Tre progetti di Israele per il 2022

Tawfiq Abu Shomar

27 dicembre 2021 – Monitor de Oriente

Il primo progetto: gli israeliani progettano di assorbire una possibile nuova ondata di immigrati dall’Ucraina e si aspettano che la Russia scateni una guerra contro quel Paese all’inizio del 2022, perché la Russia ha mobilitato 100 battaglioni sulla frontiera dell’Ucraina. Gli esperti raccomandano di prepararsi per questa grande massa di immigrati, per cui devono essere approvati finanziamenti speciali destinati a loro. Esiste anche la possibilità che ciò venga accompagnato da un’altra ondata di immigrati dalla stessa Russia, perché gli Stati Uniti e l’Europa applicheranno sanzioni economiche contro di essa, il che spingerà a emigrare anche migliaia di ebrei russi.

Lo scrittore Micha Levinson il 19 dicembre ha scritto sul Jerusalem Post [quotidiano israeliano in lingua inglese, ndtr.]: “Secondo l’American Jewish Year Book 2019 [annuario della comunità ebraica nordamericana, ndtr.], circa 200.000 ucraini possono essere ammessi all’alyià [la salita, ossia l’immigrazione in Israele, ndtr.] in base alla legge del Ritorno [norma che stabilisce i requisiti per aver diritto alla cittadinanza israeliana in quanto ebrei, ndtr.]. Benché la maggioranza non si identifichi come ebrea né lo sia in base alle leggi religiose, decine di migliaia di rifugiati potrebbero chiedere la cittadinanza israeliana.” Quindi, secondo Levinson, il governo di Naftali Bennett suggerisce di eliminare il monopolio dell’ebraizzazione imposto dal Gran Rabbinato, ortodosso, per concedere ai rabbini moderni e riformisti la possibilità di ottenerne l’ebraizzazione in modo rapido, perché c’è mezzo milione di immigrati dell’ex-Unione Sovietica e di altri Paesi che non sono ebrei in base ai criteri rabbinici, compreso il Gran Rabbino sefardita [di origine araba o di altri Paesi musulmani, ndtr.] Yitzhak Yosef, che l’anno scorso li ha definiti “comunisti ostili alla religione”. Secondo l’analisi del più importante demografo [israeliano], Sergio della Pergola, docente dell’Università Ebraica, essi rappresentano il 5% degli ebrei israeliani.

Il secondo progetto è comparso il 19 dicembre sul giornale Israel Hayom [quotidiano gratuito israeliano di estrema destra, ndtr.] e riguarda il metodo di repressione delle manifestazioni e delle rivolte del popolo palestinese che continua a resistere sulla sua terra dal 1948. Yoav Limor ha scritto: “Dopo l’operazione Guardiano delle Mura [l’attacco israeliano contro Gaza del maggio 2021, ndtr.] le IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] e la polizia israeliani hanno lavorato per ricavare lezioni dal conflitto per il futuro. Si è immediatamente deciso di trasferire alla polizia il comando delle unità della polizia di frontiera dell’esercito, così come di far ricorso alle truppe del comando del fronte interno per sostituire la polizia nella sicurezza delle basi e dei convogli delle IDF. Quanto alle nuove unità della polizia di frontiera, esse saranno formate da riservisti che finora prestavano servizio soprattutto nelle unità militari “regolari”, in genere di fanteria o nella difesa delle frontiere.

L’unità parteciperà alle attività operative in corso in Giudea e Samaria (la Cisgiordania occupata) e a Gerusalemme e, se necessario, opererà sotto il controllo della polizia israeliana per missioni di sicurezza interna, come la prevenzione di disordini violenti nelle città miste.” Queste città miste includono, tra le altre, Lydda, Nazaret, Haifa e San Giovani d’Acri.

Questa unità ha effettuato il suo primo addestramento qualche giorno fa nella città palestinese di Umm Al-Fahm e realizzerà interventi rapidi con il pretesto di mantenere la sicurezza e combattere il terrorismo palestinese e gli assassini giornalieri. Tuttavia l’obiettivo non dichiarato è di opprimere i palestinesi.

Quanto al terzo progetto, viene applicato fuori da Israele dal principale gruppo di pressione a favore di Israele negli Stati Uniti, il Comitato delle Questioni Pubbliche Americano-Israeliane (AIPAC). L’organizzazione progetta di trasformarsi nella lobby israeliana di appoggio ai candidati al Congresso, finanziando la campagna dei membri del Congresso e dei candidati alle elezioni favorevoli a Israele. Li appoggerà finanziariamente e logisticamente per attrarre i sostenitori di Israele sia del partito Democratico che di quello Repubblicano.

La presidentessa dell’AIPAC, Betsy Berns Korn, ha affermato: “In tutta la storia dell’AIPAC il consiglio di amministrazione ha adeguato costantemente la nostra strategia politica per garantire che potessimo continuare ad avere successo in una Washington in continuo mutamento. Il contesto politico del Distretto Federale ha conosciuto un profondo cambiamento. L’esasperazione nei rapporti tra i partiti, il notevole ricambio nel Congresso e la crescita esponenziale dei costi delle campagne elettorali ora dominano il panorama. Perciò il Consiglio ha deciso di introdurre questi due nuovi strumenti.” Ha aggiunto che il PAC [Piano di Accumulo del Capitale] dell’AIPAC “metterà in risalto e appoggerà gli attuali parlamentari democratici e repubblicani, così come i candidati al Congresso, che sostengono Israele. La creazione dei PAC fa parte di varie iniziative nuove che l’AIPAC ha lanciato negli ultimi due anni, inclusa una maggiore presenza sulle reti sociali, un’iniziativa digitale e una prossima applicazione dell’AIPAC. Finora le iniziative hanno aumentato significativamente il numero dei nostri aderenti a 1.5 milioni di membri e sta crescendo.”

L’ex-presidente democratico dell’AIPAC, Steven Grossman, ha commentato questo cambiamento affermando: “Avendo visto le modifiche e l’evoluzione della politica statunitense in quest’ultimo decennio circa, appoggio quello che ha detto l’AIPAC perché darà all’organizzazione e ai suoi membri un’opportunità ancora più significativa di svolgere un ruolo attivo nella vita politica statunitense nel momento in cui ciò è fondamentale.”

Concludo dicendo che mi piacerebbe che potessimo beneficiare dei sistemi israeliani nella pianificazione e nella preparazione del futuro, modificando la nostra lotta, ammettendo in primo luogo i nostri errori e poi facendo progetti per il futuro adeguati per cambiare la nostra strategia.

Ricordate: la politica è una partita a scacchi e si può vincere solo conoscendo i piani dell’avversario.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necesariamente la política editoriale di Monitor de Oriente.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 7 – 20 dicembre 2021

Il 16 dicembre, nei pressi dell’insediamento di Homesh (Jenin), un colono israeliano di 25 anni è stato ucciso a colpi di arma da fuoco e altri due sono rimasti feriti ad opera di palestinesi che avevano teso loro un’imboscata.

Successivamente, coloni israeliani hanno bloccato strade, aggredito palestinesi e danneggiato abitazioni ed altre proprietà (vedi sotto). Il 19 dicembre, forze israeliane sono entrate nel villaggio di Silat al Harthiyah (Jenin) e hanno arrestato sei palestinesi sospettati di essere coinvolti nell’imboscata. Inoltre, le forze israeliane hanno preso le misure delle case di famiglia di quattro fra i sospettati: [poiché tale procedura viene di solito effettuata prima delle “demolizioni punitive”] gli abitanti di tali case (decine di persone) sono pertanto da considerare a rischio di sfollamento.

In Cisgiordania, in due distinti episodi, due palestinesi sono stati uccisi da forze israeliane: uno nel corso di manifestazioni in cui i dimostranti palestinesi avrebbero lanciato pietre contro forze israeliane e l’altro nel contesto di un’operazione di ricerca-arresto [seguono dettagli]. Il 10 dicembre, nel villaggio di Beita (Nablus), durante le perduranti proteste palestinesi contro gli insediamenti colonici, le forze israeliane hanno sparato proiettili veri, uccidendo un 31enne palestinese. Dall’inizio di maggio 2021, quando ebbero inizio le periodiche proteste, a Beita e Beit Dajan, sono stati uccisi nove palestinesi e oltre 5.700 sono stati feriti: 218 con proiettili veri, 1.083 con proiettili di gomma, altri 4.341 hanno avuto bisogno di cure mediche per aver inalato gas lacrimogeni. Il 13 dicembre, a Nablus, nel corso di un’operazione di ricerca-arresto, le forze israeliane hanno avuto uno scontro a fuoco con palestinesi armati; un palestinese di 31 anni è stato ucciso e altri due sono rimasti feriti in circostanze non chiare.

In Cisgiordania, durante il periodo in esame, nel corso di proteste e in scontri seguiti a operazioni di ricerca-arresto, le forze israeliane hanno ferito 348 palestinesi, tra cui 109 minori [seguono dettagli]. La maggior parte dei feriti è stata segnalata in tre distinti episodi accaduti a Burqa e Beita, dove 204 persone, tra cui 80 minori, sono rimaste ferite dalle forze israeliane durante scontri seguiti all’ingresso di coloni israeliani nei villaggi palestinesi. Altri 133 sono rimasti feriti nel governatorato di Nablus, vicino a Beita (114) e Beit Dajan (19), durante proteste contro gli insediamenti colonici. Altri sette palestinesi sono rimasti feriti durante tre operazioni di ricerca-arresto condotte a Nablus, Ramallah e Hebron. Nel complesso, 44 palestinesi sono stati feriti da proiettili di gomma, otto sono stati aggrediti fisicamente e 296 sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni necessitante cure mediche.

Due coloni israeliani sono stati feriti da palestinesi: uno a Gerusalemme Est e l’altro nella Zona H2 della città di Hebron [seguono dettagli]. Il 18 dicembre, a Hebron, un colono israeliano di Kiryat Arba è stato accoltellato e ferito, secondo quanto riferito, da una donna palestinese di 65 anni. Il 10 dicembre, una colona israeliana è stata accoltellata e ferita nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est; è stata accusata dell’accoltellamento, e arrestata, una ragazza palestinese dello stesso quartiere, la cui famiglia rischia lo sgombero forzato. Successivamente, a Sheikh Jarrah, per un solo giorno, le forze israeliane hanno re-imposto le restrizioni di movimento, bloccandone l’accesso (fatta eccezione per i palestinesi residenti) ed hanno smantellato una tenda che era stata collocata in solidarietà con le famiglie a rischio sfratto. Coloni israeliani hanno danneggiato case e automobili palestinesi (vedi sotto). Il 19 dicembre, vicino alla Città Vecchia di Gerusalemme, la polizia israeliana ha arrestato un palestinese sospettato di aver tentato di accoltellare un israeliano.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 112 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 197 palestinesi. Il maggior numero di operazioni è stato registrato nel governatorato di Hebron (27), seguito da Ramallah (22) e Gerusalemme (17).

A causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, sequestrato o costretto i proprietari a demolire un totale di 15 strutture palestinesi. Di conseguenza, 64 persone sono state sfollate, tra cui 30 minori, e sono stati colpiti i mezzi di sussistenza di circa altre 52 [seguono dettagli]. Otto delle 15 strutture (una struttura abitativa e sette strutture di sussistenza) erano in Area C, in quattro Comunità di Gerusalemme, Hebron, Betlemme e Nablus. Le altre sette strutture, comprese cinque case demolite dai proprietari per evitare di pagare le multe, si trovavano in Gerusalemme Est.

A Gerusalemme Est, nell’area di Um Haroun del quartiere di Sheikh Jarrah, una famiglia di rifugiati palestinesi di 11 persone, tra cui quattro minori, è a forte rischio di sgombero forzato dalla propria casa. Ciò fa seguito all’emissione di un ordine di sfratto del 7 dicembre. La famiglia dichiara di abitare la casa dal 1951, e di averla avuta in affitto inizialmente dal “Custode Giordano delle Proprietà del Nemico” [ente istituito durante la guerra arabo-israeliana del 1948 per gestire le proprietà sottratte agli ebrei in Cisgiordania] con un contratto di “locazione tutelata”. A Gerusalemme Est, un totale di 218 famiglie palestinesi, composte da 970 persone, tra cui 424 minori, stanno affrontando casi di sgombero forzato, avviati soprattutto da organizzazioni di coloni. Il 15 dicembre, coloni israeliani hanno recintato il terreno antistante la casa. Il 17 dicembre sono stati segnalati scontri tra residenti palestinesi e coloni israeliani. Le forze israeliane hanno sparato lacrimogeni e granate assordanti ed hanno aggredito fisicamente residenti, attivisti e giornalisti. Almeno un giornalista e un poliziotto di frontiera israeliano sono rimasti feriti e tre palestinesi sono stati arrestati.

In Cisgiordania, in due casi, coloni israeliani hanno ferito tre palestinesi e, in 20 casi, persone note come coloni, o ritenute tali, hanno danneggiato proprietà palestinesi [seguono dettagli]. Nei villaggi di Burqa e Qaryut (Nablus), in cinque episodi verificatisi in due giorni consecutivi, due anziani palestinesi sono rimasti feriti e almeno 20 case di proprietà palestinese e sei auto e altre proprietà sono state vandalizzate. Nella Città Vecchia di Gerusalemme un altro palestinese è stato aggredito fisicamente da israeliani e spruzzato in faccia con spray al peperoncino. Circa 400 alberi sono stati vandalizzati a Deir Istiya (Salfit), Kafr Ni’ma (Ramallah), Deir Sharaf (Nablus) e Khallet Athaba’, e nel governatorato di Hebron. A Gerusalemme Est, in seguito all’accoltellamento in Sheikh Jarrah descritto sopra, in sette episodi di lancio di pietre, sono stati danneggiati almeno otto veicoli palestinesi, e altre dieci auto sono state vandalizzate. A Nablus e Hebron sono state vandalizzate strutture agricole. Nella zona H2 di Hebron, un colono israeliano ha lanciato pietre, danneggiando una casa palestinese.

Nei governatorati di Gerusalemme, Nablus e Gerico, persone note come palestinesi, o ritenute tali, hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani, ferendo 11 coloni. Secondo fonti israeliane, in Cisgiordania, il lancio di pietre ha danneggiato 33 auto israeliane.

Vicino alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa di Gaza, in almeno 36 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento [verso palestinesi], apparentemente per far rispettare le restrizioni di accesso [a loro imposte]; non sono stati segnalati feriti. Due pescatori palestinesi sono stati arrestati e una barca è stata confiscata dalle forze israeliane. All’interno di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale, bulldozer militari israeliani hanno condotto due operazioni di spianatura del terreno. In due casi, le forze israeliane hanno arrestato quattro palestinesi di Gaza mentre, secondo quanto riferito, stavano cercando di entrare in Israele attraverso la recinzione perimetrale.

Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 21 dicembre, nei pressi dell’insediamento di Mevo Dotan, un palestinese avrebbe tentato di speronare con il suo veicolo forze israeliane: è stato colpito con arma da fuoco ed ucciso.

Il 22 dicembre, vicino al Campo profughi di Al Am’ari, un palestinese è stato ucciso a colpi di arma da fuoco: avrebbe aperto il fuoco contro forze israeliane.

Il 24 dicembre, vicino al villaggio di Sinjil (Ramallah), una donna palestinese è stata investita da un’auto guidata da un colono israeliano ed è morta per le ferite riportate. Secondo i media israeliani, l’autista si è consegnato alla polizia israeliana che ha avviato un’indagine sull’accaduto.




L’esercito israeliano modifica le regole di ingaggio riguardo a quando sparare, ora chi lancia pietre è un bersaglio

Redazione di PC

21 dicembre 2021– Palestine Chronicle

Media israeliani hanno informato che l’esercito ha modificato le regole per aprire il fuoco, consentendo ai soldati di sparare a manifestanti palestinesi che lancino pietre contro auto dei coloni israeliani nella Cisgiordania occupata anche se non rappresentano più una minaccia immediata.

Questa politica sarebbe stata inaugurata circa un mese fa, ma all’epoca l’esercito israeliano aveva evitato di renderla pubblica.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha confermato lunedì le modifiche al quotidiano Times of Israel [quotidiano israeliano in lingua inglese, ndtr.] solo dopo notizie riguardo alle regole per aprire il fuoco pubblicate dai media.

Citando media israeliani RT [Russia Today, rete televisiva russa finanziata dallo Stato, ndtr.] ha informato che, in base alle nuove norme, le forze di occupazione israeliane hanno il permesso di mettere in atto l’intero protocollo di arresto, compreso l’uso di forza letale contro palestinesi “sospetti”, se li vedono lanciare pietre e bottiglie molotov contro veicoli, anche se non hanno più alcun oggetto in mano.

In precedenza ai soldati israeliani dell’occupazione era consentito in teoria sparare a palestinesi solo quando, durante l’arresto, stavano ancora lanciando pietre o bombe incendiarie. Tuttavia nella pratica spesso i giovani palestinesi sono stati colpiti in vario modo e si è indagato ben poco riguardo a vittime palestinesi uccise o ferite dall’esercito israeliano.

RT ha anche informato che, secondo il portavoce militare israeliano, le modifiche sono state necessarie perché in molti casi le precedenti regole di ingaggio consentivano a presunti aggressori palestinesi di evitare di pagare per le proprie azioni.

I cambiamenti introdotti dall’esercito israeliano sono già stati contestati da alcuni giuristi. Liron Libman, ex-capo della procura militare, ha detto a Times of Israel che “una persona che sta scappando non rappresenta una minaccia” e che l’uso della forza letale dovrebbe “essere solo una misura estrema.”

Eliav Lieblich, docente di diritto all’università di Tel Aviv, afferma che le nuove regole contravvengono alle leggi internazionali sui conflitti armati dato che non è in corso un conflitto in Cisgiordania, così come le leggi sui diritti umani, in quanto non rispondono alle esigenze di autodifesa.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I coloni hanno un nuovo obiettivo da attaccare: le scuole palestinesi

Gideon Levy, Alex Levac

 16 dicembre 2021 Haaretz

I soldati israeliani impediscono con la forza ai bambini palestinesi di raggiungere la scuola e sparano lacrimogeni nelle aule. I coloni li maledicono, li picchiano e umiliano i loro insegnanti. Immaginate che specie di sentimenti vi ribollano.

Nessuno riceve lezioni migliori sulle teorie dell’occupazione e dell’apartheid dei bambini di Lubban al-Sharqiyah, un villaggio di 4.000 persone situato a 15 chilometri a sud di Nablus. Non è difficile indovinare che tipo di sentimenti vi si stiano sviluppando e quali generazioni usciranno in futuro dalle due scuole elementari, una maschile e una femminile, di Lubban e di altri due villaggi. Gli edifici si trovano entrambi vicino all’autostrada 60, la strada più trafficata della Cisgiordania, utilizzata sia dai coloni che dai palestinesi, dove si sono verificati molti incidenti con lancio di pietre da parte di bambini palestinesi.

I bambini di questo villaggio hanno visto di tutto. Hanno visto soldati israeliani impedirgli con la forza di raggiungere la scuola e coloni che li maledicevano e li picchiavano. Hanno patito il soffocamento a causa dei gas lacrimogeni e sono stati colpiti da proiettili di metallo ricoperti di gomma sulla strada per la scuola e ritorno. Hanno visto i loro insegnanti umiliati – secondo le testimonianze, i soldati hanno costretto più volte di fronte ai loro alunni gli insegnanti a inginocchiarsi– e hanno visto soldati lanciare lacrimogeni nelle aule e nei cortili delle scuole.

A Lubban al-Sharqiyah, i genitori mandano a scuola i figli la mattina senza sapere in quale stato torneranno. In verità il capo del Consiglio locale, Yakub Iwassi, racconta che arriva all’ingresso del villaggio ogni mattina alle 6:30 per accompagnare i bambini a scuola e garantire loro sicurezza. Sebbene si siano verificati incidenti con lancio di pietre sull’autostrada, secondo il capo del Consiglio, sono un ricordo del passato. Non ci sono stati incidenti da più di due settimane, aggiunge Iwassi, e lui e il suo staff stanno facendo tutto il possibile per prevenirli. Recentemente gruppi di genitori si sono offerti volontari per filmare e documentare ciò che accade vicino alle scuole.

L’insegnante di religione della scuola femminile, Iman Daragme, è madre di Ziyad, 14 anni, che frequenta la scuola maschile. L’alunno frequenta la terza media ed è stato ferito ad un occhio durante l’ultimo giorno di disordini vicino alla scuola, il 17 novembre. Quella mattina, racconta Ziyad, è uscito come al solito ma quando è arrivato all’incrocio appena fuori dal villaggio, ha visto dozzine di coloni lungo la strada che porta alle scuole – pensa che fossero in 200 – e soldati dell’Esercito Israeliano in piedi accanto a loro. I coloni stavano protestando contro il lancio di pietre sull’autostrada e i soldati hanno impedito ai bambini di avanzare. Ma Ziyad dice che quel giorno non c’era stato alcun lancio di pietre.

Sua madre si occupa molto di lui. Al momento ha un braccio fasciato, ma non a causa degli eventi di quel giorno: domenica se l’è rotto cadendo dalla bicicletta.

Erano le 7:30 di quel mercoledì mattina, qualche settimana fa. La situazione iniziava a surriscaldarsi. I bambini si sono affrettati verso la scuola, i coloni hanno continuato la loro manifestazione e i soldati hanno iniziato a sparare lacrimogeni e proiettili ricoperti di gomma per disperdere i bambini e costringerli a tornare al villaggio. Per quanto lo riguarda Ziyad è sicuro che i coloni stiano rendendo impossibile la vita agli scolari come parte di un piano: “I coloni vogliono chiudere la scuola in modo da impadronirsene”, ci dice. “Hanno già occupato il vecchio mercato vicino al villaggio”.

Gli scontri sono continuati sulla strada per la scuola sino al tardo pomeriggio. La maggior parte degli abitanti del villaggio è arrivata all’incrocio, il posto sembrava un campo di battaglia. Secondo un membro del Consiglio del villaggio, Falastin Noubani, quel giorno 60 bambini hanno patito in qualche modo il gas lacrimogeno e non sono mai arrivati a scuola; 40 sono stati feriti da proiettili ricoperti di gomma, quasi tutti in modo non grave. Ma un ragazzo, Ziyad Salame, 11 anni, è stato colpito alla testa da un proiettile di metallo rivestito di gomma. Inizialmente si è temuto per la sua vita, a causa di un ematoma cerebrale. Alla fine l’emorragia si è fermata e il pericolo è passato. E Ziyad Daragme, il figlio dell’insegnante, è stato colpito all’occhio da una scheggia o da qualcos’altro. È stato portato a Salfit all’ospedale governativo Yasser Arafat Martire, e da lì è stato inviato all’ospedale oftalmico Hugo Chavez a Turnus Aya, vicino a Ramallah, dove è stato curato.

L’Unità Portavoce dell’Esercito Israeliano in settimana ha emanato questa vaga risposta sulla situazione di Lubban al-Sharqiya: “Alla luce dei recenti eventi di scontri e disordini nelle vicinanze del villaggio, che ricade sotto la giurisdizione della Brigata territoriale Binyamin, alcune misure sono state prese dall’Esercito Israeliano in coordinamento con i rappresentanti del villaggio per arginare il problema. A seguito di queste misure, gli scontri nell’area sono notevolmente diminuiti”.

Le due scuole di Lubban sono vicine l’una all’altra ed entrambe si trovano proprio a ridosso della Strada Statale 60, a circa due chilometri dal centro del paese. Nel 2014 l’Amministrazione Civile, un ramo del governo militare in Cisgiordania, ha costruito una barriera lungo l’autostrada per proteggere gli scolari dalle auto in corsa, e per loro ha costruito anche un marciapiede. Ai palestinesi è proibito costruire qualsiasi cosa in quest’area: l’autostrada è nell’Area C, amministrata da Israele. Prima di queste migliorie, nel corso degli anni circa 20 bambini erano stati uccisi in incidenti stradali sulla strada per la scuola e ritorno.

Gli alunni iscritti alle due scuole sono 661: 421 nella scuola maschile e 240 nella femminile. La scuola maschile è stata costruita nel 1944, quella femminile nel 1971, molto prima di tutti gli insediamenti che stanno ora soffocando il paese da ogni lato; alcuni sono stati costruiti su terreni di proprietà del villaggio.

In una conversazione nel suo ufficio, Iwassi, capo del Consiglio, un uomo d’affari di 58 anni tornato nella sua casa in Cisgiordania dopo aver trascorso 15 anni a Tampa in Florida, ci racconta che negli ultimi mesi è stato minacciato dai soldati dell’Esercito Israeliano che brandivano fucili mentre accompagnava i bambini a scuola. Dice che è stato colpito due volte con proiettili rivestiti di gomma e aggiunge che due settimane fa i soldati hanno afferrato un ragazzo che stava andando a scuola e lo hanno arrestato. Quando Iwassi ha protestato, i soldati gli hanno detto che il ragazzo, Muayid Hussam, 11 anni, aveva lanciato pietre sull’autostrada tre giorni prima mentre andava a scuola. Hussam è stato preso in custodia e rilasciato quattro ore dopo. Iwassi ha indagato sulla vicenda e ha scoperto che il giovane sospettato quel giorno non era nemmeno andato a scuola.

Il capo del Consiglio ci dice che per salvaguardare i bambini ha messo un insegnante ogni 100 metri lungo il percorso che porta alle scuole. In alcuni casi, dice, i coloni si piazzano sul ciglio della strada e minacciano i ragazzi. Gli hanno riferito, per esempio, che un colono aveva gridato che le loro scuole sarebbero passate ai coloni, e addirittura diceva ai bambini che erano stati scelti nuovi nomi: “Brooklyn” per la scuola femminile, “Bnei Yisrael” per quella maschile.

Issawi conserva nel suo cellulare le informazioni che ha raccolto nell’ultimo anno. L’esercito ha fatto irruzione nelle scuole otto volte mentre si teneva lezione; le truppe hanno impedito agli alunni di raggiungere le scuole 76 volte. I droni sono stati avvistati nell’area cinque volte: non è chiaro se li abbiano lanciati l’esercito o i coloni, ma hanno disturbato e spaventato i bambini. Sono stati lanciati gas lacrimogeni nelle aule sette volte e ogni volta gli edifici hanno dovuto essere evacuati. Gli alunni sono stati picchiati 13 volte, ma non hanno riportato ferite. Tredici alunni sono stati fermati per qualche ora o per alcuni giorni. L’Esercito Israeliano ha chiuso i cancelli delle scuole 15 volte. I coloni hanno attaccato violentemente gli alunni sette volte. E ci sono stati circa 100 incidenti, dice Issawi, in cui soldati o coloni stavano minacciosamente vicino agli ingressi delle scuole.

“Con quale diritto i coloni armati vengono al cancello di una scuola?” chiede il capo del Consiglio. “Sai, se mi capitasse di camminare per strada armato, verrei arrestato immediatamente. In tutto il mondo i civili non possono andare in giro armati, solo la polizia e le forze di sicurezza. Allora perché i coloni possono farlo? A volte i coloni urinano davanti alle ragazze. Ho parlato con i soldati, ma non hanno fatto nulla. I coloni gridano ai bambini: ‘Questa è la nostra terra. Qui vivranno solo ebrei. Siete degli animali. Siete cani. Questa terra appartiene solo a noi. Morte agli arabi!’ “

“Questa non è vita”, continua. “I nostri figli non pensano ad imparare, ma solo a tornare a casa sani e salvi. Gli insegnanti hanno paura per gli alunni. Questa non è vita”. Noubani, membro del Consiglio, aggiunge: “I nostri figli hanno il diritto di camminare lungo il ciglio della strada per andare a scuola. Nessuno ci può dettare dove debbano camminare i nostri figli”.

Verso la scuola, da un’altra direzione, c’è anche un sentiero sterrato ma non raggiunge tutti gli abitanti del villaggio.

Iwassi: “Dobbiamo salvaguardare questo percorso, perché ci sono bambini che vengono dall’altra parte della strada. L’esercito può dirmi quali bambini stanno creando problemi e io mi occuperò di loro. Tutto ciò che vogliamo è che i nostri figli possano studiare in pace”.

Noubani racconta che negli ultimi anni gli attacchi da parte dei coloni sono stati continui, ma non erano mai arrivati alle scuole: “Che i coloni vadano lì è una novità. Vengono da tutta la zona, non solo dalle colonie vicine. Eravamo abituati al fatto che abbattessero i nostri alberi, ma gli attacchi ai nostri figli sono una novità”.

Iwassi è d’accordo, e osserva che anche se ci sono sempre stati attacchi da parte di soldati e coloni, non sono mai stati tanti quanti nell’anno passato. Perché pensa che la situazione sia peggiorata, gli chiediamo. “Perché questo governo è un governo di coloni. Questo è il problema. Quando il primo ministro è amico dei coloni, questo è il risultato. Questa è la direttiva. Il governo precedente era meno un governo dei coloni di questo”.

Nel corso degli anni, sono stati sottratti a Lubban circa 5.000 dunam (1.250 acri) di terra con la costruzione delle vicine colonie di Ma’aleh Levona, Eli, Shiloh e Givat Harel.

“Tagliano i nostri alberi e bruciano i campi”, dice Iwassi. “Ti alzi la mattina e tutti i tuoi ulivi sono stati abbattuti. Vogliono una scuola vuota e un villaggio vuoto e un paese senza palestinesi”.

L’ultimo giorno del Ramadan di quest’anno Ahmed Daragme, 34 anni, residente nel villaggio, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco dai soldati all’incrocio di Tapuah mentre tornava a casa dopo aver acquistato dei dolci per la festa. I soldati pensavano che avesse in mano una pistola, ma non ce n’era traccia. Il suo amico Mohammed Noubani, 28 anni, che era con lui in macchina, è stato ferito gravemente e da allora è su una sedia a rotelle.

Abbiamo chiesto a Iman, insegnante di religione, qual è la cosa peggiore degli incidenti nelle scuole: “Le maledizioni che i nostri alunni si sentono lanciare dai coloni. E anche quando i soldati a volte stanno vicino alle finestre delle aule. Questo spaventa i bambini”.

Sul muro della scuola femminile c’è il disegno di un’insegnante con degli alunni. “Insegnaci l’aritmetica e non le botte”, dicono gli alunni all’insegnante con un gioco di parole in arabo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Coloni aggrediscono alcuni villaggi palestinesi dopo un’uccisione in Cisgiordania

Redazione di Al Jazeera

17 dicembre 2021 – Al Jazeera

Il giorno dopo che palestinesi armati hanno ucciso un israeliano nella Cisgiordania occupata sono avvenuti attacchi da parte di coloni.

Fonti ufficiali palestinesi hanno affermato che coloni ebrei hanno fatto irruzione in alcuni villaggi della Cisgiordania occupata danneggiando case e automobili e picchiando almeno due persone.

Gli attacchi di venerdì sono avvenuti il giorno dopo che palestinesi armati hanno ucciso un israeliano in un’imboscata nei territori.

La morte del colono Yehuda Dimentman, ucciso quando giovedì uomini armati hanno aperto il fuoco contro la sua auto nei pressi di un avamposto illegale nella Cisgiordania occupata, minaccia di infiammare ulteriormente la violenza tra gli abitanti palestinesi e i coloni israeliani.

Giovedì gli altri due passeggeri dell’auto di Dimentman sono rimasti lievemente feriti.

Ghassan Daghlas, funzionario dell’Autorità Nazionale Palestinese che controlla le attività di colonizzazione, ha affermato che venerdì mattina gruppi di coloni sono entrati in alcuni villaggi nei pressi della città settentrionale di Nablus danneggiando macchine e case. Due palestinesi feriti sono stati portati in ospedale.

Secondo Daghlas, alcuni coloni si sono introdotti in una casa nel villaggio palestinese di Qaryout e hanno cercato di rapire un abitante, Wael Miqbel.

Foto diffuse sulle reti sociali mostrano Miqbel con lividi ed ematomi sul volto, mentre altri video e fotografie pubblicati in rete mostrano scontri tra coloni armati e abitanti palestinesi.

Parlando all’agenzia di notizie [turca] Anadolu, Jihad Salah, capo del villaggio di Burqa, nel nord-ovest della provincia di Nablus, ha affermato che i coloni hanno attaccato il villaggio con armi da fuoco.

Ha aggiunto che hanno dato fuoco a baracche del villaggio e lanciato pietre contro parecchie case palestinesi. L’agenzia di notizie palestinese Wafa ha informato che i coloni hanno attaccato la città di Sebastia, a nord di Nablus, e vandalizzato un certo numero di veicoli di proprietà di palestinesi e l’officina meccanica.

I dirigenti israeliani si sono impegnati a trovare gli aggressori responsabili della sparatoria di giovedì e l’esercito ha schierato truppe aggiuntive nella zona.

Secondo la Wafa almeno tre uomini di Burqa sono stati arrestati in incursioni notturne.

Venerdì l’esercito ha affermato che era in corso una caccia all’uomo per trovare i palestinesi armati, ma non ha dato ulteriori dettagli.

L’auto di Dimentman è stata colpita dopo che aveva lasciato un seminario ebraico nell’avamposto illegale di Homesh, una ex-colonia evacuata come parte del ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza nel 2005. Gli ultimi attacchi sono giunti nel contesto di un’impennata di violenze tra israeliani e palestinesi in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate.

All’inizio del mese un ebreo ultra-ortodosso è stato gravemente ferito dopo essere stato accoltellato da un aggressore palestinese fuori dalle mura della Città Vecchia a Gerusalemme.

Una settimana prima un membro di Hamas ha aperto il fuoco nella Città Vecchia, uccidendo un israeliano. Entrambi gli aggressori sono stati uccisi dalle forze israeliane.

Questa settimana durante un’incursione nella zona di Ras al-Ain a Nablus, nella Cisgiordania occupata, truppe israeliane hanno colpito a morte un altro palestinese.

All’inizio di questo mese soldati israeliani hanno ucciso un palestinese anche nel villaggio di Beita, nella Cisgiordania occupata, durante una protesta contro le colonie illegali. Forze israeliane hanno ucciso un minorenne palestinese dopo un presunto tentativo di investimento presso un posto di controllo militare nella parte settentrionale della Cisgiordania occupata.

Israele ha conquistato Gerusalemme est e la Cisgiordania durante la guerra del 1967 in Medio Oriente. I territori sono ora abitati da più di 700.000 coloni ebrei che vivono in 164 colonie e 116 avamposti, che i palestinesi rivendicano come parte del loro futuro Stato indipendente.

In base alle leggi internazionali, tutte le colonie ebraiche nei territori occupati sono considerate illegali. I palestinesi, insieme a quasi tutta la comunità internazionale, ritengono che le colonie siano un gravissimo ostacolo alla pace.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




HRW: a maggio poliziotti israeliani si sono accordati con ultranazionalisti ebrei per reprimere manifestanti palestinesi

Redazione di PC

14 dicembre 2021 – Palestine Chronicle

Un rapporto di Human Rights Watch (HRW) sulle politiche brutali e discriminatorie ha rilevato che durante la rivolta civile di maggio nella città di Lydda funzionari israeliani si sono accordati con ultra-nazionalisti ebrei di estrema destra.

Il rapporto, rilasciato martedì, evidenzia che a Lydda le forze dell’ordine israeliane hanno fatto uso di una forza eccessiva per disperdere proteste pacifiche da parte di palestinesi e invita la commissione d‘inchiesta dell’ONU a indagare sulle pratiche discriminatorie dello Stato occupante.

Queste prassi includono il modo opposto di trattare manifestanti ebrei e palestinesi; l’evidente appoggio e la collaborazione con gli ultranazionalisti ebrei di estrema destra; la diffusione di disinformazione da parte di funzionari governativi per fomentare la rivolta civile e un trattamento discriminatorio dei cittadini palestinesi di Israele nei tribunali dopo il loro arresto.

In maggio Lydda e altre città in Israele e nella Cisgiordania occupata hanno assistito a rivolte sullo sfondo dei tentativi discriminatori di cacciare palestinesi dalle proprie case nella Gerusalemme est occupata, dell’uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza israeliane contro i manifestanti e i fedeli nella moschea di Al-Aqsa e dello scatenamento di un’aggressione israeliana contro Gaza il 10 maggio.

Nel corso di circa due settimane di rivolta le forze di sicurezza hanno arrestato 2.142 persone in Israele e a Gerusalemme est in operazioni di “deterrenza” che le autorità hanno definito “Legge e Ordine”. Secondo Amnesty International circa il 90% degli arrestati sono cittadini palestinesi di Israele e abitanti di Gerusalemme est occupata.

In giugno un rapporto di Amnesty International sulle azioni repressive ha rilevato che suprematisti israeliani di estrema destra hanno condiviso selfie in cui si sono messi in posa con armi da fuoco e messaggi come “Stanotte non siamo ebrei, siamo nazisti.”

Tra i molti esempi di discriminazione citati da HRW nel rapporto c’è l’evidente collaborazione tra poliziotti israeliani e ultranazionalisti ebrei. Il 12 maggio parecchi ultranazionalisti ebrei che non vivono a Lydda, alcuni dei quali armati, sono entrati in città violando la dichiarazione dello stato di emergenza del governo, emanato ore prima, che vietava l’ingresso a non-residenti.

Nel rapporto viene citato un giornalista israeliano che, nel suo servizio da Lydda, ha affermato che le autorità municipali avevano ospitato durante la notte ultranazionalisti ebrei arrivati da fuori in un edificio di proprietà del Comune nei pressi di un cimitero palestinese. Benché la città abbia negato di essere stata informata di questa iniziativa o di averla approvata, questi gruppi sono andati a prendere di mira palestinesi. Durante la notte hanno lanciato pietre contro case e negozi palestinesi e contro la moschea di Al-Omari. Video di alcuni incidenti mostrano, schierati vicino a facinorosi ebrei, poliziotti che non intervengono mentre questi lanciano pietre.

Durante gli scontri sono stati attaccati proprietà e luoghi di culto palestinesi. Molti sono stati feriti, un cimitero musulmano è stato vandalizzato e decine di auto sono state date alle fiamme. HRW afferma che le forze dell’ordine schierate per garantire la sicurezza a Lydda sono rimaste a guardare o non hanno agito in tempo per proteggere abitanti palestinesi di Lydda dalle violenze da parte di ultra-nazionalisti ebrei che si trovavano vicino a loro o nel loro campo visivo.

Evidenziando la prassi discriminatoria dei tribunali israeliani, HRW mette in luce il netto contrasto del modo diverso in cui sono stati trattati l’assassinio di un palestinese e quello di un ebreo israeliano. Per l’assassinio di Musa Hassuna, un palestinese, le autorità israeliane hanno rilasciato su cauzione in meno di 48 ore dall’omicidio tutti gli ebrei sospettati, dopo che essi avevano invocato la legittima difesa, ed ha chiuso le indagini meno di sei mesi dopo.

Per l’assassinio di Yigal Yehoshua, un ebreo, otto palestinesi sospettati sono stati in carcere per mesi, in attesa di essere processati per vari reati, compreso l’“omicidio come atto di terrorismo”.

Sembra che a Lydda la polizia e le autorità israeliane abbiano trattato i cittadini in modo diverso a seconda che si trattasse di ebrei o di palestinesi,” afferma Omar Shakir, direttore per Israele e Palestina di Human Rights Watch.

La commissione d’inchiesta ONU dovrebbe cogliere l’opportunità senza precedenti di contrastare la discriminazione ed altre violazioni che i palestinesi affrontano in Israele esclusivamente a causa della loro identità.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 16 novembre – 6 dicembre 2021

Durante il periodo in esame, in quattro attacchi perpetrati da palestinesi, un civile israeliano è stato ucciso, mentre altri due civili e cinque membri delle forze di sicurezza israeliane sono rimasti feriti [seguono dettagli]. I quattro aggressori palestinesi, di cui due minorenni, sono stati uccisi dalle forze di sicurezza israeliane.

Gli episodi includono un’aggressione con arma da fuoco, due aggressioni con coltello nella Città Vecchia di Gerusalemme ed uno speronamento con auto a Tulkarm. ll 17 novembre, nella Città Vecchia di Gerusalemme, un ragazzo palestinese di 16 anni di Al ‘Isawiya (Gerusalemme Est) ha accoltellato e ferito due agenti della polizia di frontiera israeliana ed è stato ucciso dalla polizia israeliana. Il 21 novembre, un palestinese del Campo profughi di Shu’fat (Gerusalemme est) ha sparato uccidendo un civile israeliano e, a quanto riferito, ferendone un altro e ferendo due agenti della polizia di frontiera israeliana. È stato ucciso sul posto dalle forze israeliane. Inoltre, il 4 dicembre, fuori dalla Città Vecchia di Gerusalemme, vicino alla Porta di Damasco, un palestinese di 25 anni di Salfit ha accoltellato e ferito un civile israeliano ed ha cercato di accoltellare un poliziotto di frontiera israeliano. Le forze israeliane hanno sparato e ucciso il palestinese sul posto. Per quanto riguarda tali uccisioni sul posto, l’Ufficio delle Nazioni Unite dell’Alto Commissario per i Diritti Umani (OHCHR) ha sollevato preoccupazioni di possibili esecuzioni extragiudiziali. Secondo le autorità israeliane, gli agenti hanno agito in linea con il protocollo di sicurezza stabilito e hanno adottato le misure appropriate per limitare ulteriori perdite di vite umane. Il 6 dicembre, al checkpoint di Kafriat (Tulkarm), un altro sedicenne palestinese si è lanciato, in auto, contro una cabina di sicurezza, ferendo una guardia di sicurezza israeliana. Le altre guardie hanno sparato e ucciso l’aggressore. I corpi dei quattro palestinesi sono stati trattenuti dalle autorità israeliane.

A seguito degli attacchi di cui sopra, in tre diverse occasioni, le forze israeliane hanno chiuso per diverse ore sia i cancelli che conducono alla Moschea di Al Aqsa, sia le strade che conducono alla Città Vecchia di Gerusalemme, impedendo ai residenti di raggiungere le loro case. Le forze israeliane hanno anche effettuato molteplici operazioni di ricerca-arresto nel Campo profughi di Shu’fat e Al ‘Isawiya, dove vivevano due degli autori, arrestando diversi parenti. In entrambe le località sono seguiti scontri tra residenti palestinesi e forze israeliane, con almeno quattro palestinesi feriti. Coloni e altri israeliani sono scesi nelle strade della Città Vecchia di Gerusalemme e nei principali incroci stradali della Cisgiordania per protestare contro gli attacchi: alcuni di essi hanno lanciato pietre contro auto e case palestinesi e provocato danni alle proprietà.

A Tammun (Tubas), in scontri scoppiati durante un’operazione di ricerca-arresto, le forze israeliane hanno sparato ed ucciso un palestinese 26enne e ne hanno ferito un altro. Inoltre, in Cisgiordania, gli scontri con le forze israeliane hanno provocato il ferimento di 441 palestinesi, tra cui 97 minori [seguono dettagli]. La maggior parte dei ferimenti è stata segnalata durante scontri legati alle manifestazioni settimanali tenute contro le attività di insediamento nei pressi di Beita (319) e Beit Dajan (51), entrambe nel governatorato di Nablus. Altri 26 feriti sono stati segnalati in scontri scoppiati con le forze israeliane conseguenti all’ingresso di israeliani in un luogo religioso della città di Nablus; 11 durante cinque operazioni di ricerca-arresto a Tubas, Gerusalemme e Ramallah; 28 in sette episodi verificatisi nell’area H2 della città di Hebron e a Nablus (vedi sotto). I rimanenti ferimenti sono stati registrati in tre diversi episodi accaduti nel Governatorato di Hebron e nella Città Vecchia di Gerusalemme (vicino alla Porta di Damasco), dove i palestinesi hanno lanciato pietre e le forze israeliane hanno sparato lacrimogeni e proiettili di gomma. Tra i feriti: 3 sono stati colpiti da proiettili veri, 59 da proiettili di gomma, 364 sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni e i restanti 15 sono stati aggrediti fisicamente o colpiti da bombolette di gas lacrimogeno.

I 28 palestinesi feriti citati sopra (18 dei quali alunni) hanno inalato gas lacrimogeni o sono stati aggrediti fisicamente e feriti da forze israeliane nel corso di 7 episodi che hanno coinvolto scuole di Al Lubban ash Sharqiya (Nablus) e dell’area H2 della città di Hebron [seguono dettagli]. In H2, secondo quanto riferito, studenti palestinesi hanno lanciato pietre contro le forze israeliane e queste ultime hanno sparato candelotti lacrimogeni contro il vicino complesso scolastico; 15 ragazze sono state curate per inalazione di gas lacrimogeno e gli studenti di tre scuole vicine sono stati evacuati a causa dell’intensità del gas. In Al Lubban ash Sharqiya, in cinque episodi, le forze israeliane hanno sparato lacrimogeni e bombe assordanti agli studenti, interrompendo le lezioni e costringendo gli studenti a lasciare la scuola: 13 palestinesi sono rimasti feriti, tra cui tre studenti, mentre altre 70 persone circa hanno inalato gas lacrimogeno, ma non hanno avuto bisogno di cure mediche. Questi episodi si sono verificati dopo che coloni israeliani si erano radunati vicino alla scuola per protestare di essere stati colpiti da pietre lanciate dai locali della scuola.

A Gaza, vicino alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa, in almeno 35 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento [verso palestinesi], verosimilmente per far rispettare le restrizioni all’accesso. Non sono stati segnalati feriti. Sette pescatori palestinesi sono stati arrestati e due barche sono state confiscate dalle forze israeliane. Bulldozer militari israeliani hanno condotto cinque operazioni di spianatura del terreno all’interno di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale. Le autorità israeliane hanno arrestato due uomini al valico di Erez, compreso uno che accompagnava la moglie per cure mediche a Gerusalemme Est. Altre tre persone, tra cui un minore, sono state arrestate mentre, secondo quanto riferito, cercavano di entrare [illegalmente] in Israele attraverso la recinzione perimetrale.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 100 operazioni di ricerca-arresto, arrestando 132 palestinesi. La maggior parte delle operazioni è stata svolta in Gerusalemme Est (33) e nel governatorato di Hebron (31), seguite da Betlemme (19) e Ramallah (14). Tra il 18 novembre e il 1° dicembre, le forze israeliane hanno chiuso rispettivamente gli ingressi principali di Mantiqat Shi’b al Butum (Hebron) e Deir Nidham (Ramallah), costringendo i residenti palestinesi a fare lunghe deviazioni e creando loro gravi difficoltà ad accedere ai servizi ed ai mezzi di sussistenza.

Il 30 novembre, nell’area di Ibziq della Valle del Giordano, almeno sei famiglie palestinesi sono state costrette, per otto giorni, ad evacuare le loro residenze per consentire gli addestramenti militari israeliani. Di conseguenza, 38 persone, tra cui 17 minori, sono state temporaneamente sfollate, senza che fossero fornite loro sistemazioni alternative.

In Cisgiordania, a causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, sequestrato o costretto i proprietari a demolire, un totale di 62 strutture di proprietà palestinese, di cui undici donate come assistenza umanitaria [seguono dettagli]. In totale, 55 persone sono state sfollate, inclusi 18 minori, e sono stati colpiti i mezzi di sussistenza di altre 3.000 persone circa. Quarantaquattro delle strutture erano situate in Area C (tra esse le undici donate come assistenza umanitaria). Nella Comunità Mirkez di Massafer Yatta (Hebron), le autorità israeliane hanno demolito otto case, cisterne e strutture legate al sostentamento. Questa zona è designata come “zona di tiro” per l’addestramento militare e i suoi 1.300 residenti sono sottoposti ad un contesto coercitivo che li mette a rischio di trasferimento forzato. A Khirbet Atuf, situata nell’Area C del governatorato di Tubas, le autorità israeliane hanno smantellato e confiscato circa 1.800 metri di un acquedotto finanziato da donatori. Tredici delle strutture si trovavano a Gerusalemme Est: sei di esse sono state demolite dai proprietari palestinesi per evitare tasse comunali e possibili danni ad altre strutture [adiacenti] e ad oggetti personali. Altre cinque strutture sono state demolite a seguito di una sentenza della Corte Suprema Israeliana che fa riferimento a un ordine militare del 2011; tale ordine individua, sul “versante Gerusalemme” della Barriera, una zona cuscinetto di sicurezza, dove la costruzione è vietata. Tale zona interessa Sur Bahir in Area A e la Comunità di Al Khas (Betlemme) in Area B. Tre famiglie composte da nove persone, tra cui tre minori e una donna anziana, sono state sfollate.

Il 28 novembre, il Tribunale Distrettuale di Gerusalemme ha respinto il ricorso dei residenti contro 58 ordini di demolizione emessi dalle autorità israeliane contro decine di strutture di proprietà palestinese situate nell’area Wadi Yasul di Silwan (Gerusalemme Est), mettendo centinaia di persone a rischio imminente di sfollamento. Wadi Yasul ospita circa 700 palestinesi, ma è stato destinato dalle autorità israeliane a diventare “area verde”. Negli ultimi 15 anni sono stati sempre respinti gli sforzi dei residenti per cambiare in “residenziale” la destinazione dell’area.

In Cisgiordania, 25 attacchi di coloni hanno provocato quattro feriti palestinesi e danni alle proprietà [seguono dettagli]. Otto di questi episodi hanno visto il lancio di pietre contro veicoli e case palestinesi nelle aree di Ramallah, Nablus e Hebron, con conseguente ferimento di due palestinesi, uno dei quali minore, e danni ad almeno 13 veicoli palestinesi. A Sheikh Jarrah sono state forate le gomme di 13 auto di proprietà palestinese. Altri tre attacchi sono stati registrati a Shufa (Nablus), Khirbet Sarura e Ash Shyukh (entrambi a Hebron), comprendenti l’irruzione in case, il furto di attrezzi agricoli, il danneggiamento di tre serbatoi d’acqua e il taglio di parte di una conduttura dell’acqua. Nella Comunità di Ein al Hilwa, nella Valle del Giordano settentrionale (Tubas), coloni israeliani hanno attaccato pastori palestinesi e le loro mucche, uccidendo tre mucche. Nei pressi dei villaggi di Yanun e Jalud (entrambi in Nablus) e Khallet Athaba’ a Hebron sono stati danneggiati oltre 130 alberi e alberelli.

Nei governatorati di Gerusalemme, Nablus e Gerico palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani, ferendo dieci coloni. Secondo fonti israeliane, in Cisgiordania il lancio di pietre ha danneggiato 35 auto israeliane. In un altro episodio accaduto il 1° dicembre, due israeliani, di cui uno colono, dopo essere entrati nel centro di Ramallah, sono stati attaccati e la loro auto è stata data alle fiamme da palestinesi; sono stati soccorsi dalle forze di sicurezza palestinesi.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

L’8 dicembre, nel quartiere di Sheikh Jarrah, in Gerusalemme Est, una colona israeliana è stata accoltellata e ferita. La presunta autrice, una ragazza palestinese, è stata arrestata.

Il 10 dicembre, nel contesto delle proteste settimanali contro l’attività di insediamento colonico a Beita (Nablus), le forze israeliane hanno ucciso un palestinese.

Il 13 dicembre, a Nablus, durante scontri seguiti ad un’operazione di ricerca-arresto, le forze israeliane hanno ucciso un 30enne palestinese.




Rapporto OCHA del periodo 2 -15 novembre 2021

Il 5 novembre, nel villaggio di Deir al Hatab (Nablus), forze israeliane hanno ucciso un 15enne palestinese.

L’uccisione è avvenuta nel contesto di proteste durante le quali palestinesi hanno lanciato pietre contro le forze israeliane che hanno sparato con armi da fuoco e lanciato lacrimogeni. A quanto riferito, l’esercito israeliano ha aperto un’indagine.

In Cisgiordania, complessivamente, le forze israeliane hanno ferito 190 palestinesi [seguono dettagli]. 135 sono rimasti feriti durante le proteste contro le attività di insediamento vicino a Beita (126) e Beit Dajan (9), nel governatorato di Nablus. Altri 47 palestinesi sono rimasti feriti negli scontri avvenuti nei pressi del checkpoint DCO [Ufficio di Coordinamento Distrettuale] (Ramallah). Un palestinese è stato ferito in At Tuwani (Hebron), durante un’operazione di ricerca-arresto; i rimanenti feriti sono dovuti a scontri scoppiati tra palestinesi e forze israeliane nei governatorati di Betlemme ed Hebron. Nel complesso, un palestinese è stato ferito da proiettili veri e 27 da proiettili di gomma, sette sono stati aggrediti fisicamente e i rimanenti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno. Oltre a quelli feriti direttamente dalle forze israeliane, a Beita, 11 palestinesi sarebbero stati feriti mentre scappavano dalle forze israeliane, o in circostanze che non è stato possibile verificare. Inoltre, nell’area di Betlemme, un uomo è stato ferito da un ordigno inesploso mentre raccoglieva rottami metallici in una zona dichiarata da Israele “area militare chiusa”.

In Cisgiordania forze israeliane hanno effettuato 65 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 92 palestinesi. Il maggior numero di operazioni è stato registrato in Hebron, seguito da Betlemme.

In almeno 4 occasioni, in Gaza, vicino alla recinzione perimetrale ed al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento [verso palestinesi], apparentemente per far rispettare le restrizioni di accesso [loro imposte]. Non sono stati segnalati feriti. Bulldozer militari israeliani, [entrati] all’interno della Striscia di Gaza, hanno spianato il terreno vicino alla recinzione perimetrale, ad est di Khan Younis. Durante tale operazione sono stati danneggiati 7.000 metri quadri di terreno coltivato ad ortaggi. In un altro caso, un uomo è stato arrestato mentre, secondo quanto riferito, cercava di entrare in Israele attraverso la recinzione perimetrale.

Per mancanza di permessi edilizi israeliani, le autorità israeliane hanno demolito, sequestrato o costretto i proprietari palestinesi ad autodemolire 49 strutture, sfollando 38 persone e pregiudicando, in grado diverso, i mezzi di sussistenza o l’accesso ai servizi di quasi altre 400 persone [seguono dettagli]. Fra le strutture demolite in Area C c’è una moschea, otto strutture abitative e 23 strutture di sostentamento, distribuite in 16 Comunità. Otto strutture, comprese due abitazioni demolite dai proprietari, sono state demolite in Gerusalemme Est.

Coloni israeliani hanno ferito 20 palestinesi e cinque volontari israeliani; persone note come coloni israeliani (o ritenuti tali) hanno danneggiato o rubato il raccolto di dozzine di ulivi [seguono dettagli]. A Khallet Athaba’ (Hebron), palestinesi hanno lanciato pietre contro coloni israeliani che avevano eretto una tenda; alcuni fra questi ultimi hanno ferito cinque palestinesi, di cui tre con armi da fuoco. Nello stesso contesto, alcuni coloni hanno dato fuoco a una tenda ed a cinque veicoli palestinesi, tra cui due ambulanze. Altri undici palestinesi sono stati feriti, con pietre, da coloni che avevano fatto irruzione nei villaggi di Burin e Burqa (Nablus) e nel quartiere di Ras al Amud a Gerusalemme Est; in questa seconda località sono state vandalizzate anche diverse auto. In Hebron, nella zona di Saadet Tha’lah, tre pastori, tra cui due donne, sono stati aggrediti fisicamente. A Huwwara (Nablus), coloni hanno aggredito fisicamente e ferito un altro agricoltore che stava raccogliendo olive ed hanno ucciso tre vitelli. Inoltre, a Surif (Hebron), coloni hanno lanciato pietre e ferito cinque volontari israeliani che scortavano raccoglitori di olive palestinesi. A Burin e nell’area Ash Shuyukh di Hebron, coloni avrebbero vandalizzato circa 120 ulivi e rubato il raccolto di altre dozzine di ulivi. Secondo quanto riferito, in diversi episodi accaduti a Nablus ed Hebron, coloni hanno vandalizzato pozzi d’acqua e serbatoi mobili, telecamere di sorveglianza e una struttura abitativa. Nella zona H2 di Hebron, mentre coloni molestavano palestinesi, un colono è stato colpito e ferito da pietre lanciate da palestinesi.

Nel governatorato di Gerusalemme e nella Valle del Giordano, palestinesi, o persone ritenute tali, hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani, ferendo tre coloni. In Cisgiordania, secondo fonti israeliane, il lancio di pietre da parte di palestinesi ha danneggiato 30 auto israeliane.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 16 novembre, a Tubas, durante un’operazione di ricerca-arresto, le forze israeliane hanno ucciso un palestinese di 26 anni.

Il 17 novembre, nella Città Vecchia di Gerusalemme, un ragazzo palestinese 16enne ha accoltellato due agenti di polizia israeliani ed è stato successivamente colpito a morte.




Avrebbero dovuto essere avvocati. Invece lavorano nei cantieri edili israeliani

Avrebbero dovuto essere avvocati. Invece lavorano nei cantieri edili israeliani

Una generazione di laureati palestinesi scopre che, nonostante la laurea, l’unico modo per guadagnarsi da vivere sotto l’occupazione è lavorare nell’edilizia in Israele.

Basil al-Adraa

7 novembre 2021 – +972 Magazine

 

Raggiungo il checkpoint di Meitar nel sud della Cisgiordania alle cinque del mattino di domenica, poco prima dell’alba. Centinaia di lavoratori palestinesi stanno camminando in fretta, comprando falafel o pane da decine di bancarelle di fortuna nel mercato che è sorto intorno al valico. Incontro insegnanti, laureati, avvocati e ingegneri, tutti con un permesso di lavoro e tutti in fila per andare a lavorare nelle fabbriche in Israele.

A cento metri dal checkpoint custodito c’è un passaggio non ufficiale: una breccia nel muro di separazione dove ogni giorno centinaia di palestinesi senza permesso entrano ed escono da Israele. Tra i due valichi ci sono le jeep della polizia di frontiera israeliana e i soldati possono vedere tutto. Da qui è chiaro che la barriera che serpeggia attraverso la Cisgiordania occupata è lì solo per imporre la segregazione razziale, non per la sicurezza, dal momento che chiunque può andare e venire a suo piacimento. L’esercito ne è pienamente consapevole, ma sceglie di chiudere un occhio.

La società palestinese si è aggrappata per generazioni all’istruzione come mezzo per mantenere la propria identità collettiva, nonché per resistere all’occupazione israeliana. Si tratta di una società relativamente molto istruita, con alti tassi di laureati sia in Cisgiordania che nella striscia di Gaza.

Ma tra le decine di giovani istruiti con cui ho parlato a Meitar e altrove c’è la sensazione diffusa che perseguire un’istruzione superiore sia inutile. Dopo aver dedicato anni e denaro per diventare economisti, ingegneri o medici hanno scoperto che l’unico modo per guadagnarsi da vivere è lavorare come operai nei cantieri edili israeliani.

Gli amici con cui parlo si sentono in colpa per il fatto che lavorano in Israele, anche nelle colonie in Cisgiordania dove abitano i vigilanti mascherati che ci attaccano regolarmente. Cercano di gestire questo senso di colpa dandosi varie spiegazioni. “Non abbiamo molte altre opzioni,” mi dice uno di loro. “Mi sentirei in colpa se fossi disoccupato e me ne stessi seduto a casa”, dice un altro. “Viviamo in una terra occupata. Tutto ciò ci è imposto. Persino la mia carta d’identità palestinese ha un timbro ebraico. Perché dovrei sentirmi in colpa?” dice un terzo.

Saleh Abu Jundeya, 22 anni, vive nel villaggio di Tuba tra le colline a sud di Hebron. Fin dalla prima elementare i soldati israeliani lo hanno accompagnato lungo il percorso verso la scuola, un percorso che richiede l’attraversamento dell’avamposto di Havat Ma’on dove i coloni attaccano regolarmente gli scolari. La casa di Abu Jundeya, come il resto del villaggio, è minacciata di demolizione. Tuba è completamente scollegato dalle reti di qualsiasi infrastruttura idriche e elettriche, servizi forniti invece dalle autorità israeliane ai numerosi avamposti sulle colline a sud di Hebron. Ma Abu Jundeya è molto volenteroso e ce l’ha fatta nonostante tutte le difficoltà.

“I miei genitori erano orgogliosi di me,” dice. “Ho fatto bene agli esami per l’iscrizione all’università, quindi hanno organizzato una grande festa per me. A 18 anni sono andato a studiare legge all’università. Sognavo di diventare un avvocato per difendere i diritti dei miei genitori e quelli di tutti i miei vicini di Masafer Yatta che affrontano demolizioni di case, arresti e che sono senza acqua ed elettricità. Questo è particolarmente importante per me, forse perché ero un bambino che doveva aspettare che i soldati lo accompagnassero a scuola ogni giorno fino a 18 anni o altrimenti essere attaccato dai coloni: è stata dura. Ho studiato legge per quattro anni. Andare all’università ogni mattina è stata una sfida perché a Tuba l’esercito ci impedisce di asfaltare le strade e la mia famiglia è povera. Studiare legge in Cisgiordania costa circa 10.000 NIS [circa 2.800 €] all’anno e mia madre e mio padre, entrambi pastori, hanno dovuto vendere le pecore per finanziare i miei studi. E oggi? Lavoro nell’edilizia in Israele, come tutti i miei compagni di classe. Non c’è nessun altro lavoro. Non abbiamo nemmeno un posto dove fare il praticantato”.

La nostra dipendenza dal lavoro in Istraele è politica

Le autorità israeliane hanno proibito per anni la costruzione di scuole a Masafer Yatta con l’intenzione di espellerci dalla zona. A quel tempo  i bambini semplicemente non studiavano. I genitori di mio padre Saleh e il resto della generazione prima di noi non hanno avuto la possibilità di studiare. Pochi hanno fatto il lungo viaggio verso le grandi città dove si trovavano la maggior parte delle scuole e la campagna non offriva luoghi di apprendimento.

Nel 1998, grazie a una lotta guidata da mia madre e mio padre, nel mio villaggio natale di a-Tuwani è stata costruita la prima scuola a Masafer Yatta. Quando è iniziata la costruzione l’esercito israeliano è venuto ad arrestare gli uomini del villaggio mentre stavano lavorando e ha confiscato i materiali da costruzione. Pochi mesi dopo mia madre ebbe un’idea: lasciare che le donne costruissero, dato che l’esercito non le avrebbe arrestate. Ed è proprio quello che è successo: le donne lavoravano di giorno per allestire la scuola e gli uomini continuavano di notte.

Humza Rabi ha frequentato la scuola in a-Tuwani e si è diplomato con lode. “Poi  sono andato all’università per completare un corso di laurea in storia”, ha detto. “Sognavo di essere uno storico o forse una guida turistica. Ho lavorato senza sosta durante le vacanze estive per mantenermi agli studi. Anche mio padre mi ha aiutato. È costato 50.000 NIS  (circa 14.000 €) in quattro anni. Non è stato affatto facile. Ma oggi, dopo la laurea, mi sento come se avessi perso tempo. Mi guardo intorno e, come tutti gli altri laureati, non ho modo di trovare un lavoro. Così sono diventato un  piastrellista in Israele. Le condizioni sono difficili. Non c’è sicurezza: un mese fa sono caduto dalla secondo piano mentre lavoravo, mi sono rotto le costole e ho riportato uno strappo muscolare. Oggi sono  a casa disoccupato”.

Rabi non è solo. Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese, i palestinesi tra i 20 e i 29 anni con un diploma di laurea registrano tassi di disoccupazione particolarmente alti: il 35% in Cisgiordania e il 78% a Gaza, che subisce il blocco totale da parte di Israele ed Egitto.

La nostra dipendenza dal lavoro in Israele è politica. Mezzo secolo di governo militare israeliano ha devastato l’economia palestinese. Israele controlla tutti i nostri valichi di frontiera e impedisce le importazioni o le esportazioni palestinesi indipendenti. Tutte le nostre risorse naturali,  come i minerali del Mar Morto, le cave, le aree agricole e i bacini idrici  si trovano nell’Area C, sotto il pieno controllo militare israeliano: ci è proibito accedervi, svilupparli o prendercene cura.

Uno studio condotto dalla Banca Mondiale ha rilevato come queste restrizioni siano la principale barriera alla prosperità e alla creazione di posti di lavoro per i giovani palestinesi. Senza sovranità sugli spazi non urbanizzati la contiguità territoriale palestinese è stata spezzettata in 169 enclave, senza lasciare spazio nemmeno alla creazione di zone industriali.

La terra nell’Area C è assegnata esclusivamente ai coloni israeliani che vi mantengono un’economia vivace e redditizia. Con il sostegno degli enti governativi, i coloni continuano a creare zone industriali e complessi agricoli che sono collegati a quelle stesse reti idriche negate ai contadini palestinesi in luoghi come Masafer Yatta. I soldati israeliani sigillano regolarmente le nostre cisterne d’acqua con il cemento. Senza acqua o strade di accesso gli agricoltori non possono più guadagnarsi da vivere sulla loro terra e molti sono invece costretti a lavorare come braccianti in Israele.

A causa delle politiche di occupazione anche i pastori palestinesi si stanno lentamente rivolgendo ai lavori di costruzione in Israele Negli anni ’80 Israele ha espropriato tutti i pascoli dei pastori dichiarandoli “terre demaniali”. Ma negli ultimi cinque anni le autorità israeliane hanno stabilito e autorizzato dozzine di avamposti e fattorie su queste terre, concedendole come pascoli ai coloni che praticano la pastorizia. In questa realtà di apartheid i nuovi signori della terra aiutano ad espellere i palestinesi che sono qui da secoli.

“Mi sveglio alle 3 del mattino e vado a costruire case in Israele”

Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interna di Israele, usa i permessi di ingresso come mezzo per fare pressione sui giovani palestinesi affinché tengano la testa bassa. Gli attivisti che come me sono sulla lista nera dello Shin Bet non riceveranno mai un permesso. Temendo per il loro benessere molte persone della mia età scelgono di tacere sulle loro opinioni politiche e costruiscono case nelle colonie israeliane per guadagnarsi da vivere.

Eppure molti, se non la maggior parte, dei giovani laureati non riescono a ottenere il permesso. Secondo le autorità israeliane solo gli uomini palestinesi sposati di età superiore ai 22 anni possono ottenerlo. In pratica i giovani palestinesi entrano continuamente in Israele illegalmente, nel disperato tentativo di racimolare abbastanza soldi per sposarsi e mettere su famiglia.

L’esercito israeliano sa che ci sono dozzine di varchi lungo il muro di separazione. Ma la sua inazione è deliberata: è una politica redditizia che permette ai palestinesi di raggiungere i datori di lavoro israeliani che, per i propri interessi, possono negare ai lavoratori i loro diritti mantenendo bassi i salari.

Salem al-Halis ha studiato legge con me all’Università di Hebron e lo ricordo come uno degli studenti migliori della classe. Ora però sta lavorando nell’edilizia. “È come una prigione,” mi ha detto al telefono. “Mi sveglio alle 3 del mattino e vado a costruire case in Israele. Ricordo i nostri studi e rido di me stesso e di quello che pensavo. Mangio e dormo al lavoro, nel cantiere. Lontano dalla vita. Lontano dalla famiglia.”

Come Salem, anch’io non riesco a trovare lavoro in Cisgiordania, mentre la mia laurea in legge è coperta di polvere nell’armadio. Ho paura di diventare, come lui, un altro giovane palestinese che eccelle all’università solo per diventare un operaio edile, soffrendo sotto un datore di lavoro israeliano che non ha mai studiato un giorno in vita sua.

 

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




L’occupazione reca danno non solo ai palestinesi, ma anche al pianeta

L’occupazione reca danno non solo ai palestinesi, ma anche al pianeta

Edilizia sprecona, un doppio sistema stradale, viaggi rallentati dai posti di blocco e asfalto al posto di spazi aperti: la politica di Israele in Cisgiordania e a Gaza ha un costo ecologico.

Amira Hass

7 novembre 2021 – Haaretz

 

L’inquinatore numero 1 nei territori palestinesi occupati è il controllo che Israele esercita sulla terra e l’impresa di colonizzazione. Non è una citazione letterale, ma questo è lo spirito di ciò che ha detto la scorsa settimana il Primo Ministro palestinese Mohammad Shtayyeh al summit sull’ambiente COP26.

La sua presenza è stata a stento menzionata sui media internazionali, per non parlare di quelli israeliani, a ulteriore dimostrazione di quanto marginale sia diventata la questione palestinese nell’agenda globale. Ma ciò non sminuisce affatto il danno all’ambiente.

Tutti gli studi e gli articoli relativi alle condizioni ambientali nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania rilevano un rapporto con la politica israeliana. Questi comprendono un dettagliato documento dell’ONU del 2020, rapporti dell’associazione giuridica palestinese Al-Haq nel corso di vari anni ed un articolo pubblicato dal gruppo di esperti palestinesi Al-Shabaka nel 2019 (“Climate change, the Occupation and a vulnerable Palestine” – “Cambiamenti climatici, occupazione e la vulnerabilità della Palestina”).

È tuttavia difficile quantificare l’impatto totale sul riscaldamento del clima delle azioni del governo e dei civili israeliani nei territori conquistati nel 1967.

La relazione della ragioneria dello Stato sulla mancata limitazione da parte di Israele delle emissioni di gas che causano l’effetto serra non menziona nemmeno i territori (occupati). E neppure analizza la spaventosa previsione dell’ONU, risalente al 2012, secondo cui la Striscia di Gaza sarebbe diventata inabitabile entro il 2020 se Israele non avesse profondamente modificato la sua politica verso l’enclave. Sono passati quasi due anni dalla “scadenza” posta dall’ONU e nulla di sostanziale è cambiato. L’ONU deve aver sottovalutato l’enorme capacità di resilienza degli abitanti di Gaza.

Tuttavia un’affermazione chiave presente nel report della Ragioneria getta luce sulla rimozione israeliana riguardo all’impatto dell’occupazione sull’inquinamento locale e globale. Così si legge: “In una situazione di conflitto o di potenziale conflitto tra i principali obiettivi dei ministeri del governo e l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas causa dell’effetto serra, i ministeri danno priorità alla promozione degli obiettivi centrali dei loro compiti ministeriali rispetto alla riduzione delle emissioni – fatta eccezione per il Ministero della Protezione Ambientale…”

Come rispecchiato nella politica dichiarata e messa in atto, gli obiettivi dei governi israeliani – compreso quello attuale – consistono nell’espandere le colonie, spingere sempre più israeliani ed ebrei della diaspora a stabilirsi in Cisgiordania, garantire il totale controllo su circa il 60% della Cisgiordania (“Area C”), perpetuare la separazione tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, mantenere separate le popolazioni palestinese ed ebraica e abituare il mondo, come “soluzione”, alla realtà di enclave palestinesi separate e scollegate tra loro.

Un conseguente scopo non dichiarato è l’indebolimento sistematico dell’economia palestinese. Tutti questi obiettivi hanno un costo, nella forma di un danno ambientale sui generis. Eccone alcuni esempi.

Asfalto fin dove arriva lo sguardo

Parte del danno che l’occupazione sta provocando all’ecosistema si concentra nella superflua e ideologicamente motivata edificazione e costruzione di strade a spese degli spazi aperti e verdi palestinesi.

L’edificazione per gli ebrei nelle colonie si sta molto espandendo, sia per migliorare l’attrattività che per impadronirsi di quanta più terra palestinese possibile.

Nell’ottica di mantenere separate le due comunità, dei palestinesi e dei coloni, e di consolidare l’annessione de facto, Israele sta creando un sistema di doppie strade. Il principale criterio per pianificare nuove strade è soddisfare la domanda dei coloni presenti e futuri, il che significa accrescere il loro numero e accorciare i tempi di spostamento tra le colonie e Israele. I veicoli palestinesi sono indotti o costretti a viaggiare su strade secondarie, parallele e circonvallazioni. Ai palestinesi è vietato percorrere la maggior parte delle strade che collegano le colonie tra loro e con Israele, o devono percorrere strade che non li portano da nessuna parte.

Inoltre migliaia di metri quadri in Cisgiordania sono asfaltati e non rispondono ad alcuno scopo civile: “strade di sicurezza” intorno alle colonie, a spese dei terreni da pascolo e da coltivazione palestinesi, e strade asfaltate lungo la tortuosa barriera di separazione, ad uso esclusivo dei veicoli militari.

Per di più gli alberi vengono sradicati, i terreni agricoli distrutti e l’accesso ai terreni coltivati sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza è interdetto con l’apparente motivazione della sicurezza, a causa della violenza dei coloni e allo scopo di espandere le colonie e le loro infrastrutture.

Aumento delle emissioni

Inoltre le restrizioni alla mobilità e diversi divieti relativi allo sviluppo sono fattori che concorrono all’incremento delle emissioni di gas serra. Le distanze e i tempi di percorrenza tra le enclave e le sotto-enclave palestinesi – cioè dai villaggi vicini alla loro città capoluogo – aumentano a causa dei posti di blocco fissi e mobili e delle zone a cui i palestinesi è vietato l’accesso, come le colonie e i blocchi di colonie. Tempi di percorrenza più lunghi significano più consumo di carburante e maggiori emissioni.

Non solo vi è stato un generale aumento di automobili sulle strade: ingorghi di traffico sono provocati dai posti di blocco lungo le strade e agli ingressi delle città. I veicoli che vanno a passo di lumaca negli ingorghi inquinano di più di una guida continua a velocità normale. Uno studio del 2018 dell’istituto palestinese di ricerca applicata Arij ha riscontrato che in Cisgiordania ogni anno vengono sprecati 80 milioni di litri di carburante a causa degli intasamenti ai posti di blocco, delle zone chiuse alle auto palestinesi e della necessità di fare delle deviazioni. Lo studio ha stimato che questo provoca ogni anno 196.000 tonnellate in più di emissioni di CO2.

Lo studio ha anche calcolato che vengono perse 60 milioni di ore di lavoro all’anno, con un costo di 270 milioni di dollari.

Israele controlla tutte le risorse idriche del Paese, ma non considera la Striscia di Gaza come parte geografica naturale di esso, che significherebbe godere di una quota delle risorse idriche, come per esempio avviene per le comunità ebraiche nel deserto. Perciò la Striscia di Gaza deve arrangiarsi con una parte delle falde acquifere costiere all’interno dei suoi confini artificiali, che non forniscono acqua sufficiente per una popolazione di due milioni di persone. Dopo essere state sfruttate eccessivamente per 30 anni, le falde sono state inquinate da infiltrazioni saline e di acque reflue. Circa il 96% della sua acqua è considerato non potabile e deve essere depurato in impianti specifici. Tale depurazione consuma un’enorme quantità di carburante al giorno, poi l’acqua depurata viene trasportata [con autobotti ndtr.] nelle case, producendo ulteriori emissioni.

Collegare Gaza alla rete idrica nazionale israeliano (che utilizza grandi quantità delle risorse della Cisgiordania) sarebbe stato meglio sia per i palestinesi che per il clima del pianeta.

In Cisgiordania Israele raziona la quantità di acqua che i palestinesi possono estrarre e usare. A causa delle scarse quantità il flusso nelle tubazioni è debole e l’acqua non riesce a raggiungere molti quartieri e villaggi palestinesi situati ad altezze relativamente elevate. Tuttavia ancora una volta la soluzione è ad alto dispendio di carburante: trasferire l’acqua in autobotti che la fanno confluire in cisterne sui tetti e in pozzi.

Inoltre Israele rifiuta di consentire a decine di villaggi e di comunità di pastori, soprattutto nella Valle del Giordano e nelle colline a sud di Hebron, di collegarsi al sistema idrico. Queste comunità palestinesi impoverite devono dipendere dall’acqua trasportata da autobotti e trattori, per la quale pagano cinque volte tanto se non di più, e questo senza contare il danno recato all’ecologia.

Tendenze neoliberiste

Il controllo di Israele limita le possibilità energetiche e di sviluppo dei palestinesi in enclave isolate senza contiguità territoriale.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha incoraggiato, e continua a farlo, tendenze neoliberiste che danneggiano l’ambiente, come l’aumento dei consumi, compreso quello delle automobili. Ma la sua situazione di inferiorità e di soggiogamento rende difficile prevedere e pianificare a lungo termine,

anche attraverso aspetti che accolgano comportamenti economici di responsabilità ambientale.

Ridurre le emissioni richiede lo sviluppo del trasporto pubblico a prescindere da considerazioni di profitto. Ma, anche se l’Autorità Nazionale Palestinese non era in bancarotta, un progetto come un sistema ferroviario tra le città palestinesi è stato reso impossibile a causa della frammentazione del territorio in sacche isolate, senza nessuna autorità sulla terra circostante. Il miglioramento delle opzioni esistenti di trasporto pubblico, come autobus e minibus, richiede di finanziare le imprese private e comunali e di aumentare il salario dei conducenti, considerando i costi aggiuntivi dovuti alle attese ai posti di blocco e al dover effettuare deviazioni più lunghe; sono necessarie anche nuove linee di autobus, in grado di viaggiare per più ore.

La soluzione di ridurre i perenni ingorghi di traffico aggiungendo delle uscite dalle città (e costruendo corsie per il trasporto pubblico in ogni distretto) è difficile se non impossibile.       Ciò è dovuto alle colonie e ai loro piani di espansione, alle norme di pianificazione discriminatorie dell’Amministrazione Civile (israeliana) e alla richiesta dell’apparato di sicurezza che il numero di punti di ingresso e di uscita dalle città palestinesi sia il più limitato possibile.

Il controllo israeliano sulla terra, le risorse idriche e la pianificazione in più del 60% della Cisgiordania non consente all’ANP di razionalizzare la distribuzione dell’acqua: cioè di distribuire attraverso tubazioni l’acqua dalle aree fertili (per esempio Gerico) ad altre, come Betlemme.

Il controllo e le limitazioni alla pianificazione da parte israeliana rendono inoltre più difficile all’ANP spostare le aree industriali “sporche” fuori dalle zone residenziali ed espandere i confini urbani sulla base di considerazioni ambientaliste.

Inoltre, l’Autorità Nazionale Palestinese viene limitata nella sua possibilità di sviluppare una consapevolezza tra la popolazione riguardo alla protezione ambientale immediata e a lungo termine ed è geograficamente vincolata nella sua possibilità di applicare le leggi e le norme esistenti – per esempio per l’impedire l’interramento a scopo di lucro di rifiuti israeliani e altri generi di scorie nei terreni dei villaggi palestinesi.

La cronica debolezza finanziaria dell’ANP, il suo mancato rispetto della promessa che il processo di Oslo avrebbe portato alla fine dell’occupazione e la sua fama di essere corrotta hanno ridotto al minimo la fiducia della gente in essa. La fiducia della popolazione è essenziale quando un governo intende far crescere la consapevolezza e formulare politiche in ogni ambito, dalla delicata ma necessaria questione della riduzione della natalità, alla riduzione dell’utilizzo di pesticidi chimici, alla promozione dell’uso del trasporto pubblico. La divisione interna palestinese tra Gaza e la Cisgiordania, tra Hamas e Fatah, sviluppata e approfondita dalla politica israeliana di isolare e scollegare Gaza, limita inoltre lo sviluppo e la messa in atto di una pianificazione e progettazione a lungo termine sull’ambiente da parte palestinese.

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)