Centinaia di feriti, uno grave, per l’attacco di coloni e soldati ai villaggi di Nablus, Jenin e Tulkarem

25 dicembre 2021 – IMEMC News

Sabato notte la Mezzaluna Rossa (Croce Rossa) palestinese ha riferito che centinaia di palestinesi sono stati feriti, di cui uno con una grave ferita da arma da fuoco alla testa, quando centinaia di coloni illegali e soldati israeliani hanno sferrato ripetuti attacchi contro case palestinesi a Burqa, Beita, Sebastia, Bazaria, Silat ath-Thaher e altre aree a Nablus, Jenin e nel nord della Cisgiordania.

La Mezzaluna Rossa ha dichiarato che i soldati israeliani hanno ferito più di 135 palestinesi di cui almeno dieci sono stati colpiti da proiettili veri, trentacinque da proiettili d’acciaio ricoperti di gomma e almeno novantacinque hanno subito gravi conseguenze dall’inalazione di gas lacrimogeno; tra i feriti ci sono molte donne, anziani e bambini, compresi neonati.

Ha aggiunto che una donna incinta ha subito gravi conseguenze dall’inalazione di gas lacrimogeno prima di essere portata d’urgenza in ospedale con le doglie.

Anche due giornalisti palestinesi, identificati in Ehab Dmeiri e Fadi Yassin, sono stati feriti a Bazaria, a nord-ovest di Nablus.

Ehab, corrispondente dell’agenzia di stampa [dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] WAFA, è stato colpito da un proiettile d’acciaio rivestito di gomma, mentre Fadi, cameraman che lavora per la TV palestinese, ha subito i gravi conseguenze dall’inalazione di gas lacrimogeno oltre a ferite da taglio e contusioni.

Le moschee di zona a Jenin e Nablus hanno invitato i palestinesi a radunarsi per proteggere le famiglie di Burqa e Beita, in particolare dopo che decine di coloni israeliani illegali hanno attaccato case e famiglie, causando molti feriti e gravi danni alle proprietà.

Decine di palestinesi hanno poi lanciato pietre contro i coloni e i soldati invasori, ferendo un soldato al volto.

I soldati hanno anche preso di mira direttamente, sparando proiettili e candelotti lacrimogeni, molti giornalisti palestinesi a Tulkarem mentre riprendevano in diretta le invasioni in corso.

L’attacco ha ferito due fotoreporter identificati in Fadi Yassin e Hazem Bleidi.

Militanti della resistenza hanno anche avuto uno breve scontro a fuoco con i soldati invasori vicino al raccordo di Burqa a Nablus.

Inoltre, decine di coloni hanno attaccato molte case nella città di Sebastia, a nord di Nablus, e sparato proiettili veri contro i palestinesi accorsi in aiuto delle famiglie.

L’esercito israeliano ha affermato che vicino a Nablus molti proiettili veri sono stati sparati contro una postazione militare da un’auto palestinese in corsa.

Nel frattempo, i soldati israeliani hanno chiuso molte strade e incroci e imposto severe restrizioni alla libertà di movimento dei palestinesi, consentendo allo stesso tempo a centinaia di coloni fanatici di marciare nell’area e dirigersi verso il sito dell’ex colonia di Homesh, dove hanno iniziato a ricostruire e predisporsi a ristabilire la colonia sulle terre palestinesi rubate.

Anche vicino a Sebastia i soldati hanno sparato contro i palestinesi una raffica di candelotti lacrimogeni, bombe a concussione [a combinazione ionica/protonica; creano un globo di 6 metri con una forza d’urto che smembra chi è vicino, ndtr.] e molti proiettili veri, causando molti feriti.

Massicce proteste hanno avuto luogo anche in varie aree di Jenin e Nablus, prima che i soldati sparassero proiettili veri, candelotti lacrimogeni e bombe a concussione.

Notizie simili riferiscono di massicce proteste nella città di Silwan, a sud della moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme occupata, dopo che l’esercito ha occupato il quartiere di Batn al-Hawa e invaso le case.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Disegno di legge finlandese metterebbe fuorilegge i prodotti delle colonie

Ali Abunimah

22 dicembre 2021 – The Electronic Intifada

In Finlandia un nuovo disegno di legge vieterebbe l’importazione di prodotti dalle colonie israeliane costruite su terra palestinese e siriana occupate.

I palestinesi stanno soffrendo per la più lunga occupazione della storia contemporanea e le politiche israeliane che infrangono sistematicamente le leggi internazionali e violano i diritti umani,” afferma Veronika Honkasalo, la parlamentare dell’Alleanza di Sinistra che ha presentato la legge. “Dobbiamo smettere di appoggiare le illegali colonie israeliane.”

La legge non cita specificamente alcun Paese.

Si applicherebbe a qualunque situazione di occupazione militare e di colonizzazione riconosciuta a livello internazionale, tra cui potenzialmente il Sahara occidentale o la Crimea.

Interventi legislativi di questo genere sono totalmente a favore del e coerenti con il diritto internazionale,” afferma Michael Lynk, consulente speciale dell’ONU sui diritti umani nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza occupate.

Lynk, un esperto indipendente nominato dal Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, ha parlato a una tavola rotonda del 15 dicembre presieduta da Honkasalo.

È coerente con le decisioni delle Nazioni Unite,” ha aggiunto Lynk, “e, cosa più importante, è coerente con un approccio basato sui diritti umani che potrebbe realmente portare a una pace giusta e durevole in Medio Oriente.”

Attualmente ci sono circa 700.000 coloni che vivono in quasi 300 colonie in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e altri 20.000 sulle Alture del Golan siriane, tutte costruite da quando Israele occupò i territori nel 1967.

L’illegalità delle colonie israeliane è “estremamente chiara”, ha affermato Lynk, sottolineando che almeno in sette occasioni il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha dichiarato che la loro costruzione è una “flagrante violazione” delle leggi internazionali.

Lo Statuto di Roma, il documento costitutivo della Corte Penale Internazionale, definisce l’insediamento di civili in un territorio occupato un crimine di guerra.

Più di quarant’anni fa il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha chiesto a tutti gli Stati “di non fornire alcuna assistenza che possa essere utilizzata specificamente in relazione con le colonie nei territori occupati.”

Lynk ha detto che la formulazione era “sufficientemente ampia” da “includere qualunque rapporto commerciale con queste colonie, perché ciò fornisce loro l’ossigeno economico di cui hanno bisogno per poter essere sostenibili e in grado di crescere.”

Bruxelles non la può bloccare

La proposta di legge di Honkasalo non è il primo tentativo all’interno dell’Unione Europea di vietare l’importazione dalle colonie.

La legge irlandese sui territori occupati, che ha lo stesso scopo, è stata approvata da entrambi i rami del parlamento di quel Paese.

Tuttavia il governo irlandese ha bloccato la sua applicazione in quanto sarebbe in contrasto con le leggi dell’UE.

Ma all’inizio di quest’anno questo pretesto è stato spazzato via. In seguito alla sentenza di un tribunale, l’UE è stata obbligata a riconoscere che il bando contro i prodotti delle colonie è una questione commerciale piuttosto che una forma di sanzione. Secondo Tom Moerenhout, un esperto di diritto commerciale internazionale che insegna alla Columbia University di New York, questa astrusa distinzione ha importanti implicazioni giuridiche.

Ciò significa che singoli Stati membri dell’UE come Irlanda e Finlandia hanno il pieno diritto di vietare prodotti delle colonie senza il permesso di Bruxelles, ha affermato Moerenhout durante la tavola rotonda del 15 dicembre.

Egli ha affermato che in base alle leggi internazionali gli Stati sono vincolati a non riconoscere o prestare assistenza all’annessione o alla colonizzazione di un territorio occupato.

Benché l’UE non conceda ai prodotti delle colonie israeliane il trattamento preferenziale in base agli accordi commerciali con Israele, essa tuttavia consente loro un accesso regolare ai suoi mercati. Questa è una forma di “riconoscimento implicito” delle colonie, ha spiegato Moerenhout.

Un modello per altri Paesi

I sostenitori della legge di Honkasalo, che probabilmente non verrà votata prima della primavera, devono ora raccogliere consensi tra i parlamentari finlandesi. Anche se sarà indubbiamente un lavoro duro, ci sono basi su cui costruire.

In Finlandia attualmente c’è un impegno di lunga data da parte del partito Socialdemocratico, condiviso dai suoi omologhi di Svezia, Norvegia e Islanda, che si sono impegnati a lavorare per un bando internazionale sui prodotti delle colonie,” ha affermato Syksy Räsänen, un fisico che è presidente di ICAHD Finlandia, un’associazione apartitica che sostiene i diritti dei palestinesi.

Attualmente il partito Socialdemocratico guida la coalizione di governo a Helsinki.

La legge “rispetterebbe parzialmente l’obbligo per lo Stato finlandese di non riconoscere una situazione illegale,” ha detto Räsänen alla tavola rotonda.

Ciò perché essa vieterebbe solo le importazioni, senza affrontare gli altri modi in cui i rapporti economici con l’estero sostengono la colonizzazione illegale attraverso investimenti, finanziamenti o la fornitura di servizi alle colonie.

Ma secondo Räsänen la legge modificherebbe comunque il modo di trattare le colonie “dal contesto della politica di potenza e dai rapporti tra Stati a essere guidato piuttosto da obiettivi riguardanti i diritti umani e più fondato sulle leggi internazionali.”

Benché la sua proposta di legge sia in una fase iniziale, Honkasalo ha affermato di aver già ricevuto richieste da parlamentari di altri Paesi che sono interessati a utilizzarla come modello per le loro iniziative.

Sono molto contenta di quante reazioni positive questa legge ha ottenuto,” ha affermato Honkasalo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 7 – 20 dicembre 2021

Il 16 dicembre, nei pressi dell’insediamento di Homesh (Jenin), un colono israeliano di 25 anni è stato ucciso a colpi di arma da fuoco e altri due sono rimasti feriti ad opera di palestinesi che avevano teso loro un’imboscata.

Successivamente, coloni israeliani hanno bloccato strade, aggredito palestinesi e danneggiato abitazioni ed altre proprietà (vedi sotto). Il 19 dicembre, forze israeliane sono entrate nel villaggio di Silat al Harthiyah (Jenin) e hanno arrestato sei palestinesi sospettati di essere coinvolti nell’imboscata. Inoltre, le forze israeliane hanno preso le misure delle case di famiglia di quattro fra i sospettati: [poiché tale procedura viene di solito effettuata prima delle “demolizioni punitive”] gli abitanti di tali case (decine di persone) sono pertanto da considerare a rischio di sfollamento.

In Cisgiordania, in due distinti episodi, due palestinesi sono stati uccisi da forze israeliane: uno nel corso di manifestazioni in cui i dimostranti palestinesi avrebbero lanciato pietre contro forze israeliane e l’altro nel contesto di un’operazione di ricerca-arresto [seguono dettagli]. Il 10 dicembre, nel villaggio di Beita (Nablus), durante le perduranti proteste palestinesi contro gli insediamenti colonici, le forze israeliane hanno sparato proiettili veri, uccidendo un 31enne palestinese. Dall’inizio di maggio 2021, quando ebbero inizio le periodiche proteste, a Beita e Beit Dajan, sono stati uccisi nove palestinesi e oltre 5.700 sono stati feriti: 218 con proiettili veri, 1.083 con proiettili di gomma, altri 4.341 hanno avuto bisogno di cure mediche per aver inalato gas lacrimogeni. Il 13 dicembre, a Nablus, nel corso di un’operazione di ricerca-arresto, le forze israeliane hanno avuto uno scontro a fuoco con palestinesi armati; un palestinese di 31 anni è stato ucciso e altri due sono rimasti feriti in circostanze non chiare.

In Cisgiordania, durante il periodo in esame, nel corso di proteste e in scontri seguiti a operazioni di ricerca-arresto, le forze israeliane hanno ferito 348 palestinesi, tra cui 109 minori [seguono dettagli]. La maggior parte dei feriti è stata segnalata in tre distinti episodi accaduti a Burqa e Beita, dove 204 persone, tra cui 80 minori, sono rimaste ferite dalle forze israeliane durante scontri seguiti all’ingresso di coloni israeliani nei villaggi palestinesi. Altri 133 sono rimasti feriti nel governatorato di Nablus, vicino a Beita (114) e Beit Dajan (19), durante proteste contro gli insediamenti colonici. Altri sette palestinesi sono rimasti feriti durante tre operazioni di ricerca-arresto condotte a Nablus, Ramallah e Hebron. Nel complesso, 44 palestinesi sono stati feriti da proiettili di gomma, otto sono stati aggrediti fisicamente e 296 sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni necessitante cure mediche.

Due coloni israeliani sono stati feriti da palestinesi: uno a Gerusalemme Est e l’altro nella Zona H2 della città di Hebron [seguono dettagli]. Il 18 dicembre, a Hebron, un colono israeliano di Kiryat Arba è stato accoltellato e ferito, secondo quanto riferito, da una donna palestinese di 65 anni. Il 10 dicembre, una colona israeliana è stata accoltellata e ferita nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est; è stata accusata dell’accoltellamento, e arrestata, una ragazza palestinese dello stesso quartiere, la cui famiglia rischia lo sgombero forzato. Successivamente, a Sheikh Jarrah, per un solo giorno, le forze israeliane hanno re-imposto le restrizioni di movimento, bloccandone l’accesso (fatta eccezione per i palestinesi residenti) ed hanno smantellato una tenda che era stata collocata in solidarietà con le famiglie a rischio sfratto. Coloni israeliani hanno danneggiato case e automobili palestinesi (vedi sotto). Il 19 dicembre, vicino alla Città Vecchia di Gerusalemme, la polizia israeliana ha arrestato un palestinese sospettato di aver tentato di accoltellare un israeliano.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 112 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 197 palestinesi. Il maggior numero di operazioni è stato registrato nel governatorato di Hebron (27), seguito da Ramallah (22) e Gerusalemme (17).

A causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, sequestrato o costretto i proprietari a demolire un totale di 15 strutture palestinesi. Di conseguenza, 64 persone sono state sfollate, tra cui 30 minori, e sono stati colpiti i mezzi di sussistenza di circa altre 52 [seguono dettagli]. Otto delle 15 strutture (una struttura abitativa e sette strutture di sussistenza) erano in Area C, in quattro Comunità di Gerusalemme, Hebron, Betlemme e Nablus. Le altre sette strutture, comprese cinque case demolite dai proprietari per evitare di pagare le multe, si trovavano in Gerusalemme Est.

A Gerusalemme Est, nell’area di Um Haroun del quartiere di Sheikh Jarrah, una famiglia di rifugiati palestinesi di 11 persone, tra cui quattro minori, è a forte rischio di sgombero forzato dalla propria casa. Ciò fa seguito all’emissione di un ordine di sfratto del 7 dicembre. La famiglia dichiara di abitare la casa dal 1951, e di averla avuta in affitto inizialmente dal “Custode Giordano delle Proprietà del Nemico” [ente istituito durante la guerra arabo-israeliana del 1948 per gestire le proprietà sottratte agli ebrei in Cisgiordania] con un contratto di “locazione tutelata”. A Gerusalemme Est, un totale di 218 famiglie palestinesi, composte da 970 persone, tra cui 424 minori, stanno affrontando casi di sgombero forzato, avviati soprattutto da organizzazioni di coloni. Il 15 dicembre, coloni israeliani hanno recintato il terreno antistante la casa. Il 17 dicembre sono stati segnalati scontri tra residenti palestinesi e coloni israeliani. Le forze israeliane hanno sparato lacrimogeni e granate assordanti ed hanno aggredito fisicamente residenti, attivisti e giornalisti. Almeno un giornalista e un poliziotto di frontiera israeliano sono rimasti feriti e tre palestinesi sono stati arrestati.

In Cisgiordania, in due casi, coloni israeliani hanno ferito tre palestinesi e, in 20 casi, persone note come coloni, o ritenute tali, hanno danneggiato proprietà palestinesi [seguono dettagli]. Nei villaggi di Burqa e Qaryut (Nablus), in cinque episodi verificatisi in due giorni consecutivi, due anziani palestinesi sono rimasti feriti e almeno 20 case di proprietà palestinese e sei auto e altre proprietà sono state vandalizzate. Nella Città Vecchia di Gerusalemme un altro palestinese è stato aggredito fisicamente da israeliani e spruzzato in faccia con spray al peperoncino. Circa 400 alberi sono stati vandalizzati a Deir Istiya (Salfit), Kafr Ni’ma (Ramallah), Deir Sharaf (Nablus) e Khallet Athaba’, e nel governatorato di Hebron. A Gerusalemme Est, in seguito all’accoltellamento in Sheikh Jarrah descritto sopra, in sette episodi di lancio di pietre, sono stati danneggiati almeno otto veicoli palestinesi, e altre dieci auto sono state vandalizzate. A Nablus e Hebron sono state vandalizzate strutture agricole. Nella zona H2 di Hebron, un colono israeliano ha lanciato pietre, danneggiando una casa palestinese.

Nei governatorati di Gerusalemme, Nablus e Gerico, persone note come palestinesi, o ritenute tali, hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani, ferendo 11 coloni. Secondo fonti israeliane, in Cisgiordania, il lancio di pietre ha danneggiato 33 auto israeliane.

Vicino alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa di Gaza, in almeno 36 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento [verso palestinesi], apparentemente per far rispettare le restrizioni di accesso [a loro imposte]; non sono stati segnalati feriti. Due pescatori palestinesi sono stati arrestati e una barca è stata confiscata dalle forze israeliane. All’interno di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale, bulldozer militari israeliani hanno condotto due operazioni di spianatura del terreno. In due casi, le forze israeliane hanno arrestato quattro palestinesi di Gaza mentre, secondo quanto riferito, stavano cercando di entrare in Israele attraverso la recinzione perimetrale.

Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 21 dicembre, nei pressi dell’insediamento di Mevo Dotan, un palestinese avrebbe tentato di speronare con il suo veicolo forze israeliane: è stato colpito con arma da fuoco ed ucciso.

Il 22 dicembre, vicino al Campo profughi di Al Am’ari, un palestinese è stato ucciso a colpi di arma da fuoco: avrebbe aperto il fuoco contro forze israeliane.

Il 24 dicembre, vicino al villaggio di Sinjil (Ramallah), una donna palestinese è stata investita da un’auto guidata da un colono israeliano ed è morta per le ferite riportate. Secondo i media israeliani, l’autista si è consegnato alla polizia israeliana che ha avviato un’indagine sull’accaduto.




Le chiese di Gerusalemme accusano Israele di discriminazione e denunciano il declino dei cristiani

Mustafa Abu Sneineh

21 dicembre 2021 – Middle East Eye

Patriarchi e capi delle chiese denunciano che i cristiani palestinesi sono diventati un bersaglio di attacchi ripetuti da parte di gruppi di estrema destra israeliani.

I cristiani palestinesi hanno criticato Israele per aver ostacolato la stagione turistica natalizia e averli discriminati, affermando di ritenere la loro presenza minacciata nella Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupate e in Israele.

I patriarchi e i capi delle chiese di Gerusalemme hanno rilasciato una dichiarazione la scorsa settimana in cui affermano che “i cristiani sono diventati il ​​bersaglio di attacchi frequenti e prolungati da parte di frange radicali”, riferendosi agli attivisti di estrema destra israeliani.

Hanno dichiarato che dal 2012 sono stati registrati “innumerevoli incidenti” con attacchi verbali e fisici contro sacerdoti e che alcune chiese sono state “vandalizzate e profanate”, aumentando così timori che i cristiani palestinesi nutrono per la loro sicurezza.

“Queste tattiche vengono utilizzate dai suddetti gruppi radicali nel tentativo sistematico di cacciare la comunità cristiana da Gerusalemme e da altre parti della Terra Santa”, afferma la dichiarazione, riferendosi alla Palestina e ad Israele.

Chiese bruciate

Dal 2015 attivisti israeliani di estrema destra hanno attaccato diverse chiese in Israele e Palestina.

Alcune figure israeliane vicine al crescente movimento politico del sionismo religioso, che ha quattro parlamentari, hanno chiaramente affermato di voler mettere al bando il Natale e hanno affermato che le chiese sono luoghi di venerazione di idoli, chiedendone la distruzione.

La Chiesa della Moltiplicazione sul Mar di Galilea ha subito un incendio doloso nel 2015 per mano di un gruppo di estrema destra israeliano.

Lo scorso dicembre un israeliano ha tentato di dare fuoco allo storico santuario del Getsemani a Gerusalemme est, nota anche come Chiesa di Tutte le Nazioni, prima di essere arrestato.

Gli attacchi incendiari sono una tattica comune usata dai coloni israeliani contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est. Altri attacchi dei coloni includono graffiti razzisti con le bombolette di vernice, la rottura di finestre e il taglio di pneumatici.

I patriarchi e i capi delle chiese hanno affermato che “i gruppi radicali israeliani continuano ad acquisire proprietà strategiche nel quartiere cristiano [nella Città Vecchia di Gerusalemme] allo scopo di diminuire la presenza cristiana”.

Il loro non è il primo allarme del genere negli ultimi giorni.

In un editoriale congiunto sul quotidiano britannico Sunday Times, Justin Welby, arcivescovo di Canterbury, e Hosam Naoum, arcivescovo anglicano di Gerusalemme, hanno denunciato il declino della presenza cristiana in Palestina causato dai tentativi di gruppi israeliani di estrema destra di espellerli.

Hanno rilevato come un secolo fa in quella che allora era la Palestina del Mandato britannico ci fossero circa 73.000 cristiani palestinesi, che rappresentavano il 10% della popolazione. Hanno fatto notare che invece nel 2019 solo il 2% della popolazione israeliana e palestinese è cristiana e solo 2.000 cristiani palestinesi vivono nella Città Vecchia di Gerusalemme.

“È per questo motivo che quando parli con i cristiani palestinesi a Gerusalemme oggi senti spesso questo grido: ‘Tra 15 anni non resterà nessuno di noi!'”, hanno scritto.

I gruppi di coloni israeliani, spesso incoraggiati dalle autorità, continuano a cacciare i palestinesi – musulmani o cristiani – dalle loro case nei quartieri di Gerusalemme come Sheikh Jarrah, Silwan, Batn al-Hawa e Wadi Hilweh, così come nella Città Vecchia.

Il quinto lokdown

La scorsa settimana Israele ha vietato agli stranieri di entrare nel Paese fino al 29 dicembre a seguito della diffusione della nuova variante del Covid-19, Omicron.

Il divieto include anche i pellegrini cristiani che avrebbero visitato i luoghi santi di Gerusalemme est, Betlemme e Nazareth.

Tuttavia, la decisione è stata criticata da personalità cristiane palestinesi, che hanno affermato che il governo israeliano li ha discriminati consentendo ai giovani ebrei di visitare Israele come parte del progetto “Birthright” [diritto di nascita], che offre tour gratuiti ai giovani ebrei della diaspora.

Wadie Abunassar, portavoce e consigliere delle chiese in Terra Santa, ha scritto su Facebook che la decisione di Israele di vietare l’ingresso a migliaia di pellegrini cristiani vaccinati con la terza dose durante il Natale, consentendo invece a gruppi ebraici di visitare il Paese durante il quinto lockdown, è stata accolta con “disappunto”.

“Ho chiesto a consulenti legali e mi hanno detto che si tratta di una discriminazione morale illegale. Non possiamo assolutamente accettare questa discriminazione razzista. Esorto le autorità israeliane a trattare allo stesso modo tutti coloro che vogliono visitare il Paese senza alcuna discriminazione su base religiosa”, ha scritto Abunassar.

Si stima che circa 10.000 pellegrini cristiani avrebbero visitato la Palestina e Israele durante il periodo natalizio. Ma i viaggi sono stati annullati

La città di Betlemme, in Cisgiordania, dove si crede sia nato Gesù, è stata duramente colpita dalla pandemia e il suo settore alberghiero sta vivendo un secondo Natale senza turisti.

Betlemme è stata la prima città palestinese a imporre il blocco nel marzo 2020 quando sono stati rilevati casi di Covid-19 tra i turisti. È circondato dal muro di separazione di Israele e da posti di blocco militari, che la isolano dalle città di Gerusalemme ed Hebron.

Nel tentativo di mitigare il crollo del settore turistico a Betlemme, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha offerto ai lavoratori alberghieri in città un sussidio una tantum di 700 shekel (196 €).

Gli hotel di Betlemme sono vuoti di turisti e pellegrini stranieri a causa delle restrizioni alle frontiere israeliane per contrastare la diffusione del Covid-19.

Welby e Naoum hanno scritto che i cristiani palestinesi stanno vivendo “una tragedia storica che si svolge in tempo reale”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




‘Siamo una famiglia’: gli israeliani che condividono la vita e la speranza con i palestinesi

Bethan McKernan e Quique Kierszenbaum nelle colline a sud di Hebron

Domenica 19 dicembre 2021 – The Guardian

I partecipanti a un progetto linguistico immersivo in Cisgiordania parlano dei forti legami che vengono forgiati per contrastare l’aumento della violenza dei coloni

Nella capanna di compensato in cui la palestinese Iman al-Hathalin e la sua famiglia vivono dal 2014, da quando la loro casa è stata demolita dalle autorità israeliane, il calore di un traballante samovar è gradito. Fuori dall’unica finestra il cielo invernale è di un bianco accecante: inonda la stanza di una luce gelida e crea una danza di ombre sulle sottili pareti.

Sembra che ultimamente siano stati tutti malati, compresa la figlia di due anni di Hathalin, che dorme a intermittenza sulle sue ginocchia, e Maya Mark, la sua ospite israeliana di lingua araba. “Non è esagerato dire che Maya è per me come una sorella”, ha detto la 28enne. Ero così preoccupata quando era malata. Siamo una famiglia.”

Le amiche si ritrovano insieme in un villaggio nel profondo delle colline a sud di Hebron, uno dei posti più difficili da raggiungere all’interno dei confini della Cisgiordania.

Questo luogo roccioso e arduo è uno dei fronti più feroci dell’occupazione: case palestinesi, strade asfaltate e cisterne d’acqua vengono ripetutamente demolite grazie a un divieto quasi totale di costruzione, mentre prosperano le colonie illegali israeliane.

Anziché crollare sotto queste pressioni, tuttavia, la comunità locale è diventata una profonda sorgente di attivismo palestinese nonviolento, che ha spesso lavorato a stretto contatto con il movimento israeliano contro l’occupazione. In assenza di un significativo processo di pace dall’alto verso il basso, Hathalin e Mark fanno parte di una nuova generazione di attivisti che stanno compiendo silenziosamente un nuovo, straordinario passo.

Insieme a Nnur Zahor, un’altra israeliana che parla arabo, Mark ha creato un corso immersivo di apprendimento linguistico per giovani attivisti israeliani che la pensano allo stesso modo, tenuto da otto donne palestinesi del luogo, tra cui Hathalin. Nel corso di diversi mesi, il progetto ha contribuito a creare in diversi villaggi relazioni profonde tra gli studenti e le persone del luogo, e la presenza di israeliani sta contrastando la crescente ondata di violenza da parte dei coloni.

Il progetto che non ha una denominazione ufficiale – è possibile grazie a decenni di lavoro di attivisti più anziani che hanno costruito la fiducia tra le comunità: è improbabile che possa espandersi o essere replicato altrove. Ma niente di simile a questa idea nata dal basso e a lungo termine è mai successo prima e tutti i soggetti coinvolti concordano sul fatto che sia un’impresa ricca di soddisfazioni.

La gente qui non ha affatto bisogno di noi, afferma Mark, di 26 anni. Essere qui mi ha insegnato a essere più modesta riguardo all’attivismo e al mio ruolo. Arrivare a comprendere la profondità della resistenza in questo luogo è un’esperienza stimolante e inestimabile”.

Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem, nelle colline di Hebron esiste almeno dal 1830 una civiltà peculiare di abitazioni rupestri, rifugi naturali utilizzati come abitazioni e per la custodia di pecore e capre. Nei decenni trascorsi dalla creazione di Israele anche le famiglie beduine espulse dal deserto del Negev si sono inoltrate verso queste aride colline pedemontane, a nord delle loro terre ancestrali.

Il territorio è stato invaso da Israele nel corso della guerra del 1967 e ora fa parte dell’Area C, il 60% della Cisgiordania sotto il pieno controllo israeliano.

Ma i pastori e gli agricoltori palestinesi non sono più le uniche persone che vivono qui. Dagli anni ’80 sono state create decine di colonie israeliane, molte delle quali illegali non solo ai sensi del diritto internazionale ma anche del diritto israeliano.

Incoraggiati dal forte sostegno di Donald Trump alla destra di Israele, negli ultimi anni i coloni sono diventati più audaci, impadronendosi di sempre più terre che Israele classifica come “terreni dello Stato” o “poligoni di tiro”, e le loro tattiche sono diventate sempre più violente.

Le Nazioni Unite hanno registrato nel corso dei primi 10 mesi del 2021 410 aggressioni da parte di coloni contro civili e proprietà palestinesi in Cisgiordania, compresi quattro uccisioni, rispetto alle 358 nel 2020 e alle 335 nel 2019. Invece di intervenire, affermano le Nazioni Unite e le organizzazioni per i diritti civili, il più delle volte le forze di sicurezza israeliane stanno a guardare o addirittura partecipano.

Capita che anche i palestinesi ricorrano alla violenza. All’inizio di questa settimana uomini armati hanno teso un’imboscata a un’auto con targa israeliana mentre lasciava Homesh, nel nord della Cisgiordania, uccidendo un venticinquenne e ferendo altre due persone.

Sono comuni lanci di pietre, spari con proiettili veri, abbattimenti o incendi dolosi di raccolti e ulivi, uccisioni di pecore e atti vandalici su proprietà. A settembre, in uno degli episodi recenti più gravi, decine di uomini armati provenienti da due avamposti coloniali vicini hanno fatto irruzione nel villaggio di Mufakara, sulle colline di Hebron, rompendo finestre e pannelli solari, squarciando pneumatici, ribaltando un’auto e ferendo sei persone.

Prima della pandemia gli abitanti di Hebron erano spesso supportati da volontari internazionali che aiutavano a scortare i bambini a scuola su strade pericolose tra gli avamposti coloniali e fronteggiavano i coloni che violavano terre private palestinesi.Ma quando i confini internazionali si sono chiusi rendendo impossibile viaggiare, gli attivisti locali hanno deciso di rivolgersi agli amici israeliani.

Alcuni di noi hanno preso l’iniziativa di chiedere il loro intervento. Non tutti in zona sono d’accordo, non capiscono cosa vorremmo cercare di ottenere. Ma prima di dover segnalare degli incidenti da parte dei coloni, ora i nostri alleati israeliani possono avere un’esperienza immediata e documentare tutto”, afferma Nasser Nawaja, un noto attivista locale. Gli israeliani stanno imparando cosa significa vivere qui. E i nostri figli stanno imparando che gli ebrei non sono solo coloni o soldati”.

Dalla primavera piccoli gruppi di israeliani si recano a turno in un territorio costituito da una manciata di villaggi sulle colline di Hebron, anche se per motivi di sicurezza i volontari hanno chiesto di tenere nascosta la loro posizione esatta. In apparenza i circa 10 volontari sembrano avere poco in comune: provengono da varie parti di Israele, da diversi contesti familiari, e per quanto tutti si descriverebbero come politicamente di sinistra, ne mettono in discussione il significato.

Gli studenti prendono lezioni di arabo due mattine a settimana, con un programma che Mark e Zahor hanno realizzato appositamente per madrelingua ebraici. Prendono parte alla vita di tutti i giorni e non c’è nessun divieto di discutere di argomenti politici, a differenza di quanto previsto in Israele nella maggior parte dei programmi di arabo.

“Quando sono arrivata, ricordo di aver pensato: ‘Cosa farò qui? Come interagirò, come sosterrò questa comunità?’ In estate non capivo nulla di quanto si diceva, ma ora comprendo circa il 50% della conversazione. È molto eccitante”, ha affermato giovedì scorso Maya Eshel, 26 anni, nel corso di un incontro di gruppo con l’Observer in un centro comunitario durante una giornata fredda e cupa.

Il gruppo passa il resto del tempo a prestare aiuto in ciò che serve. Sono molto utili come sorveglianti: se qualcuno chiama per dire che i coloni si stanno avvicinando a un villaggio, o che impediscono ai pastori di raggiungere la loro terra, i volontari entrano in azione afferrando binocoli e macchine fotografiche dotate di teleobiettivi donati da B’Tselem e affrettandosi verso le loro auto.

A volte può bastare la loro presenza, o un dialogo in ebraico, per allentare la tensione. Male che vada possono riprendere ciò che accade e fornire testimonianze alla polizia, anche se finora su decine di segnalazioni è stato sottoposto ad indagine solo un caso.

Durante la nostra visita il clima rilassato del fine settimana in un villaggio è cambiato drasticamente dopo che una bambina è corsa verso le case prefabbricate gridando di aver visto due coloni della grande colonia dall’altra parte della valle avvicinarsi ad un uliveto palestinese. Gli adulti e gli attivisti israeliani si sono precipitati verso il punto di osservazione più vicino; i cani del villaggio abbaiavano. Attraverso il binocolo, hanno notato che le due figure avevano le apparenze di ragazzini. Sembrava che uno di loro avesse con sé una sega. Notando gli adulti sul crinale i ragazzini si sono fermati, tornando quindi indietro verso linsediamento.

“A volte mi trovo a vagare colla jeep, magari è notte fonda, in un luogo in cui non sono mai stato, e mi fermo e penso tra me e me: ‘Che cazzo ci faccio qui?'”, dice Matan Brenner-Kadish , di 25 anni. Questo progetto non è proprio adatto a tutti e, nel lungo periodo, stiamo solo tappando i buchi in una barca. Se la motivazione fosse rabbia e vergogna, allora questo impegno sarebbe estenuante. Ma se si parte dall’idea di accettare che ciò porta dei benefici sia a noi che a loro, la prospettiva cambia”.

Il progetto non è esente da rischi. All’inizio di questo mese, tre componenti del gruppo sono stati detenuti in una stazione di polizia durante la notte con l’accusa di non essere intervenuti per aiutare un colono che era stato spinto a terra dagli abitanti quando ha cercato di entrare in un villaggio palestinese. Sono stati sequestrati fotocamere, computer portatili, telefoni e un’auto, il tutto senza un mandato. I tre membri detenuti potrebbero tecnicamente subire condanne a tre anni di carcere.

“Uno degli argomenti usati dai coloni è che la nostra presenza porti ad una maggiore violenza: uno di loro ci ha esplicitamente incolpato dicendo che loro [i palestinesi, ndtr.] stanno conducendo delle aggressioni a causa nostra”, riferisce Itai Feitelson, 26 anni.

Che ci fossimo o meno, loro [i coloni, ndtr.] sarebbero comunque violenti. Ciò dimostra che quello che stiamo facendo sta funzionando”, afferma Brenner-Kadish. “E, in fin dei conti, se i palestinesi lo possono fare per tutta la vita, possiamo farlo anche noi”.

Questo articolo è stato modificato il 22 dicembre 2021 per quanto riguarda i dati sulle vittime civili palestinesi; le Nazioni Unite hanno registrato quattro uccisioni, non “omicidi” come affermava una versione precedente.

(traduzione dallinglese di Aldo Lotta)




I coloni hanno un nuovo obiettivo da attaccare: le scuole palestinesi

Gideon Levy, Alex Levac

 16 dicembre 2021 Haaretz

I soldati israeliani impediscono con la forza ai bambini palestinesi di raggiungere la scuola e sparano lacrimogeni nelle aule. I coloni li maledicono, li picchiano e umiliano i loro insegnanti. Immaginate che specie di sentimenti vi ribollano.

Nessuno riceve lezioni migliori sulle teorie dell’occupazione e dell’apartheid dei bambini di Lubban al-Sharqiyah, un villaggio di 4.000 persone situato a 15 chilometri a sud di Nablus. Non è difficile indovinare che tipo di sentimenti vi si stiano sviluppando e quali generazioni usciranno in futuro dalle due scuole elementari, una maschile e una femminile, di Lubban e di altri due villaggi. Gli edifici si trovano entrambi vicino all’autostrada 60, la strada più trafficata della Cisgiordania, utilizzata sia dai coloni che dai palestinesi, dove si sono verificati molti incidenti con lancio di pietre da parte di bambini palestinesi.

I bambini di questo villaggio hanno visto di tutto. Hanno visto soldati israeliani impedirgli con la forza di raggiungere la scuola e coloni che li maledicevano e li picchiavano. Hanno patito il soffocamento a causa dei gas lacrimogeni e sono stati colpiti da proiettili di metallo ricoperti di gomma sulla strada per la scuola e ritorno. Hanno visto i loro insegnanti umiliati – secondo le testimonianze, i soldati hanno costretto più volte di fronte ai loro alunni gli insegnanti a inginocchiarsi– e hanno visto soldati lanciare lacrimogeni nelle aule e nei cortili delle scuole.

A Lubban al-Sharqiyah, i genitori mandano a scuola i figli la mattina senza sapere in quale stato torneranno. In verità il capo del Consiglio locale, Yakub Iwassi, racconta che arriva all’ingresso del villaggio ogni mattina alle 6:30 per accompagnare i bambini a scuola e garantire loro sicurezza. Sebbene si siano verificati incidenti con lancio di pietre sull’autostrada, secondo il capo del Consiglio, sono un ricordo del passato. Non ci sono stati incidenti da più di due settimane, aggiunge Iwassi, e lui e il suo staff stanno facendo tutto il possibile per prevenirli. Recentemente gruppi di genitori si sono offerti volontari per filmare e documentare ciò che accade vicino alle scuole.

L’insegnante di religione della scuola femminile, Iman Daragme, è madre di Ziyad, 14 anni, che frequenta la scuola maschile. L’alunno frequenta la terza media ed è stato ferito ad un occhio durante l’ultimo giorno di disordini vicino alla scuola, il 17 novembre. Quella mattina, racconta Ziyad, è uscito come al solito ma quando è arrivato all’incrocio appena fuori dal villaggio, ha visto dozzine di coloni lungo la strada che porta alle scuole – pensa che fossero in 200 – e soldati dell’Esercito Israeliano in piedi accanto a loro. I coloni stavano protestando contro il lancio di pietre sull’autostrada e i soldati hanno impedito ai bambini di avanzare. Ma Ziyad dice che quel giorno non c’era stato alcun lancio di pietre.

Sua madre si occupa molto di lui. Al momento ha un braccio fasciato, ma non a causa degli eventi di quel giorno: domenica se l’è rotto cadendo dalla bicicletta.

Erano le 7:30 di quel mercoledì mattina, qualche settimana fa. La situazione iniziava a surriscaldarsi. I bambini si sono affrettati verso la scuola, i coloni hanno continuato la loro manifestazione e i soldati hanno iniziato a sparare lacrimogeni e proiettili ricoperti di gomma per disperdere i bambini e costringerli a tornare al villaggio. Per quanto lo riguarda Ziyad è sicuro che i coloni stiano rendendo impossibile la vita agli scolari come parte di un piano: “I coloni vogliono chiudere la scuola in modo da impadronirsene”, ci dice. “Hanno già occupato il vecchio mercato vicino al villaggio”.

Gli scontri sono continuati sulla strada per la scuola sino al tardo pomeriggio. La maggior parte degli abitanti del villaggio è arrivata all’incrocio, il posto sembrava un campo di battaglia. Secondo un membro del Consiglio del villaggio, Falastin Noubani, quel giorno 60 bambini hanno patito in qualche modo il gas lacrimogeno e non sono mai arrivati a scuola; 40 sono stati feriti da proiettili ricoperti di gomma, quasi tutti in modo non grave. Ma un ragazzo, Ziyad Salame, 11 anni, è stato colpito alla testa da un proiettile di metallo rivestito di gomma. Inizialmente si è temuto per la sua vita, a causa di un ematoma cerebrale. Alla fine l’emorragia si è fermata e il pericolo è passato. E Ziyad Daragme, il figlio dell’insegnante, è stato colpito all’occhio da una scheggia o da qualcos’altro. È stato portato a Salfit all’ospedale governativo Yasser Arafat Martire, e da lì è stato inviato all’ospedale oftalmico Hugo Chavez a Turnus Aya, vicino a Ramallah, dove è stato curato.

L’Unità Portavoce dell’Esercito Israeliano in settimana ha emanato questa vaga risposta sulla situazione di Lubban al-Sharqiya: “Alla luce dei recenti eventi di scontri e disordini nelle vicinanze del villaggio, che ricade sotto la giurisdizione della Brigata territoriale Binyamin, alcune misure sono state prese dall’Esercito Israeliano in coordinamento con i rappresentanti del villaggio per arginare il problema. A seguito di queste misure, gli scontri nell’area sono notevolmente diminuiti”.

Le due scuole di Lubban sono vicine l’una all’altra ed entrambe si trovano proprio a ridosso della Strada Statale 60, a circa due chilometri dal centro del paese. Nel 2014 l’Amministrazione Civile, un ramo del governo militare in Cisgiordania, ha costruito una barriera lungo l’autostrada per proteggere gli scolari dalle auto in corsa, e per loro ha costruito anche un marciapiede. Ai palestinesi è proibito costruire qualsiasi cosa in quest’area: l’autostrada è nell’Area C, amministrata da Israele. Prima di queste migliorie, nel corso degli anni circa 20 bambini erano stati uccisi in incidenti stradali sulla strada per la scuola e ritorno.

Gli alunni iscritti alle due scuole sono 661: 421 nella scuola maschile e 240 nella femminile. La scuola maschile è stata costruita nel 1944, quella femminile nel 1971, molto prima di tutti gli insediamenti che stanno ora soffocando il paese da ogni lato; alcuni sono stati costruiti su terreni di proprietà del villaggio.

In una conversazione nel suo ufficio, Iwassi, capo del Consiglio, un uomo d’affari di 58 anni tornato nella sua casa in Cisgiordania dopo aver trascorso 15 anni a Tampa in Florida, ci racconta che negli ultimi mesi è stato minacciato dai soldati dell’Esercito Israeliano che brandivano fucili mentre accompagnava i bambini a scuola. Dice che è stato colpito due volte con proiettili rivestiti di gomma e aggiunge che due settimane fa i soldati hanno afferrato un ragazzo che stava andando a scuola e lo hanno arrestato. Quando Iwassi ha protestato, i soldati gli hanno detto che il ragazzo, Muayid Hussam, 11 anni, aveva lanciato pietre sull’autostrada tre giorni prima mentre andava a scuola. Hussam è stato preso in custodia e rilasciato quattro ore dopo. Iwassi ha indagato sulla vicenda e ha scoperto che il giovane sospettato quel giorno non era nemmeno andato a scuola.

Il capo del Consiglio ci dice che per salvaguardare i bambini ha messo un insegnante ogni 100 metri lungo il percorso che porta alle scuole. In alcuni casi, dice, i coloni si piazzano sul ciglio della strada e minacciano i ragazzi. Gli hanno riferito, per esempio, che un colono aveva gridato che le loro scuole sarebbero passate ai coloni, e addirittura diceva ai bambini che erano stati scelti nuovi nomi: “Brooklyn” per la scuola femminile, “Bnei Yisrael” per quella maschile.

Issawi conserva nel suo cellulare le informazioni che ha raccolto nell’ultimo anno. L’esercito ha fatto irruzione nelle scuole otto volte mentre si teneva lezione; le truppe hanno impedito agli alunni di raggiungere le scuole 76 volte. I droni sono stati avvistati nell’area cinque volte: non è chiaro se li abbiano lanciati l’esercito o i coloni, ma hanno disturbato e spaventato i bambini. Sono stati lanciati gas lacrimogeni nelle aule sette volte e ogni volta gli edifici hanno dovuto essere evacuati. Gli alunni sono stati picchiati 13 volte, ma non hanno riportato ferite. Tredici alunni sono stati fermati per qualche ora o per alcuni giorni. L’Esercito Israeliano ha chiuso i cancelli delle scuole 15 volte. I coloni hanno attaccato violentemente gli alunni sette volte. E ci sono stati circa 100 incidenti, dice Issawi, in cui soldati o coloni stavano minacciosamente vicino agli ingressi delle scuole.

“Con quale diritto i coloni armati vengono al cancello di una scuola?” chiede il capo del Consiglio. “Sai, se mi capitasse di camminare per strada armato, verrei arrestato immediatamente. In tutto il mondo i civili non possono andare in giro armati, solo la polizia e le forze di sicurezza. Allora perché i coloni possono farlo? A volte i coloni urinano davanti alle ragazze. Ho parlato con i soldati, ma non hanno fatto nulla. I coloni gridano ai bambini: ‘Questa è la nostra terra. Qui vivranno solo ebrei. Siete degli animali. Siete cani. Questa terra appartiene solo a noi. Morte agli arabi!’ “

“Questa non è vita”, continua. “I nostri figli non pensano ad imparare, ma solo a tornare a casa sani e salvi. Gli insegnanti hanno paura per gli alunni. Questa non è vita”. Noubani, membro del Consiglio, aggiunge: “I nostri figli hanno il diritto di camminare lungo il ciglio della strada per andare a scuola. Nessuno ci può dettare dove debbano camminare i nostri figli”.

Verso la scuola, da un’altra direzione, c’è anche un sentiero sterrato ma non raggiunge tutti gli abitanti del villaggio.

Iwassi: “Dobbiamo salvaguardare questo percorso, perché ci sono bambini che vengono dall’altra parte della strada. L’esercito può dirmi quali bambini stanno creando problemi e io mi occuperò di loro. Tutto ciò che vogliamo è che i nostri figli possano studiare in pace”.

Noubani racconta che negli ultimi anni gli attacchi da parte dei coloni sono stati continui, ma non erano mai arrivati alle scuole: “Che i coloni vadano lì è una novità. Vengono da tutta la zona, non solo dalle colonie vicine. Eravamo abituati al fatto che abbattessero i nostri alberi, ma gli attacchi ai nostri figli sono una novità”.

Iwassi è d’accordo, e osserva che anche se ci sono sempre stati attacchi da parte di soldati e coloni, non sono mai stati tanti quanti nell’anno passato. Perché pensa che la situazione sia peggiorata, gli chiediamo. “Perché questo governo è un governo di coloni. Questo è il problema. Quando il primo ministro è amico dei coloni, questo è il risultato. Questa è la direttiva. Il governo precedente era meno un governo dei coloni di questo”.

Nel corso degli anni, sono stati sottratti a Lubban circa 5.000 dunam (1.250 acri) di terra con la costruzione delle vicine colonie di Ma’aleh Levona, Eli, Shiloh e Givat Harel.

“Tagliano i nostri alberi e bruciano i campi”, dice Iwassi. “Ti alzi la mattina e tutti i tuoi ulivi sono stati abbattuti. Vogliono una scuola vuota e un villaggio vuoto e un paese senza palestinesi”.

L’ultimo giorno del Ramadan di quest’anno Ahmed Daragme, 34 anni, residente nel villaggio, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco dai soldati all’incrocio di Tapuah mentre tornava a casa dopo aver acquistato dei dolci per la festa. I soldati pensavano che avesse in mano una pistola, ma non ce n’era traccia. Il suo amico Mohammed Noubani, 28 anni, che era con lui in macchina, è stato ferito gravemente e da allora è su una sedia a rotelle.

Abbiamo chiesto a Iman, insegnante di religione, qual è la cosa peggiore degli incidenti nelle scuole: “Le maledizioni che i nostri alunni si sentono lanciare dai coloni. E anche quando i soldati a volte stanno vicino alle finestre delle aule. Questo spaventa i bambini”.

Sul muro della scuola femminile c’è il disegno di un’insegnante con degli alunni. “Insegnaci l’aritmetica e non le botte”, dicono gli alunni all’insegnante con un gioco di parole in arabo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




A proposito di ‘gassare gli arabi’ e altre patologie: Israele è una ‘società malata’?

Ramzy Baroud

6 dicembre 2021 – Middle East Monitor

Alcuni credono erroneamente e chissà perché che il quotidiano israeliano Haaretz sia di centro-sinistra, progressista e persino ‘filo-palestinese’. Chiaramente nulla di tutto ciò è vero. Questa descrizione distorta di un giornale essenzialmente sionista e anti-palestinese racconta una situazione molto più complessiva riguardo a quanto sia confusa la politica israeliana e come molti di noi siano altrettanto confusi quando si tratta di capire il dibattito politico israeliano.

Il 28 novembre, Isaac Herzog, appena eletto presidente di Israele, ha fatto irruzione nella moschea di Ibrahimi nella città palestinese di Al-Khalil (Hebron) con centinaia di soldati e molti coloni ebrei illegali, incluso il gotha degli estremisti israeliani.

La scena ricorda un evento simile, quando nel settembre 2000 Ariel Sharon, ex primo ministro, entrò con migliaia di soldati e poliziotti nell’Haram Sharif [la Spianata delle Moschee, ndtr.] nella Gerusalemme Est occupata. Fu proprio questo evento a scatenare la seconda Intifada palestinese (2000-05) che causò migliaia di morti.

Il gesto di Herzog di solidarietà con i coloni di Kiryat Arba [colonia particolarmente violenta nei pressi di Al Khalil /Hebron, ndtr.] è identico a quello precedente di Sharon, anch’esso rivolto a conquistare l’approvazione degli influenti estremisti di destra israeliani in costante crescita.

Appena pochi mesi fa Haaretz ha descritto Herzog come un “centrista, pacato, non un istrione che, a volte, “si sente fuori posto sul tempestoso e frammentato campo di battaglia della politica israeliana “. Herzog, secondo Haaretz, “potrebbe essere proprio quello di cui Israele ha bisogno.”

Ma è davvero così? Stupiscono alcune dichiarazioni rilasciate da Herzog in occasione della sua visita al luogo dove ventinove palestinesi furono massacrati da Baruch Goldstein, un estremista di Kiryat Arba e dove molti altri sono stati uccisi dai soldati israeliani in conseguenza del tragico evento. Non solo molti israeliani celebrano Goldstein con un santuario degno di eroi e santi, ma molti di quelli che hanno accompagnato Herzog durante la provocatoria ‘visita’ sono ardenti seguaci del terrorista ebreo israeliano.

“Dobbiamo continuare a sognare la pace,” ha dichiarato Herzog in occasione della prima notte della festività ebraica di Hanukkah dentro il complesso della moschea di Ibrahimi che era stato in precedenza svuotato dei fedeli musulmani [il luogo sacro è condiviso sia dai fedeli ebrei che da quelli musulmani, ndtr.]. Egli orgogliosamente ” ha condannato qualsiasi forma di odio o violenza”. Intanto centinaia di soldati israeliani stavano terrorizzando 35.000 abitanti della città vecchia di Al-Khalil. Questi palestinesi, vittime di violenze quotidiane per mano dei circa 800 coloni ebrei armati di Kiryat Arba e di circa un numero simile di soldati israeliani, sono stati tutti rinchiusi: i loro negozi chiusi, le loro vite sospese, i muri coperti di scritte razziste.

Riferendosi al presidente israeliano il sito israeliano di notizie +972Mag ha affermato: “Se Herzog avesse girato l’angolo avrebbe potuto vedere le scritte sui muri che dicevano: ‘gassate gli arabi.’”

È probabile che Herzog conosca già, anzi sostenga, tale razzismo: dopotutto insieme a lui c’erano tipi come Eliyahu Libman, che capeggia il consiglio regionale di Kiryat Arba, e Hillel Horowitz, il leader dei coloni ebrei di Al-Khalil. Questi sono i due che predicano, come cosa normale, estremismo e violenza contro i palestinesi. A parte ospitare la tomba e il santuario di Goldstein, la colonia ha un parco intitolato a Meir Kahane, il leader spirituale degli estremisti israeliani più violenti.

In un discorso emotivo tenuto da Horowitz in presenza di Herzog, il leader dei coloni ha proclamato che la violenta irruzione del presidente israeliano nella moschea di Ibrahimi “ci rammenta che noi non abbiamo preso la terra di stranieri.” Ha continuato dicendo: “La tua visita rafforza la nostra missione.”

Dal punto di vista di Horowitz, Libman e di quelli della loro genia, la loro ‘missione’ è stata un grande successo. Essi sono riusciti a orientare verso destra quasi tutta la politica israeliana. Ora persino il presidente, “centrista e pacato”, abbraccia totalmente la loro infame missione.

Ma Haaretz  ammetterà questa situazione? Che la linea editoriale ‘liberal’ e ‘progressista’ che avrebbe caldeggiato per molti anni ha completamente fallito e, di conseguenza, dire la verità su Israele?

Paragonate il ritratto positivo di Herzog dipinto da Haaretz con i suoi reportage su Reuven Litvin, l’ex presidente israeliano di destra. Giustamente e in varie occasioni quest’ultimo era stato criticato per la sua linea politica filo-Likud [il principale partito israeliano di destra, ndtr.] e per il suo ruolo divisivo che ha contribuito a creare una scena politica israeliana già frammentata. Ma quando Rivlin nell’ottobre 2014 ha dichiarato che la “società israeliana è malata ed è nostro dovere curare questa malattia,” un editorialista di Haaretz aveva insinuando sferzante che “i commenti di Rivlin sono decisamente zeppi di odio antiebraico”.

“Prima ha definito come ‘malata’ la società ebraica, facendo affiorare ricorrenti temi antisemiti sugli ebrei come portatori di una malattia culturale e ideologica. Poi ha chiesto se gli ebrei siano ‘esseri umani decenti’, mettendo in dubbio la loro stessa umanità,” sosteneva l’articolo.

Naturalmente le malattie di “violenza, ostilità, bullismo (e) razzismo”, che Rivlin aveva poi fatto notare, sono molto reali. Altri sintomi di questa orribile patologia includono anche occupazione militare, apartheid e violenza genocida, come quella inflitta frequentemente contro la striscia di Gaza assediata.

Mentre questa ‘malattia’ israeliana sta diventando famosa a livello globale presso organizzazioni come Human Rights Watch [nota Ong per i diritti umani con sede negli USA, ndtr.] e molte altre che la descrivono nel modo più onesto e schietto, la maggioranza della società israeliana, inclusi i suoi rappresentanti e il suo ‘moderato’ presidente restano ciechi, protetti dalla verità dalla loro stessa arroganza, infatuati del loro potere militare e inebriati dall’umiliazione e dalla violenza a cui i palestinesi sono sottoposti ad Al-Khalil, a Gaza, a Gerusalemme e nella Palestina occupata.

Non ci sono segnali che la società, il governo e i media israeliani ‘liberal’ o di destra svilupperanno da soli gli anticorpi necessari per curare le malattie di razzismo, occupazione militare e apartheid. Sì, alla fine sarà la resistenza palestinese che contribuirà in modo decisivo a fare in modo che Israele ne debba rispondere. Ma questo succederà solo quando la comunità internazionale prenderà una posizione coraggiosa, promuovendo i diritti dei palestinesi e sostenendo incondizionatamente la loro ricerca di libertà.

Di destra, sinistra o di centro, Israele è più che mai legato alla sua superiorità militare, al suo razzismo e all’occupazione militare. Prima accetteremo questo fatto e smetteremo di credere nell’illusione che i cambiamenti in Israele avvengano dall’interno, prima il popolo palestinese finalmente otterrà la giustizia di cui ha bisogno e che si merita.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La violenza dei coloni fomenta la tensione in Cisgiordania

Donald Macintyre & Quique Kierszenbaum ad Al Mufakara

28 novembre 2021 – The Guardian

Mentre peggiorano gli attacchi contro i palestinesi, noi abbiamo parlato con contadini, coloni, attivisti israeliani per i diritti umani e con la madre di un bambino di tre anni ferito in un raid

L’attacco era già in corso quando, dopo essere andata velocemente dalla vicina a riprendersi il figlio più piccolo, Baraa Hamamda, 24 anni, è corsa a casa dove ha trovato Mohammed, tre anni, che giaceva in una piccola pozza di sangue e apparentemente senza vita sul nudo pavimento dove l’aveva lasciato addormentato. “Ho pensato: “Ecco, è morto,” dice. “Non tornerà in vita.”

Mohammed non era morto, anche se non riprenderà coscienza per oltre undici ore, perché era stato colpito alla testa da una pietra scagliata attraverso una finestra da un colono israeliano, uno delle decine che avevano invaso l’isolato villaggio di Al Mufakara che si trova in Cisgiordania, sulle aride e rocciose colline a sud di Hebron.

Alle 13,30 circa dei coloni provenienti da 2 avamposti illegali persino secondo la legge israeliana, Havat Maon e Avigayil, tra i quali sorge, in una posizione difficile, il villaggio palestinese, hanno aggredito un gruppo di pastori palestinesi della vicina Rakiz, lanciando pietre e accoltellando pecore, uccidendone sei. Oltre una dozzina dei 120 abitanti di Al Mufakara hanno risposto con sassi nel tentativo di respingerli. Ma i coloni, parecchi dei quali armati, sono entrati rapidamente nel villaggio e, mentre le donne si barricavano con i bambini nelle case, hanno lasciato una scia di finestre fracassate, auto rovesciate, parabrezza rotti, cisterne dell’acqua perforate, penumatici tagliati, pannelli solari vandalizzati e sei palestinesi feriti, incluso Mohammed.

Pare che all’inizio alcuni soldati abbiano tentato di interporsi, un video delle Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano, ndtr.] li mostra mentre stanno immobilizzando un colono. Ma Mahmoud Hamamda, il nonno di Mohammed, dice che quando sono arrivati i rinforzi si sono concentrati nel disperdere i palestinesi che stavano difendendo il villaggio, circa la metà dei quali si è ora ritirata nella valle sottostante. “Erano a fianco dei coloni, sparavano contro i palestinesi, gas lacrimogeni, granate stordenti e proiettili di gomma,” aggiunge. “Se Israele avesse fatto rispettare la legge nessuno di questi coloni sarebbe qui … invece i soldati israeliani arrivano con i fucili d’assalto M16 e affrontano gente disarmata.”

Tutto ciò solleva la domanda su cosa Israele stia facendo per contenere quello che sembra un crescente uso sistematico della violenza da parte dei coloni delle aree rurali. L’incursione contro Al Mufakara, che Haaretz, quotidiano israeliano di centro-sinistra, ha definito un “pogrom”, è il caso più eclatante fra quelli di una recente violenza in aumento da parte dei coloni. Le organizzazioni israeliane per i diritti umani sostengono che è usata sempre di più come strategia per tentare di allontanare molti dei 300.000 palestinesi che abitano nel 60% della zona agricola della Cisgiordania occupata designata come Area C [sotto totale ma temporaneo controllo di Israele, ndtr.] dagli accordi di Oslo.

Probabilmente i coloni stavano provando con la forza a fare quello che Israele cerca da tempo di ottenere con la burocrazia. A differenza della maggior parte dei coloni, agli abitanti palestinesi di villaggi come Mufakara non sono concessi permessi per costruire ambulatori medici e scuole o asfaltare le strade di accesso, così sconnesse da far rizzare i capelli. Non avendo accesso ai servizi, finiscono per pagare l’acqua cinque volte di più degli israeliani. Molte case hanno ricevuto dall’esercito ordini di demolizione. Questo va ad aggiungersi alle decine di migliaia di ettari di “terre demaniali” assegnate ai coloni anche se, da generazioni, sono state usate come pascoli dai palestinesi.

B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani, ha affermato questo mese che lo Stato ha “sfruttato la violenza dei coloni per promuovere la propria politica di occupazione delle terre dei palestinesi a favore degli ebrei”.

Anche se Naftali Bennett, che a giugno ha sostituito Benjamin Netanyahu come primo ministro, è un nazionalista di destra, è stato obbligato a includere nella sua coalizione il partito laburista e il Meretz (il partito ebraico più di sinistra) così come, per la prima volta, Ra’am, un partito arabo di tendenza islamista. Alla base dell’accordo politico che Bennett ha stretto con i suoi partner di centro-sinistra c’era che non avrebbe coronato il proprio sogno di annettere de jure parti fondamentali della Cisgiordania e in cambio il governo si sarebbe concentrato sulle politiche riguardanti Israele vero e proprio: niente annessioni, ma neppure fine dell’occupazione.

Bennett condivide completamente la visione espansionistica dei leader dei coloni per i quali Israele si estende fino al fiume Giordano e ha promesso di continuare la crescita delle colonie esistenti. Mentre il ministro degli esteri Yair Lapid ha immediatamente twittato la condanna dell’attacco ad Al Mufakara definendolo “terrorismo” e “non il modo in cui si comportano gli ebrei”, Bennett non l’ha fatto.

Membri del Meretz [storico partito della sinistra sionista, ndtr.] che siedono all’opposizione nella Knesset, come l’avvocatessa Gaby Lasky, sono stati espliciti sulla necessità che il governo ordini ai soldati di usare i suoi evidenti poteri legali contro l’uso della violenza da parte dei miliziani coloni come “strumento strategico”, inclusi i metodi di controllo dei disordini che l’esercito applica regolarmente contro i palestinesi.

Lei fa notare che la Quarta Convenzione di Ginevra, quella violata da tutte le colonie nei territori conquistati da Israele nel 1967, impone espressamente, nell’articolo 27, che i soggetti di una potenza occupante “debbano essere protetti… da tutti gli atti di violenza o relative minacce”. Mentre i coloni vengono giudicati da tribunali civili israeliani e i palestinesi da quelli militari, “[l’esercito] può legalmente dispendere [i coloni]; può arrestare qualcuno fino all’arrivo della polizia”. Invece, dice, c’è stata “impunità verso i coloni violenti”.

Dopo aver espresso la propria preoccupazione presso le sedi diplomatiche, inclusa Washington, il ministro della Difesa, Benny Gantz, ha reso noto di aver convocato il 18 novembre i vertici di esercito, polizia e intelligence per inasprire le procedure contro quelli che lui chiama “crimini d’odio” in Cisgiordania, incluse nuove linee guida contro le truppe che “restano in attesa” durante gli attacchi dei coloni contro i palestinesi. Tra i presenti c’era anche Yehuda Fuchs, capo del Comando centrale delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), che, durante una delle rare visite ad Al Mufakara dopo l’invasione dei coloni, ha assicurato che “è dovere dell’esercito proteggere tutti gli abitanti”.

Ma Avner Gvaryahu, ex sergente dei corpi speciali nella Cisgiordania settentrionale e direttore esecutivo dell’organizzazione di veterani anti-occupazione Breaking the Silence [“Rompere il silenzio”, ong israeliana contraria all’occupazione formata da ex-soldati, ndtr.], è profondamente scettico. “Le parole non contano nulla,” dice. “Contano solo le azioni. Per ora la violenza dei coloni continua a devastare e Gantz non ha fatto nulla.”

Egli dubita che, anche se sul campo si impiegassero più forze di polizia, “ci sarebbero dei cambiamenti sostanziali” perché l’occupazione, le colonie e gli avamposti, “fanno tutti parte di un sistema di violenza. In questa situazione noi abbiamo il dovere di proteggere i palestinesi, eppure noi sappiamo che alla maggior parte dei soldati non viene detto che hanno l’autorità e a loro, semplicemente, non è ordinato di applicare la legge contro i coloni.”

C’erano sicuramente scarse prove durante la raccolta delle olive di quest’anno che, dopo l’attacco contro Al Mufakara, il cambio di governo avesse modificato il comportamento dei coloni. Nel villaggio di Turmus Aya un contadino di 42 anni, Mumtaz al Salmah, racconta come il 23 ottobre tre gruppi familiari palestinesi siano fuggiti davanti a 20 coloni mascherati che lanciavano pietre e che poi hanno svuotato i sacchi delle olive raccolte, dato fuoco a una macchina e tagliato le gomme di altre. Al Salmah, l’ultimo a fuggire, dice di essere stato bastonato sulla testa e sul collo e che le truppe arrivate hanno usato gas lacrimogeni e granate stordenti per respingere chi era arrivato dal villaggio per aiutare le famiglie, per farli smettere di scagliare pietre. “Adesso ho paura di andare con le donne e i bambini a raccogliere le olive,” dice. “Loro [i coloni] ci attaccano sulle nostre terre e davanti ai nostri bambini ed io non posso fare nulla.”

Anche i soldati sono stati attaccati da coloni estremisti. Ma ci sono fattori culturali che fanno sì che molti si schierino con i coloni. Gli esperti hanno stimato nel 2016 che da un terzo a metà delle reclute dell’esercito sposa il sionismo religioso, il credo dei coloni più ideologizzati, contro il 10% della popolazione in generale.

Oltre a dire che il sionismo religioso è “dominante” fino ai livelli più alti, Yehuda Shaul, un altro attivista anti-occupazione di spicco del Centro per gli affari pubblici di Israele, aggiunge che i coloni spesso godono di un rapporto “simbiotico” con unità dell’IDF a livello locale. Attingendo alla propria esperienza come coscritto a Hebron egli dice dei coloni: “La domenica sono nel mio accampamento e usano il poligono di tiro perché fanno parte delle mie unità di riservisti, il sabato mi invitano per il cholent (il tradizionale stufato dello Sabbath); il martedì il loro leader partecipa all’incontro delle IDF su intelligence e operazioni; il mercoledì faccio un giro con loro alla Tomba del Patriarca [Giuseppe] e volete che li arresti il giovedì? Ma siete matti?”

La presenza di ebrei civili israeliani può offrire ai contadini palestinesi una certa protezione. Un venerdì di questo mese, a Burin, un villaggio della Cisgiordania settentrionale, Michael Marmur, londinese, docente di teologia ebraica, che presiede Rabbis for Human Rights [“Rabbini per i Diritti Umani”, ndt.] era su una scala e raccoglieva olive con la famiglia Qaduz nei pressi di Givat Ronen, avamposto illegale e notoriamente abitato da estremisti. A Burin il mese precedente i soldati non avevano impedito ai coloni di prendere ripetutamente a pietrate una casa occupata da tre donne e un ragazzino e solo quando, dopo 40 minuti, finalmente è arrivato un contingente armato più numeroso, i coloni se ne sono andati, dando fuoco a 100 olivi.

Descrivendo “sottostimolati e fortemente motivati” i coloni “giovani delle colline”, in prima fila nella battaglia per l’Area C, Marmur cita il comandamento biblico di non “distogliere lo sguardo” e dichiara “un obbligo morale opporsi alle quotidiane violazioni dei diritti umani”.

Il contadino Jamal Qaduz, 48 anni, ha mostrato la sua gratitudine ai suoi visitatori israeliani non solo con generose porzioni di arrayes (piadine farcite di carne), ma dicendo, mentre saliva verso i suoi oliveti con le olive ancora da raccogliere nei pressi di Givat Ronen: “La prossima settimana avremo bisogno di molti altri volontari, ho paura di avvicinarmi di più senza di loro.”

Seppure con poche speranze, Qaduz ha presentato un reclamo alla polizia sull’incidente della settimana precedente. Secondo Yesh Din, l’organizzazione israeliana per i diritti umani, oltre l’80% di tali reclami non si conclude con un’indagine penale e dal 2015 al 2019 solo il 9% è finito con un rinvio a giudizio.

A Burin i coloni non hanno sparato. Ma il 10 novembre nel villaggio di Khalat al-Daba, sulle colline a sud di Hebron, gli eventi hanno preso una piega più inquietante. I coloni, a cui un ufficiale militare dell’amministrazione civile aveva detto di smantellare una tenda che avevano eretto, ufficialmente per far ombra alle loro pecore, ma vicino a una masseria palestinese, sono rimasti nella zona, spostando il loro gregge sotto gli olivi coltivati dagli abitanti del villaggio.

Itai Feitelson è arrivato poco dopo le 8 con altri attivisti, palestinesi e israeliani, in seguito alle informazioni secondo cui i coloni avevano cominciato a tirare pietre, rompendo la gamba di un palestinese di 64 anni. Feitelson, 26 anni, appartiene a una nuova generazione di attivisti israeliani che passano lunghi periodi sulle colline a sud di Hebron, imparando l’arabo e aiutando gli agricoltori palestinesi. Membro di quella che lui descrive come una “famiglia israeliana tradizionale”, Feitelson ha fatto i suoi tre anni di servizio militare nel nord di Israele, scegliendo un distaccamento di intelligence, un compromesso che non l’avrebbe invischiato nell’occupazione, ma gradualmente ha deciso di impegnarsi di più. Dice: “Non mi piace farmi sparare, ma mi piace raccogliere le olive, mi piace andare con i pastori, mi piace vivere nei villaggi.

Non ci sono molte vittorie. Qualche volta si può rendere meno tesa una situazione o prevenire un arresto o avere la sensazione che una protesta è soppressa in modo meno duro perché ci sono degli israeliani qui.”

Eppure quella notte a Khalat al-Daba Feitelson ha solo potuto testimoniare gli eventi che si sono svolti rapidamente nel buio. C’è stata una drammatica escalation quando, in quello che sembrava il momento di massima tensione, i soldati improvvisamente “sono saliti sulle loro jeep e se ne sono andati ”.

Una tregua minacciosa è stata seguita da “un fittissimo lancio di pietre da entrambe le parti” fino a che, appena sette minuti dopo che l’esercito se n’era andato “i coloni hanno cominciato a sparare come pazzi”, apparentemente con delle pistole, ferendo due palestinesi e colpendo dei veicoli, inclusa un’ambulanza palestinese. Dopo ci sono voluti 40 minuti prima che, su insistenza degli abitanti del villaggio, sia ricomparso l’esercito che ha ordinato ai palestinesi di ritornare al paese e infine ha scortato i coloni verso l’avamposto illegale di Mitzpe Yair.

Ho visto i coloni sparare,” dice Feitelson, “ma mai per 40 minuti. La cosa più incredibile da quello che ho capito … è che l’esercito se ne sia andato. Era così ovvio che la situazione stava per peggiorare.”

La relazione di questo mese di B’Tselem si concentra principalmente su un nuovo tipo di avamposto “non autorizzato”, 40 “fattorie” sparse in Cisgiordania che gradualmente si stanno impadronendo di pascoli e fonti d’acqua, vitali per i palestinesi. Questo, dice Yehuda Shaul, “sarà l’ultimo chiodo piantato nella bara delle comunità pastorali palestinesi”. La violenza, sostiene Shaul, è “esistenziale per le fattorie… un passo necessario” verso l’obiettivo di “rimuovere le comunità di pastori palestinesi”.

Il 7 novembre, degli uomini provenienti da una di queste fattorie, di proprietà del colono Issachar Mann, si sono diretti verso il villaggio di al-Tha’ala e sono riusciti ad abbeverare le proprie pecore a una cisterna da tempo usata e di cui si occupano pastori palestinesi. Tali cisterne sono fondamentali per l’economia pastorale palestinese perché gli abitanti dei villaggi dipendono da esse per le proprie pecore.

Un attivista palestinese, Basil Adraa, è arrivato in tempo per filmare scene caotiche mentre i soldati respingevano i palestinesi verso il villaggio permettendo nel contempo alle pecore dei coloni di raggiungere la cisterna. I soldati dicono che l’uso della cisterna è “permesso a entrambe le parti”. Comprensibilmente, i palestinesi la considerano totalmente di loro proprietà. In uno scambio rivelatore, un ufficiale ha chiesto ad Adraa il suo nome. Adraa gli ha risposto in ebraico: “Perché non chiedi ai coloni mascherati di identificarsi?”

Non preoccuparti,” replica l’ufficiale, “li conosco molto bene.”

L’incidente ad al-Tha’ala è successo mentre a Susiya, un paese vicino, Hamdan Mohammed stava descrivendo una scena bizzarra del giorno prima, quando dei coloni hanno fatto irruzione nel campo giochi del villaggio creando l’immagine di uomini fatti e adolescenti che sghignazzando andavano su altalene e dondoli mentre tutt’intorno i soldati dell’IDF impedivano ai palestinesi di entrare. Era il sabbath, cosa che ha spinto Hamdan a commentare: “Non rispettano la loro stessa religione.”

Ben oltre mille anni fa ebrei e musulmani hanno occupato occasionalmente la zona. Il villaggio palestinese di Susiya è destinato a essere demolito, in quanto giudicato illegale ai sensi della legge israeliana, sebbene non lo sia più di 150 avamposti ebraici molto più recenti e “non autorizzati”, incluso quello di Givat Ha Degel, da cui provenivano alcuni degli invasori del parco giochi. Secondo il diritto internazionale la parte palestinese del villaggio è completamente legale, motivo per cui EU e USA sono da tempo contrari alla sua demolizione.

La Susiya israeliana, di cui Givat Ha Degel è un avamposto, è la colonia più grande della zona. Ma, sebbene alcuni dei suoi 1.500 abitanti si siano uniti all’irruzione del parco giochi, Nadav Abrahamov, importante colono di Susiya, dice che è stato un “errore”. Egli dice che non c’è stata “violenza”, ma che i coloni della zona “si erano veramente arrabbiati” vedendo un nuovo parco giochi in un’area su cui pendono degli ordini di demolizione e poi che, proprio quella mattina, degli attivisti israeliani erano arrivati a filmare delle case costruite recentemente a Givat Ha Degel.

Ciononostante, dice Abrahamov, l’episodio è stato “uno stupido incidente. Non avrebbe dovuto succedere.” Inoltre sostiene che l’irruzione ad Al Mufakara è stata l’azione di “una minoranza di una minoranza”, anche se riconosce di non sapere “esattamente cos’è successo”.

Qualsiasi soluzione, dice Abrahamov, richiede la rimozione degli attivisti israeliani, che descrive ripetutamente come “anarchici” e che, insiste, sono “quelli che creano le tensioni”. Egli dice che “senza di loro, noi [i coloni e i palestinesi aggrappati al loro villaggio di Susiya] possiamo trovare un modo di vivere insieme”. Egli dice che i leader della colonia di Susiya hanno ripetutamente impedito agli abitanti di ripetere l’irruzione al parco giochi il sabato successivo, in effetti stringendo un accordo con l’esercito che avrebbe vietato l’ingresso all’area agli “anarchici”. In realtà quel sabato l’esercito ha piazzato dei checkpoint temporanei, impedendo alle auto con targa israeliana, incluse, per due ore, quelle dell’Observer, di raggiungere le colline a sud di Hebron.

Eppure, nonostante l’asserzione che i coloni di Susiya senza gli “anarchici” avrebbero potuto coabitare con i palestinesi di Susiya, che preferirebbero non esistessero, resta un abisso incolmabile fra la loro visione e quella della comunità internazionale su chi abbia o meno il diritto di abitare sulle colline a sud di Hebron e nel resto dell’Area C. La designazione di Area C, indispensabile per il futuro dello Stato palestinese che i governi stranieri insistono nel volere, doveva essere temporanea, in attesa di un accordo di pace finale. Invece i coloni adesso stanno aspettando la sua completa annessione a Israele. “Noi siamo una parte integrale di Israele, ma non [ancora] nello Stato di Israele,” si lamenta Shmaya Berkowitz, un altro colono di Susiya.

Né il concetto che la violenza dei coloni sia limitata a una frangia ultra-estremista si sposa facilmente con l’accusa di organizzazioni come Yesh Din, sostenute da prove crescenti, secondo cui essa è “parte di una strategia calcolata per privare i palestinesi delle loro terre”. O con Yehuda Shaul, convinto sostenitore dell’accordo a due Stati con i palestinesi, che sostiene che “la violenza dei coloni non è una storia di 50 matti alla periferia del movimento … ma un passo essenziale nell’evoluzione del progetto coloniale”.

L’altra settimana l’esercito israeliano ha detto di essere “impegnato a garantire il benessere di tutti gli abitanti della zona e ad agire per prevenire la violenza nella sua area di responsabilità”. Riferendosi ai coloni, ha aggiunto: “Qualsiasi affermazione che l’IDF supporti o permetta violenze da parte degli abitanti dell’area è falsa.”

Tornando ad Al Mufakara, Baraa Hamamda dice che da quel pomeriggio di settembre i suoi bambini sono traumatizzati e che adesso sono spaventati dalle finestre, sapendo che sono fatte di vetro che può essere rotto da una pietra. “Loro dicono: ‘Come fanno i vetri a proteggerci? Noi non abbiamo bisogno di finestre.’”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




“È divertente sparare ai palestinesi”: parlano sei ex-soldati israeliani

Rasha Reslan

21 novembre 2021- Al Mayadeen

Sei soldati dell’occupazione israeliana rievocano in un video le atrocità che hanno commesso in una realtà sconcertante che riflette la gravità della situazione ad al-Khalil da un punto di vista: una realtà di crimini contro l’umanità.

Ai soldati piace proprio sparare proiettili ricoperti di gomma.”

E’ divertente.”

Tutti si danno il cinque.”

Sei fantastico, l’hai beccato.”

Di recente il New York Times ha ottenuto dalla regista ed ‘ex’-soldatessa israeliana Rona Segal un documentario breve: “Mission: Hebron”.

È la prima volta negli ultimi anni che un documentario mette in luce una parte delle sofferenze giornaliere dei palestinesi nella al-Khalil/“Hebron” occupata: una realtà sconvolgente che raramente viene consentito all’opinione pubblica di vedere.

Al-Khalil è considerata la più grande città della Cisgiordania occupata e l’unica in cui i coloni israeliani abitano accanto ai palestinesi, accentuando quindi le loro sofferenze.

I palestinesi devono affrontare gravi limitazioni agli spostamenti, in quanto le forze di occupazione israeliane sono costantemente presenti e impegnate da molto tempo a espellerli, in particolare dalla Città Vecchia.

Nei suoi sei capitoli il breve documentario inquadra le atrocità israeliane ad al-Khalil

Sei soldati dell’occupazione israeliana, tutti arruolati all’età di 18 anni, descrivono la loro cosiddetta “missione” ad al-Khalil. A loro è stato “affidato l’incarico di proteggere e controllare i coloni israeliani.” A questi soldati appena maggiorenni è stato dato un totale controllo sulle vite dei palestinesi in città.

I sei ‘ex’ soldati descrivono in un set in studio la loro “missione” basata sui “doveri stabiliti dalle loro regole d’ingaggio”: i coloni israeliani di al-Khalil sono “controllati e protetti” attraverso una serie di strategie, rendendo nel contempo insopportabili le vite dei civili palestinesi.

Ripensandoci, i soldati ricordano la loro confusione, il loro disagio e il loro odio.

Raccontano sullo schermo le atrocità commesse con una nuova prospettiva della gravità della situazione sul terreno ad al-Khalil, che costituisce un crimine contro l’umanità, di apartheid e persecuzione.

Missione” principale

Il tuo unico compito è di controllare e proteggere i coloni israeliani a Hebron (al-Khalil).”

Chiarendo che il compito dei soldati israeliani è di proteggere e scortare i coloni israeliani con ogni mezzo, risulta chiaro che la crescente e sempre più grave violenza dei coloni israeliani contro i palestinesi viene attuata con l’esplicito appoggio delle autorità israeliane di occupazione. Nel contempo i soldati israeliani hanno l’ordine di chiudere gli occhi e persino di difendere i responsabili [delle violenze].

La violenza dei coloni contro i palestinesi include danneggiamento di proprietà privata, lancio di pietre e aggressioni fisiche, così come attacchi contro attivisti e giornalisti.

Tali aggressioni sono diventate sempre più frequenti negli ultimi anni e vengono commesse impunemente.

Uno dei soldati israeliani testimonia che è un coordinatore della sicurezza dei coloni israeliani che gli dà gli ordini, non il loro comandante militare. In molti casi i soldati dell’occupazione israeliana forniscono agli aggressori una scorta e un supporto. Ma quando i soldati israeliani non si uniscono agli attacchi, secondo le ammissioni dei soldati, “i coloni illegali possono rivoltarsi contro di loro, diventando quindi nemici,”.

Se spari ai palestinesi i coloni ti danno una pizza e un caffè.” Questo è di gran lunga uno degli aspetti più sgradevoli della “missione”. L’‘affetto’ dei coloni può trasformarsi in odio se a loro viene vietato di fare aggressioni estreme contro i palestinesi. A questo punto il soldato che prima era amato si trasforma in “traditore” e “nazista”.

Una strada sterilizzata senza palestinesi”

Con un’affermazione razzista, uno degli ‘ex’ soldati israeliani afferma che ci sono strade che sono “sterilizzate da palestinesi”.

Come parte della politica dell’esercito israeliano di rendere queste zone “sterilizzate” da palestinesi, ad al-Khalil le forze israeliane di occupazione vietano ai palestinesi di camminare in vaste aree di quella che prima dell’occupazione era la principale arteria della città.

Nel suo racconto Imad Abu Shamsieh, il coordinatore dello Human Rights Defenders Group [Gruppo dei Difensori dei Diritti Umani, ong palestinese che documenta le violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi, ndtr.], dice ad al Mayadeen in edizione inglese che l’occupazione israeliana ha piazzato più di cento posti di controllo con cancelli in metallo ed elettronici, videocamere di sorveglianza, barriere di cemento armato e avamposti di ispezione nelle vie “sterilizzate”.

Rivela anche che circa 525 negozi palestinesi cono stati completamente chiusi nel 2000 a causa della decisione di un tribunale militare dell’occupazione israeliana.

Inoltre Abu Shamsieh afferma chiaramente che dall’ottobre del 2000 i veicoli palestinesi, comprese le ambulanze, sono esclusi dall’“area H2” [sotto totale controllo israeliano, ndtr.].

L’attivista per i diritti umani continua affermando che “le forze di occupazione israeliane impediscono ai giornalisti locali e internazionali di entrare nell’area H2 e nelle strade sterilizzate. Nel contempo io, insieme a un gruppo di palestinesi di al-Khalil, abbiamo deciso di documentare i crimini di guerra israeliani che avvengono giornalmente e prendono di mira uomini, donne e bambini palestinesi.”

Dal 2010, con l’iniziativa ‘Capturing Occupation Camera Project in Palestine’ [Progetto della Telecamera che Riprende l’Occupazione in Palestina]”, abbiamo iniziato a filmare le atrocità dell’occupazione israeliana contro i palestinesi.

Siamo un gruppo di circa 30 giovani volontari palestinesi che mettono in evidenza e documentano le violazioni dei diritti umani e delle leggi internazionali in Palestina,” dice Abu Shamsieh ad Al Mayadeen.

Perquisizioni corporali

Uno dei soldati israeliani afferma spavaldo che lo scopo principale delle perquisizioni corporali è “fermare e perquisire ogni palestinese”, ma implicitamente le perquisizioni sono di fatto intese a umiliare i palestinesi senza alcuna giustificazione legale.

Quando perquisisci qualcuno che prendi per la strada ciò richiede di toccare la persona,” dice un soldato.

Un gruppo di uomini palestinesi può essere preso di mira per una perquisizione semplicemente perché può avere un aspetto basato sullo stereotipo hollywoodiano razzista di “terrorista” nella mente dell’occupante. Le perquisizioni non sono messe in atto per trovare armi, ma per umiliare i palestinesi o creare “tensioni” tra loro. “L’idea è di provocare loro tensione, in modo che tengano la testa bassa.”

A causa della vicinanza delle colonie israeliane in città, i palestinesi sono circondati da una grande presenza militare e sono sottoposti a caso a perquisizioni di routine e offensive, a maltrattamenti e pestaggi.

Pattuglie

La ricercatrice sul campo palestinese Manal al-Jaabari di al-Khalil dice ad Al Mayadeen che i minori di al-Harika, un quartiere della città, sono quotidianamente soggetti al terrorismo israeliano.

Ad al-Harika, che si trova nei pressi di “Kiryat Arba” [una delle prime e più violente colonie israeliane, ndtr.], le forze dell’occupazione israeliana entrano nelle case dei palestinesi quando viene lanciata una pietra contro la barriera, e i minori vengono interrogati nelle loro case. A volte i soldati israeliani li trascinano per le strade e li piazzano davanti alle telecamere di sorveglianza,” aggiunge.

La giovane ricercatrice afferma con commozione che i soldati israeliani incitano giovani coloni israeliani ad aggredire ragazzini palestinesi della loro età nel quartiere di Jaber.

Le forze di occupazione israeliane affermano di essere state colpite da pietre per arrestarli o detenere minori palestinesi per ore, conferma al-Jaabari ad Al Mayadeen.

Nei pressi delle scuole, soprattutto nella zona sud vicino ai posti di controllo, molti minori sono arrestati e detenuti per lunghi periodi. A volte vengono picchiati o insultati e lasciati senza cibo e senz’acqua prima di essere consegnati all’al-Khalil Coordination and Liaison Office [Ufficio del Coordinamento e Collegamento di Al-Khalil] se hanno un’età inferiore ai 13 anni.”

Sopra questo limite d’età vengono arrestati e sottoposti a un’indagine alla stazione della polizia israeliana occupante, poi trasferiti in un tribunale israeliano o multati per almeno 1000 shekel [circa 280 €] prima di essere rilasciati.

Ai posti di controllo è tutta una questione casuale

Piazzi degli spuntoni antigomme, fermi le auto e provochi un grande ingorgo.” 

A volte non c’è nessuna ragione.”

Mentre i posti di controllo israeliani ostacolano la vita quotidiana dei palestinesi in città, gli ‘ex’ soldati israeliani confessano che un checkpoint è una specie di posto di blocco stradale.

È solo un episodio e quello che è stato documentato dal Palestinian Human Rights Defenders Group è molto più tragico.

Abu Shamsieh racconta ad Al Mayadeen che nel 2016 la sua telecamera ha ripreso l’esecuzione a sangue freddo del martire Abdel Fattah al-Sharif a uno dei posti di controllo dell’occupazione israeliana.

Il difensore dei diritti umani afferma che il caso di al-Sharif è solo uno dei molti crimini di guerra israeliani.

Egli rivela anche ad Al Mayadeen in versione inglese che i coloni israeliani hanno regolarmente investito bambini palestinesi persino di cinque anni.

Abu Shamsieh afferma di aver subito maltrattamenti, limitazioni alla sua libertà di movimento, sequestri, lunghi periodi di detenzione arbitraria, in genere con ordini di detenzione amministrativa [cioè senza accuse né processo, ndtr.] e perquisizioni illegali in casa e nel suo ufficio, per non parlare delle minacce di morte.

Detenzioni: “chiunque è sospetto”

Secondo le confessioni dei soldati, ogni palestinese è sospetto, e la procedura di arresto include il fatto di mettere ogni palestinese “in un posto con un soldato e poi tenerlo sotto sorveglianza’

Gli ‘ex’ soldati testimoniano che i militari israeliani mettono una benda sugli occhi e ammanettano i palestinesi arrestati a caso.

Come ogni città e villaggio palestinese, anche al-Khalil assiste quotidianamente ad arresti arbitrari di palestinesi, anche di bambini di 10 anni.

La violenta repressione delle proteste da parte delle forze di occupazione israeliane ha anche incluso l’arresto e la detenzione di manifestanti palestinesi.

Un altro “compito”: prendere di mira i giornalisti

Da parte sua un giornalista palestinese sul campo di al-Khalil, Sari Jaradat, dice ad Al Mayadeen che le forze dell’occupazione israeliana impediscono deliberatamente ai giornalisti palestinesi e internazionali di informare sull’attualità per nascondere i loro crimini quotidiani che colpiscono ogni aspetto della vita in città.

Circa una settimana fa un ufficiale dell’occupazione mi ha detto: ‘Se vieni ucciso dai nostri proiettili noi non ne avremo alcuna responsabilità.’”

Avevano già l’intenzione di prendermi di mira per impedirmi di fare il mio lavoro ed ho subito in totale cinque ferite da proiettili veri mentre informavo sui loro crimini, per non parlare delle decine di fermi, arresti, divieti di informare e limitazioni agli spostamenti,” aggiunge.

Jaradat parla del progetto “Blue Wolf” e dell’installazione ad al-Khalil di telecamere per il riconoscimento facciale, affermando che queste telecamere porteranno all’eliminazione della libertà più importante, quella della stampa, che è già limitata.

I soldati dell’occupazione israeliana emaneranno qualunque legge desiderino per impedire ai giornalisti palestinesi di fare il loro lavoro,” aggiunge.

La sistematica oppressione dei palestinesi è stata parzialmente riflessa da “Mission” ed evidenziata nel suo complesso dalle testimonianze accorate di Sari, Imad e Manal. Eppure ciò che sta avvenendo in Palestina, e in particolare ad al-Khalil, non può essere documentato o riassunto in un film, in un titolo o in una foto.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




In Cisgiordania il furto di terre è consentito solo al governo israeliano

In Cisgiordania il furto di terre è consentito solo al governo israeliano

Zvi Bar’el

3 novembre 2021 – Haaretz

 

Questa settimana il ministro della difesa Benny Gantz è stato ispirato dalla shekhina (spirito divino) e ha deciso di non sostenere l’iniziativa che permetterebbe l’acquisto di terre in Cisgiordania da parte di privati cittadini ebrei, invece che tramite una società e ciò solo previa approvazione dell’Amministrazione Civile. Una fonte della Difesa ha spiegato ad Haaretz che “estendere l’opzione di acquistare dei terreni a ogni cittadino darebbe come risultato acquisizioni irresponsabili da parte di ebrei e sarebbe visto dall’Autorità Palestinese come ‘uno sgarbo’ (Lunedì).

I nostri cuori hanno sussultato davanti a un gesto così rispettoso, a tale profondità di visione e saggezza diplomatica. La decisione di Gantz è la risposta del ministero della Difesa a una petizione presentata da Regavim, un’ONG a favore dei coloni, contro la legge attuale, “una legge razzista che esiste in un solo posto al mondo, qui in Israele,” secondo il direttore generale Meir Deutsch. La “legge razzista” alla quale fa riferimento permette di acquistare privatamente terre in Cisgiordania solo a palestinesi, giordani o stranieri di origine araba. Che cos’è questo se non apartheid antiebraico?

Ma un momento prima che crolli il mondo e che i nostri cuori si riempiano di orgoglio per la coraggiosa decisione del ministro, va ricordato che anche questa legge che Gantz sta difendendo intrepidamente è palesemente illegale. Essa contraddice il diritto internazionale, che vieta di trasferire un popolo occupante nei territori occupati e di cambiare la composizione demografica di quei territori; non mette freno alla “impresa delle colonie” e sotto i suoi auspici avamposti e fattorie individuali sono stati e saranno autorizzati. Gantz si oppone alla criminalità privata, solo quella supervisionata dal governo è legale.

La paura di Gantz “di fare uno sgarbo” all’AP è superflua. Lo stesso si può dire della paura espressa dal maggiore Zvi Mintz, che era a capo del dipartimento immobiliare della divisione per la consulenza legale dell’IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] della Giudea e Samaria [cioè la Cisgiordania, ndtr.], che “l’emendamento (ossia il permesso concesso a privati cittadini ebrei di acquistare terre) è probabile che sia visto come una violazione delle leggi di confisca in tempo di guerra e che porti a notevoli critiche a livello internazionale.”

Perché ciò che è vero circa l’acquisto da parte di privati cittadini è anche vero, secondo il diritto internazionale, per gli acquisti da parte di società. Bastava ascoltare le critiche mosse dal Segretario di Stato USA, Antony Blinken, e dal portavoce della Casa Bianca circa l’intenzione di procedere con la costruzione di oltre 3.000 unità abitative in Cisgiordania, per rendersi conto che ai loro occhi, e a quelli della comunità internazionale, non c‘è differenza fra l’illegalità delle colonie sponsorizzate dal governo e lo stesso reato perpetrato da un privato cittadino. Entrambi sono crimini. Tra l’altro per l’AP non fa alcuna differenza chi fa lo sgarbo, un privato cittadino, una società o un governo.

Lasciamo da parte le violazioni del diritto internazionale, il disprezzo per le critiche della comunità internazionale e la resa ai signori e padroni che vivono sulle terre rubate. Queste fanno già parte di un’antica cultura politica. Ma quando la sopravvivenza di questo governo intoccabile, teneramente coccolato, si basa su una decisione scolpita nella pietra di non fare nulla che susciti una controversia diplomatica per timore di strappare la fragile copertura protettiva di questa unità della coalizione, qual è il significato della nuova costruzione nelle colonie?

Tutti i partiti cosiddetti di “sinistra” avrebbero dovuto sollevare una protesta, puntare il dito accusatorio contro il ministro della Difesa e minacciare di far cadere il governo. Dopo tutto, si è già d’accordo che non ci sia “fattibilità diplomatica” di negoziati diplomatici, per non parlare di una soluzione del conflitto.

Apparentemente la sinistra nel governo di destra non solo non si rende conto della contraddizione fra l’espandere le colonie e l’assenza di una praticabilità diplomatica, ma sta anche aggiudicando a se stessa e ai propri colleghi la “fattibilità politica” di perpetuare l’impossibilità diplomatica.

Forse hanno chiuso gli occhi per un momento, ma quando Gantz non ha emendato la legge, non stava pensando all’AP, ma ai suoi colleghi nel governo. Con un cenno della mano ha anche concesso legittimità alla legge esistente che la sinistra ha cercato per anni e con tutte le forze di annullare e ha indossato la veste del giusto che ora proclama la propria innocenza.

 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)