica, il settore culturale ha offerto ai palestinesi maggiori possibilità rispetto alla sfera politica per unirsi in attività che trascendessero i confini geopolitici con forme e generi culturali ed ogni sorta di produzione intellettuale. Letteratura, cinema, musica e arte continuano ad essere prodotti, ed in misura sempre maggiore, andando da scrittori, registi ed artisti noti in tutto il mondo fino ai giovani artisti e scrittori di oggi a Gaza, in Cisgiordania e tra i palestinesi all’estero. Tutto ciò viene diffuso in moltissimi modi, comprese le reti sociali, favorendo e rafforzando i legami tra palestinesi e tra arabi e l’interazione al di là dei confini.

La vitalità del patriottismo palestinese è radicata nella narrazione storica palestinese e si basa sulle esperienze quotidiane delle comunità che affrontano la spoliazione, l’occupazione, la discriminazione, l’espulsione e la guerra. E’ forse questa vitalità che porta i giovani palestinesi, molti dei quali nati dopo gli accordi di Oslo del 1993, ad affrontare i soldati israeliani ed i coloni in ogni parte della Palestina storica. Ciò spiega anche le grandi folle che partecipano ai cortei funebri dei giovani palestinesi uccisi dai soldati e dai coloni israeliani e nella raccolta di fondi per ricostruire le case demolite dai bulldozer israeliani come punizione collettiva delle famiglie di quanti sono stati uccisi nell’attuale rivolta giovanile.

Tuttavia evidenziare l’importanza e la vitalità del settore culturale non colma l’assenza di un valido movimento politico, costruito su solide basi democratiche. Dobbiamo imparare dalle lacune delle istituzioni originali del movimento e superarle, piuttosto che sprecare forze, tempo e risorse per recuperare un quadro politico disintegrato e decaduto. Dobbiamo anche andare oltre quei concetti e quelle pratiche che l’esperienza ci ha mostrato aver fallito, come l’altissimo livello di centralizzazione: le politiche devono essere affidate al popolo ed alla base. Dobbiamo anche salvaguardare la nostra cultura nazionale da concetti ed approcci che asserviscono le menti, paralizzano il pensiero e il libero arbitrio, promuovono l’intolleranza, santificano l’ignoranza e nutrono i miti. Dovremmo piuttosto favorire i valori di libertà, giustizia e uguaglianza.

Abbiamo bisogno di una visione totalmente nuova dell’azione politica. Una tale visione può essere intravista nel linguaggio che sta prendendo forma tra i gruppi di giovani e nei rapporti tra le forze politiche palestinesi all’interno della Linea Verde, che riflettono una profonda coscienza dell’impossibilità di convivere con il sionismo in quanto ideologia razzista e regime coloniale di insediamento che criminalizza la narrazione storica palestinese.

Al cuore di questa emergente coscienza politica si trova la necessità di coinvolgere le comunità palestinesi nel processo di discussione, stesura e adozione di politiche nazionali inclusive: si tratta sia di un loro diritto che di un loro dovere. E’ ugualmente importante riconoscere il diritto di ogni comunità a definire la propria strategia nell’affrontare gli specifici problemi che deve affrontare mentre partecipa all’autodeterminazione di tutto il popolo palestinese.

Costruire un nuovo movimento politico non sarà facile a causa dei crescenti interessi di fazione e il timore di principi e pratiche democratici. Quindi è necessario incoraggiare iniziative di base per creare leadership locali, con la più ampia partecipazione possibile da parte di individui e istituzioni della comunità, seguendo il promettente esempio dei palestinesi del ’48 nell’ organizzare l'”Alto Comitato di Monitoraggio per i cittadini arabi di Israele” per difendere i loro diritti ed interessi, e dei palestinesi della Cisgiordania e di Gaza nella Prima Intifada. Anche il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) è un esempio di successo di questo nuovo tipo di consapevolezza politica e di organizzazione, che riunisce diverse fazioni politiche, organizzazioni della società civile e sindacati dietro una visione ed una strategia unitarie.

Qualcuno potrà pensare che questa discussione è utopica o idealista, ma noi abbiamo disperatamente bisogno di ideali nell’attuale caos e faziosità distruttiva. E abbiamo una ricca storia di attivismo politico e di creatività culturale a cui attingere.

(Traduzione di Amedeo Rossi)