Le forze israeliane uccidono sei palestinesi in una incursione in Cisgiordania

Redazione di Al Jazeera

11 giugno 2024 – Al Jazeera

L’attacco a Kafr Dan vicino a Jenin avviene mentre l’esercito israeliano intensifica i suoi attacchi mortali nella Cisgiordania occupata.

Il ministero palestinese della Sanità ha affermato che le forze israeliane hanno ucciso sei palestinesi durante una incursione nel villaggio di Kafr Dan, vicino a Jenin, nella Cisgiordania occupata mentre Israele intensifica gli attacchi sul territorio durante la guerra contro Gaza.

L’agenzia di notizie ufficiale palestinese Wafa ha riferito che martedì una unità di forze speciali israeliane è entrata nel villaggio ed ha assediato una casa prima di bombardarla.

Secondo il ministero della Sanità i sei uomini assassinati avevano un’età compresa tra i 21 e i 32 anni,. Uno di loro, Ahmad Smoudi, era il fratello di un ragazzo di 12 anni ucciso dalle forze israeliane a Jenin nel 2022.

Il battaglione di Jenin delle brigate al-Quds – l’ala militare della Jihad islamica palestinese – ha affermato già nella giornata di martedì di essere stato impegnato in un “agguerrito” combattimento contro le truppe israeliane a Kafr Dan.

L’esercito israeliano ha sostenuto di aver portato avanti un’operazione di “controterrorismo” nel villaggio, uccidendo quattro palestinesi armati. L’esercito ha aggiunto di aver usato nell’attacco elicotteri da combattimento e di non aver avuto vittime.

Lunedì l’esercito israeliano aveva ucciso quattro palestinesi ad ovest di Ramallah e altri tre a Jenin venerdì.

L’esercito israeliano ha condotto regolarmente incursioni mortali in Cisgiordania negli ultimi anni – un trend che è aumentato con l’inizio della guerra contro Gaza.

Secondo le autorità palestinesi della sanità da ottobre, quando a Gaza è scoppiata la violenza, Israele ha ucciso in Cisgiordania 544 palestinesi, inclusi 133 minori.

I palestinesi in Cisgiordania hanno anche affrontato violenti attacchi da parte dei coloni israeliani, che nei mesi passati hanno aggredito gli agricoltori e hanno effettuato incursioni nelle città palestinesi, spesso con la protezione dell’esercito israeliano.

Rawhi Fattouh, del Consiglio Nazionale Palestinese, ha affermato che le incursioni israeliane nella Cisgiordana sono la “continuazione dei massacri, della pulizia etnica e del genocidio che hanno come obiettivo il popolo palestinese a Gaza.

Questo governo razzista [israeliano] cerca con tutti i mezzi di far scoppiare la situazione in Cisgiordania e nella regione e di trasformare il conflitto in una lotta religiosa e ideologica che trascinerebbe la regione in una spirale di violenza, uccisioni e massacri,” ha affermato Fattouh in una dichiarazione.

Egli chiede alla comunità internazionale di intervenire e di “porre fine a questa follia.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Al canto di ‘bruciare Shu’afat’ e ‘spianare Gaza’, una moltitudine di persone partecipa alla marcia delle bandiere a Gerusalemme

Oren Ziv

6 giugno 2024 – +972Magazine

Ministri israeliani si sono uniti all’annuale celebrazione della conquista di Gerusalemme est, durante la quale slogan razzisti e aggressioni ai giornalisti sono diventati dominanti.

L’annuale Marcia delle Bandiere del “Giorno di Gerusalemme” è stata a lungo famigerata per la sua aperta ostentazione della supremazia ebraica. Ogni anno, in ricordo dell’occupazione israeliana di Gerusalemme est nel 1967 e della continuazione del controllo sulla città, decine di migliaia di ebrei israeliani, per la maggior parte giovani, si scatenano nella Città Vecchia, attaccano e aggrediscono gli abitanti palestinesi e gridano slogan razzisti – il tutto sotto la protezione della polizia.

Tuttavia, se in passato si poteva dire che solo alcuni dei gruppi partecipanti si comportavano in tal modo, quest’anno questa è diventata la norma. Incoraggiati dalla brutale guerra di vendetta del loro governo contro la Striscia di Gaza quasi tutti i gruppi che ieri pomeriggio si sono radunati alla Porta di Damasco prima della marcia si sono uniti alle incitazioni.

I cori includevano: “Che il tuo villaggio possa bruciare”, “Shuafat va a fuoco”, “Maometto è morto” e il canto di vendetta genocida che comprende una ingiunzione biblica trasferita sui palestinesi: “Possa il loro nome essere cancellato”. Il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir e il ministro delle finanze Bezalel Smotrich sono arrivati entrambi alla Porta di Damasco con le loro guardie del corpo verso la fine dei festeggiamenti e si sono uniti gioiosamente a coloro che festeggiavano mentre cantavano e danzavano.

Oltre ai cori, alcuni partecipanti recavano bandiere del gruppo suprematista ebraico Lehava e cartelli con le scritte: “Un proiettile nella testa di ogni terrorista” e “Kahane aveva ragione”. Alcuni si riferivano esplicitamente all’attuale attacco a Gaza, auspicando di “spianare Rafah” e sventolavano la bandiera di Gush Katif, il blocco di insediamenti israeliani evacuato come parte del “disimpegno” del 2005 e che molta parte della destra israeliana spera di vedere ricostruito. Alcuni portavano cartelli raffiguranti gli ostaggi ancora in mano a Hamas a Gaza.

Tuttavia il focus principale per i partecipanti non era Gaza, ma il Monte del Tempio/Moschea di Haram al-Sharif. La giornata è iniziata con più di 1000 ebrei che sono saliti alla spianata, che è sacra sia per gli ebrei che per i musulmani e amministrata congiuntamente dalla polizia israeliana e dalla fondazione islamica Waqf. Molti di loro avevano bandiere israeliane e alcuni hanno violato lo “status quo” di lunga data del sito mettendosi a pregare.

Erano guidati da attivisti che intendono non solo permettere agli ebrei di pregare nel sito, ma ricostruire un tempio ebraico sul sito della Moschea di Al-Aqsa e della Cupola della Roccia. Nella marcia un gruppo di giovani indossava magliette raffiguranti la Cupola della Roccia demolita.

A parte arrestare una manciata di manifestanti che hanno aggredito dei giornalisti, la polizia – compresi il capo della polizia e diversi comandanti di alto grado – non ha fatto niente per impedire o punire le istigazioni. Questa mancanza di intervento era particolarmente spudorata vista la repressione seguita al 7 ottobre, che ha visto la polizia arrestare e accusare di istigazione a delinquere centinaia di cittadini palestinesi per essersi opposti alla guerra di Gaza sia sui social media che in piccole proteste nonviolente.

Questo doppio standard è intrinseco alla politica del governo: ciò che conta non è il contenuto di quel che viene detto, ma chi lo dice. Così, mentre i palestinesi vengono arrestati per i post sui social media, agli ebrei viene lasciato libero sfogo per celebrare il Giorno di Gerusalemme aggredendo i palestinesi e auspicando la loro morte.

Giornalisti aggrediti

Le violenze sono iniziate circa alle 13. A quell’ora la polizia aveva già sgombrato un percorso attraverso il quartiere musulmano della Città Vecchia costringendo gli abitanti palestinesi a restare dentro le loro case e i proprietari di negozi a chiuderli.

Perciò i soli obbiettivi rimasti verso cui i primi arrivati per partecipare ai festeggiamenti hanno potuto dirigere la propria rabbia erano alcuni giornalisti già arrivati per documentare la marcia. Il giornalista palestinese Saif Kwasmi è stato aggredito dalla folla, mentre anche il giornalista di Haaretz Nir Hasson è stato gettato a terra e preso a calci. Ma invece di arrestare qualcuno dei manifestanti, la polizia in seguito ha fermato e interrogato Kwasmi, che è stato accusato di istigazione.

La maggior parte dei giornalisti non è riuscita ad arrivare vicino ai manifestanti. Prima dell’arrivo del grosso della folla la polizia ha spinto tutti i giornalisti in una piccola area prospicente la Porta di Damasco: secondo i comandanti della polizia permettere ai giornalisti di seguire i partecipanti attraverso la Città Vecchia sarebbe stata una provocazione pericolosa, data l’ostilità dei manifestanti nei confronti dei media.

Dopo parecchie ore e molte richieste all’ufficio del capo della polizia ai giornalisti è stato permesso di andare in mezzo alla folla festante, ma solo dopo essere stati avvisati che lo facevano a proprio rischio. A quel punto i manifestanti avevano già lanciato molte bottiglie di plastica nella zona della stampa e schernito i giornalisti dal basso.

Poco prima della fine delle celebrazioni Ben Gvir è arrivato alla Porta di Damasco. Circondato da una folta scorta che impediva ai giornalisti di avvicinarsi e fare domande, il ministro ha colto l’opportunità di dichiarare il proprio totale ripudio del delicato status quo religioso sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif, che ha da tempo statuito che gli ebrei hanno il diritto di visitare il sito, ma non di pregarvi.

Sono tornato qui per mandare un messaggio a Hamas e in ogni casa a Gaza e in Libano: Gerusalemme è nostra. La Porta di Damasco è nostra. Il Monte del Tempio è nostro”, ha proclamato. “Oggi, seguendo le mie indicazioni, gli ebrei sono entrati liberamente nella Città Vecchia e hanno pregato liberamente sul Monte del Tempio. Lo diciamo nel modo più semplice: tutto questo è nostro.”

Nelle precedenti marce per il Giorno di Gerusalemme Ben Gvir era solo uno dei partecipanti. Oggi è il ministro in carica della polizia, che è responsabile della sicurezza della marcia e della facilitazione della salita degli ebrei alla spianata di Al-Aqsa. Benché il primo ministro benjamin netanyahu abbia preso le distanze dalla dichiarata intenzione di Ben Gvir di sovvertire lo status quo, in ultima istanza è il ministro della sicurezza nazionale ad imporre la linea di condotta.

Una volta il Giorno di Gerusalemme era un evento eccezionale, in cui il razzismo e la supremazia ebraica che da sempre sono esistiti nella società israeliana si rendevano evidenti a tutti. Ma oggi, mentre l’orgia di vendetta dell’esercito prosegue a Gaza con l’attivo sostegno della maggior parte degli israeliani, tra la crescente violenza dell’esercito e dei coloni in Cisgiordania e le campagne di persecuzione e silenziamento del dissenso all’interno della Linea Verde, la Marcia delle Bandiere è diventata solo un ulteriore esempio di come Israele abbia normalizzato l’estremismo.

Oren Ziv è un fotogiornalista, lavora per Local Call ed è membro fondatore del collettivo di fotografia ‘Activestills’.

(Traduzione dall’inglese di cristiana Cavagna)




Aggiornamento sulla Cisgiordania – Due giovani uccisi, diversi arrestati, città saccheggiate dalle forze israeliane

Redazione di Palestine Chronicle

2 giugno 2024 Palestine Chronicle

Secondo l’agenzia di stampa ufficiale palestinese WAFA il numero dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane in Cisgiordania dal 7 ottobre è salito a 521, tra cui 131 minori.

Due giovani palestinesi sono stati uccisi dalle forze di occupazione israeliane nella città di Gerico, nella Cisgiordania occupata.

Secondo l’agenzia di stampa ufficiale palestinese WAFA sabato notte le forze israeliane hanno fatto irruzione nel campo profughi di Aqabat Jaber e hanno aperto il fuoco su due giovani vicino al cimitero occidentale.

Uno dei giovani, Ahmed Hamidat, 15 anni, è stato ucciso e Mohammed Al-Baytar, 17 anni, è rimasto ferito ma è morto domenica mattina presto a causa delle ferite. Al-Baytar è stato arrestato dopo che è stato impedito alle squadre sanitarie di raggiungerlo.

Al-Baytar è stato trasportato in condizioni critiche dalle forze israeliane in un ospedale della Gerusalemme occupata, dove è morto.

Con l’uccisione di Al-Baytar, il numero dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane in Cisgiordania dal 7 ottobre è salito a 521, tra cui 131 minori, ha riferito WAFA.

Raid nelle città

Le forze di occupazione israeliane hanno preso dassalto diverse città nel territorio occupato, tra cui la città di Jaba, a sud di Jenin e Beit Ummar, a nord di Hebron (Al Khalil).

A Jabale forze israeliane hanno arrestato due palestinesi, Baraa Malaysha e Adnan Khaliliya.

Coloni ebrei illegali hanno attaccato le case palestinesi nel villaggio di Madaman, nella Cisgiordania occupata. Dopo l’attacco le forze israeliane hanno preso d’assalto il villaggio. I filmati condivisi dal Quds News Network (QNN) mostrano veicoli militari che sfrecciano per le strade della città.

Diversi arrestati

Secondo WAFA le forze israeliane hanno arrestato durante la notte e fino a domenica mattina 15 palestinesi nel corso delle operazioni in diverse aree della Cisgiordania occupata.

La Commissione per gli Affari dei Detenuti e degli Ex Detenuti e la Associazione dei Prigionieri Palestinesi (PPS) hanno affermato in una dichiarazione congiunta che le operazioni di arresto hanno avuto luogo nei governatorati di Jenin, Hebron, Betlemme e Nablus.

Dal 7 ottobre 2023 il numero totale di palestinesi arrestati nella Cisgiordania occupata è salito a oltre 8.985, riferisce WAFA.

Casa demolita

Domenica le forze di occupazione hanno demolito anche la casa di Ghassan al-Atrash nel villaggio di Al-Walaja, a sud-ovest di Gerusalemme.

Secondo WAFA Khader Al-Araj, capo del consiglio del villaggio di Al-Walaja, ha detto che un grande contingente di soldati israeliani, accompagnati da un bulldozer militare, ha fatto irruzione nel quartiere Ain Juwaiza del villaggio. Hanno proceduto alla demolizione della casa di Al-Atrash, un abitante del luogo, che misurava circa 120 metri quadrati.

Al-Araj afferma che le autorità di occupazione israeliane impiegano spesso tali misure per tormentare gli abitanti e spingerli a lasciare il villaggio, adducendo futili pretesti per le demolizioni.

Le autorità israeliane rifiutano di consentire praticamente qualsiasi costruzione palestinese nellArea C, che costituisce il 60% della Cisgiordania occupata e rientra sotto il pieno controllo militare israeliano, riferisce WAFA. Ciò ha costretto i residenti a costruire senza ottenere permessi, raramente concessi, per fornire riparo alle loro famiglie.

Terreni agricoli dati alle fiamme

Wafa fa sapere che nel frattempo coloni ebrei illegali hanno appiccato il fuoco a terreni agricoli nel villaggio di Duma, a sud di Nablus.

Suleiman Dawabsheh, capo del Consiglio del villaggio di Duma, ha detto che i coloni hanno appiccato incendi nel terreno agricolo a ovest del villaggio, coltivato ad ulivi e grano.

Dawabsheh afferma che i coloni hanno impedito agli abitanti del villaggio di accedere ai terreni in fiamme.

In un precedente incidente, circa due mesi fa, i coloni avevano incendiato la stessa zona. In quell’occasione le forze di occupazione israeliane non hanno permesso alle squadre di protezione civile di avvicinarsi e spegnere lincendio, riporta WAFA.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Di questo passo Israele non arriverà al centesimo compleanno

Meirav Arlosoroff

19 maggio 2024, Haaretz

Nel loro ultimo saggio gli esperti di politiche di governo Eugene Kandel e Ron Tzur segnalano come l’élite israeliana fuggirà dal paese quando vedrà che le varie “tribù” non riescono a mettersi d’accordo su un contratto sociale

Il 76esimo Giorno dell’Indipendenza di Israele, la scorsa settimana, è stato il Giorno dell’Indipendenza più triste e cupo dalla fondazione dello Stato. Invece di festeggiare, le persone si chiedevano: e dopo? Israele uscirà dalla crisi e vivrà fino a celebrare il centenario?

La risposta è no, non nella direzione in cui sta andando. È questa la conclusione di uno straordinario documento che delinea una nuova visione di Israele, redatto dal prof. Eugene Kandel e da un altro esperto di politiche di governo, Ron Tzur.

Per sei anni Kandel ha guidato il Consiglio Economico Nazionale presso l’ufficio del primo ministro ed è stato molto vicino al primo ministro Benjamin Netanyahu. Tzur è stato un alto funzionario sia della Commissione per l’Energia Atomica che della Commissione per il Servizio Civile.

Come dice Tzur, “Noi condividiamo una rara conoscenza degli architetti del sistema”.

Scrivono che “Nello scenario di business as usual dell’attuale configurazione politica c’è una buona probabilità che Israele non sopravviverà come Stato ebraico sovrano nei prossimi decenni”.

E sostengono che “Dopo il tentativo del governo lo scorso anno di indebolire il sistema giudiziario, seguìto al sud dal massacro di Hamas, è emerso il quadro di un totale fallimento del sistema, della gestione e delle azioni dell’amministrazione… e non si tratta della debacle di un singolo settore… piuttosto di un collasso.”

Kandel e Tzur cercano quindi di spingere l’opinione pubblica ad agire perché sia chiaro che è necessario un cambiamento drastico. “Nell’odierno regime politico israeliano non c’è alcuna possibilità di porre fine alla guerra interna”, scrivono. “Dopo il terribile disastro e il conseguente collasso funzionale, non è più possibile agire all’interno dello stesso quadro e aspettarsi risultati migliori.”

Kandel e Tzur osservano la divisione di Israele in fazioni che si combattono per imporre all’intero Stato la loro visione del mondo. Molte persone sperano che questa guerra di identità finisca, ma il divario è troppo ampio. Quindi gli autori prospettano che una volta finita la guerra di Gaza la lotta intestina riprenderà con massima forza.

Ad esempio, se uno dei due schieramenti ottiene la maggioranza alla Knesset, cercherà di imporre la sua visione del mondo a tutti gli altri, come è accaduto con il tentativo di revisione giudiziaria. Non c’è spazio per il compromesso. Tutto ciò alimenta la disintegrazione della società e porterà inevitabilmente ad un abbandono di massa dello Stato.

Tre sfide

Il documento presenta le tre sfide esistenziali di Israele. La prima è economica: l’esistenza di tre gruppi che vengono finanziati a discapito degli altri. Questi sono gli ultraortodossi – gli haredim – la comunità araba e i coloni. Nessuno dei tre è in grado o disposto a finanziare da sé il proprio stile di vita.

Secondo Kandel e Tzur, nel 2018 l’intero sussidio dal bilancio nazionale per gli haredim è stato di 20 miliardi di shekel (oltre 5 milioni di euro) e per la comunità araba di 25 miliardi di shekel. (I coloni non sono considerati un gruppo nel bilancio nazionale) In realtà, a causa delle differenze di dimensione dei popoli, le spese per gli ultra-ortodossi sono quasi il doppio: ogni famiglia Haredi riceve 120.000 shekel (30.000 € ca) all’anno in finanziamenti o sussidi e ogni famiglia araba 65.000 shekel.

Questo denaro viene pagato dalle famiglie ebree non Haredi, 20.000 shekel all’anno, ma si prevede che questa cifra aumenterà perché si prevede che la comunità ultra-ortodossa triplicherà le sue dimensioni entro il 2065. Quindi i 20.000 shekel aumenteranno fino a 60.000, alle previsioni odierne. A ciò si aggiunge il previsto aumento del bilancio della difesa – un peso irragionevole imposto alla popolazione maggiormente produttiva e contribuente di Israele.

La seconda sfida è lo scontro di valori. L’ex presidente Reuven Rivlin ha coniato il concetto delle “quattro tribù” e ha invocato un nuovo contratto sociale su cui tutte e quattro siano d’accordo. Ma Kandel e Tzur non sono d’accordo con Rivlin; dicono che ci sono solo tre tribù e che non c’è alcuna possibilità che si accordino su un contratto sociale.

Le tre tribù principali sarebbero: la prima costituita dal popolo dello Stato ebraico-democratico-liberale che vuole vivere come in una democrazia occidentale. Gli autori stimano che la grande maggioranza degli israeliani, compresi gli arabi israeliani e molti ebrei religiosi, si identifichino con questa tribù.

I membri della seconda tribù sostengono uno Stato della Torah. Gli ultra-ortodossi, la fazione di destra della comunità religiosa sionista (gli hardalim) e la fazione di destra degli ebrei religiosi non haredi probabilmente sceglierebbero di vivere secondo le leggi di questa tribù. Preferirebbero le sentenze dei rabbini ai valori e alle leggi democratiche.

I membri della terza tribù si oppongono all’esistenza di uno Stato ebraico e preferirebbero uno Stato per tutti i cittadini. Kandel e Tzur stimano che gran parte della comunità araba, nonostante il nazionalismo arabo, preferisca i valori della tribù democratico-liberale.

In ogni caso Kandel e Tzur ritengono che il divario non possa più essere colmato. Scrivono che, una volta iniziato lo scontro sulla revisione giudiziaria, è diventato chiaro a molti che “le concezioni di identità e le visioni dei due principali gruppi ebraici si scontrano e sono addirittura inconciliabili”. Si è imposta la mentalità “noi o loro”.

Questo scontro è totale, poiché ogni fazione ha la sensazione che l’altro gruppo stia imponendo i propri valori con la forza.

“La guerra per la nazione, per l’identità e i valori di ognuno contro tutti gli altri rappresenta una minaccia esistenziale per il Paese, perché una tale guerra non può essere fermata senza un marcato cambiamento nei sentimenti di tutte le parti”, scrivono gli autori. Ci deve essere “un ritorno alla sensazione che non vi sia alcun pericolo per i valori di nessuno dei diversi gruppi identitari”.

Kandel e Tzur aggiungono che sarebbero felici si raggiungesse un compromesso “basato sul dialogo in una visione condivisa, soprattutto dopo la terribile perdita che abbiamo subito il 7 ottobre”. Ma dicono che anche prima di quella tragedia “la nostra analisi non dava molte speranze in un compromesso tra valori opposti, e, a nostro avviso, ancor meno dopo la fine dei combattimenti”.

Sostengono che i dati demografici della comunità ultraortodossa determineranno l’indirizzo di uno Stato nazionalista basato sulla Torah. Si prevede che gli israeliani produttivi, che credono nei valori liberali sia eticamente che economicamente, perderanno.

Kandel e Tzur prevedono un’emigrazione di massa dell’élite produttiva israeliana, quasi una corsa agli sportelli. Tra un decennio o due in Israele ci sarà una corsa. L’élite semplicemente fuggirà.

“Questo genere di processo può ribollire per anni, ma se accade è probabile che sia acuto e veloce, come una corsa agli sportelli. Quando arriva la decisione di andarsene, c’è un vantaggio nel farlo prima della grande ondata,” scrivono gli autori.

“Sarà più facile per i primi andarsene senza danni finanziari, mentre coloro che tenteranno di emigrare più tardi subiranno delle perdite poiché l’economia si contrarrà, il valore dei loro beni diminuirà e verranno imposte restrizioni al trasferimento di denaro all’estero. … Sono le persone che reggono l’alta tecnologia, la medicina, il mondo accademico e parti importanti dell’establishment della difesa. La maggior parte di loro ha interessanti opportunità di lavoro all’estero, e alcuni hanno già preso in considerazione l’opzione di immigrare”.

Senza questa élite, Israele subirà un declino socioeconomico e nella sicurezza. La partenza di 20.000 menti critiche sarebbe sufficiente perché Israele rimanga senza alta tecnologia, mondo accademico e sicurezza.

“Molti politici hanno affermato dalla tribuna parlamentare che il paese potrebbe farcela senza i piloti, gli esperti dell’alta tecnologia e i membri di altri gruppi dell’elite'”, scrivono gli autori. “Oggi più che mai, l’arroganza di queste affermazioni è chiara, perché la spina dorsale esistenziale di Israele dipende da un gruppo relativamente piccolo di persone. Senza di esse non è semplicemente possibile sostenere il paese nel tempo”.

L’abbandono di questa élite significherà la fine della crescita economica, ed eroderà il tenore di vita. E non basta. “Il 7 ottobre ci ha dimostrato il terribile costo da pagare quando la percezione del nemico è che Israele sia debole”, scrivono Kandel e Tzur. “Un ulteriore indebolimento potrebbe comportare sfide alla sicurezza più estreme e gravi”, persino “il collasso di Israele e la fine del sogno sionista”.

L’apatia del pubblico

Sì, la fine del sogno sionista. Questa è la previsione di Kandel e Tzur, e la cosa scioccante è la terza sfida: poche persone si accorgono di questo pericolo esistenziale, e dunque nessun politico muove un dito per prevenirlo.

Questa è una minaccia esistenziale più grande dell’Iran, scrivono gli autori. Similmente al destino di Gerusalemme – abbandonata dalla comunità laico-liberale, rimasta una città povera che ha bisogno del denaro statale per sopravvivere – Israele è suscettibile di abbandono. Ma nel caso di Israele non ci sarà un ente superiore che possa erogare budget.

Quindi Kandel e Tzur mirano ora a risvegliare gli elettori israeliani affinché comprendano che dipende solo da loro. Invece di preoccuparsi delle dicotomie sinistra-destra, laico-religioso, l’elettore israeliano dovrebbe concentrarsi sulla questione centrale: come evitare che lo Stato di Israele imploda a causa delle ampie spaccature interne.

Gli autori elencano tre obiettivi a cui gli elettori israeliani dovrebbero aspirare. Il primo è un profondo cambiamento nelle priorità politiche, un cambiamento che non avverrà a meno che gli elettori non lo impongano ai funzionari da loro eletti. “Non voteremo mai più per coloro che ci distruggono”, dice Tzur.

“Noi non siamo la base di nessuno, né di destra né di sinistra, e ne abbiamo abbastanza di essere trattati da imbecilli. Voteremo solo per chi ci spiegherà cosa intende fare, come intende costituire un governo ampio, ripristinare la fiducia della gente, consolidare la società, riabilitare il servizio pubblico e rafforzare l’economia e la difesa”.

C’è bisogno di un cambiamento profondo anche nel modo in cui Israele è governato. “L’attuale struttura governativa e politica incoraggia e perpetua gli schemi distruttivi in cui si trova Israele”, scrivono gli autori.

“Il sistema esistente induce i funzionari eletti ad agire in modo divisivo e indirizzato al conflitto, per alzare la bandiera della ‘vittoria’ di una parte sull’altra. … La soluzione deve garantire che nessun gruppo abbia la capacità di imporre i propri valori a chiunque altro.” È inoltre necessario un profondo cambiamento economico affinché tutti i segmenti della società possano sostenersi da soli.

La radicale soluzione di Kandel e Tzur sarà presto pubblicata insieme ad altre proposte in un progetto del Jerusalem Institute for Policy Research. Il progetto è stato gestito da Ehud Prawer, ex capo del gruppo Società e Popolazione presso l’ufficio del primo ministro – un altro israeliano con grande esperienza nell’amministrazione di governo.

Come dice Tzur: “Non siamo disposti ad arrenderci. Entrambi siamo diventati nonni l’anno scorso e siamo entrambi completamente impegnati a continuare qui la catena generazionale non solo delle nostre famiglie ma dell’intero popolo. Da nessun’altra parte.”

Ma nessuna soluzione sarà possibile se gli elettori israeliani non cambieranno la loro percezione e non si renderanno conto che le minacce all’esistenza di Israele provengono dall’interno. I politici devono proporre piani coraggiosi per confrontarsi con loro.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Da quando è iniziata la guerra intere zone della Cisgiordania sono state svuotate delle loro comunità palestinesi

Hagar Shezaf

5 maggio 2024 – Haaretz

Il 7 ottobre ha portato al massimo la violenza dei coloni: da allora 18 comunità di pastori palestinesi sono state espulse dalle proprie case, e ora gli abitanti vivono in abitazioni di fortuna nei pressi di altri villaggi, impoveriti e in ansia per il loro futuro.

Ibrahim Mohammed Malihat guarda verso la valle del Giordano. Dalla zona in cui vive, a circa 20 minuti di macchina da Gerusalemme, si possono vedere ampie distese dove la gente del suo villaggio era solita pascolare le greggi, ma che ora sono sbarrate.

“Ora da qui a Gerico tutto è vuoto. Non andiamo giù o a sud. Tutto è rimasto in mano solo ai coloni, non ci sono posti in cui le greggi possano pascolare,” afferma.

Nel villaggio di Maghayyir A-Dir un gregge di pecore vaga e mangia erba secca sparsa sul terreno. “Le teniamo solo tra le case,” nota Malihat. “Qui ci sono delle telecamere,” aggiunge, indicando una zona presso il villaggio, “e se le pecore escono, i coloni le vedono e mandano uomini con il volto coperto. Ci dicono: ‘Noi siamo la polizia e l’esercito.’”

Il 7 ottobre, dall’inizio della guerra a Gaza, nell’area quattro comunità di pastori sono state cacciate dalle loro zone di residenza a causa di minacce e violenze dei coloni. Altre quattro comunità vicine erano state cacciate nei due anni precedenti, tra il villaggio di Duma e quello di Malihat. Anche un’altra comunità più a sud è stata espulsa. Ciò ha un effetto drammatico sia sulle vite delle comunità rimaste sul posto che su quelle che se ne sono andate. I loro abitanti descrivono un processo di impoverimento e una grande paura per il futuro.

Secondo le stime del ricercatore Dror Atkes dell’ong [israeliana] Kerem Navot che monitora le politiche di insediamento e di gestione del territorio israeliane in Cisgiordania, attualmente nella zona ci sono circa 125.000 dunam (12.500 ettari) in cui ai palestinesi è impedito l’ingresso per timore di violenze e a causa delle restrizioni imposte dai coloni e dall’esercito.

Le terre ad est della strada Allon (la 458), che corre tra Maghayyir A-Dir e Duma, sono state svuotate delle comunità che vi vivevano. Rimangono per lo più colonie e avamposti ebraici. “Qualche anno fa sono arrivati qui coloni della zona di Nablus e Duma, quelli con i riccioli lunghi,” dice Ibrahim, indicandone la lunghezza con le mani. “Gradualmente si sono spostati a sud finché sono arrivati qui. Nessuno del governo gli ha detto di fermarsi. Vai in ogni villaggio della zona e vedrai che là hanno distrutto tutto.”

Avvisi di evacuazione

Una delle maggiori comunità espulse nei mesi dall’inizio della guerra è stata quella del villaggio di Wadi al-Siq, separato da Maghayyir A-Dir solo da un bellissimo “wadi” [torrenti secchi in buona parte dell’anno, ma le cui acque sotterranee consentono, a volte, la crescita della vegetazione, n.d.t.] verde. Nei pressi delle rovine del villaggio, che sono ancora visibili, oggi pascolano vacche del vicino avamposto fondato solo circa un anno fa. La strada che univa i villaggi ora è bloccata da pietre.

Secondo Ibrahim il giorno in cui gli abitanti di Wadi al-Siq sono stati espulsi un gruppo di coloni che conosce, e con cui in precedenza aveva avuto buoni rapporti, è entrato nel suo villaggio. Dice che hanno raccomandato che gli abitanti se ne andassero per 10 giorni perché i coloni erano “arrabbiati” in seguito al 7 ottobre.

Come altre comunità della zona la gente di Wadi al-Siq ha subito violenze e minacce anche prima dello scoppio della guerra, ma dopo sono notevolmente aumentate. I circa 180 abitanti di più o meno 20 famiglie che compongono la comunità sono fuggiti per salvarsi la vita dopo un attacco contro il villaggio il 12 ottobre e le minacce che lo hanno preceduto. Gli abitanti si sono divisi e oggi vivono in rifugi provvisori nei pressi di vari villaggi palestinesi, su terreni su cui non hanno diritti e che temono saranno obbligati ad abbandonare.

“L’11 ottobre abbiamo portato donne e bambini da parenti in un altro villaggio perché dormissero lì. Pensavamo che sarebbe stato per due o tre giorni e poi li avremmo riportati indietro,” racconta Abd el-Rahman Mustafa Ka’abneh dalla sua nuova residenza temporanea su terreni agricoli nei pressi del villaggio di Taybeh. Il giorno dopo, mentre alcuni abitanti del villaggio erano occupati a preparare le loro cose per andarsene, sono arrivati sul posto coloni e soldati e li hanno aggrediti. Vari abitanti e attivisti che erano arrivati per aiutarli sono stati arrestati e detenuti per ore all’interno del villaggio. Alcuni, come già riportato da Haaretz, sono stati picchiati e maltrattati, anche con gravi percosse, ustioni e tentativi di violenza sessuale.

“Ci hanno detto che avevamo mezz’ora per andarcene, la gente è scappata via,” ricorda Ka’abneh. Ingobbito, sembra avvilito mentre descrive quello che è successo: “Non sapevamo dove andare. All’inizio ce ne siamo andati a piedi. C’erano bambini piccoli portati dai genitori e giovani che si sono nascosti nel wadi. Quando è venuto buio la gente dei villaggi di Ramun e Taybeh ci ha dato delle tende.” La polizia ha detto ad Haaretz che sono in corso indagini sull’attacco contro Wadi al-Siq, mentre l’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] ha dato la stessa risposta riguardo a un’inchiesta da parte del reparto investigativo penale dell’esercito sulla condotta dei soldati. Haaretz è venuto a sapere che come parte dell’indagine alcuni soldati e un civile sono stati interrogati e ammoniti. A ottobre l’IDF ha congedato il comandante della forza militare dell’unità della Frontiera del Deserto coinvolta nell’incidente.

Gli abitanti non osano tornare alle proprie case dato che l’esercito non è in grado di assicurare che non verranno aggrediti. Da quando sono scappati le uniche volte che, in coordinamento con l’Amministrazione Civile [l’ente militare che gestisce le questioni civili nei territori palestinesi occupati, ndt.] e scortati da attivisti, sono tornati al villaggio per prendere le cose che avevano lasciato lì hanno scoperto che la maggior parte dei loro beni era sparita.

“Hanno rubato tutto quello che c’era in casa mia. Hanno distrutto e preso tutto: la stufa, gli utensili da cucina, gli armadi,” dice Ka’abneh. “Non abbiamo trovato praticamente niente.” Stima che il valore delle proprietà rubate dalla casa sia di circa 200.000 shekel (circa 50.000 euro).

Nel tentativo di recuperare quello che avevano perso membri della comunità hanno contratto prestiti, venduto parte del loro gregge e ricevuto donazioni da alcune associazioni. “Avevo 100 pecore e ne ho vendute 40 per niente, perché c’era un conflitto e siamo scappati,” dice Suleiman

Lui e la sua famiglia ora vivono nei dintorni del villaggio di Ramun, vicino ad altri abitanti. “Personalmente ho un debito di 40.000 shekel (circa 10.000 euro)” aggiunge. La perdita di pascoli ha colpito gravemente i mezzi di sussistenza degli abitanti, in parte a causa del fatto che ora sono obbligati a cercare foraggio per le greggi a un prezzo significativamente più alto di prima.

Alla fine di marzo gli abitanti, insieme all’organizzazione per i diritti umani Torat Tzedek, hanno presentato una petizione in cui chiedono che lo Stato smantelli gli avamposti costruiti nei pressi del loro villaggio in modo che possano tornare alle proprie case. Nel ricorso, presentato dall’avvocato Tamir Blank, si sostiene che, dato che l’avamposto è fonte di violenza ed è coinvolto in scorrerie sui terreni, lo Stato deve dare la priorità e accelerare la sua evacuazione.

Finché la questione non verrà risolta gli abitanti devono affrontare un futuro incerto. Per esempio Abd el-Rahman Mustafa Ka’abneh e la sua famiglia vivono su un terreno privato di proprietà di un abitante di Taybeh. È temporaneo. Qui non siamo in affitto e l’accordo è che ce ne andremo dopo la guerra. Non pensavamo che la guerra durerasse così tanto,” dice.

La provvisorietà è evidente persino nei minimi dettagli, come il fatto che l’attuale abitazione non ha il bagno. “Non c’è futuro, questa è la fine,” dice Suleiman Ka’abneh. “Questa è la terra di qualcun altro. Ci lasceranno stare qui per quattro mesi, sei mesi, un anno, ma alla fine è la loro terra e non ci vogliono qui.”

Vigilanza costante

Dall’inizio della guerra l’organizzazione per i diritti umani B’Tselem ha documentato l’espulsione dalle proprie case di 18 comunità di pastori in Cisgiordania. Secondo Etkes, riguardo a quanto avvenuto nella zona della strada Allon, bisogna tener conto di un’area più grande di 126.000 dunam [12.6000 ettari] tra Duma e Maghayyir A-Dir. Spiega che, dati gli espropri di terre da parte dello Stato e l’espulsione di altre comunità nella zona tra [la colonia di] Ma’aleh Adumim e le colonie della Valle del Giordano, in effetti ora ci sono circa 160.000 dunam [16.000 ettari] in cui i palestinesi non possono più pascolare [le greggi].

Oltre a quest’area, dall’inizio della guerra altre cinque comunità di pastori nelle colline a sud di Hebron sono state espulse o spostate e due comunità sono state mandate via anche prima della guerra.

A Khirbet Zanuta, la più grande delle comunità espulse dal 7 ottobre nella zona delle colline meridionali di Hebron, la locale scuola è stata danneggiata molto gravemente in quello che sembra essere stato un atto di vandalismo. Durante una visita sul posto circa sei mesi dopo l’espulsione degli abitanti i libri di testo erano sparsi sul terreno tra le macerie e un poster scolastico in inglese pendeva ancora su uno dei muri. Fuori una scritta in arabo adornava quello che rimaneva dell’edificio: “Abbiamo il diritto di studiare,” affermava.

L’espulsione delle comunità è inestricabilmente legata agli avamposti vicini alle terre palestinesi. Gli avamposti sono notevolmente aumentati negli ultimi anni ed è chiaro che gli Stati Uniti e altri Paesi che hanno iniziato a imporre sanzioni contro i coloni lo riconoscono.

Per esempio la comunità di Khirbet Zanuta viveva nei pressi della fattoria Meitarim di Yinon Levy, un avamposto illegale che era sottoposto a sanzioni USA sulla base del fatto che è stato coinvolto in aggressioni e minacce contro i palestinesi. Nel caso di Wadi al-Siq il vicino avamposto che è stato creato all’inizio del 2023 si chiama Havat Machoch e il suo leader è Neria Ben-Pazi, un colono pastore ben noto che nelle scorse settimane è stato anche lui sottoposto a sanzioni USA.

Per qualche mese è stato persino escluso dalla Cisgiordania su ordine del comandante del Comando centrale israeliano. In seguito a questo ordine parecchi rabbini sionisti religiosi, tra cui Dov Lior e Shmuel Eliyahu [noti per le loro posizioni estremiste, ndt.], sono andati a visitare l’avamposto di Ben-Pazi come atto di solidarietà. Le sanzioni contro i coloni sono state accolte con dure proteste da ministri estremisti come Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir.

Prima della guerra Mohammed Suleiman Malihat, abitante della comunità di pastori chiamata Maraja’at, attraversava con il suo gregge la strada nei pressi del suo villaggio. Dall’altra parte della strada negli scorsi anni è stato costruito l’avamposto chiamato Fattoria di Zohar: a un certo punto, dopo essere stati ripetutamente cacciati da coloni della zona circostante, tutti i pastori rimasti hanno rinunciato ad attraversarla.

“Dal momento in cui è iniziata la guerra, se i coloni mi vedevano entrare anche solo due metri nella zona arrivavano immediatamente. Mi sono reso conto che per la mia sicurezza non potevo più farlo,” dice Malihat. Ha anche venduto una parte del suo gregge a causa della riduzione della sua terra da pascolo. Dice che da quando anche un’altra zona di pascolo che porta alla colonia di Mevo’ot Yericho è diventata inaccessibile per gli abitanti della comunità, egli pascola solo su terreni vicini al villaggio.

Pochi giorni prima che Haaretz visitasse Maraja’at, nelle vicinanze di Ras al-Uja, un altro dei villaggi della zona, due strutture di proprietà di famiglie fuggite sono state incendiate. Sul posto sono stati ripresi dei coloni e una fonte militare ha confermato ad Haaretz che, secondo quanto a conoscenza dell’IDF, sono stati i coloni a incendiare l’edificio. Il messaggio ha avuto una forte ripercussione tra gli abitanti di Maraja’at. La famiglia di Malihat dice anche che in piena notte a volte i coloni armati si piazzano all’ingresso della loro casa senza dire una parola.

In seguito a ciò la comunità vive in costante allerta. Durante la nostra visita sul posto gli abitanti hanno notato un gregge di proprietà dei coloni che pascolava sopra la collina e la figlia di Malihat, Aaliya, è corsa là a filmarlo mentre altri abitanti chiamavano la polizia. Secondo loro la sensazione di minaccia è peggiorata negli ultimi mesi, soprattutto dopo che la comunità vicina se n’è andata a causa delle vessazioni. “I coloni sono riusciti a cacciarli e ciò ha stimolato la loro ingordigia [di terra],” riflette Malihat. “Da allora hanno iniziato a venire più spesso da noi.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Diversi palestinesi feriti in seguito ai nuovi attacchi dei coloni in Cisgiordania

Fayha Shalash , Ramallah

13 aprile 2024 – Middle East Eye

Gli attacchi sono avvenuti il giorno dopo che centinaia di coloni hanno devastato il villaggio di al-Mughayyir, uccidendo un palestinese e ferendone altri 25.

Sabato coloni israeliani hanno attaccato dei villaggi nella Cisgiordania occupata, ferendo diversi palestinesi e dando fuoco a case e automobili, con la totale protezione dell’esercito israeliano.

L’attacco è avvenuto il giorno dopo che centinaia di coloni, molti dei quali armati, hanno devastato il villaggio di al-Mughayyir, a nordest di Ramallah, dopo che venerdì un adolescente israeliano era scomparso da una vicina colonia.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sabato ha detto che il ragazzo israeliano scomparso è stato trovato morto in Cisgiordania.

Barakat Dawabsha, un abitante di Duma, a sud di Nablus, ha detto a Middle East Eye che più di 500 coloni armati hanno attaccato il villaggio dai lati nord, ovest e sud.

Ha detto che parecchie persone sono state ferite da proiettili veri e decine di case e veicoli sono stati bruciati. I coloni hanno anche assalito le persone con bastoni e pietre, causando ulteriori traumi. Dawabsha afferma: “L’esercito israeliano protegge i coloni. Ho visto con i miei occhi un soldato dare fuoco ad un veicolo. La situazione è molto difficile e le persone cercano di proteggere le loro case e proprietà con i loro corpi”.

La Mezzaluna Rossa palestinese ha detto che i soldati israeliani hanno impedito alle sue squadre di entrare nel villaggio per curare i feriti. Alla fine un’ambulanza è stata lasciata entrare dopo tre ore.

Secondo Dawabsha decine di palestinesi abitanti del villaggio non hanno potuto ritornare alle loro case da venerdì sera a causa delle chiusure imposte dall’esercito israeliano in diversi villaggi a sud di Nablus e a nord di Ramallah per condurre le ricerche del colono scomparso.

Decine di veicoli e autobus pieni di coloni stanno ancora arrivando agli ingressi di Duma per partecipare al feroce attacco.

Secondo la Wafa [agenzia stampa ufficiale dell’Autorità Palestinese, ndt.]

da sabato mattina i coloni israeliani hanno attaccato anche le cittadine di Silwad, Turmus Aya, Sinjil e Deir Dibwan.

Il più terribile attacco negli ultimi anni’

Centinaia di coloni spalleggiati da soldati venerdì pomeriggio hanno attaccato al-Mughayyir, sparando agli abitanti e bruciando proprietà palestinesi. Secondo la Mezzaluna Rossa Palestinese, un palestinese, identificato come il 26enne Jihad Abu Alia, è stato ucciso e altri 25 sono stati feriti, inclusi otto con pallottole vere.

Kazem al-Hajj, uno degli attivisti che si oppongono alle colonie israeliane nel villaggio, ha detto a Middle East Eye che l’attacco è stato “il più terribile degli ultimi anni.”

Appena gli abitanti del villaggio hanno sentito dell’attacco dei coloni hanno cercato di contrastarli dirigendosi verso la zona a nord. Jihad Abu Alia era uno di loro, ma è stato colpito alla testa dai proiettili dei coloni ed è caduto immediatamente a terra”, dice Hajj.

Abu Alia è morto dissanguato perché i soldati israeliani hanno impedito alle ambulanze di raggiungere il ferito.

Durante l’assalto i coloni hanno dato fuoco a più di 40 strutture palestinesi e a 50 veicoli ad al-Mughayyr, provocando incendi anche nei terreni agricoli vicini.

La scena era terribile, nuvole di fumo riempivano il villaggio e il suono delle ambulanze non cessava in mezzo alle intense e continue sparatorie”, dice Hajj.

I coloni provenivano dall’avamposto Mallahi, creato negli ultimi due anni sopra il campo dell’esercito israeliano Jabeit, originariamente costruito su terra palestinese a nord di Ramallah.

Hajj ha detto che il villaggio ha subito attacchi quotidiani da parte dei coloni “che perseguivano una politica di insediamento pastorizio per controllare i terreni del villaggio”, con la palese protezione dei soldati israeliani.

In isolamento

Diverse ore dopo l’inizio dell’attacco l’esercito israeliano si è ritirato dal villaggio, ma è rimasto ai suoi ingressi imponendo una chiusura totale e installando posti di blocco.

Le forze israeliane hanno anche devastato parecchi villaggi palestinesi vicini e hanno condotto operazioni di ricerca con il sostegno di un elicottero.

Durante la notte cinque palestinesi sono stati feriti in un altro attacco dei coloni nel villaggio di Abu Falah vicino a Ramallah, come riferito dall’agenzia stampa ufficiale palestinese Wafa.

Il giornalista Mohammed Turkman ha detto che i soldati hanno deliberatamente attaccato i giornalisti mentre documentavano l’attacco dei coloni a al-Mughayyir.

Uno dei soldati mi ha preso di mira e un altro mi ha sparato direttamente. Fortunatamente il proiettile è finito vicino a me, ma avrei potuto essere uno dei feriti”, ha detto Turkman a MEE.

Turkman ha detto che il vasto attacco è stato condotto dai coloni da un lato e dai soldati dall’altro, mentre veniva totalmente impedito alle ambulanze di avvicinarsi.

I giornalisti non hanno potuto lasciare il villaggio dopo che l’esercito israeliano si è ritirato e ha isolato al-Mughayyir e sono stati costretti a rimanere a casa di Hajj.

Due auto bruciate durante il pogrom dei coloni al villaggio al-Mughayyir. Foto Mohammed Turkman

Non è la prima volta che abbiamo subito aggressioni durante il nostro lavoro. Durante ogni reportage i soldati cercano di attaccarci, soprattutto se intorno ci sono dei coloni”, dice Turkman.

Al-Mughayyr è rimasto isolato sabato e le forze israeliane hanno impedito che il corpo di Abu Alia fosse portato nel villaggio per il funerale, costringendo a rimandarlo fino a quando l’esercito non rimuoverà i posti di blocco.

(Traduzione dall’inglese di cristiana Cavagna)




Facoltà dell’Università Ebraica in Scienze della Repressione

Orly Noy

23 marzo 2024 – +972 magazine

La sospensione della docente palestinese Nadera Shalhoub-Kevorkian svuota di ogni significato i valori di pluralismo e uguaglianza proclamati dall’università.

Un’università che promuove diversità e inclusione è un’università che favorisce l’uguaglianza.” Queste sono alcune delle parole usate dall’Università Ebraica di Gerusalemme, una delle migliori istituzioni accademiche del Paese, per descrivere i suoi presunti valori e la sua visione. Ma l’università non sembra aver avuto alcun problema a gettare dalla finestra tali valori quando la scorsa settimana ha deciso di sospendere la professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian, un’eminente studiosa di diritto e cittadina palestinese di Israele.

La scandalosa decisione, presa senza la corretta procedura, è arrivata subito dopo il podcast di Shalhoub-Kevorkian su Makdisi Street in cui aveva esposto le sue opinioni critiche contro il sionismo, l’attacco israeliano contro Gaza e gli opinabili precedenti dello Stato riguardo ad affermazioni su avvenimenti relative alla guerra. Ma la studiosa è sotto osservazione da parte dell’università da mesi (anzi da anni), specialmente dopo che ha firmato una petizione alla fine di ottobre in cui chiedeva un cessate il fuoco a Gaza e descriveva la guerra come un “genocidio.” Shalhoub-Kevorkian, ha scritto l’università, deve “trovare un’altra casa accademica allineata con le sue posizioni.”

Indubbiamente la sospensione svuota di ogni significato alcuni corsi “illuminati” che offre. Anzi cosa può insegnare ai suoi studenti in un corso intitolato “La Corte Suprema in uno Stato Democratico” un’università che sospende un decano della facoltà senza una discussione? Cosa può insegnare su “libertà, cittadinanza e genere” un’istituzione accademica che si allinea con i sentimenti più estremi e aggressivi? Cosa può insegnare su “Diritti umani, femminismo e cambiamenti sociali” un’istituzione che zittisce e bullizza brutalmente la voce critica di una donna, una docente e un’appartenente a una minoranza perseguitata?

In una dichiarazione in cui parecchi anni fa presentava la sua visione dell’istituzione accademica il preside dell’università, il professor Asher Cohen, che con il rettore, il professor Tamir Sheafer, ha autorizzato la sospensione di Shalhoub-Kevorkian, sostiene che l’università ha “guidato un processo di inclusione di popolazioni che compongono la società israeliana. Noi crediamo in un campus diversificato, pluralistico e ugualitario, dove utenti di diverse formazioni possono familiarizzarsi con i valori della coesistenza.” Queste sono parolone da parte di chi sembra incapace di prendere in considerazione voci politiche critiche che differiscono dalle sue.

Nella stessa dichiarazione Cohen si gloria della profonda responsabilità dell’università “per la società israeliana e specialmente per Gerusalemme.” Questa è la stessa Gerusalemme dove metà della città è sotto occupazione e dove ogni giorno oltre 350.000 palestinesi sono oppressi, le loro case sono demolite e i loro bambini strappati dal letto nel cuore della notte e arrestati arbitrariamente senza che nessuno dei capoccioni nella torre d’avorio di Cohen pronunci una sola parola su di loro.

C’è molto da dire sui quartieri palestinesi di Silwan e Sheikh Jarrah, entrambi a poche centinaia di metri dal campus del Monte Scopus, che affrontano un’occupazione delle loro terre e proprietà da parte dei coloni appoggiati dallo Stato. Ma è particolarmente incredibile che l’Università Ebraica non abbia mai ritenuto opportuno protestare contro la violenta oppressione contro il villaggio di Issawiya, le cui case sono chiaramente visibili dalle finestre degli edifici del campus, a pochi metri di distanza. È possibile che nelle sere che Cohen passa nel suo ufficio non riesca a sentire proprio sotto la sua finestra i rumori degli spari della polizia israeliana che da tempo sono la colonna sonora del villaggio?

Se solo il grande peccato (e lo è davvero) dell’Università Ebraica fosse l’inconsapevolezza! La sospensione di Shalhoub-Kevorkian va ad aggiungersi a una lunga lista di persecuzioni politiche e indottrinamento militaristico promossi dall’istituzione nel corso degli anni.

Dopo tutto questa è la stessa università che nel gennaio 2019 ha assecondato una violenta campagna di incitamento condotta da un gruppo di studenti di destra contro la dottoressa Carola Hilfrich, sostenendo falsamente che lei aveva redarguito uno studente per essere arrivato al campus in uniforme militare. Invece di difenderla dalle false accuse l’università ha emesso una vergognosa lettera di scuse per l’“incidente.” Questa è la stessa università che, nonostante le proteste di studenti e docenti, solo pochi mesi dopo ha scelto di trasformare il campus praticamente in un piccolo campo militare ospitando corsi dell’unità di intelligence dell’esercito israeliano, una delle molte redditizie collaborazioni con l’esercito.

Questa è la stessa università che ha ripetutamente perseguitato e zittito organi studenteschi palestinesi, mentre conferisce crediti accademici a studenti che fanno i volontari per il gruppo di estrema destra Im Tirtzu. E questa è la stessa università che, negli ultimi cinque mesi, non ha detto nulla di come Israele abbia sistematicamente distrutto le scuole e le istituzioni di istruzione superiore di Gaza, tradendo vergognosamente non solo i colleghi di Gaza assediati, bombardati e affamati, ma i principi dell’accademia stessa.

Spiegando la loro decisione in una lettera alla parlamentare Sharren Haskel, il presidente Cohen e il rettore Sheafer hanno accusato Shalhoub-Kevorkian di esprimersi in un modo “vergognoso, antisionista e provocatorio” dall’inizio della guerra, deridendola per aver definito genocidio le politiche di Israele a Gaza. Ma non è la sola a farlo. Non solo il popolo palestinese e centinaia di milioni di persone in tutto il mondo considerano un genocidio la catastrofe a Gaza, ma anche la Corte Internazionale di Giustizia, il massimo tribunale al mondo, ha preso seriamente questa pesante accusa e deliberato che non la si può semplicemente ignorare.

È come se Cohen e Sheafer fossero sorpresi non solo di apprendere che Shalhoub-Kevorkian è palestinese, ma che è anche antisionista, non sia mai! Se il sionismo fosse un prerequisito per l’ammissione all’università i suoi dirigenti sarebbero obbligati a informare ogni docente e studente prima che ne varchino i cancelli. Non sbaglieremmo nel dire che, a parte limiti legali, la ragione è che l’Università Ebraica beneficia della presenza dei palestinesi per presentarsi al mondo accademico internazionale come un modello di pluralismo, progressismo e inclusione. Intanto può continuare a perseguitare quei palestinesi a casa, lontano dagli occhi del mondo.

Questa vergognosa iniziativa sta già echeggiando clamorosamente nel mondo accademico e nei media a livello globale, bollando l’Università Ebraica con la vergogna che si merita. Nel frattempo il solo corso appropriato che riesco a trovare nel modulo dell’università è quello offerto dal Dipartimento di Scienze Politiche: Macchiavelli, il filosofo della tirannide.

Orly Noy è una giornalista di Local Call, un’attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in farsi. È presidente del consiglio di amministrazione di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti trattano delle linee che intersecano e definiscono la sua identità di mizrahi, donna di sinistra, donna, migrante temporanea che vive dentro un’immigrata permanente e il continuo dialogo fra loro.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Una nuova ondata di avamposti dei coloni sta terrorizzando e cacciando i palestinesi dalle loro terre

Imad Abu Hawash 

8 marzo 2024 – +972 Magazine

I palestinesi in Cisgiordania raccontano di come i coloni israeliani, con il sostegno dei militari, stiano intensificando la loro occupazione delle terre per costruzioni illegali.

Sin dalla fine di dicembre i palestinesi che abitavano nel villaggio di Battir, a ovest di Betlemme nella Cisgiordania occupata, sono stati allontanati da porzioni significative delle loro terre. Semplicemente un gruppo di coloni israeliani un giorno è arrivato nella zona che l’UNESCO ha designato come sito del patrimonio mondiale e fondato un nuovo avamposto con alcune baracche per viverci e tenere il bestiame.

Alcuni coloni e pastori hanno preso il controllo dell’area e iniziato a pascolare le proprie greggi sulle terre del villaggio, impedendo ai palestinesi di raggiungere i pascoli,” ha detto a +972 Magazine Ghassan Alyan, un abitante del villaggio. “Hanno persino fatto volare dei droni fra le nostre greggi per disperderle, minacciando di sparare.” 

Di conseguenza contadini e pastori di Battir hanno completamente perso l’accesso alla terra che era la fonte del loro sostentamento. “È diventato impossibile per i palestinesi raggiungere la zona, i coloni possono sparare contro chiunque vi si trovi. I coloni indossano uniformi militari e si spostano con la protezione dell’esercito,” ha continuato Allyan, osservando che la tendenza dei coloni ad arruolarsi nella riserva dell’esercito nel corso della guerra di Israele contro Gaza ha reso più difficile distinguerli dai soldati.  

La gente del villaggio era solita andare a fare escursioni in questa zona, ma ora nessuno può uscire e godersi la natura,” ha aggiunto Alyan. “I coloni girano in macchina usando le nuove strade sterrate che hanno aperto dopo aver stabilito l’avamposto. Gli abitanti di Battir sono terrorizzati. Nessuno si avvicina a questa zona.” 

Negli ultimi cinque mesi in Cisgiordania ampie estensioni di terra di proprietà palestinese sono state di fatto annesse dai coloni israeliani. In alcune zone come Battir i coloni hanno stabilito degli avamposti completamente nuovi, nove secondo una relazione di Peace Now [organizzazione progressista e pacifista israeliana, ndt.].

Se tutte le colonie israeliane in Cisgiordania sono illegali ai sensi del diritto internazionale, la costruzione di avamposti non autorizzati è tecnicamente illegale persino per la legge israeliana. Ciononostante l’esercito israeliano invariabilmente protegge i coloni e in genere lo Stato permette loro di allacciarsi alla rete elettrica e idraulica, a differenza delle comunità palestinesi sulle cui terre sono costruite. 

E con l’attuale governo israeliano di estrema destra la distinzione è ancora più nebulosa: a dicembre il ministro della Finanze Bezalel Smotrich ha destinato agli avamposti in Cisgiordania circa 19 milioni di euro di fondi statali.  

Nel frattempo, secondo il rapporto di Peace Now, dal 7 ottobre i coloni hanno anche asfaltato o portato avanti la costruzione di almeno 18 nuove strade senza un’autorizzazione governativa preventiva, permettendo l’espansione di colonie e avamposti e isolando nel contempo i palestinesi dalle proprie terre. E in parecchi casi, con la copertura della guerra e la collaborazione attiva o tacita dell’esercito, i coloni hanno semplicemente occupato le terre con la forza, le minacce o i decreti militari. 

Quando la guerra finirà i coloni si saranno allargati drammaticamente’

Il 26 novembre al calare dell’oscurità sul villaggio di Ar-Rihiya, proprio a sud di Hebron, il rumore delle escavatrici riempiva l’aria. “I coloni (dal vicino insediamento di Beit Hagai) hanno cominciato a tracciare una strada sterrata che si estende su centinaia di dunam,” ha detto a +972 Ahmad al-Tubasi, un abitante di Ar-Rihiya. “Abbiamo chiamato varie volte la polizia israeliana e quando è finalmente arrivata gli escavatoristi erano scomparsi. La polizia ha fatto finta di non sapere cosa stesse succedendo.” 

Poche settimane dopo i coloni sono ritornati. Odeh al-Tubasi, un contadino che ara la terra di molti abitanti del villaggio, ha raccontato cosa è successo: “Stavo lavorando alle colture invernali quando, a circa 250 metri di distanza, è apparso un veicolo militare, seguito da un altro bianco da cui sono scesi quattro coloni. Ero attanagliato dalla paura mentre si avvicinavano. Mi sono allontanato velocemente con il mio trattore e sentivo che i coloni urlavano in ebraico, ‘Non ritornare qua, ti è proibito entrare e lavorare. Questa è la nostra terra!’” 

La sequenza di eventi spesso segue questo schema: prima i coloni erigono case mobili su terra palestinese, poi la occupano o costruiscono infrastrutture chiave come strade, di solito senza permessi, e poi, dopo attacchi sostenuti e molestie senza intervento di esercito o polizia, espellono i palestinesi dai terreni. Dagli attacchi guidati da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre, oltre 1.000 palestinesi sono stati forzatamente sfollati in questo modo dai villaggi dell’Area C della Cisgiordania, circa il 60% del territorio sotto il totale controllo di Israele, dove sono situate tutte le colonie e gli avamposti.  

L’anno scorso gli abitanti di Beit Awwa, a ovest di Hebron, si sono trovati nel bel mezzo di questo processo con la costruzione di un nuovo avamposto sulle terre del villaggio. La scorsa estate coloni israeliani dall’avamposto di Havat Negohot, con l’appoggio dell’esercito, hanno cominciato a spianare parecchi dunam di terra e a erigere strutture temporanee a circa 50 metri dalle case dei palestinesi. I coloni hanno bloccato l’unica strada che consente l’accesso a sei case dei palestinesi e ai terreni agricoli, costringendo gli abitanti di quelle case a percorrere strade distanti e sterrate e portare cibo e acqua sulle spalle o a dorso d’asino. 

Dopo il 7 ottobre i coloni hanno tracciato una nuova strada ed eretto altre cinque baracche di alluminio, espandendo ulteriormente l’avamposto. Il comune di Beit Awwa, in collaborazione con gli abitanti, ha presentato alla Corte Suprema israeliana una petizione urgente richiedendo la riapertura delle strade. Il 29 gennaio c’è stata un’udienza ma non è stata raggiunta alcuna decisione. 

Secondo Peace Now i coloni, nel tentativo di collegare il nuovo avamposto alla colonia di Negohot, essa stessa costruita su terre appartenenti a Beit Awwa, hanno continuato a lavorare sulla strada mentre era in corso l’azione legale. La nuova strada è stata illegalmente asfaltata senza un vero permesso di progettazione o costruzione, mentre la strada che viene usata dagli abitanti palestinesi resta chiusa.  

Insediare un nuovo avamposto esacerba le nostre sofferenze,” ha detto +972 Yousef al-Swaiti, il sindaco di Beit Awwa. “Quando la guerra sarà finita i coloni si saranno allargati drammaticamente nelle vicinanze del villaggio. Nessuno potrà andarci. Coloni armati potrebbero sparare a qualsiasi abitante del villaggio che tentasse semplicemente di avvicinarsi alla terra confiscata.” 

Attacchi contro gli abitanti del villaggio sono ormai all’ordine del giorno da parte sia di coloni che di soldati. Il 15 novembre Nouh Kharub è stato aggredito da soldati mentre se ne stava seduto con la famiglia sul terreno davanti a casa a Khallet a-Taha, nella periferia orientale di Beit Awwa. 

Uno di loro mi ha picchiato varie volte con un fucile,” ha raccontato. “Sia i soldati che il colono che li aveva accompagnati ci urlavano contro: ‘È vietato ritornare qui,’ e, ‘Vi uccideremo.’ Ci siamo trovati intrappolati in casa, nessuno di noi poteva ritornare a casa nostra mentre i coloni erigevano un nuovo avamposto a 100 metri di distanza.” 

La stessa sorte è toccata a Mohammad Aqtil: la costruzione dell’avamposto ha impedito a lui e alla sua famiglia di accedere alle terre a Khallet a-Taha. “Fuori casa i miei movimenti e quelli dei miei figli sono limitati,” ha spiegato Aqtil. “Non ci è permesso fare niente sulla terra.

Soldati mi dicono in continuazione, ‘Questa è una zona militare, questa casa non è vostra, queste sono terre demaniali.’ Allo stesso tempo i coloni erigono un avamposto con edifici e tende, circondandolo di filo spinato e collegandolo con una strada asfaltata che porta a Negohot. La costruzione è avanzata rapidamente dopo la dichiarazione di guerra.”

È come se volessero vendicarsi’

Talvolta non è necessaria una nuova costruzione per buttar fuori i palestinesi dalle loro terre. Il 2 gennaio il 48enne Yousef Makhamra del villaggio di Khirbet al-Tha’la, in una parte della Cisgiordania meridionale nota come Masafer Yatta, è uscito per arare la sua terra con altri due contadini palestinesi. A causa dell’impennata in anni recenti degli attacchi in questa zona da parte di coloni e soldati israeliani contro i palestinesi al lavoro sulle proprie terre erano accompagnati da attivisti israeliani come “presenza protettiva”, nella speranza di scoraggiare o almeno documentare tali incidenti. Quel giorno è stato tutto inutile. 

Avevamo cominciato a seminare quando è arrivato un veicolo militare,” ha detto Makhamra a +972. Dalla camionetta sono usciti parecchi soldati israeliani e 3 coloni vestiti con pantaloni militari, uno dei quali era Bezalel Dalia che Makhamra sapeva provenire dall’avamposto di Nof Nesher. 

Si sono lanciati contro di noi e mi hanno ammanettato le mani dietro la schiena e lo stesso hanno fatto con Jamil [un altro contadino],” ha continuato. “Alcuni dei coloni hanno impedito agli attivisti israeliani di fare delle riprese mentre Dalia mi prendeva a calci. “Gli ho detto, ‘Vattene via, sono malato,’ ma ha continuato a prendermi a calci. 

Ho avuto molta paura perché i coloni erano con i soldati,” ha continuato Makhamra. “Era come se cercassero vendetta [per il 7 ottobre]. Uno di loro ha detto, ‘Questa è terra per i coloni.’”

Dopo pochi minuti sono arrivati altri attivisti israeliani e i soldati hanno prontamente tolto le manette a Makhamra e Jamil. Uno degli attivisti ha consegnato ai soldati una decisione della Corte che afferma il diritto dei contadini palestinesi a coltivare la terra. Tuttavia l’ufficiale ha insistito che smettessero di lavorare fino a che qualcuno dell’Amministrazione Civile, il corpo dell’esercito responsabile dell’amministrazione dell’occupazione, potesse confermare che i contadini avevano veramente questo diritto. 

I contadini hanno aspettato parecchie ore prima che arrivasse un rappresentante dell’Amministrazione Civile e li autorizzasse a continuare a lavorare. Ma un’ora dopo, un altro colono, Issachar Mann dell’avamposto di Havat Maon, è arrivato con dei soldati che di nuovo hanno chiesto ai contadini palestinesi di interrompere il lavoro fino a una valutazione dell’Amministrazione Civile, nonostante fosse appena arrivato un rappresentante ad autorizzare i lavori. 

Questa volta non è arrivato nessun altro e dopo altre quattro ore i soldati hanno emesso un ordine militare di abbandonare la zona. Da allora i contadini palestinesi di Khirbet al-Tha’la che, come Makhamra, lavorano terre vicine alle colonie e agli avamposti non sono più stati in grado di raggiungerle. 

Il primo marzo il comandante della divisione cisgiordana dell’esercito israeliano ha emesso un ulteriore ordine militare dichiarando che le terre di Khirbet al-Tha’la vicino alle colonie e agli avamposti sono una zona militare chiusa. L’esercito ha rifiutato di confermare a +972 se l’ordine resta in vigore.

E se i miei bambini fossero stati in casa?’

Raed Yassin e la sua famiglia vivono alla periferia del villaggio di Burqa, a nord ovest di Nablus. La loro casa è situata ad appena 50 metri da un avamposto che in anni recenti è diventato un simbolo del potere dei coloni: Homesh.

All’inizio un insediamento autorizzato dal governo alla fine degli anni ’70 su terre appartenenti agli abitanti di Burqa, è stato uno dei quattro insediamenti nella Cisgiordania settentrionale che Israele aveva abbandonato in concomitanza con il “disimpegno” da Gaza nel 2005. Ma presto i coloni cominciarono a ritornare illegalmente alla colonia smantellata, ricostruendo una yeshiva (scuola religiosa) tutte le volte che le autorità la demolivano.

La loro persistenza ha dato frutti alla fine del 2022 con l’insediamento del governo israeliano di estrema destra che, come uno dei suoi primi ordini del giorno, ha abrogato la Legge del Disimpegno, permettendo quindi ai coloni di entrare legalmente nei territori che erano stati abbandonati. Lo scorso maggio i coloni hanno cominciato lavori di costruzione per espandere la yeshiva, sempre in violazione della legge ma con l’appoggio del ministero della Difesa. Dal 7 ottobre quella costruzione, e gli attacchi contro i palestinesi di Burqa, hanno visto un’impennata. 

L’aggressione più recente è avvenuta il 9 gennaio. “Ero nel mio campo e mia moglie e i bambini erano fuori casa in visita a parenti,” ha raccontato Yassin. “Nel corso della giornata ho ricevuto una chiamata da uno degli abitanti della zona perché i coloni stavano attaccando la nostra casa. Ci sono ritornato di corsa ma quando sono arrivato si erano già ritirati. 

Dalle immagini delle nostre cineprese di sorveglianza ho visto 15 coloni mascherati tagliare la recinzione intorno alla casa, danneggiare i dintorni, rompere i tubi della fogna, sradicare alberi e cercare di togliere le protezioni di finestre e porte,” ha continuato. “Era spaventoso: e se i miei bambini fossero stati a casa?” 

Dall’inizio della guerra Yassin e la sua famiglia sono stati costretti a dormire varie notti a casa di parenti che vivono nel villaggio, ma più all’interno, lontano da Homesh. “Le notti che passiamo a casa io sto sempre sveglio,” ha detto. “Potrebbero venire i coloni e incendiarla.” 

Coloni con uniformi militari controllano tutto’

Anche i palestinesi del villaggio di Qaryut, situato tra Nablus e Ramallah, sono stati privati dell’accesso a una porzione ancora maggiore delle loro terre in conseguenza della violenza dei coloni. 

Qaryut si estende su un’area di circa 20.000 dunam (circa 2000 ettari), la maggior parte classificata come Area C e piantata a olivi. Tuttavia negli ultimi 50 anni il villaggio è stato gradualmente circondato da colonie israeliane: Eli, costruita nel 1984, Shvut Rachel, del 1995 e Shilo del 1979. Collettivamente queste colonie, così come parecchi altri insediamenti recentemente costruiti, hanno confiscato più di 14.000 dunam (1400 ettari) delle terre del villaggio.

Dal 7 ottobre la situazione è ulteriormente peggiorata. “Alla maggior parte della popolazione del villaggio, oltre 3.000 persone, è stato impedito di raccogliere le olive,” si è lamentato Ghassan al-Saher, un abitante del villaggio. “Sia i coloni che l’esercito hanno impedito l’accesso ai terreni, bloccando la strada con del terriccio. I coloni hanno occupato i campi e tagliato numerosi alberi.” 

Secondo al-Saher i coloni hanno deliberatamente distrutto infrastrutture palestinesi nel villaggio. Hanno attaccato una struttura agricola costruita con il sostegno della Croce Rossa Internazionale di cui avevano beneficiato 10 famiglie palestinesi, danneggiando serre, serbatoi dell’acqua e tagliando le tubature dell’acqua. Hanno anche occupato la sorgente di Qaryut, vitale per il villaggio. “L’hanno trasformata in un parco per loro,” ha detto al-Saher. “Chiunque si avvicini alla sorgente rischia di essere ucciso.”

Un altro abitante, Bashar al-Qaryuti, ha aggiunto: “Quando è cominciata la guerra abbiamo perso tutte le terre del villaggio classificate come Area C. La vita nel villaggio si è paralizzata: non possiamo raggiungere le nostre terre nelle vicinanze. Hanno attaccato il villaggio e aperto il fuoco. Molti giovani del villaggio non dormono la notte per paura di un attacco dei coloni. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Coloni israeliani entrano a Gaza per fondare un avamposto ‘simbolico’

Oren Ziv

1 marzo 2024 – +972 Magazine

Decine di coloni e attivisti di destra hanno assaltato il valico di Erez e costruito due strutture di legno senza che soldati e polizia intervenissero.

Ieri pomeriggio oltre 100 israeliani hanno assaltato il valico di Erez nel nord di Gaza nel più significativo tentativo di ristabilire colonie ebraiche nella Striscia dall’inizio della guerra. Un gruppetto è riuscito a penetrare a Gaza per parecchie centinaia di metri prima di essere intercettato da soldati israeliani, mentre circa altri 20 sono entrati nell’area fra i due muri che costituiscono la barriera che cinge la Striscia. Là hanno stabilito un “avamposto” nello stile che si vede comunemente in Cisgiordania, costruendo per parecchie ore senza interventi da parte di esercito o polizia. 

Dai primi momenti della guerra è stato chiaro che i politici israeliani di destra e i leader dei coloni hanno percepito l’opportunità di cambiare radicalmente lo status quo in Israele-Palestina. Per mesi ci sono state richieste sempre più pressanti, non ultima a gennaio in un’importante conferenza a Gerusalemme in cui alti funzionari hanno presentato i loro piani per rioccupare Gaza, spesso mentre si chiedeva contestualmente di espellere dalla Striscia i suoi 2.3 milioni di abitanti palestinesi. In parallelo attivisti di destra, quasi tutti giovani, hanno cominciato regolarmente a dimostrare contro l’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia nei pressi della recinzione di Gaza. Tuttavia l’azione di ieri ha marcato un nuovo picco nelle loro attività. 

Verso le 14 gli attivisti hanno cominciato a riunirsi in una stazione ferroviaria a Sderot, città nel sud di Israele vicino a Gaza. In quel punto di incontro iniziale per quella che era ufficialmente una “protesta” per rendere onore a Harel Sharvit, un colono ucciso mentre prestava servizio a Gaza, l’atmosfera era calma, persino sonnolenta. Un’auto della polizia è passata nei pressi senza reagire a quanto stava avvenendo. Da qui gli attivisti si sono mossi in auto private verso il checkpoint di Erez, l’unico valico civile fra Israele e la Striscia di Gaza, classificato dall’esercito israeliano come “zona militare chiusa” da quando è stata brevemente occupata dai palestinesi nel corso dell’attacco guidato da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre. 

Arrivati vicino al posto di blocco gli attivisti sono usciti dalle loro auto e hanno iniziato una manifestazione. A questo punto hanno incontrato un altro convoglio di veicoli pieni di “giovani delle colline”, giovani coloni violenti che regolarmente stabiliscono nuovi avamposti in Cisgiordania e attaccano i palestinesi per costringerli a lasciare le loro terre. Almeno due di loro erano armati di fucili come quelli usati dall’esercito, e hanno portato materiali da costruzione per erigere un avamposto. 

A un certo punto alcuni di loro hanno cominciato a correre verso il posto di blocco e sono riusciti ad attraversarlo non ostacolati dai pochi soldati presenti incapaci di fermarli. Nello spazio fra i due muri che circondano la Striscia circa una ventina di loro ha cominciato a erigere due strutture usando i materiali che avevano portato: assi e pali di legno e lamiere di ferro per i tetti. Nel frattempo un gruppetto di giovani coloni è penetrata di corsa ancora più dentro Gaza, sempre senza che i soldati glielo impedissero.

Le radio dei soldati hanno ricevuto il messaggio che un certo numero di persone era entrato a Gaza e sono stati mandati jeep militari e persino due carri armati per cercarli. Circa mezz’ora dopo una jeep militare ha riportato i giovani sul lato israeliano del valico senza arrestarli. Sono usciti dalla jeep fra gli applausi degli altri attivisti, unendosi al gruppo più grande che cantava “È nostra.”

Per parecchie ore chi era arrivato nello spazio fra i due muri ha continuato senza impedimenti a costruire l’avamposto che hanno chiamato New Nisanit, come una delle colonie di Gaza abbandonate come parte del “disimpegno” del 2005. Come in Cisgiordania i soldati sono rimasti nei pressi a offrire protezione invece di cercare di fermarli.

Questo è il nostro Paese’

Amiel Pozen e David Remer, entrambi diciottenni, sono due dei coloni che sono riusciti a penetrare per circa 500 metri entro Gaza. Dopo essere stati prelevati e riportati al posto di blocco dall’esercito israeliano hanno parlato con +972

Non avevamo paura di entrare (a Gaza), il Santo è con noi e le Forze di difesa israeliane erano lì per aiutarci,” ha detto Remer. “Noi siamo venuti qua (perché) vogliamo tornare a casa. Io vivo in una comunità di deportati da Gush Katif (blocco di insediamenti ebraici a Gaza sfollato nel 2005) e abbiamo voluto ritornarci. Dopo tutto quello che è successo non c’è dubbio che dobbiamo ritornarci. 

La sensazione è molto bella, come tornare a casa,” ha continuato Remer. “È nostra. Il Santo, che Egli sia benedetto, ha detto che è nostra. Se non ci saremo noi sappiamo cosa ci sarà.”

Pozen ha aggiunto: “Siamo venuti in rappresentanza dell’intera popolazione, del popolo ebraico. Noi vogliamo ritornare in tutta la Terra di Israele, in tutte le parti della nostra Terra Santa. Non ci sono ‘due stati per due popoli’, è sbagliato. Il popolo di Israele appartiene alla Terra di Israele.”

Riguardo alla possibilità di persuadere il governo a sostenere il reinsediamento a Gaza Pozen ha affermato: “Vorrei che il governo capisse (ciò che) la maggioranza delle persone ha già capito: noi siamo qui. È nostra. Non ci sono ostacoli politici o internazionali. Non dobbiamo tenere nessun altro in considerazione. È una questione interna. Dobbiamo andare a Gaza, distruggere tutti i terroristi là e costruirvi noi.”

Un altro dei coloni fermati dall’esercito dopo essere penetrato in profondità dentro Gaza ha mostrato ai suoi amici sul cellulare la foto di una pianta di fragole in un orto palestinese dicendo: “Guardate com’è bello il Paese.”

Nel corso della serata i giovani coloni hanno continuato ad aggirare l’esercito e a correre verso l’avamposto. Molti l’hanno fatto strisciando in un buco nella recinzione probabilmente creato durante gli eventi del 7 ottobre, finché i soldati non hanno portato un bulldozer per chiuderlo con del terriccio.

Molti dei giovani erano delle stesse organizzazioni che hanno passato parecchie delle scorse settimane cercando, spesso senza successo, di impedire agli aiuti umanitari di raggiungere Gaza. Ai loro occhi c’è un legame fra il trattenimento degli aiuti per i palestinesi e la rifondazione di colonie ebraiche a Gaza: entrambi sono visti come un mezzo per ottenere una “vittoria” decisiva.

Mechi Fendel, un’attivista di destra di Sderot, ha detto a +972: “Siamo venuti qui ad affermare che il giorno dopo la fine della guerra dobbiamo insediarci ed espandere le città ebraiche su tutta la Striscia di Gaza. Perché se non lo facessimo diventerà come un nido di vespe. Non si può lasciare un vuoto. Non c’è motivo per volere che si ripeta. Io vivo a un chilometro dalla Striscia di Gaza. Non posso avere dei terroristi come vicini e il 7 ottobre ci hanno fatto vedere di cosa sono veramente capaci.”

Per quanto riguarda la costruzione di un avamposto vicino alla recinzione ha spiegato: “Far vedere che abbiamo costruito due case è un atto simbolico. Sono venuti con queste grosse assi di legno e in pratica hanno costruito due strutture qui nella Striscia di Gaza. Naturalmente è simbolico perché non ci passeranno la notte. Ma il punto è: qui è dove dobbiamo stare. Questo è il nostro Paese. Non possiamo lasciare disabitata un’intera striscia di terra.”

E cosa succederebbe ai palestinesi di Gaza se si stabilissero delle colonie ebraiche? “Se sono disposti ad accettare la giurisdizione israeliana, a lasciarci entrare e controllare il loro sistema educativo e aiutarli finanziariamente, allora, se sono pacifici, lasciamoli stare,” ha sostenuto Fendel. “Fino ad ora non ho mai trovato un palestinese che sia pacifico. Come ho scritto, i lavoratori palestinesi (che lavorano in Israele) per decine di anni sono diventati terroristi in un secondo.

Penso che il governo quando vedrà che noi siamo con loro, che il popolo lo vuole, sarà d’accordo,” ha continuato. “Perché neanche il governo vuol vedere nascere un nido di vespe. Penso che se noi abbiamo le persone e la volontà e facciamo vedere di essere là, siamo coraggiosi e vogliamo farlo, il governo ci aiuterà.”

Prima gli assalti dei soldati, adesso dei coloni’

Le dinamiche hanno ricordato le tipiche scene in Cisgiordania, con i coloni a cui viene data la libertà di azione mentre i soldati restano a guardare nonostante siano in una zona militare chiusa e alcuni di loro entrino persino in una zona di combattimento. Si sono visti alcuni dei soldati abbracciare gli attivisti. Un soldato ha detto a +972 che loro li sostengono e che il problema sono “i media che vogliono azione per filmare i soldati che picchiano ebrei.”

Anche se i soldati hanno l’autorità di sottoporre a fermo dei cittadini israeliani, e lo hanno fatto con giornalisti e altri civili che negli ultimi mesi si sono avvicinati alla recinzione, invariabilmente evitano di trattenere coloni che infrangono la legge in Cisgiordania, e è successo anche ieri. Uno degli attivisti, che ha detto a +972 di essere un soldato non in servizio che portava la sua arma militare su abiti civili, ha riferito di aver lasciato prima l’area perché i soldati l’hanno avvisato che l’avrebbero “buttato fuori dall’esercito.”

 I soldati parlano con calma con gli attivisti, fra cui il ben noto Baruch Marzel, un kahanista [seguace del defunto rabbino estremista Meir Kahane ndt.] arrivato in un momento successivo. “Sono come i soldati che hanno fatto irruzione [a Gaza], adesso sono loro (i giovani coloni) a fare irruzione,” dice Marzel a uno dei soldati. 

Più tardi, mentre se ne stavano andando, Marzel ha detto a +972 che l’azione gli ha ricordato “la prima colonia a Sebastia”, un villaggio vicino a Nablus, in Cisgiordania, dove circa 50 anni fa un gruppo di coloni del movimento Gush Emunim (Blocco dei Fedeli) [movimento dei coloni nazional-religiosi sorto nel 1974, ndt.] tentò di stabilire una colonia ebraica sfidando i tentativi del governo di cacciarli fino a quando non cedette. Egli aggiunge che il problema principale per lui non è insediarsi a Gaza, ma deportare i palestinesi in “tutti i Paesi che li sostengono.” 

Un funzionario della sicurezza presente sulla scena ha espresso a +972 il suo disappunto su come gli attivisti siano riusciti ad attraversare con tale facilità il posto di blocco. “Se sono riusciti a entrare a Gaza ciò significa che anche (i palestinesi) possono entrare dalla direzione opposta,” ha detto. 

Funzionari di polizia arrivati sul posto si sono comportati con la stessa indifferenza dei soldati. Sembrava non avessero fretta di intervenire e all’inizio hanno arrestato solo uno dei manifestanti. Dopo il tramonto, verso le 19, alcuni attivisti hanno cominciato ad andarsene e in seguito il resto è poi stato disperso dalla polizia. La scorsa notte un totale di nove persone è stato arrestato e portato a una stazione di polizia.

La scorsa notte, in risposta alle domande di +972, un portavoce della polizia ha dichiarato: “Le forze della polizia israeliana sono state chiamate nel pomeriggio vicino al valico di Erez in seguito all’arrivo di manifestanti e alla penetrazione di un gruppetto nella Striscia di Gaza attraverso la recinzione, violando l’ordine di un generale. Alla luce di un pericolo reale per le vite dei manifestanti le forze di polizia sono state costrette ad agire nel territorio della Striscia di Gaza dove alcuni di loro li hanno affrontati e si sono rifiutati di andarsene, non lasciando alla polizia altra scelta che arrestarne nove per aver violato l’ordine di un generale e non aver (obbedito) a un ufficiale di polizia.

I manifestanti sono stati portati a una stazione di polizia per essere interrogati, dopo di che si deciderà chi di loro verrà deferito domani alla Corte di Appello per discutere la loro causa.” Oggi la polizia non ha risposto a un’altra richiesta di informazioni circa quali degli arrestati siano stati accusati, ma sembra che siano stati tutti rilasciati la scorsa notte.

Oren Ziv è una fotogiornalista e reporter di Local Call e fra i fondatori del collettivo di fotografi Activestills.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Alcune fonti rivelano che Israele sta monitorando i dati statunitensi sugli attacchi dei coloni per contrastare le sanzioni

Yuval Abraham

14 febbraio 2024 – +972

Fonti di intelligence affermano che Israele cerca di contrastare le informazioni inviate privatamente agli Stati Uniti dall’Autorità Palestinese poiché teme provvedimenti contro i coloni violenti in Cisgiordania.

+972 Magazine e Local Call hanno appreso che negli ultimi mesi Israele ha monitorato le informazioni fornite agli Stati Uniti dall’Autorità Palestinese riguardo alla violenza dei coloni nella Cisgiordania occupata.

Fonti dell’intelligence israeliana hanno detto ad entrambe le testate di aver monitorato le informazioni passate attraverso canali privati dall’Autorità Palestinese all’Ufficio del Coordinatore della Sicurezza degli Stati Uniti per Israele e l’Autorità Palestinese (USSC) di Gerusalemme al fine di “capire cosa sanno gli Stati Uniti della violenza dei coloni”. L’intenzione, hanno spiegato, non è quella di agire contro gli autori dei reati ma di evitare che le informazioni raccolte “si trasformino in sanzioni”.

I funzionari statunitensi, che hanno confermato che funzionari dell’Autorità Palestinese hanno inviato una grande quantità di informazioni all’USSC sugli episodi di violenza dei coloni, hanno detto a +972 e Local Call che queste informazioni hanno contribuito in parte alla decisione del presidente Joe Biden all’inizio di questo mese di imporre sanzioni contro quattro coloni noti per aver attaccato palestinesi e attivisti israeliani di sinistra. I funzionari hanno aggiunto che le informazioni hanno portato negli ultimi mesi all’inclusione di decine di altri coloni in una “lista nera” che vieta loro l’ingresso negli Stati Uniti.

L’USSC è stato istituito nel 2005 ed è responsabile delle relazioni tra gli Stati Uniti e le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese, nonché del coordinamento della sicurezza tra Israele e l’Autorità Palestinese. Dal novembre 2021 l’ufficio è diretto dal tenente generale Michael R. Fenzel che, secondo le fonti, sta lavorando attivamente per prevenire la violenza dei coloni, con la consapevolezza che essa mina la stabilità regionale e indebolisce lo status dell’Autorità Palestinese agli occhi dell’opinione pubblica palestinese.

Vogliamo sapere cosa sanno gli americani”, ha detto una fonte israeliana a +972 e Local Call. “L’obiettivo è sapere cosa ci può succedere quando Fenzel arriverà e chiederà ragione di questi casi. Non si tratterebbe di inseguire i coloni e arrestarli: ecco perché molte persone qui si sono sentite a disagio. La preoccupazione per ciò che sanno gli americani deriva dal [comprendere] che intendono fare qualcosa con queste informazioni”, ha continuato la fonte. “Qui tutti conoscono il nome di Fenzel. Gli americani chiedono conto a Israele e gli israeliani si sentono in imbarazzo. Il fatto che ci venga chiesto di cercare informazioni indica che Israele non ha buone risposte”.

Secondo un’altra fonte israeliana che ha parlato con +972 e Local Call, i ranghi politico-diplomatici in Israele vedono la crescente preoccupazione internazionale per la violenza dei coloni come “pressione politica”, e stanno quindi cercando di dimostrare che la portata del fenomeno non è così ampia come sostengono gli americani. Ecco perché, ha detto la fonte, “stiamo lavorando per contribuire a confutare queste accuse o evitare che si trasformino in sanzioni. Il ceto politico è preoccupato che vengano adottate tutte le tipologie di azioni internazionali che costringeranno Israele ad affrontare questo problema”.

Probabili ulteriori sanzioni

+972 e Local Call hanno ottenuto copie dei materiali che i funzionari dell’Autorità Palestinese avevano raccolto e inviato all’USSC. Questi materiali, che non sono disponibili al pubblico e sono stati trasmessi attraverso canali privati, includono rapporti con una breve descrizione di centinaia di incidenti violenti avvenuti in Cisgiordania dopo il 7 ottobre.

Queste informazioni sono utili agli Stati Uniti perché fanno luce sulla portata del fenomeno della violenza dei coloni. A differenza delle informazioni raccolte dall’ONU, ad esempio, che si concentrano principalmente sui casi in cui le persone vengono uccise o ferite o in cui si verificano danni alle proprietà, l’Autorità Palestinese documenta sistematicamente anche casi di minacce ed espulsioni dai pascoli.

In totale i funzionari dell’AP hanno fornito all’USSC i dettagli di centinaia di episodi di violenza da parte dei coloni a partire dal 7 ottobre. Questi includono espulsioni da piccoli villaggi e frazioni palestinesi, attacchi incendiari, sparatorie che hanno ucciso otto palestinesi, circa 100 casi in cui i coloni hanno aperto il fuoco contro i palestinesi o le loro case e centinaia di attacchi contro pastori palestinesi, comprese minacce e atti vandalici.

La maggior parte degli incidenti si sono verificati nell’Area C che costituisce due terzi della Cisgiordania ed è sotto il pieno controllo militare e civile israeliano, dove almeno 16 comunità palestinesi sono state allontanate dall’inizio della guerra dalla violenza dei coloni.

L’USSC non si basa esclusivamente sulle informazioni trasmesse dall’Autorità Palestinese, ma piuttosto raccoglie testimonianze delle violenze da parte dei coloni da varie fonti, tra cui l’ONU, e poi condivide questi casi con le agenzie di sicurezza israeliane per chiedere loro di adottare misure per fermare la violenza. Secondo i funzionari statunitensi la decisione di Biden di imporre sanzioni è il risultato della mancanza di un’efficace azione israeliana in merito.

Una fonte con conoscenza diretta del processo all’origine delle recenti sanzioni statunitensi ha detto a +972 e Local Call che è probabile un altro annuncio di sanzioni economiche da parte della Casa Bianca, che potrebbe includere anche coloni israeliani di alto livello e alti funzionari pubblici con un passato di violenza contro i palestinesi. Secondo la fonte anche la “lista nera” dei coloni soggetti a divieto di viaggio potrebbe ampliarsi e il numero finale potrebbe raggiungere “centinaia di coloni”.

Secondo un’altra fonte, un alto funzionario statunitense, le sanzioni economiche imposte contro quattro coloni dall’ordine esecutivo di Biden del 1febbraio sono state formulate dopo un’indagine approfondita che includeva la raccolta di informazioni da varie fonti e non si basava esclusivamente sull’USSC. Il fascicolo su ciascuno di questi coloni, ha detto la fonte, contiene prove inequivocabili del coinvolgimento nelle violenze che confermano le accuse contro di loro.

Nel suo ordine esecutivo Biden ha scritto che “la situazione in Cisgiordania, in particolare gli alti livelli di violenza estremista dei coloni, lo sfollamento forzato di persone e villaggi e la distruzione di proprietà ha raggiunto livelli intollerabili e costituisce una seria minaccia alla pace, alla sicurezza e stabilità della Cisgiordania e di Gaza, di Israele e della più ampia regione del Medio Oriente”. La dichiarazione includeva anche dettagli sui reati commessi dai quattro coloni: David Chai Hasdai, Einan Tanjil, Shalom Zicherman e Yinon Levi.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in risposta a queste sanzioni ha affermato che “Israele agisce ovunque contro i trasgressori, non c’è quindi bisogno di misure eccezionali per questi eventi”. Ma secondo un’indagine condotta dal gruppo israeliano per i diritti umani Yesh Din, il 97% dei 1.664 fascicoli della polizia israeliana aperti tra il 2005 e il 2023 riguardanti la violenza dei coloni sono stati chiusi senza condannare alcun colono. Nell’81% circa dei casi i fascicoli sono stati chiusi perché la polizia non ha identificato prove o colpevoli.

Nel dicembre dello scorso anno il segretario di Stato Antony Blinken dichiarò che gli Stati Uniti avevano iniziato a inserire nella lista nera i “coloni estremisti” a cui sarebbe stato vietato l’ingresso nel paese. Questo annuncio aveva innescato una reazione a catena, con diversi Stati europei che avevano seguito l’esempio e, secondo quanto riferito, l’Unione Europea sta valutando la possibilità di imporre proprie sanzioni per impedire ai “coloni estremisti” di entrare nel territorio dell’UE. All’inizio di questa settimana, il Regno Unito ha annunciato le proprie sanzioni contro quattro coloni (solo uno dei quali tra i quattro presi di mira dall’ordine di Biden), e la Francia ha imposto un divieto di viaggio a 28 coloni di cui non ha dato i nomi.

+972 e Local Call hanno contattato il portavoce dell’ambasciata americana per un commento, il quale ha risposto: “Secondo la nostra politica non commentiamo questioni di intelligence e vi rimandiamo al governo di Israele”. L’ufficio del primo ministro israeliano ha rifiutato di commentare.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)