La Cisgiordania era ed è ancora il principale campo di battaglia di Israele

Adnan Abu Amer

24 gennaio 2020 – Middle East Monitor

Circoli israeliani hanno accusato Hamas di continuare ad aggravare il conflitto contro l’esercito e i coloni in Cisgiordania al fine di destabilizzare la sicurezza interna. Questo si è trasformato in crescenti tensioni da parte di Israele, soprattutto in quanto uno dei motivi degli accresciuti timori israeliani è quello di una lotta per la successione di Mahmoud Abbas alla presidenza dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Alla luce di tali timori il servizio di sicurezza [interno] Shin Bet ha annunciato di aver sventato nel 2019 560 importanti operazioni, compresi sei attentati kamikaze, quattro rapimenti di soldati e coloni e oltre 300 uccisioni. L’esercito ha neutralizzato circa 12 cellule armate palestinesi, che avevano programmato di condurre operazioni violente usando esplosivi.

Questi dati israeliani confermano che col passare del tempo le tensioni in Cisgiordania stanno aumentando e che l’opinione prevalente è che un’operazione armata, simile a quella di agosto nella colonia Dolev vicino a Ramallah, in cui è stata uccisa una colona israeliana con un ordigno esplosivo, può avere un buon esito dopo che la cellula che ha condotto l’operazione è riuscita a eludere il sistema di controllo israeliano. Comunque l’identificazione da parte dello Shin Bet della cellula che ha eseguito l’operazione ha svelato una vasta infrastruttura militare.

L’esercito israeliano e i suoi servizi segreti si concentrano su ciò che definiscono l’importante ruolo ricoperto all’interno di Hamas dalla sua struttura in Cisgiordania, che è responsabile della direzione delle operazioni in Cisgiordania. Sta operando su più vasta scala e con maggiore intensità per destabilizzare la sicurezza e per prendere di mira soldati e coloni. Vale la pena sottolineare che alcune delle recenti decisioni prese a livello politico israeliano relativamente ai palestinesi non fanno che gettare benzina sul fuoco, scatenando ulteriori tensioni.

Quindi lo stato di allerta dell’esercito israeliano in Cisgiordania è recentemente aumentato in previsione della possibilità di un improvviso allontanamento di Abbas dalla scena politica. La ragione è che la lotta per la successione potrebbe portare ad una resistenza popolare che sconfini in resistenza armata, dato che la maggioranza dei candidati alla successione ha iniziato ad accumulare armi, sollevando gravi preoccupazioni in Israele.

Il principale fattore che influirà sulla situazione della sicurezza in Cisgiordania restano le elezioni israeliane e la parallela diffusione di messaggi provocatori da parte dei politici israeliani riguardo al futuro della Cisgiordania. Questi includono l’annessione della Valle del Giordano, di importanti blocchi di colonie, il divieto di costruzione per i palestinesi in area C ed altre decisioni arbitrarie.

Tutti questi orientamenti politici e comportamenti israeliani sul campo non faranno che esacerbare le tensioni per la sicurezza in Cisgiordania, suscitando reazioni negative tra i palestinesi, ed hanno un effetto dannoso sul coordinamento per la sicurezza con l’Autorità Nazionale Palestinese, che contribuisce ampiamente alla stabilità dell’esercito e dei coloni. Questo richiede che Israele sia preparato ad ogni sorpresa che possa verificarsi in Cisgiordania.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’industria agrotecnica israeliana trae profitto dall’occupazione militare

Maureen Clare Murphy

 17 gennaio 2020 – Electronic Intifada

Secondo un nuovo rapporto dell’associazione di monitoraggio delle imprese “Who Profits” le aziende agrotecniche israeliane “sono totalmente complici dell’occupazione di terre palestinesi e siriane.”

La tecnologia sviluppata nel contesto dell’occupazione viene utilizzata dall’industria agricola di precisione israeliana apparentemente ad uso civile. Queste applicazioni consentono alle imprese belliche israeliane di promuovere “una versione presentabile delle loro tecnologie repressive” come strumenti per combattere il cambiamento climatico e la fame nel mondo.

Le imprese agrotecniche israeliane, approfittando di un’‘immagine verde’ positiva, sviluppano e commercializzano sistemi di irrigazione intelligente, soluzioni per la protezione delle coltivazioni e fertilizzanti specifici per agricoltori in tutto il mondo, con un guadagno di miliardi di dollari in vendite annuali, afferma Who Profits. Questa industria contribuisce all’agricoltura nelle colonie in Cisgiordania e sul Golan, così come al de-sviluppo dell’economia palestinese.

La Valle del Giordano, la principale regione agricola della Cisgiordania, è sotto totale controllo militare israeliano.

Negli anni ’80 Israele ha trasferito la proprietà della terra espropriata nella Valle del Giordano all’Organizzazione Sionista Mondiale. L’organizzazione concede la terra a coloni per la produzione agricola.

Prodotti delle colonie della Valle del Giordano, come melograni, mandorle, datteri e olive, sono esportati in Europa, spesso con l’erronea etichetta “Prodotto in Israele”.

Nel 2013 la Banca Mondiale stimava al ribasso il valore della produzione agricola degli insediamenti nella Valle del Giordano a circa 251 milioni di dollari.

Quello stesso anno la Banca Mondiale riteneva che le coltivazioni agricole di terreni in Cisgiordania in quel momento sotto totale controllo militare israeliano avrebbero fruttato all’economia palestinese ulteriori 700 milioni di dollari all’anno.

Ai palestinesi viene impedito di coltivare la propria terra e sono privati di entrate, obbligandone molti a “cercare lavoro nell’agricoltura delle colonie, spesso sottoposti a pesanti condizioni di sfruttamento,” sottolinea Who Profits.

I dirigenti israeliani, compreso il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, promettono di annettere unilateralmente la Valle del Giordano.

Rafforzamento dell’annessione unilaterale

Israele ha già rivendicato l’annessione delle Alture del Golan, territorio siriano occupato da Israele durante la guerra del 1967. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha dichiarato l’iniziativa “nulla, priva di valore e senza effetti giuridici internazionali.”

Sulle Alture del Golan circa 340 fattorie e villaggi siriani vennero distrutti da Israele, che al loro posto ha costruito colonie ebraiche.

Circa 26.000 coloni israeliani controllano circa il 95% del Golan –territorio di 1.860 km2 che rappresenta l’1% dell’estensione totale della Siria. Circa lo stesso numero di siriani controlla il resto delle terre del Golan.

Sulle Alture del Golan occupate la produzione agricola delle colonie contribuisce anche al furto di terre, al de-sviluppo dell’economia siriana locale e al rafforzamento dell’annessione unilaterale del territorio da parte di Israele,” afferma Who Profits.

La produzione agricola di Gaza è stata “decimata” dall’assedio israeliano, imposto dal 2007, e da ripetuti attacchi militari contro il territorio.

Ai palestinesi viene impedito l’accesso a zone definite in modo approssimativo, che in genere dovrebbero essere entro i 300 metri dal confine con Israele. Buona parte delle terre agricole di Gaza è compresa in questa zona vietata, che Israele impone sparando per uccidere.

Trasformazione dell’agrotecnologia in arma

Secondo Who Profits Israele ha utilizzato come un’arma contro Gaza l’agrotecnica, utilizzando erbicidi “per danneggiare e distruggere le coltivazioni palestinesi” nella zona perimetrale. Martedì di questa settimana aerei israeliani per irrorare i campi hanno spruzzato prodotti chimici, che si ritiene siano erbicidi, penetrati a Gaza.

Israele effettua l’irrorazione quando il vento sta soffiando verso ovest, il che porta i prodotti chimici ben all’interno di Gaza,” hanno affermato giovedì le associazioni per i diritti umani. “In incidenti di irrorazione precedentemente documentati, gli erbicidi chimici hanno raggiunto una distanza fino a 1.200 metri all’interno della Striscia.”

Le organizzazioni per i diritti aggiungono che i dati indicano “che l’irrorazione pone una minaccia potenziale al diritto alla vita, in quanto danneggia direttamente la sicurezza alimentare e la salute della popolazione civile di Gaza.”

Nel contempo le imprese dell’agrotecnica “beneficiano della commercializzazione del know-how militare israeliano” sviluppato nel contesto dell’occupazione.

Secondo Who Profits “la collaborazione include l’adattamento del sistema di comando e controllo “Iron Dome” [Cupola di Ferro, sistema antimissilistico israeliano, ndtr.] per l’irrigazione intelligente, così come l’utilizzo di droni delle Industrie Aerospaziali Israeliane [industria pubblica israeliana con circa 15.000 dipendenti, ndtr.] per l’agricoltura di precisione su vasta scala,”.

La situazione di una prolungata occupazione militare è stata il motore propulsore che sta dietro a una prolifica e molto redditizia industria bellica, che dà come risultato un rapporto simbiotico tra il settore privato e l’apparato militare dello Stato,” sostiene Who Profits.

Il settore agrotecnico civile trae beneficio dai sussidi del governo israeliano per la ricerca e lo sviluppo in Cisgiordania e sulle Alture del Golan, trovando nel contesto dell’occupazione “un terreno di sperimentazione per lo sviluppo di prodotti e tecnologie.”

Who Profits” afferma che l’estensione delle tecnologie militari alle industrie civili “rafforza ulteriormente l’interesse personale di imprese private nella perpetuazione dello status quo.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Isolate e dimenticate: cosa bisogna sapere sulle “zone di tiro” di Israele in Cisgiordania

 Ramzy Baroud

14 gennaio 2020  palestinechronicle

Una notizia apparentemente ordinaria, pubblicata sul giornale israeliano Haaretz il 7 gennaio, ha fatto luce su un argomento da tempo dimenticato ma cruciale: le cosiddette “zone di tiro” di Israele in Cisgiordania.

Secondo Haaretz “Israele ha sequestrato l’unico veicolo disponibile di una equipe medica che fornisce assistenza a 1.500 palestinesi residenti all’interno di una zona di tiro militare israeliana in Cisgiordania”.

La comunità palestinese a cui è stato negato l’unico servizio medico disponibile è Masafer Yatta, un piccolo villaggio palestinese sulle colline a sud di Hebron.

Masafer Yatta, in completo e assoluto isolamento dal resto della Cisgiordania occupata, si trova nell’”Area C”, la più grande zona territoriale, circa il 60%, della Cisgiordania. Ciò significa che il villaggio, insieme a molte città, villaggi e piccole comunità isolate palestinesi, è sotto il totale controllo militare israeliano.

Non fatevi ingannare dalla fumosa logica degli Accordi di Oslo; tutti i palestinesi, in tutte le zone della Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza assediata, sono sotto il controllo militare israeliano.

Tuttavia, sfortunatamente per Masafer Yatta e per gli abitanti dell'”Area C”, il grado di controllo vi è così soffocante che ogni aspetto della vita palestinese – libertà di movimento, istruzione, accesso all’acqua potabile e così via – è controllato da un complesso sistema di ordinanze militari israeliane che non hanno alcun riguardo per il benessere delle comunità assediate.

Non sorprende quindi che l’unico veicolo di Masafer Yatta, il disperato tentativo di realizzare un ambulatorio mobile, sia stato già confiscato in passato, e recuperato solo dopo che gli abitanti impoveriti sono stati costretti a pagare una multa ai soldati israeliani.

Non esiste una logica militare al mondo che possa giustificare razionalmente il blocco dell’accesso alle cure mediche per una comunità isolata, specialmente quando una potenza occupante come Israele è legalmente obbligata, ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra, a garantire l’accesso all’assistenza medica ai civili che vivono in un territorio occupato.

È naturale che la comunità di Masafer Yatta, come tutti i palestinesi nell'”Area C” e nell’intera Cisgiordania, si senta trascurata – e apertamente tradita – dalla comunità internazionale e dalla propria leadership collaborazionista.

Ma c’è qualcosa di più che rende il villaggio di Masafer Yatta veramente unico, guadagnandogli la sfortunata definizione di bantustan [territori formalmente autogovernati dalla popolazione di colore nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.] all’interno di un bantustan, poiché sopravvive sottoposto ad un sistema di controllo molto più complesso rispetto a quello imposto al Sud Africa nero durante il regime dell’apartheid.

Poco dopo aver occupato la Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza, Israele ideò uno stratagemma a lungo termine per mantenere il controllo sui territori appena occupati. Ha destinato alcune aree alla futura ricollocazione dei propri cittadini – che ora costituiscono la popolazione di coloni ebrei illegali ed estremisti in Cisgiordania – e si è anche riservato ampie parti dei territori occupati come zone di sicurezza e aree cuscinetto.

Ciò che è molto meno noto è che, durante gli anni ’70, l’esercito israeliano ha dichiarato circa il 18% della Cisgiordania “zona di tiro”.

Queste “zone di tiro” erano presumibilmente destinate ad essere campi di addestramento per i soldati dell’esercito israeliano di occupazione – sebbene i palestinesi intrappolati in quelle regioni riferiscano spesso che all’interno delle cosiddette “zone di tiro” non si svolge quasi alcun addestramento militare.

Secondo l’Ufficio di Coordinamento delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) in Palestina, ci sono ancora circa 5.000 palestinesi, divisi in 38 comunità, che vivono in circostanze veramente terribili all’interno delle cosiddette “zone di tiro”.

L’occupazione del 1967 portò a una massiccia ondata di pulizia etnica che vide l’espulsione forzata di circa 300.000 palestinesi dai territori appena conquistati. Fra le molte vulnerabili comunità ripulite etnicamente c’erano anche i beduini palestinesi, che continuano a pagare il prezzo dei progetti coloniali israeliani nella Valle del Giordano, nelle colline a sud di Hebron e in altre parti della Palestina occupata.

La loro vulnerabilità è aggravata dal fatto che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) agisce con poco riguardo per i palestinesi che vivono nell'”Area C”, lasciati da soli a sopportare e resistere alle pressioni israeliane, ricorrendo spesso all’ingiusto sistema giudiziario di Israele per riconquistare alcuni dei propri diritti fondamentali.

Gli Accordi di Oslo, firmati nel 1993 tra la leadership palestinese e il governo israeliano, dividevano la Cisgiordania in tre regioni: “Area A”, teoricamente sotto controllo palestinese autonomo e costituita dal 17,7% della dimensione complessiva della Cisgiordania; “Area B”, 21% e sotto il controllo condiviso di Israele-ANP; “Area C”, il resto della Cisgiordania sotto il totale controllo di Israele.

L’accordo avrebbe dovuto essere temporaneo, e terminare nel 1999 una volta conclusi i “negoziati sullo status finale” e firmato un accordo di pace complessivo. Invece, è diventato a priori lo status quo.

Per quanto sfortunati siano i palestinesi che vivono nell'”Area C”, quelli che vivono nella “zona di tiro” all’interno dell'”Area C” affrontano difficoltà ancora maggiori. Secondo le Nazioni Unite, le loro traversie includono “la confisca delle proprietà, la violenza dei coloni, i maltrattamenti da parte dei soldati, le restrizioni di accesso e movimento e/o la scarsità d’acqua”.

Come ci si poteva aspettare, nel corso degli anni molti insediamenti ebraici illegali sono sorti in queste “zone di tiro”, un chiaro segno del fatto che queste aree non hanno mai avuto uno scopo militare, ma erano destinate a fornire una giustificazione legale a Israele per confiscare quasi un quinto della Cisgiordania per una futura espansione coloniale.

Nel corso degli anni, Israele ha messo in atto la pulizia etnica di tutti i palestinesi che rimanevano in queste “zone di tiro”, lasciandone solo 5.000, che probabilmente subiranno lo stesso destino se l’occupazione israeliana dovesse continuare lungo la stessa direttrice di violenza.

Questo rende la storia di Masafer Yatta un microcosmo della più ampia e tragica storia di tutti i palestinesi. È anche un riflesso della maligna natura del colonialismo israeliano e dell’occupazione militare, per cui i palestinesi sotto occupazione perdono la loro terra, la loro acqua, la loro libertà di movimento e, infine, persino le cure mediche di base.

Secondo le Nazioni Unite, queste dure “condizioni creano un ambiente coercitivo che fa pressione sulle comunità palestinesi affinché abbandonino quelle aree”. In altre parole, pulizia etnica, da sempre l’obiettivo strategico di Israele.

Ramzy Baroud è giornalista ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons [Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane], (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), dell’Università Zaim di Istanbul (IZU).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele comincia ad estendere la sua “annessione silenziosa” della Cisgiordania, col beneplacito dell’amministrazione Trump

Yumna Patel 

15 gennaio 2020 – Mondoweiss

Il ministro della Difesa di Israele ha annunciato mercoledì di aver approvato la creazione di sette nuove riserve naturali israeliane nell’Area C della Cisgiordania occupata.

Secondo il Jerusalem Post la mossa, che include anche l’espansione di 12 riserve naturali già esistenti, rappresenterebbe la prima approvazione di questo tipo ad essere rilasciata dalla firma degli Accordi di Oslo.

La notizia segue a ruota quella di un controverso forum di accademici e attivisti di destra la settimana scorsa a Gerusalemme dove Naftali Bennet, l’attuale ministro della Difesa, ha dichiarato alla folla che l’intera Area C della Cisgiordania occupata “appartiene a Israele”.

“Stiamo cominciando una battaglia vera, imminente per il futuro della Terra di Israele ed il futuro dell’Area C”, ha detto Bennet al Kohelet Policy Forum, facendo riferimento al 60% e più della Cisgiordania designato come sotto controllo israeliano dagli Accordi di Oslo.

Come leader del partito della “Nuova Destra”, Bennet è da lungo tempo un sostenitore del movimento dei coloni e promotore dell’annessione dei territori palestinesi occupati ad Israele. L’espressione delle sue opinioni riguardo dell’Area C non può quindi sorprendere, ma dato il sostegno dell’attuale amministrazione statunitense, sono particolarmente allarmanti.

Sostegno dagli Stati Uniti

Il Kohelet Policy Forum è stato inaugurato da un videomessaggio del Segretario di Stato [USA] Mike Pompeo che ha dichiarato che “Stiamo riconoscendo che queste colonie non sono una violazione intrinseca delle leggi internazionali. Questo è importante. Stiamo sconfessando il memorandum di Hansell del 1978 [parere giuridico di Hebert J. Hansell, consigliere del presidente Carter, che considerava illegale l’occupazione israeliana, ndtr.] che era profondamente sbagliato, e stiamo ritornando ad un più equilibrato e serio approccio alla questione come durante la presidenza Reagan.”

La posizione dell’amministrazione Trump sulla questione delle colonie ha generato un diffuso criticismo da parte della leadership e degli attivisti palestinesi, così come da parte della comunità internazionale, che a larga maggioranza considera le colonie essere il principale ostacolo per la pace nella regione.

Anche l’ambasciatore statunitense in Israele, David Friedman, si è rivolto al forum, sottolineando la nuova posizione americana, secondo la quale le circa 200 colonie presenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est non rappresentano una violazione delle leggi internazionali.

“Gli israeliani hanno il diritto di vivere in Giudea e Samaria,” ha detto Friedman, elogiando la precedente decisione del presidente degli Stati Uniti Trump di riconoscere la sovranità di Israele su Gerusalemme e sulle alture del Golan.

Pare che siano già in corso degli sforzi coordinati da parte dei governi di Netanyahyu e Trump per estendere la sovranità israeliana sulla Cisgiordania.

Nel suo discorso Bennett ha anche dichiarato come da circa un mese abbia iniziato a sviluppare piani per imporre la sovranità israeliana sul terreno, e ha lasciato intendere come abbia discusso con l’amministrazione Trump per “[spiegare] il modo in cui lo Stato di Israele farà tutto il possibile per garantire che queste aree siano parte dello Stato di Israele”.

Fatti sul terreno

La spaventosa realtà delle parole di Bennett è che la “guerra” di Israele a proposito dell’Area C rappresenta più delle semplici promesse di un politico.

All’incirca nello stesso momento in cui Bennett faceva la sua dichiarazione, il presidente dell’Autorità Palestinese della Commissione Contro il Muro e le Colonie, Walid Assaf, ha annunciato che nel 2019 sono state demolite dalle autorità israeliane circa 700 costruzioni palestinesi, di cui 300 demolizioni nella sola Gerusalemme.

Solo il giorno prima, l’Alta Corte di Giustizia israeliana aveva dato torto a un gruppo di cittadini palestinesi che chiedevano l’annullamento del piano regolatore per le colonie di Ofra, visto che tale piano include circa 5 ettari di terreni privati palestinesi.

E il giorno prima ancora, un’organizzazione di monitoraggio delle colonie, Peace Now, ha riportato che l’amministrazione civile israeliana ha annunciato piani per costruire 1936 abitazioni nelle colonie. Il gruppo ha fatto notare come “l’89% delle unità immobiliari proposte sono in colonie che gli israeliani potrebbero dover evacuare in caso di un futuro accordo di pace coi palestinesi.”.

Hanan Ashrawi, importante dirigente palestinese, ha dichiarato giovedì che Israele ha accelerato i suoi progetti per creare uno stato di “annessione de facto” della Cisgiordania: “Israele sta perseguendo una annessione silenziosa della terra palestinese per impedire in maniera definitiva il diritto fondamentale del popolo palestinese alla libertà e alla giustizia”.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Ortona)




“Stiamo vivendo con la spada in mano”: i rimorsi del figlio di un fondatore di Israele

Sarah Helm

3 gennaio 2020 – Middle East Eye

In un’intervista approfondita Yaakov Sharett, figlio di uno dei padri fondatori di Israele, dice di pentirsi di essersi insediato nel Negev negli anni ’40 – e di tutto il progetto sionista

Il mio nome è Yaakov Sharett. Ho 92 anni. Si dà il caso che io sia figlio di mio padre, cosa della quale non sono responsabile. Le cose stanno così.”

Yaakov ridacchia e guarda da sotto un cappello di lana verso una foto di suo padre – orgoglioso con colletto e cravatta – sul muro del suo studio a Tel Aviv. Moshe Sharett è stato un padre fondatore di Israele, il suo primo ministro degli Esteri e il suo secondo primo ministro tra il 1954 e il 1955. Ma non sono venuta a parlare del padre di Yaakov. Sono venuta con alcune fotografie di un pozzo che una volta si trovava in un villaggio arabo chiamato Abu Yahiya, nella regione del Negev, in quello che ora è il sud di Israele.

Facendo ricerche per un mio libro ho trovato di recente il pozzo e appreso alcune cose della storia del villaggio di Abu Yahiya. Ho sentito di come i palestinesi che una volta vi vivevano furono espulsi durante la guerra del 1948 che portò alla creazione di Israele.

Ho anche sentito dire che i pionieri sionisti, che avevano piazzato un avamposto nei pressi del villaggio prima della guerra del 1948, erano soliti prendere l’acqua dal pozzo arabo. Tra loro c’era un giovane soldato ebreo chiamato Yaakov Sharett. Perciò sono andata a trovare Yaakov nella speranza che potesse condividere i suoi ricordi sul pozzo, sui contadini e sugli avvenimenti del 1948.

Nel 1946, due anni prima della guerra arabo-israeliana, Yaakov e un gruppo di commilitoni si spostarono nella zona di Abu Yahiya per contribuire a condurre uno dei più spettacolari furti di terra dei sionisti.

Da giovane soldato, Sharett venne nominato mukhtar – o capo – di uno degli 11 avamposti ebraici fondati di nascosto nel Negev. L’obiettivo era garantirsi una roccaforte per assicurare che Israele potesse impossessarsi di quell’area strategica quando fosse iniziata la guerra.

Le bozze dei piani di partizione avevano destinato il Negev, in cui gli arabi erano in numero estremamente superiore rispetto agli ebrei, come parte di uno Stato arabo, ma gli strateghi ebrei erano determinati a prenderselo.

La cosiddetta operazione “11 punti” fu un grande successo, e durante la guerra gli arabi vennero di fatto tutti cacciati e il Negev fu dichiarato parte di Israele.

Per gli audaci pionieri coinvolti fu un titolo d’onore avervi preso parte e Yaakov Sharett in un primo tempo è sembrato esaltarsi dei suoi ricordi: “Ci mettemmo in azione con fil di ferro e pali e facemmo un recinto attraverso Wadi Beersheva,” dice. Ho aperto un computer per mostragli le foto del pozzo arabo, ora una località turistica israeliana. “Sì,” dice Yaakov, sorpreso. “Lo conosco. Ho conosciuto Abu Yahiya. Un tipo gentile. Un beduino alto e magro con la faccia simpatica. Mi vendeva l’acqua. Era deliziosa.”

Gli chiedo cosa fosse successo agli abitanti del villaggio. Fa una pausa: “Quando è iniziata la guerra, gli arabi scapparono – espulsi. Non ricordo bene,” dice, facendo di nuovo una pausa.

In seguito tornai e la zona era completamente vuota. Vuota! Tranne..” e scruta di nuovo la foto del pozzo.

Sai, quell’uomo gentile dopo chissà come era ancora lì. Mi chiese aiuto. Era messo molto male – molto malato, a malapena in grado di camminare, tutto solo. Tutti gli altri se n’erano andati.”

Ma Yaakov non lo aiutò. “Non dissi niente. Mi sento molto male per questo. Perchè era mio amico,” dice.

Yaakov alza lo sguardo chiaramente addolorato. “Mi dispiace moltissimo. Cosa posso dire?”

E mentre quella che doveva essere una breve intervista prosegue, è diventato chiaro che Yaakov Sharett non era pentito solo dell’impresa del Negev, ma anche di tutto il progetto sionista.

Dall’Ucarina alla Palestina

Proseguendo nel racconto, Yaakov è sembrato a volte più un uomo che si stesse confessando che uno che stesse rilasciando un’intervista.

Dopo la guerra del 1948 e la fondazione di Israele, Yaakov studiò russo negli USA e poi venne nominato diplomatico all’ambasciata israeliana a Mosca, per essere poi espulso dalla Russia con l’accusa di essere un “propagandista sionista e una spia della CIA.”

Di ritorno in Israele lavorò come giornalista e da pensionato ha dedicato i suoi ultimi anni alla fondazione della Moshe Sharett Heritage Society [Società in Memoria di Moshe Sharett], che si dedica a pubblicare documenti e diari di Sharett – una sezione in inglese. I diari di Sharett sono stati molto apprezzati, descritti da un critico come “tra i migliori diari politici mai pubblicati.”

Durante la nostra intervista, facendo spesso riferimento al ruolo fondamentale di suo padre nella fondazione di Israele, i pensieri di Yaakov si sono chiaramente focalizzati sugli anni passati a pubblicare gli scritti di Moshe Sharett. Haaretz, il giornale israeliano di centro-sinistra, commentando l’edizione ebraica in otto volumi dei diari, ha affermato che è “difficile sopravvalutare la loro importanza per lo studio della storia israeliana.”

Questa settimana la pubblicazione dell’edizione ridotta in inglese, anch’essa tradotta da Yaakov – “My Struggle for Peace [La mia lotta per la pace] (1953-1956) – sarà festeggiata negli archivi centrali sionisti a Gerusalemme. “Questo è il culmine del lavoro della mia vita,” dice Yaakov.

Questo lavoro ha anche reso più profondo il dolore delle sue conclusioni, in quanto ora lui ha ripudiato la validità di buona parte del “lavoro di una vita” di suo padre – e, apprendo, anche di suo nonno.

Suo nonno, Jacob Shertok – il cognome originario della famiglia – fu uno dei primi sionisti a mettere piede in Palestina, lasciando la sua casa a Kherson, in Ucraina, nel 1882 dopo i pogrom russi [ondata di massacri contro le comunità ebraiche nell’impero zarista, ndtr.].

Aveva il sogno di coltivare la terra. La grande idea sionista era di tornare alla terra e abbandonare le attività superficiali degli ebrei che si erano allontanati dalla terra,” dice.

Pensavano che, poco alla volta, più ebrei sarebbero immigrati fino a diventare una maggioranza, e avrebbero potuto chiedere uno Stato, che allora chiamarono un ‘focolare’ [termine utilizzato nella dichiarazione Balfour del 1917 in cui la GB si impegnava a favorirne la fondazione in Palestina, ndtr.] per evitare discussioni.”

Chiedo cosa il nonno di Yaakov pensasse che ne sarebbe stato degli arabi, che allora rappresentavano circa il 97% della popolazione, con gli ebrei attorno al 2 o 3%. “Credo che pensasse che più ebrei sarebbero arrivati, più prosperità avrebbero portato e che gli arabi ne sarebbero stati contenti. Non compresero che la gente non vive solo di soldi. Saremmo stati il potere dominante, ma gli arabi si sarebbero abituati a questo,” afferma, aggiungendo con un sorriso triste: “Bene, o lo credevano o volevano crederlo. La generazione di mio nonno era composta di sognatori. Se fossero stati realisti, in primo luogo non sarebbero venuti in Palestina. Non fu mai possibile per una minoranza sostituire una maggioranza che aveva vissuto su questa terra per centinaia di anni. Non avrebbe mai potuto funzionare,” sostiene.

Quattro anni dopo Jacob avrebbe voluto non essere mai venuto e ritornò in Russia, non a causa dell’ostilità dei palestinesi – il numero degli ebrei era ancora ridottissimo – ma perché non era riuscito a guadagnarsi la vita qui.”

Molti dei primissimi coloni in Palestina scoprirono che lavorare la terra era molto più duro di quanto avessero mai immaginato e spesso tornarono in Russia disperati. Ma nel 1902, dopo altri pogrom, Jacob Sharett ritornò, stavolta con una famiglia, tra cui Moshe, di otto anni.

La maggior parte dei palestinesi fu ancora accogliente con gli ebrei, in quanto la minaccia sionista non era ancora chiara. Un membro della ricca famiglia Husseini, che era diretto all’estero, offrì persino in affitto al nonno di Yaakov la sua casa nel villaggio di Ein Siniya, ora nella Cisgiordania occupata.

Per due anni nonno Shertok visse là come un importante personaggio arabo, mentre i suoi figli andavano a un asilo palestinese. “Mio padre allevava pecore, imparò l’arabo e in generale visse come un arabo,” dice Yaakov.

Psicologia della minoranza

Ma il progetto sionista era di vivere come ebrei, per cui poco dopo la famiglia dovette spostarsi nel centro abitato ebraico di Tel Aviv in rapida crescita, e Moshe presto affinò tutte le sue capacità – compreso lo studio delle leggi ottomane a Istanbul – per portare avanti il progetto sionista.

Grazie alla dichiarazione Balfour del 1917, che promise un focolare ebraico in Palestina e inaugurò il dominio coloniale inglese, sembrarono ora realizzabili progetti per un vero e proprio Stato ebraico, e nei successivi vent’anni Moshe Sharett contribuì a disegnarlo, diventando una figura fondamentale dell’Agenzia Ebraica, il governo in fieri dello Stato.

Fondamentale per il progetto era la creazione di una maggioranza ebraica e la proprietà di più terra possibile, al cui fine Sharett lavorò in stretto contatto con il suo alleato David Ben-Gurion. L’immigrazione crebbe rapidamente, e venne comprata terra, in genere da proprietari terrieri assenteisti arabi. Le dimensioni del cambiamento provocarono la rivolta palestinese del 1936, brutalmente repressa dai britannici. Alla luce di quella rivolta, il futuro primo ministro mise mai in dubbio che lo Stato ebraico potesse funzionare?

No”, dice Yaakov. La dirigenza era “ancora unanime nel giustificare la propria idea di sionismo. Si deve ricordare che tutti loro pensavano nei termini di essere ebrei e di come erano stati assoggettati dalle maggioranze nei Paesi in cui avevano vissuto.

Mio padre diceva questo: ‘Ovunque ci sia una minoranza, ogni suo membro ha un bastone e uno zaino nell’armadio.’ Psicologicamente si rendeva conto che sarebbe arrivato un brutto giorno e che avrebbe dovuto andarsene, per cui la priorità fu sempre di creare una maggioranza e scrollarsi di dosso per sempre la psicologia della minoranza.

Mio padre e gli altri pensavano ancora che la maggioranza degli arabi avrebbe venduto il proprio onore nazionale per il cibo che avremmo dato loro. Era un bel sogno, ma a spese di altri. E chiunque non fosse d’accordo era un traditore.”

Diventare mukhtar

Da giovane adolescente all’inizio degli anni ’40 Yaakov non metteva in discussione la visione di suo padre. Al contrario.

Devo dire,” continua, “che quando ero nel movimento giovanile sionista andavamo in giro per i villaggi arabi a piedi, vedevi un villaggio arabo, imparavi il suo nome in ebraico come era nella Bibbia e sentivi che il tempo non ti aveva separato da esso. Non sono mai stato religioso, ma questo era ciò che sentivi.”

Nel 1939 scoppiò la Seconda Guerra Mondiale e molti giovani israeliani si unirono alla Brigata Ebraica dell’esercito britannico, combattendo in Europa. La Brigata Ebraica fu un’idea del padre di Yaakov, e appena fu abbastanza grande Yaakov si presentò volontario, arruolato nel 1944 all’età di 17 anni. Ma pochi mesi dopo, nell’aprile 1945, la guerra finì e Yaakov era troppo in ritardo per prestare servizio.

Di ritorno in Palestina, questi giovani soldati ebrei che avevano fatto il militare in Europa erano tra quanti ora venivano reclutati per combattere in ciò che molti sapevano sarebbe accaduto dopo: una nuova guerra in Palestina per fondare lo Stato di Israele. Yaakov – che non aveva ancora chiaramente iniziato a vedere che il sionismo “era a spese di altri” – rapidamente accettò di fare la sua parte.

Ora diciannovenne, Yaakov fu scelto per ricoprire il ruolo di mukhtar, o capo villaggio, ebreo in un avamposto quasi militare nel Negev, un territorio desolato a malapena abitato da ebrei. “All’epoca non pensavo molto alla politica. Costruire questo insediamento era letteralmente il nostro sogno,” afferma.

Sua moglie, Rena, si unisce a noi, appollaiata su uno sgabello, e annuisce. Rena Sharett era un’altra accesa sionista che rivendicò il Negev nel 1946.

Prima del 1948 il Negev costituiva i distretti amministrativi britannici di Beersheva e di Gaza, che insieme rappresentavano metà della terra di Palestina. Arrivando fino al Mar Morto e al golfo di Aqaba, il territorio aveva un accesso vitale all’acqua.

Quindi non è sorprendente che i sionisti, che all’epoca erano riusciti ad impossessarsi solo del 6% della terra palestinese, fossero determinati a conquistarlo.

Tuttavia, dato che circa 250.000 arabi vivevano nel Negev, in 247 villaggi, rispetto a 500 ebrei in tre piccoli avamposti, un recente piano di partizione anglo-americano aveva diviso la Palestina mandataria tra ebrei e arabi, attribuendo la regione del Negev a un futuro Stato palestinese.

Anche un divieto britannico contro nuove colonie aveva ostacolato i tentativi sionisti di modificare lo status quo. Gli arabi si erano sempre opposti a qualunque progetto che prevedesse i palestinesi come “una maggioranza indigena che viveva sul proprio suolo ancestrale, trasformata improvvisamente in una minoranza sotto un potere straniero,” come ha riassunto lo storico palestinese Walid Khalidi.

Tuttavia alla fine del 1946, con un nuovo piano di partizione delle Nazioni Unite in via di definizione, i dirigenti sionisti ritenevano che per il Negev fosse l’ultima occasione.

Ora o mai più

Quindi venne lanciato il piano degli “11 punti”. Non solo i nuovi insediamenti rafforzarono la presenza ebraica là, ma quando scoppiò l’inevitabile guerra servirono come basi militari.

A causa del divieto britannico ogni cosa doveva essere fatta in segreto e venne deciso di erigere gli avamposti nella notte del 5 ottobre, appena dopo la festa di Yom Kippur [una delle più importanti feste ebraiche, ndtr.]. “Gli inglesi non si sarebbero mai aspettati che gli ebrei facessero una cosa simile la notte dopo lo Yom Kippur,” dice Yaakov. 

Ricordo quando trovammo il nostro pezzo di terra sulla cima di una collina arida. Era ancora buio, ma riuscimmo a piantare i pali e presto eravamo all’interno della nostra recinzione. Alle prime luci del giorno arrivarono camion con baracche prefabbricate. Fu una bella impresa. Lavorammo come matti. Ah! Non lo dimenticherò mai.”

Guardando all’esterno da dentro la loro barriera, i coloni in un primo tempo non scorsero nessun arabo, ma poi intravidero le tende del villaggio di Abu Yahiya e qualche “sudicia capanna”, come le descrive Yaakov.

In breve chiesero acqua agli arabi: “Ogni giorno con il mio camion andavo a prendere l’acqua per il nostro insediamento da quel pozzo. É così che diventai amico di Abu Yahiya,” racconta. Con la sua infarinatura di arabo chiacchierava anche con altri: “A loro piaceva parlare. E accadeva quando avevo del lavoro da fare,” ride. “Non penso che fossero esattamente contenti di averci lì, ma erano in pace con noi. Non c’era ostilità.”

Un altro capo locale arabo in cambio di una piccola somma vegliava sulla loro sicurezza. “Era una specie di accordo che avevamo con lui. Faceva la guardia e ogni mese saliva alla nostra palizzata e si sedeva lì tutto tranquillo – sembrava solo un fagottino di vestiti,” dice Yaakov con un grande sorriso.

Stava ad aspettare di essere pagato e io gli stringevo la mano e mi firmava con l’impronta del pollice una specie di ricevuta che io davo alle autorità di Tel Aviv e loro mi davano del denaro per la volta successiva. Questa era la mia vera e unica responsabilità come mukhtar,” afferma Yaakov, aggiungendo che tutti sapevano che aveva ottenuto quel ruolo di capo in quanto figlio di suo padre. Moshe Sharett, all’epoca una importante figura politica, era noto come un moderato, e come tale era visto con sospetto da alcuni sostenitori della linea dura militare.

I nuovi avamposti nel deserto del Negev erano progettati principalmente come centri per raccogliere informazioni sugli arabi, e Yaakov crede che fosse probabilmente a causa di suo padre che anch’egli era visto con sospetto ed escluso da quelli mandati negli avamposti per studiare piani militari. “Io invece in realtà venivo utilizzato come tuttofare” – guidare, raccogliere acqua, comprare carburante a Gaza o a Beersheva.” Sembra avere nostalgia della libertà di quel paesaggio arido, anche se di notte i coloni tornavano sempre dentro la loro barriera.

Conobbe anche altri villaggi arabi, come Burayr “che era sempre ostile, non so perché,” ma la maggior parte era amichevole, soprattutto un villaggio chiamato Huj. “Spesso andavo a Huj e lo conoscevo bene.”

Durante la guerra del 1948 gli abitanti di Huj raggiunsero un accordo scritto con le autorità ebraiche perché gli venisse consentito di rimanere, ma vennero cacciati come tutti gli altri 247 villaggi di questa zona, per lo più a Gaza. I palestinesi chiamarono le espulsioni la loro Nakba – o catastrofe.

Chiedo a Yaacov cosa ricordi dell’esodo degli arabi nel maggio 1948, ma in quel periodo non era lì, in quanto il fratello di Rena era stato ucciso in combattimento più ad est, per cui la coppia se n’era andata per unirsi alla sua famiglia.

Dico a Yaacov di aver incontrato sopravvissuti del clan di Abu Yahiya, che ricordavano di essere stati portati da soldati ebrei a Wadi Beersheva, dove gli uomini vennero separati dalle donne, alcuni vennero uccisi e poi gli altri furono espulsi.

Comunque non lo ricordo,” dice Yaakov. Ma sondando nella memoria improvvisamente rievoca altre atrocità, compresi avvenimenti a Burayr, il villaggio ostile, dove nel maggio 1948 ci fu un massacro, secondo i sopravvissuti e gli storici palestinesi furono uccisi tra i 70 e i 100 abitanti.

Uno dei nostri ragazzi partecipò alla presa di Burayr. Ricordo che disse che quando arrivò là gli arabi erano già in gran parte scappati, aprì la porta di una casa, vide un vecchio là e gli sparò. Si era divertito a sparargli,” dice.

Quando nell’ottobre 1948 Beersheba venne presa, Yaakov era tornato nel suo avamposto lì nei pressi, che aveva ora un nome ebraico, Hatzerim.

Appresi che i nostri ragazzi avevano guidato l’esercito nella città,” afferma. “Conoscevamo molto bene la zona e potevamo condurli attraverso i wadi (letti dei fiumi).”

Dopo la caduta di Beersheva, Yaakov condusse i suoi commilitoni in un camion giù per dare un’occhiata: “Era vuota, totalmente vuota.” L’intera popolazione di circa 5.000 abitanti era stata espulsa e portata in camion a Gaza.

Ho sentito dire che c’erano stati molti saccheggi. “Sì,” afferma. “Prendemmo oggetti da molte case vuote. Prendemmo quello che potevamo – mobili, radio, utensili. Non per noi, ma per aiutare il kibbutz. Dopotutto ora Beersheva era vuota e non era di nessuno.”

Cosa ne pensa? “Di nuovo, devo confessare che all’epoca non pensavo molto a tutto ciò. Eravamo orgogliosi di aver occupato Beersheva. Anche se devo dire che prima avevamo avuto molti amici lì.”

Yaakov dice di non poter ricordare se anche lui avesse partecipato al saccheggio: “Probabilmente lo feci. Ero uno di loro. Eravamo molto contenti. Se non lo prendi tu, lo prenderà qualcun altro. Non avevi la sensazione di doverlo restituire. Loro non sarebbero tornati.”

Che cosa ne pensa? Riflette: “Allora non ci pensavamo. Mio padre, di fatto, disse che non sarebbero tornati. Mio padre era un uomo con un’etica. Non penso che condividesse gli ordini di espellere gli arabi. Ben-Gurion sì, Sharett no. Ma lo accettò come un dato di fatto. Penso che sapesse che stava avvenendo qualcosa di sbagliato, ma non vi si oppose,” sostiene.

Dopo la guerra mio padre tenne una conferenza e disse: ‘Non so perché un uomo debba vivere per due anni isolato in un villaggio (un riferimento al tempo in cui era cresciuto a Ein Siniya) per scoprire che gli arabi sono esseri umani’. Questo tipo di discorsi non lo avresti sentito da nessun altro leader ebreo… questo era mio padre.”

Poi, come se confessasse anche a nome di suo padre, Yaakov aggiunge: “Ma devo essere franco, mio padre aveva un’opinione crudele riguardo ai rifugiati. Era contrario al loro ritorno, su questo era d’accordo con Ben-Gurion.”

Molto più crudele di Sharett era Moshe Dayan. Nominato dopo la guerra capo di stato maggiore da David Ben-Gurion, il primo presidente del consiglio israeliano, Dayan ebbe il compito di tenere i rifugiati del Negev e molti altri “recintati” dietro le linee di armistizio con Gaza.

Nel 1956 un rifugiato di Gaza uccise un colono israeliano, Roi Rotberg, e al suo funerale Dayan fece un famoso discorso funebre, invitando gli israeliani ad accettare una volta per tutte che gli arabi non avrebbero mai vissuto in pace vicino a loro, e precisò il perché: gli arabi erano stati espulsi dalle loro case in cui ora vivevano gli ebrei.

Ma Dayan invitò gli ebrei a rispondere, non cercando un compromesso ma “guardando in faccia l’odio che consuma e riempie le vite degli arabi che vivono attorno a noi e ad essere per sempre pronti e armati, forti e duri.”

Questo discorso fece una profonda impressione a Yaakov Sharett. “Dissi che era un discorso fascista. Stava dicendo alla gente di vivere con la spada in mano,” afferma. Moshe Sharett, che all’epoca era ministro degli Esteri, stava cercando di raggiungere un compromesso attraverso la diplomazia, per cui era definito un “debole”.

Ma non fu che nel 1967, quando iniziò a lavorare come giornalista per il giornale israeliano di centro Maariv, che Yaakov perse la sua fede nel sionismo.

Erano la maggioranza”

Nella guerra arabo-israeliana del 1967 Israele si impossessò di più terre, questa volta in Cisgiordania, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza, dove l’occupazione militare venne imposta ai palestinesi, che questa volta non scapparono.

Girando per la Cisgiordania, Sharett osservò i volti attoniti ma spavaldi degli arabi e si sentì ancora una volta “a disagio”, soprattutto quando visitò Ein Siniya, il villaggio della sua famiglia, di cui suo padre, ormai morto, parlava in termini così affettuosi. Fu lì che da bambino Moshe aveva portato al pascolo le pecore e “imparato che gli arabi erano umani”, come Moshe Sharett avrebbe detto in un successivo discorso.

Gli abitanti erano sottoposti al primo shock dell’occupazione. Sapevano che ora gli ebrei erano il potere dominante, ma non mostravano alcun sentimento di odio. Erano persone semplici. E ricordo che molti abitanti arrivarono, ci circondarono e sorridevano e mi dissero che si ricordavano della mia famiglia e della casa in cui la nostra famiglia aveva vissuto. Per cui ci sorridemmo a vicenda e me ne andai. Non sono più ritornato. Non mi piaceva questa occupazione, non volevo andare lì come un padrone,” dice.

Avete sentito parlare di sparare e piangere?”, chiede, con un altro sorriso amaro, spiegando che questo era un modo di dire per descrivere gli israeliani che, dopo aver combattuto in Cisgiordania nel 1967, si vergognavano ma ne accettavano i risultati.

Ma non volevo avere nient’altro a che vedere con l’occupazione. Era il mio modo per non identificarmi con essa. Ne ero depresso e me ne vergognavo.”

I volti degli abitanti di Ein Sinya rivelavano qualcos’altro: “Vidi in questa spavalderia che loro avevano ancora la psicologia della maggioranza. Mio padre soleva dire che la guerra provoca sempre ondate di rifugiati. Ma non si rese conto che in genere quelli che scappano sono la minoranza. Nel 1948 erano la maggioranza, per cui non si arrenderanno mai. Questo è il nostro problema.”

Ma mi ci sono voluti anni per capire quello che è stata la Nakba e che la Nakba non è iniziata nel 1967, ma nel 1948. Dobbiamo comprenderlo.”

Rena aggiunge: “Nel 1948 era una questione di noi o loro. Di vita o di morte. Questa era la differenza,” dice.

Noi due su questo non siamo d’accordo,” afferma Yaakov. “Mia moglie ha perso suo fratello nel 1948. La vede in modo diverso.”

Me ne andrei domani”

In età avanzata Yaakov è tornato ancora più indietro nel tempo, valutando i problemi con il sionismo fin dall’inizio.

Adesso, a 92 anni, capisco che la storia iniziò con l’idea stessa di sionismo, che era un’idea utopistica. Era stato pensato per salvare le vite degli ebrei, ma a spese della Nazione di chi all’epoca abitava in Palestina. Il conflitto era inevitabile fin dall’inizio.”

Gli chiedo se si definisce un antisionista. “Non sono un antisionista, ma neppure un sionista,” dice, dando un’occhiata a Rena, forse nel caso disapprovi – sua moglie ha opinioni meno radicali.

Sul muro, accanto all’immagine di suo padre, ci sono foto dei loro figli e nipoti; due delle nipoti di Yaakov sono emigrate negli Stati Uniti: “Non ho timore a dire di essere contento che siano là e non qui,” dice.

Gli chiedo se ha uno “zaino e un bastone” preparati, pronto ad andarsene da loro. Dopotutto, con le sue idee, lo stesso Yaakov ora è una minoranza – una piccola minoranza – che qui in Israele vive in mezzo ad una maggioranza di ebrei di destra.

E non è “chiuso dentro” solo ideologicamente, ma anche fisicamente. Parla di come oggigiorno possa spostarsi solo in giro per Israele. Si rifiuta di andare a Gerusalemme, che, dice, è stata occupata da ebrei religiosi ultraortodossi.

Questo è uno dei disastri più terribili. Quando eravamo giovani pensavamo che la religione sarebbe sparita.” Sostiene di non aver mai desiderato di tornare al suo amato Negev, perché è stato da molto tempo colonizzato da una nuova generazione di ebrei “che non hanno nessuna empatia con gli arabi.”

Può ancora “respirare” a Tel Aviv e si diverte ad andare in giro in motorino, ma anche qui sente di vivere in una “bolla”. Ridacchia di nuovo.

La definisco la bolla di Haaretz,” e spiega di far riferimento a un gruppo di persone di sinistra che leggono il giornale progressista Haaretz. “Ma questo clan non ha rapporti al suo interno che non sia questo quotidiano che esprime più o meno la nostra opinione. È l’ultima roccaforte, e mi sento molto male per questo…È vero che non mi sento a mio agio qui.”

Yaakov dice che sta sempre pensando di andarsene. Se altri membri della sua famiglia lo facessero, lo farebbe anche lui.

Guarda. Quando mi ci fai pensare, me ne andrei domani. Se ne sono già andati in migliaia, la maggioranza ha un doppio passaporto. Con Bibi Netanyahu abbiamo il peggior governo di sempre,” dice.

Stiamo vivendo con la spada in mano, come Dayan disse che avremmo dovuto…Come se dovessimo essere obbligati a fare di Israele una specie di cittadella contro gli invasori, ma non credo sia possibile vivere per sempre con la spada in mano.”

Gli chiedo come vede il futuro dei palestinesi.

Cosa posso dire? Mi sento molto male a questo proposito. E non ho paura di dire che il modo in cui vengono trattati oggi i palestinesi è da nazisti. Non abbiamo camere a gas, ovviamente, ma la mentalità è la stessa. È un odio razziale. Vengono trattati come subumani,” dice.

Yaakov è ben consapevole che lui, un ebreo, sarà accusato di “antisemitismo” per aver detto simili cose, ma afferma di credere che Israele sia “uno Stato criminale”.

So che mi chiameranno un ebreo che odia se stesso per aver detto questo. Ma non posso appoggiare automaticamente il mio Paese, giusto o sbagliato. E Israele non deve essere immune dalle critiche. Vedere la differenza tra antisemitismo e le critiche a Israele è fondamentale. Sinceramente sono stupito di come nel 2019 il mondo esterno accetti la propaganda israeliana. Non so perché lo faccia,” sostiene.

E si ricordi che il vero obiettivo del sionismo era liberare gli ebrei dalla maledizione dell’antisemitismo, fornendo loro un proprio Stato. Ma oggi lo Stato ebraico, con il suo comportamento criminale, è una delle più gravi cause di questa maledizione.”

Cosa prevede per lo Stato ebraico? “Le dirò qual è la mia previsione. Non ho paura di dirlo. Quando arriverà il momento, potrebbe avvenire domani, ci sarà una conflagrazione, forse con Hezbollah…una grande catastrofe di un qualche tipo che distruggerà migliaia di case ebraiche.

E bombarderemo Beirut, ma avere i libanesi con la loro casa distrutta non aiuterà gli ebrei che hanno perso la casa e la famiglia, per cui la gente non vedrà motivo per rimanere più qui. Ogni israeliano sensato allora dovrà andarsene.

Non deve essere per forza Hezbollah. La catastrofe potrebbe essere un forte dominio della nostra stessa destra. Tutte le leggi approvate ora dalla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] sono leggi fasciste. Non ho una soluzione. Israele diventerà uno Stato paria,” dice.

Sicuramente l’America e gli europei non tratteranno mai Israele come uno Stato paria, insinuo, ma Yakov non è d’accordo: “Il loro appoggio è per lo più dovuto alla vergogna per l’Olocausto. Ma questi sensi di colpa si ridurranno nelle prossime generazioni,” afferma.

Chiedo a Yaakov cosa direbbe suo padre se ascoltasse tutto ciò. Rena dice di non aver mai sentito Yaakov parlare così prima d’ora. I suoi occhi saettano sotto il suo berretto di lana.

Penso che in qualche modo mio padre sarebbe d’accordo con me. Rimase un sionista fino alla fine, ma penso che si sia reso conto che c’era qualcosa di sbagliato. A volte dico che era una persona troppo etica per essere in pace con quello che sta succedendo qui,” sostiene.

Ma è sconfortante che egli non sia arrivato alla conclusione a cui è arrivato suo figlio. Non lo condanno per questo. Ha assimilato il sionismo con il latte di sua madre. Se avesse vissuto fino alla mia età – ho 92 anni, lui è morto a 71 – forse avrebbe visto le cose come me. Non so.”

Mi alzo per andarmene e prendo il mio computer, illuminando così di nuovo la foto del pozzo di Abu Yahiya. La nostra intervista è stata tormentata non solo da Moshe Sharett, ma anche dall’immagine di quel “beduino alto e magro con una faccia simpatica” visto da Yaakov l’ultima volta affranto e solo. “Devo dire che l’immagine di quella brava persona a volte mi torna in mente,” dice Yaakov, che poi mi accompagna in strada. Preso il motorino, mi saluta allegramente con la mano e si lancia nel traffico di Tel Aviv.

My Struggle for Peace, the Diary of Moshe Sharett 1953-1956” [La mia lotta per la pace, il diario di Moshe Sharett, 1953-1956, parzialmente tradotto in italiano nel libro “Vivere con la spada”, di Livia Rokach, Zambon, 2014, ndtr.], è stato pubblicato da Indiana University Press. Sarah Helm è un’ex corrispondente e redattrice diplomatica dal Medio Oriente per “The Independent” [giornale inglese di centro-sinistra, ndtr.]. I suoi libri includono “A Life in Secrets: Vera Atkins and the Lost Agents of SOE” [una vita nel segreto: Vera Atkins e gli agenti perduti del SOE, il servizio segreto britannico, ndtr.] e “If This Is a Woman, Inside Ravensbrück: Hitler’s Concentration Camp for Women” [Se questa è una donna, dentro Ravensbrück: il campo di concentramento per donne di Hitler].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I laureati si arrabattano per avere uno stipendio migliore

Jaclynn Ashly e Alaa Daraghmeh

9 gennaio 2020 – The Electronic Intifada

Neppure avere una laurea ha aiutato Fathi Taradi.

Taradi, 34 anni, ha cercato per un decennio di trovare lavoro come giornalista nella Cisgiordania occupata. Alla fine ha dovuto accontentarsi di un lavoro nell’edilizia a Gerusalemme. “I primi giorni di lavoro in Israele avevo il cuore a pezzi perché avevo rinunciato a tutti i miei sogni di diventare giornalista,” dice Taradi a The Electronic Intifada nella sua casa di Taffuh, a ovest di Hebron.

Taradi è uno dei molti laureati palestinesi obbligati a cercare un lavoro umile in Israele o nelle colonie della Cisgiordania e a Gerusalemme est dopo aver perso la speranza di trovare un lavoro nel proprio campo [di studi].

Ha passato molti anni nel tentativo di lavorare sottopagato in stazioni radio locali della Cisgiordania, finché, cinque anni fa, ha ricevuto un permesso di lavoro israeliano.

Non avrei mai pensato di lavorare in Israele,” dice. “Ho molte competenze. Pensavo che a questo punto sarei diventato un cameraman di successo.”

All’inizio Taradi ha dovuto alzarsi ogni giorno alle 3 del mattino per viaggiare fino al checkpoint 300, a nord di Betlemme, rimanendo a volte in piedi per ore con centinaia di altri palestinesi imprigionato tra pareti di cemento e sbarre di ferro in attesa che i soldati israeliani aprissero i tornelli e controllassero i permessi rilasciati da Israele che consentono loro di entrare a Gerusalemme. Vedeva raramente i suoi quattro figli.

All’inizio di quest’anno Israele ha “migliorato” il checkpoint 300, insieme a quello di Qalandiya, nei pressi di Ramallah, creando più corsie e installando porte automatiche a cui i palestinesi avvicinano i permessi di ingresso biometrici per passare.

Questo miglioramento ha consentito di attraversare il posto di controllo militare più rapidamente e con maggiore efficienza, riducendo a qualche minuto quello che portava via ore. Ma non ha fatto niente per modificare i fondamenti di un’occupazione militare che obbliga palestinesi con titoli di studio come Taradi a lottare per trovare delle opportunità di lavoro.

Non ho mai perso la mia passione per i media,” dice Taradi. “Se avessi una possibilità di tornare nei media lo farei. Amavo il mio lavoro di giornalista.”

É stato inutile”

Per Sabri Saidam, ministro dell’Istruzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, l’economia palestinese non è in grado di assorbire i laureati perché Israele non consente “un serio sviluppo ed investimenti in Palestina.” La pluridecennale occupazione ha soffocato l’economia locale, dice al telefono Saidam a The Electronic Intifada.

Lo fa in molti modi, e l’annientamento dell’economia palestinese in conseguenza dell’occupazione israeliana è ben documentato.

Ovviamente l’occupazione israeliana e la sua colonizzazione della Cisgiordania hanno confiscato vaste aree di terreno, compreso più del 60% della Cisgiordania, nota come Area C, in cui lo sviluppo palestinese è in larga parte vietato ma le colonie israeliane si espandono in modo quasi incontrollato.

I circa 600.000 coloni israeliani in Cisgiordania usano sei volte più acqua dei 2,86 milioni di palestinesi che vi vivono. Secondo il gruppo di ricerca palestinese Al-Shabaka, i costi indiretti delle restrizioni israeliane all’accesso dei palestinesi all’acqua nella Valle del Giordano, che impediscono ai palestinesi di coltivare in modo corretto la propria terra, sono stati di 663 milioni di dollari, l’equivalente dell’8,2% del PIL palestinese nel 2010.

Nel contempo per molti gli stipendi in Cisgiordania sono troppo bassi per poter sopravvivere. Secondo il ministero dell’Istruzione, in Cisgiordania il salario minimo è di 420 dollari al mese. Ma nel settore privato molti ricevono ancora meno.

Anche se Taradi potesse ottenere un lavoro a tempo pieno in una stazione televisiva locale in Cisgiordania, spesso questa potrebbe offrirgli solo circa 650 dollari al mese, mentre il suo lavoro nell’edilizia a Gerusalemme gliene frutta circa 2.000.

Essere diventato un lavoratore nell’edilizia ha consentito a Taradi di sposarsi e di costruire una casa con tre camere da letto per la sua famiglia – una cosa che sarebbe stata difficile fare con uno stipendio in Cisgiordania. “Mi sento come se avessi perso tempo a studiare. Tutto è stato inutile,” afferma.

L’esperienza di Taradi è condivisa da molti palestinesi che pensano di aver ricavato poco dagli titoli universitari. Alcuni hanno ottenuto lauree all’estero solo per tornare in Cisgiordania e non riuscire a trovare un lavoro.

Suhair, la moglie di Taradi, è rimasta disoccupata per otto anni. La trentunenne ha ottenuto la sua laurea in chimica all’università di Hebron nel 2010 ed ha tentato di trovare un lavoro presso il ministero dell’Istruzione dell’ANP.

Non attribuisce il fatto di essere disoccupata solo alla mancanza di opportunità in Cisgiordania, ma anche alla mancanza di wasta – una parola araba che fa riferimento al nepotismo o ai rapporti clientelari che agevolano il cammino alle persone per garantirsi un lavoro o altre possibilità.

Amir, un abitante di Betlemme che parla a patto di rimanere anonimo, ha ottenuto la sua laurea in educazione sportiva all’università Al-Quds nel 2008. Dopo anni di difficoltà con uno stipendio basso in Cisgiordania, questo padre di quattro figli ha riconosciuto la sua sconfitta ed ha cercato lavoro nell’edilizia in Israele.

Anche Amir, 32 anni, ogni giorno attraversa il checkpoint 300.

É veramente penoso immaginare di passare anni della propria vita (per avere una formazione), solo per rimanere fermo a un checkpoint ogni mattina per andare al lavoro,” dice a The Electronic Intifada. “Ma queste sono le condizioni della nostra vita qui,” afferma. “Dobbiamo lavorare per dar da mangiare ai nostri figli.” Secondo l’Ufficio Centrale di Statistica Palestinese, nel 2018 127.000 palestinesi hanno lavorato in Israele e nelle colonie – 5.000 in più rispetto al 2017.

Più di metà –il 58% – dei palestinesi tra i 18 e i 29 anni che hanno ottenuto un “diploma di scuola secondaria e oltre” nel 2018 era disoccupato, rispetto al 41% di un decennio prima.

Secondo il ministero dell’Istruzione dell’ANP questi numeri sono ancora maggiori tra le donne laureate, il 73% delle quali era disoccupata, nonostante l’aumento del numero di donne laureate nell’ultimo decennio,

In seguito alla firma degli accordi di Oslo nel 1993 il numero di laureati palestinesi è costantemente aumentato. Le statistiche del ministero dell’Istruzione mostrano che nel 2017-18 circa il 94% dei maschi e il 71% delle femmine tra i 20 e i 24 anni si è iscritto [all’università] o ha ottenuto almeno un diploma. Un diploma significa una qualifica ottenuta dopo una scuola superiore ma non a livello universitario.

Nonostante questo incremento nel numero di laureati palestinesi, l’economia palestinese continua ad essere ostacolata dall’occupazione israeliana, lasciando i laureati senza opportunità di lavoro nel proprio campo. La mancanza di possibilità, insieme ai bassi salari in Cisgiordania, incentiva molti laureati palestinesi a cercare lavoro all’estero o in Israele e nelle sue colonie, una fuga di cervelli che secondo il ministro Saidam priva l’economia palestinese dei suoi cittadini più qualificati.

Vogliono che odiamo noi stessi”

Bahaa Salah, 30 anni, ha ottenuto la propria laurea in Giordania ed ha continuato gli studi in Malaysia, conseguendo un master in comunicazioni e pubbliche relazioni. Quando nel 2013 è tornato nella città natale di al-Eizariya, fuori da Gerusalemme, non ha trovato lavoro nel suo campo. Invece ha lavorato come commesso da Sbitany – un negozio di elettronica in Cisgiordania – e poi in una fabbrica di alluminio.

Poi Salah ha passato senza successo oltre un mese a Dubai alla ricerca di un lavoro, prima di trovare una possibilità di impiego come contabile in una fabbrica di spezie in Cisgiordania. Tuttavia lo stipendio, che afferma essere stato di 555 dollari al mese, era troppo basso per avere una vita decente.

Salah ha deciso di cercare lavoro nella zona industriale di Mishor Adumim, che fa parte di Maaleh Adumim, una grande colonia israeliana, dove lavorava già suo cugino. Nel 2014 ha trovato un impiego come addetto alle pulizie in un supermercato.

Quando Salah confronta la sua vita in Malaysia a quella in Cisgiordania, la sua reazione è viscerale: “Immagina di sperimentare la libertà per anni, e poi torni in patria e improvvisamente sei chiuso in gabbia,” afferma.

Le cose per Salah sono ulteriormente peggiorate a partire dall’ondata di violenze del 2015, nota anche come l’Intifada dei lupi solitari o dei coltelli. Prima, dice Salah, nella colonia le guardie di sicurezza israeliane “non erano così violente o cattive.”

Eravamo soliti attraversare il posto di controllo fuori da Mishor Adumim in macchina. Nessuno ci avrebbe fermati. Se hai un permesso di lavoro israeliano devi solo mostrarlo ed entrare in auto,” dice. Ora invece i palestinesi devono ottenere un permesso speciale per far entrare i loro veicoli nella colonia, sostiene.

Tutti devono scendere dall’auto, mettersi in fila e le guardie di sicurezza perquisiscono ogni persona, una alla volta,” dice Salah.

Penso che scelgano le persone più razziste per lavorare in (questo) posto di controllo,” sostiene. “Ti trattano in modo molto violento. Quindi immagina se qualcuno è di malumore ed è già razzista. Ovviamente non ti tratterà bene.”

Salah è diventato sempre più insicuro sul posto di lavoro quando ha notato un numero crescente di clienti israeliani con fucili a tracolla. Parecchi palestinesi sono stati uccisi da israeliani armati dopo veri o presunti attacchi in cui sarebbero rimasti coinvolti. Raramente questi israeliani hanno dovuto subire conseguenze legali.

Ero solito portarmi un cacciavite sul lavoro, ma ho iniziato a temere persino di prenderlo in mano perché loro (gli israeliani) erano spaventati. Quando ti guardavano, era come se stessero vedendo un fantasma o qualcosa del genere,” dice Salah.

Benché il suo permesso gli consenta di entrare sia nelle aree industriali che nella zona residenziale di Maaleh Adumim, le poche volte che il padrone lo manda alla colonia a prendere prodotti per il supermercato Salah si sente confuso e spaventato, perché le due zone hanno norme diverse per i palestinesi.

Secondo Salah ai palestinesi è consentito camminare nelle strade di Mishor Adumim, ma non a Maaleh Adumim. Possono solo entrare come passeggeri di un’auto israeliana.

Ciò significa che se la polizia mi trova a camminare, possono togliermi il permesso e mettermi in carcere – o almeno sulla lista nera e non potrò più ottenere un permesso,” afferma. “Vogliono che tu odi te stesso per il fatto di essere palestinese,” continua Salaha. “Devi attraversare questa linea, non quella. Devi camminare su questa strada, non su quell’altra. Ti fa sentire come uno straniero. Ti fa pensare: ‘Cosa c’è di sbagliato in me?’ Mi fa star male.”

Quindi perché lo sopporta? “Per i soldi.”

Salah dice che nella colonia a volte guadagna più del doppio di quello che potrebbe ottenere nell’economia palestinese. “Lavoro meno ore, meno giorni e sono pagato meglio,” afferma. Nonostante la mancanza di opportunità, tuttavia, Salah rifiuta di credere che i suoi studi siano stati una perdita di tempo.

Per me l’istruzione non riguarda solo avere un lavoro. È lo sviluppo di me stesso e il fatto di imparare di più,” dice. “Sono pur sempre un essere umano, per cui non posso fare a meno di confrontare la mia situazione con quella degli altri.” Per esempio, afferma, è più qualificato a gestire il negozio in cui lavora del suo padrone israeliano, ma sa che, in quanto palestinese con un documento d’identità della Cisgiordania, non potrà mai avere quella posizione.

Persino alcuni israeliani con cui lavoro che sentono la mia storia e sanno del mio livello di studi mi dicono: ‘Se solo tu avessi una carta d’identità diversa la tua vita qui sarebbe veramente buona.’ Ma questo è il mio destino,” sostiene Salah. “Non posso fare niente per cambiarlo.”

Jaclynn Ashly è una giornalista freelance che si occupa di problemi politici e di diritti umani nei territori palestinesi occupati e in Israele.

Alaa Daraghmeh è un giornalista che risiede in Cisgiordania.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Come la cima di una collina è diventata l’incubatrice della violenza dei coloni israeliani

Natasha Roth-Rowland

2 gennaio 2020 – +972

Il governo israeliano ha fatto poco per bloccare i coloni religiosi di Yitzhar, la cui ideologia estremista sta promuovendo ondate di violenza contro i palestinesi in Cisgiordania

Il 16 ottobre 2019 coloni mascherati di Yitzhar e degli avamposti circostanti hanno aggredito attivisti israeliani ed ebrei americani, tra cui un rabbino ottantenne, che stavano aiutando i palestinesi nella raccolta delle olive. Tre giorni dopo nella stessa zona coloni hanno attaccato palestinesi che stavano coltivando la propria terra. Nei due giorni seguenti abitanti di Yitzhar hanno aggredito anche reparti della polizia di frontiera israeliana durante una serie di scontri dopo che l’esercito ha arrestato un colono sospettato di aver dato fuoco a un appezzamento di terreno di proprietà palestinese.

Questo scoppio di violenza – avvenuto durante la festa ebraica di Sukkot – è stato uno dei molti avvenuti nella Cisgiordania occupata negli ultimi mesi del 2019. Attacchi contro le forze di sicurezza palestinesi ed israeliane e atti di vandalismo contro proprietà palestinesi, compresi incendi, sono stati segnalati a Gush Etzion [colonia israeliana nella zona centrale della Cisgiordania, ndtr.], Hebron [Al-Khalil, città palestinese nella Cisgiordania meridionale, ndtr.], Bat Ayin [colonia nei pressi di Gush Etzion, ndtr.], Hizma [cittadina palestinese nei pressi di Gerusalemme, ndtr.] e altrove. Benché secondo il ministero della Difesa israeliano quest’anno ci sia stata una riduzione complessiva del numero di crimini di odio da parte di coloni rispetto al 2018, la loro ampiezza e il loro livello di violenza sta aumentando.

Yitzhar si trova nella parte settentrionale della Cisgiordania (in genere denominata “Samaria” in Israele), dove i coloni tendono a raggrupparsi in avamposti sulla cima delle colline sparsi attorno ai centri abitati palestinesi. Questa parte dei territori occupati è particolarmente soggetta alla violenza dei coloni, quindi non è un caso che Ytzhar sia stata al centro del più recente picco di aggressioni dei coloni.

Yitzhar è stata fondata nel 1983 come avamposto militare sulla cima di una collina nei pressi della città palestinese di Nablus e trasformata l’anno seguente in un insediamento civile in base a una direttiva del governo. La colonia originaria era stata fondata su terreni agricoli di proprietà di una serie di villaggi palestinesi, compresi Burin e Huwara, che nel corso degli anni hanno sofferto il peso della violenza dei coloni nella zona. A iniziare dalla fine degli anni ’90 sulla cima delle colline circostanti sono spuntati numerosi avamposti illegali [in base alla legge israeliana, ndtr.].

Dal 2000 Yitzhar è stata sede della yeshiva [scuola religiosa ebraica, ndtr.] “Od Yosef Chai” (Giuseppe vive ancora), nota a lungo per aver insegnato ai propri studenti la liceità – e persino la necessità – della violenza contro i non ebrei. Fondata nel 1982 sotto l’egida di un’organizzazione benefica che vi è stata inclusa nel 1983, per circa 20 anni la yeshiva si è stabilita sul luogo della Tomba di Giuseppe a Nablus, finché è stata trasferita a Yitzhar quando l’esercito israeliano ha smantellato il proprio avamposto militare presso la tomba durante la Seconda Intifada. Durante la sua esistenza la yeshiva e l’accampamento presso la Tomba di Giuseppe sono stati un frequente punto critico e la tomba continua ad essere un luogo di pellegrinaggio per coloni radicali, le cui spedizioni notturne mensili spesso provocano violenze.

Il capo spirituale della yeshiva e delle colonie è il preside della “Od Yosef Chai” Yitzchak Ginsburgh, un rabbino ultraortodosso nato nel Missouri che nel corso della sua carriera ha riunito un seguito numeroso e fedele. I suoi studenti ed accoliti sono stati all’avanguardia nel promuovere e mettere in atto violenze contro palestinesi nel corso degli ultimi dieci anni. E nonostante le condanne espresse dai vertici del governo quando un ulteriore attacco o una pubblicazione che incita all’odio riconduce alla yeshiva di Ginsburgh, essa continua ad essere attiva – tutto ciò mentre continua a ricevere una modesta somma annuale da parte del locale consiglio regionale.

È in buona misura grazie all’insegnamento di Ginsburgh e dei suoi rappresentanti e della violenza che hanno incoraggiato che Yitzhar è diventata famosa come una delle colonie radicali più estremiste. Ma mentre le informazioni sulle aggressioni fisiche da parte dei suoi abitanti spesso fanno notizia, l’ideologia sottesa – e la mancanza di volontà da parte dello Stato di occuparsene seriamente – riceve un’attenzione molto minore.

I non ebrei come “subumani”

Chiunque abbia conosciuto Baruch (Goldstein) ritiene che egli abbia agito in base alla sua personalità ebraica… Non si è trattato della reazione di un ebreo ignorante – che dovrebbe anch’esso essere benedetto – ma di un uomo colto ed esemplare.”

Questa è stata la reazione di Ginsburgh al massacro presso la moschea di Ibrahim/Tomba dei Patriarchi di Hebron nel febbraio 1994, in cui Baruch Goldstein, nato a Brooklyn, ha ucciso a fucilate 29 fedeli musulmani prima di essere picchiato a morte quando il suo fucile si è inceppato. Ginsburgh scrisse la sua dichiarazione in “Baruch HaGever” (Baruch l’uomo/l’uomo è benedetto”), una raccolta di saggi e di elogi funebri pubblicata l’anno dopo l’attacco.

Come molti dei collaboratori al libro, Ginsburgh presenta il terrorismo di Goldstein come una testimonianza del suo valore come essere umano, inseparabile dalla sua carriera come dottore e come esempio di violenza giusta con una profonda ragione e giustificazione teologica. Avvalendosi di una serie di scritture ebraiche, Ginsburgh ha inquadrato la strage al contempo come un atto di protezione degli ebrei, un attacco contro il “male” (in cui i palestinesi sono descritti come l’incarnazione attuale di Amalek, i nemici biblici degli israeliti) e un tentativo di salvaguardare la Terra di Israele per il popolo ebraico.

Al centro dell’ideologia di Ginsburgh ci sono l’accettabilità e la moralità della violenza ebraica contro i non ebrei. Come ha scritto il docente di religione israeliano Motti Inbari, sottesa a ciò c’è la sua concezione dei non ebrei come di fatto “subumani” – implicando che il comandamento “non uccidere”, che riguarda gli esseri umani, si applichi solo agli ebrei.

Questa interpretazione dei Dieci Comandamenti caratterizza un’altra nota pubblicazione uscita da Yitzhar, questa volta ad opera dei seguaci di Ginsburgh, Yosef Elitzur e Yitzhak Shapira – quest’ultimo dirige la yeshiva “Od Yosef Chai”. Il loro libro del 2009, “Torat Hamelech” (“La Torah del Re), allo stesso modo sostiene che il peccato di omicidio riguardi la violenza tra ebrei e ammette esplicitamente l’uccisione di minori e bambini non ebrei se, scrivono, “è chiaro che quando saranno cresciuti ci faranno del male.” Questo libro, come “Baruch HaGever,” ha comportato per i suoi autori accuse di incitamento al razzismo e alla violenza, ma non ne è derivata nessuna azione penale.

Parecchi anni dopo, in un altro incidente Elitzur, dopo aver pubblicato un articolo sul sito di notizie di estrema destra “HaKol HaYehudi” [La Voce Ebraica, ndtr.] gestito da Yitzahr, si è guadagnato un’ulteriore accusa per incitamento alla violenza. L’articolo definiva linee guida che si sarebbero sviluppate in quelli che sono noti come attacchi “prezzo da pagare”, un termine dato a crimini d’odio e violenza commessi da estremisti israeliani contro chiunque osi mettere a repentaglio il progetto di colonizzazione, compresi attivisti palestinesi e della sinistra israeliana. Anche i redattori di “HaKol HaYehudi” sono stati messi sotto accusa con imputazioni simili.

Forse il più noto dei pupilli di Ginsburgh dell’ultima generazione è Meir Ettinger, un dirigente della gioventù della cima delle colline [gruppo di giovani coloni particolarmente violenti, ndtr.] sospettato di coinvolgimento in numerosi reati violenti contro i palestinesi. Ettinger, un ex-studente di Ginsburgh, è un blogger fisso di “HaKol HaYehudi”. Recentemente ha definito Ginsgurgh “il più autentico ebreo al mondo,” e ha affermato: “Quando immagino un leader ebreo, quando immagino il re David, egli assomiglia a Ginsburgh.”

Focolaio di violenza dei coloni

La fede nella violenza moralmente sostenibile e al contempo necessaria non è affatto rara nell’estrema destra israeliana. Il rabbino Meir Kahane, nato a Brooklyn e che ha avuto una storica carriera di violenza spettacolare sia nel suo Paese natale che in quello di adozione [Israele, ndtr.] una volta disse all’intervistatore di una televisione americana che, quando viene condotta per proteggere ebrei, “la violenza è una mitzvah (comandamento spirituale ebraico)”. Il manifesto elettorale del partito Otzma Yehudit (Potere Ebraico), formato dai discepoli del defunto Kahane, mette esplicitamente in rapporto le leggi religiose ebraiche e la “guerra totale” contro i “nemici di Israele”.

Baruch Goldstein, seguace di Kahane e che era stato anche consigliere di un consiglio comunale a Kiryat Arba [colonia di estremisti religiosi nei pressi di Hebron, ndtr.] per il partito Kach [fondato da Kahane, ndtr.], può aver portato all’estremo quell’ideologia, ma essa caratterizza ancora larghi strati della destra religiosa – compresi quanti hanno difeso, e continuano a difendere, la strage di Goldstein a Hebron. Il rabbino Dov Lior, ex-rabbino capo di Hebron e di Kiryat Arba, ha esplicitamente appoggiato il libro “Torat Hamelech.”

Inoltre Ginsburgh non è affatto l’unico rabbino influente ad indottrinare generazioni di studenti delle scuole religiose con motivazioni a favore della violenza interetnica e interreligiosa derivate dalle Sacre Scritture. In effetti in tutta Israele il sistema delle accademie religiose di preparazione al servizio militare – la prima delle quali è nata nella colonia di Eli nel 1988 – probabilmente segue una logica simile, anche se meno esplicita nei programmi di yeshiva come la “Od Yosef Chai”.

Per esempio il rabbino Eli Sadan, capo dell’accademia di Eli, ha paragonato la guerra contro Gaza del 2014 alla narrazione biblica delle battaglie di Sansone contro i filistei, che terminarono con Sansone che a Gaza fece crollare un tempio sulla sua testa e su quella degli oppressori filistei, uccidendoli tutti. Anche innumerevoli rabbini sionisti religiosi hanno citato i palestinesi come nemici biblici dei nostri giorni, con la conseguenza che il loro destino finale dovrebbe essere, e sarà, l’annichilimento.

Eppure Yitzhar e la sua yeshiva sono un caso a parte, non solo per la frequenza con cui i suoi abitanti sono coinvolti o legati alla violenza dei coloni, ma anche per le loro caratteristiche ideologiche. Gli abitanti sono prevalentemente nazionalisti ultraortodossi – noti in ebraico come hardalim (un nome composto tra haredi, ultraortodossi, e leumi, nazionalisti). In questo senso Yitzhar rappresenta una sorta di passaggio generazionale del focolaio di azioni dei coloni estremisti sia contro i palestinesi che contro lo Stato.Tra gli anni ’70 e ’90 il terrorismo ebraico ha avuto origine da gruppi del sionismo religioso e da movimenti come Gush Emunim e il partito Kach, ed ha avuto la propria roccaforte a Kyriat Arba. Lo stesso Kahane è ricordato a Kyriat Arba da un parco con il suo nome, che è anche il luogo della tomba di Baruch Goldstein. Tuttavia gli anni 2000 e 2010 hanno visto emergere un movimento ancora più radicale, che rifiuta quasi integralmente l’autorità dello Stato e che nello scorso decennio è stato dietro ad alcuni degli attacchi più brutali contro i palestinesi. Il volto di questa nuova estrema destra è la gioventù della cima delle colline, per la quale Ginsburgh è la guida spirituale.

Lo stesso Ettinger è emblematico di questo passaggio generazionale, ideologico e geografico dell’avanguardia dell’estremismo di destra israeliano. Proprio come Ginsburgh è stato propagandato come il successore spirituale di Kahane, così Ettinger, nipote di Kahane, ha seguito l’insegnamento del suo mentore ultra-ortodosso più che del suo familiare (nel 2016, durante la detenzione amministrativa di Ettinger in seguito all’attacco incendiario di Duma che ha ucciso tre membri di una famiglia palestinese, Libby Kahane, la vedova di Kahane, ha manifestato il proprio rammarico per il fatto che a suo parere il nipote non abbia seguito le orme del suo defunto marito).

Non un’anomalia

Il governo israeliano ha fatto sporadici tentativi di contrastare il ruolo di Yitzhar nel fomentare la violenza in Cisgiordania. Ma, al di là di qualche azione penale senza seguito contro i leader della colonia, le autorità israeliane non hanno fatto seri sforzi per arginare questa violenza. I soldati israeliani, benché siano stati ripetutamente bersaglio dei coloni, sono stati persino filmati accanto ad abitanti di Yitzhar senza che intervenissero mentre questi aggredivano palestinesi che vivono nei villaggi che si trovano sotto la colonia.

Di tanto in tanto lo Stato ha chiuso temporaneamente le istituzioni della colonia. Ad esempio, alla fine del 2011, dopo che un certo numero dei suoi studenti sono stati collegati ad attacchi contro palestinesi in Cisgiordania, è stata disposta la chiusura della scuola superiore “Dorshei Yehudcha” di Yitzhar. Tuttavia la scuola — il cui responsabile per la formazione è Yosef Elitzur e il cui preside è Yitzchak Ginsburgh — ha tranquillamente riaperto e continua ad essere in funzione fino ad oggi. Nel 2014 le forze di sicurezza israeliane hanno occupato la “Od Yosef Chai”, piazzandosi nella yeshiva per un anno ed obbligandola a interrompere le attività. Tuttavia dopo che l’esercito se n’è andato la yeshiva ha ancora una volta riaperto.

In seguito a ripetuti episodi di violenza guidati dai coloni di Yitzhar, nel 2013 il governo ha tagliato centinaia di migliaia di shekel che versava ogni anno alla yeshiva attraverso il ministero dell’Educazione. Eppure la “Od Yosef Chai” continua a ricevere decine di migliaia di shekel all’anno dal Consiglio regionale della Samaria ed è stata in grado di conservare il suo status di associazione no-profit, consentendole così di ricevere donazioni esenti da tassazione in Israele. Ha ricevuto donazioni esentasse anche dagli Stati Uniti, benché il sito ufficiale della yeshiva (come quello di molte istituzioni di destra delle colonie) sia evasivo riguardo alla provenienza di questi fondi.

Tuttavia la vera questione non riguarda solo una singola colonia nella parte settentrionale della Cisgiordania. La crescente emarginazione sociale della gioventù della cima delle colline ha reso facile per il mondo politico israeliano puntare l’indice contro l’attuale violenza dei coloni – compresa quella di Yitzhar – come un’anomalia, guidata da un’ideologia che i dirigenti politici insistono nell’affermare non abbia posto nel Paese. Ma la farsa delle ormai usurate condanne che vengono esternate in seguito alle azioni più gravi del terrorismo dei coloni nasconde fino a che punto lo Stato consenta tale violenza.

Che si tratti della gioventù della cima delle colline condannata socialmente o dell’élite dei coloni con ottimi rapporti, l’ideologia sottesa della conquista della terra, della purezza etnica e delle leggi teocratiche imposte dalla Bibbia è passata da una generazione all’altra e attraverso le istituzioni dello Stato. La gioventù della cima delle colline sicuramente ha una dimensione più esplicitamente antigovernativa per la sua visione del mondo. Ma rimane il fatto che la sua ideologia è profondamente radicata in una società che dopo più di 70 anni è ancora incapace di affrontare, per non parlare di accogliere e sancire per legge, il concetto di uguaglianza, o di riconoscere i palestinesi come popolo nativo con diritti umani. Finché sarà così, il governo israeliano sarà incapace, e presumibilmente non disposto, a fare più di qualche gesto di facciata per bloccare l’estremismo dei coloni.

Informazioni sull’ideologia del rabbino Yitzchak Ginsburgh e dei suoi seguaci e sulla storia di Yitzhar sono state ricavate dai seguenti libri: Religious Zionism and the Settlement Project: Ideology, Politics, and Civil Disobedience [Sionismo religioso e progetto coloniale: ideologia, politica e disobbedienza civile] di Moshe Hellinger, Isaac Hershkowitz e Bernard Susser (2018); Jewish Fundamentalism and the Temple Mount: Who Will Build the Third Temple? [Fondamentalismo ebraico e il Monte del Tempio: chi costruirà il Terzo Tempio?] di Motti Inbari (2009); Baruch Hagever: Memorial Book for the Holy Dr. Baruch Goldstein, [Baruch Hagever: libro in memoria del santo dottor Baruch Goldstein] a cura di Michael Ben Horin e altri (1995); How Long Will Israel Survive? The Threat From Within, [Per quanto ancora sopravviverà Israele? La minaccia dall’interno] di Gregg Carlstrom (2017).

Natasha Roth-Rowland è dottoranda in storia presso l’università della Virginia, dove fa ricerche e scrive sull’estrema destra ebraica in Israele/Palestina e negli USA. In precedenza ha passato parecchi anni come scrittrice, redattrice e traduttrice in Israele/Palestina e il suo lavoro è stato pubblicato su The Daily Beast, the London Review of Books Blog, Haaretz, The Forward e Protocols. Scrive con il suo vero cognome di famiglia in memoria del nonno, Kurt, che durante la Seconda Guerra Mondiale venne obbligato a cambiare il cognome in ‘Rowland’ per cercare rifugio in Gran Bretagna.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Uno studio rivela che gli israeliani non si sentono più sicuri nonostante i letali attacchi contro Gaza

5 Gennaio 2020 PALESTINE CHRONICLE

Uno studio accademico ha recentemente rivelato che, nonostante il letale attacco israeliano dello scorso novembre alla Striscia di Gaza assediata, la maggioranza degli israeliani nel sud del Paese non si sente assolutamente più al sicuro.

Due settimane dopo la fine della campagna, i ricercatori del College Tel Hai e dell’università di Tel Aviv hanno svolto uno studio per misurare la resilienza degli israeliani che vivono nelle comunità del sud”, ha riferito il quotidiano israeliano Haaretz.

Lo studio prende in esame le opinioni di 503 residenti ebrei che vivono entro un raggio di 40 km. da Gaza. La principale domanda loro posta è in che modo abbia influito sul loro senso di sicurezza l’attacco israeliano contro la Striscia del 12 novembre, che ha ucciso 34 palestinesi e ferito altre decine.

Il 63% degli intervistati ha risposto che non si sentono più sicuri dopo l’operazione, mentre il 27% ha risposto che si sentono meno sicuri di prima. Solo il 10% ha risposto di essersi sentiti più al sicuro in conseguenza dell’attacco militare contro Gaza.

L’attacco israeliano a Gaza è iniziato con l’assassinio di Bahaa Abu Al Ata, un alto ufficiale della Jihad islamica. E’ proseguito per diversi giorni, con una serie di attacchi aerei mortali su varie aree dell’assediata e impoverita Striscia di Gaza.

Il documento israeliano rivela anche che gli abitanti del sud di Israele, che spesso chiedono più azioni militari contro Gaza, “si sentono cittadini di seconda classe rispetto agli israeliani che vivono più a nord, dicendo che l’IDF (l’esercito israeliano) risponde più duramente ai razzi sparati sulla più grande area di Tel Aviv.”

Gaza è stata l’obbiettivo di molte campagne militari israeliane, comprese parecchie importanti guerre che hanno provocato l’uccisione ed il ferimento di decine di migliaia di palestinesi.

Non è la prima volta che gli abitanti e i coloni del sud di Israele esprimono il loro disappunto riguardo a ciò che considerano “uno status di seconda classe”. Nel novembre 2018 centinaia di coloni hanno organizzato una protesta per chiedere maggiore sostegno del governo nel proteggerli dai lanci di razzi provenienti da Gaza.

All’epoca il redattore di Palestine Chronicle Ramzy Baroud ha sottolineato che “nonostante le loro continue lamentele, le comunità del sud di Israele hanno visto un costante incremento delle opportunità economiche e quindi della popolazione. Questo ha posto queste zone al centro dell’attenzione dei politici israeliani, tutti alla ricerca del consenso dei leader locali e del sostegno dei loro settori economici in forte espansione.”

Il recente impegno elettorale ha fatto delle richieste e delle aspettative dei leader delle comunità israeliane del sud un elemento centrale nelle principali politiche israeliane”, ha aggiunto.

(The Palestine Chronicle)

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Riorganizzare l’UNRWA nel mondo della post-verità

Christopher Gunness

17 dicembre 2019 – Al Jazeera

Non più dipendente dai finanziamenti USA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi deve tornare a dedicarsi al suo storico compito.

Nel mondo di Donald Trump e Boris Johnson della post-verità e della post-vergogna, in cui le politiche sono lanciate con un tweet, la storia è riscritta con una citazione e la “realtà” fatta da un titolo in prima pagina, il sostegno costante dell’UNRWA a oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi, ai loro diritti e alla loro dignità non è mai stato più importante.

Ma l’agenzia, che ora celebra i suoi 70 anni, deve riuscire a ribaltare il recente scandalo di cattiva gestione, ricuperare la fiducia dei donatori e riprendere i contatti con le comunità di rifugiati. Sotto la sua nuova dirigenza può riuscirci e risorgere più forte.

La posta in gioco non è mai stata così alta.

Nell’agosto 2018 la Casa Bianca di Trump ha tagliato il contributo annuale degli USA all’UNRWA – 365 milioni di dollari del bilancio dell’agenzia – pregiudicando i servizi per la più numerosa ed antica popolazione di rifugiati al mondo.

È presto emerso uno schema di unilateralismo distruttivo. Nel dicembre 2017 gli USA hanno annunciato la decisione di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo l’annessione e l’occupazione illegali della città da parte di Israele, facendo a pezzi decenni di consenso internazionale.

Nel marzo di quest’anno l’ambasciatore di Washington in Israele ha appoggiato l’illegale annessione delle Alture del Golan e a novembre gli USA hanno dichiarato che le colonie ebraiche non sono in contraddizione con le leggi internazionali, avallando quindi molteplici “gravi violazioni” delle Convenzioni di Ginevra – che potrebbero rappresentare crimini di guerra – da parte di Israele, il potere occupante, contro un popolo protetto dall’ONU.

Incoraggiato dalla debole risposta internazionale, il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, ha chiesto di più. Ha sollecitato il sostegno USA ai progetti di annessione della Valle del Giordano, in cui oltre 65.000 palestinesi vivono accanto a circa 11.000 coloni ebrei su terre anch’esse espropriate in violazione del diritto internazionale.

Il quadro giuridico si cui l’ordine mondiale si è fondato dalla Seconda Guerra Mondiale è sotto attacco unilaterale.

Oltretutto la Casa Bianca sta cercando di ridefinire tre questioni centrali per la ricerca della pace in Medio Oriente – Gerusalemme, i rifugiati e le colonie –, tutto ciò a costo zero per Israele, senza chiedere niente in cambio.

Sia chiaro chi sta guidando tutto questo. Fin dal dicembre 2016 Netanyahu ha chiesto che l’UNRWA venisse “smantellata”. I suoi accoliti a Washington, come l’amico di famiglia di Netanyahu e genero di Trump diventato consigliere per il Medio Oriente, Jared Kushner, hanno offerto il loro appoggio all’obiettivo a lungo accarezzato da Israele: l’eliminazione dello status di oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi registrati dall’UNRWA, insieme al loro diritto al ritorno.

La Casa Bianca di Trump ha sostenuto che i discendenti dei rifugiati del 1948 non sono anch’essi rifugiati, un concetto in flagrante conflitto con le norme internazionali e le buone pratiche riguardo ai rifugiati sostenute da molti, compresa l’altra agenzia dell’ONU per i rifugiati, l’UNHCR, di cui gli USA sono il principale donatore.

Ma c’è stata opposizione contro questo tentativo di spazzare via dalla storia i diritti, l’identità, l’esistenza stessa di milioni di rifugiati.

A dicembre l’assemblea generale dell’ONU ha votato in modo quasi unanime il rinnovo del mandato dell’UNRWA per altri tre anni, compresa la corretta definizione di rifugiati. Non meno di 169 membri l’hanno appoggiata e solo due hanno votato contro: gli USA e Israele. Sono stati isolati, sconfitti.

Per l’UNRWA questa vittoria diplomatica ha un nuovo significato.

Nel periodo che ha preceduto il dibattito all’assemblea generale, l’agenzia è stata usurata da uno scandalo gestionale limitato a un piccolo gruppo di funzionari della cerchia del direttore esecutivo, il commissario generale, che è stato obbligato a dare le dimissioni.

Un dirigente ad interim, Christian Saunders – un esperto riformatore dell’ONU e persona di fiducia del segretario generale dell’ONU – è stato inviato per risolvere la cattiva gestione. Il voto a stragrande maggioranza dell’assemblea generale è stato un primo segnale del fatto che l’UNRWA sta voltando pagina. Recentemente donatori che avevano sospeso l’aiuto finché l’agenzia non avesse risolto i suoi problemi interni sono tornati.

L’UNRWA ha ancora un grave deficit finanziario da colmare entro la fine dell’anno. Ma ha un piano in corso per riempire il vuoto lasciato dal malvagio de-finanziamento di Washington. Cosa fondamentale, e senza dubbio temporanea, ha bloccato l’attacco politico ispirato da Israele, che ha incluso un tentativo di chiudere l’operatività dell’UNRWA a Gerusalemme.

Quindi, come va avanti l’agenzia dopo il triplice smacco della crisi finanziaria, dello scandalo della dirigenza e dell’attacco politico contro il suo mandato?

Per iniziare, deve consolidare la fiducia dei suoi principali donatori per realizzare le riforme gestionali iniziate da Christian Saunders, intese a stabilizzare l’agenzia in seguito alle dimissioni del precedente commissario generale e della sua cerchia più ristretta.

I donatori devono onorare pienamente il loro tanto vantato “grande patto” e rispondere con accordi pluriennali a tutti i livelli, facilitando la pianificazione a lungo termine e la sicurezza finanziaria, riconoscendo il contributo di lungo periodo dell’UNRWA al capitale umano e la costante necessità dei suoi programmi d’emergenza.

Garantire e migliorare i servizi aiuterà l’UNRWA a recuperare presso i palestinesi che aiuta la credibilità danneggiata dalle recenti accuse di cattiva gestione.

Ma l’agenzia deve andare oltre.

Con un incremento dei finanziamenti arabi e una maggiore diversificazione della sua base di donatori in seguito alla dipartita degli americani, c’è un’opportunità di sostegno e di lavoro mediatico più consistenti, guidati da prove e basati sul diritto internazionale, che quest’anno sono stati palesemente assenti.

Una UNRWA rafforzata deve radicare la propria missione umanitaria nelle esperienze dei rifugiati. Per riuscirvi, l’agenzia deve iniziare un dialogo inclusivo ad ampio raggio con le comunità di rifugiati. Liberata dai limiti della pressione finanziaria americano-israeliana, ora è tempo di consultare i rifugiati sulle loro aspirazioni e rivendicare in modo significativo i loro diritti, compreso quello all’autodeterminazione e all’intero spettro dei loro diritti civili e politici.

L’UNRWA deve dire con chiarezza e con fermezza alla comunità dei donatori che l’aiuto non è un’attività di rimpiazzo. Non potrà mai sostituire i diritti e la dignità. I diritti dei palestinesi non sono in vendita.

I portavoce dell’UNRWA devono richiamare l’attenzione sul contesto in cui l’agenzia lavora e sul suo impatto sui rifugiati, gente che vive da mezzo secolo sotto occupazione in Cisgiordania e a Gaza, da 13 anni sotto un blocco illegale a Gaza, da 9 anni di guerra in Siria e da decenni di emarginazione sociale in Libano.

L’agenzia deve tornare a storicizzare il discorso pubblico, ricordando al mondo gli eventi del 1948, in cui 770.000 persone vennero espulse e più di 450 villaggi palestinesi vennero distrutti durante una campagna sistematica di pulizia etnica da parte dei gruppi armati ebraici. Dopo settant’anni l’UNRWA e i suoi donatori devono impegnarsi di nuovo nella propria missione finché le ingiustizie del 1948, che durano fino ad oggi, sarano affrontate e verrà risolta la spoliazione dei palestinesi.

Soprattutto, l’UNRWA deve dare ai palestinesi il potere di presentarsi al mondo come titolari e attori della loro stessa dignità e del loro destino.

Per fare ciò, i servizi devono essere totalmente finanziati; ci devono essere accurate e costanti modifiche della gestione e un sostegno consistente e basato sui diritti. Questi sono i tre pilastri su cui sicuramente deve essere costruita la riorganizzazione dell’UNRWA.

Sono anche una potente e realizzabile risposta all’unilateralismo di Trump attorno a cui l’UNRWA e tutti i soggetti coinvolti – compresi i rifugiati – si devono unire.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Christopher Gunness è un giornalista pluripremiato che in precedenza è stato portavoce dell’UNRWA.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le prospettive di un’indagine formale della CPI sulla situazione della Palestina sono nulle

John Dugard

9 dicembre 2019 – The Right Forum

C’è qualche possibilità di un’indagine sulla “situazione in Palestina” sotto la supervisione dell’attuale procuratrice della CPI, Fatou Bensouda? No, non ce n’è nessuna, spiega John Dugard, per ragioni che potrebbero essere considerate scioccanti.

Ho una breve e semplice risposta alla domanda posta. No, non c’è nessuna possibilità di una simile inchiesta sotto la supervisione dell’attuale procuratrice della CPI [Corte Penale Internazionale, ndtr.], Fatou Bensouda, il cui incarico scade nel 2021.

Perché lo dico?

È diventato assolutamente chiaro che l’ufficio della procuratrice è deciso a non aprire un’indagine sui crimini commessi da Israele in Palestina e contro il popolo palestinese. Il 16 gennaio 2015 la procura ha iniziato un esame preliminare sulla situazione in Palestina. Il 15 maggio 2018 la stessa Palestina ha deferito la questione alla CPI.

Tuttavia già nel 2009 la procuratrice aveva condotto un esame preliminare sulla situazione in Palestina, interrotto nell’aprile 2012, e dal 2013 sulla situazione della ‘Flotilla’ per Gaza. Ciò significa che per 10 anni la procura ha condotto un esame preliminare su una situazione sulla quale ci sono quattro rapporti della commissione d’inchiesta indipendente del Consiglio per i Diritti Umani [dell’ONU], un’opinione consultiva della Corte Internazionale di Giustizia, risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale, rapporti di numerose Ong israeliane, palestinesi e internazionali, ampia copertura televisiva e video che descrivono e testimoniano di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

E finora [la Procura] non ha trovato nessuna base per procedere alla fase successiva dell’inchiesta – cosa che è stata riconfermata dalla procuratrice nel suo ultimo rapporto sulle indagini preliminari. Un rapporto che, come al solito, non dà una onesta e ragionevole spiegazione del fatto che non abbia iniziato un’indagine.

A ciò si unisce il persistente rifiuto della procuratrice ad aprire un’inchiesta sul caso delle Comore (della Mavi Marmara, ndr.), nonostante gli inviti da parte dei giudici della Corte. Secondo me l’unica spiegazione di questo rifiuto a indagare sulla situazione in Palestina e su quella delle Comore è che la Procura è guidata nella sua presa di decisioni da considerazioni extragiudiziarie e politiche.

Sono convinto che ci siano prove più che sufficienti per sostenere che Israele ha commesso crimini di guerra usando una forza e una violenza eccessive e sproporzionate contro civili a Gaza e in Cisgiordania. Sono anche convinto che ci siano prove certe che l’impresa di colonizzazione israeliana costituisca apartheid e abbia dato come risultato l’espulsione forzata e il trasferimento di migliaia di palestinesi dalle loro case, il che significa che ha commesso crimini contro l’umanità.

Tuttavia sono poco propenso ad accettare che ci possa mai essere ragionevolmente una discussione sulla legge e le prove relative al fatto che siano stati commessi questi crimini. Quindi mi si lasci invece spiegare il fondamento della mia affermazione secondo cui fattori extragiudiziari guidano la procura riguardo al crimine di trasferimento da parte della potenza occupante – Israele – di settori della propria popolazione civile nei territori occupati della Cisgiordania e di Gerusalemme est.

Qui le leggi e i fatti sono chiari e non consentono alcuna possibile discussione o dibattito di sorta. La legge è chiara. L’articolo 8(2)(viii) dello Statuto di Roma definisce questo comportamento come un crimine di guerra. Così fanno gli articoli 49(6) della Quarta Convenzione di Ginevra e 85(4) del protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1977. Così fa il diritto internazionale consuetudinario (1).

I fatti sono chiari. Circa 700.000 coloni ebrei israeliani vivono in circa 130 colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Questi insediamenti sono chiaramente all’interno del territorio palestinese occupato – come stabilito dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2004 (2). Israele continua ad espandere il suo impero coloniale. Questi fatti sono stati ripetutamente portati all’attenzione della Procura della CPI dal governo della Palestina e da ong.

Le prove forniscono chiaramente una base ragionevole per credere che sia stato commesso un crimine che rientra nell’ambito di competenza della Corte, come richiesto dallo Statuto della CPI (3). Non agire in queste circostanze, quando le prove dei crimini di Israele riguardo all’espansione delle colonie aumentano, non solo elimina ogni pretesa di deterrenza, ma in più contribuisce alla commissione del reato. La colpevole mancanza di iniziative per interrompere il crimine quando si ha l’obbligo di farlo rende la procuratrice complice della perpetrazione del reato.

C’è uno schiacciante e autorevole sostegno per arrivare alla conclusione che le colonie siano illegali in base alle leggi internazionali. La Corte Internazionale di Giustizia ha sostenuto all’unanimità che le colonie sono state edificate in violazione del diritto internazionale (4). Il Consiglio di Sicurezza in molte occasioni ha condannato le colonie come illegali, di recente con la risoluzione 2334 del 2016. Ogni anno l’Assemblea Generale [dell’ONU] ha condannato le colonie come illegali. L’UE e quasi tutti gli Stati hanno condannato le colonie come illegali. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa è d’accordo. Persino lo stesso consulente legale di Israele: quando Israele iniziò questa impresa di colonizzazione Theodor Meron avvertì che erano illegali. (Ovviamente il presidente Trump ha un’opinione diversa, ma questa è solo una prova a favore della posizione contraria).

Tutto ciò mi porta a concludere che fattori politici e non giuridici guidino la presa di decisioni dalla procura. Ma come questi fattori hanno determinato le decisioni della procura? Per come la vedo io, ci sono due possibilità: una deliberata decisione collettiva della procuratrice, del suo vice e dei funzionari più importanti di non procedere, oppure fattori non esplicitati che hanno portato la procuratrice e la sua équipe ad essere prevenute a favore di Israele.

La prima spiegazione prospetta una deliberata decisione collettiva da parte della procuratrice e dei suoi principali collaboratori di non aprire un’inchiesta. La ragione più probabile per una simile decisione sarebbe il timore di ritorsioni da parte di Israele e degli Stati Uniti. O potrebbe essere la suscettibilità all’opinione diffusa, prevalente tra gli Stati europei, secondo cui la CPI è troppo fragile come istituzione da resistere alle reazioni che potrebbero seguire a una simile inchiesta. Benché una decisione collettiva di questo genere sia possibile, non penso che sia la spiegazione più probabile. La seconda, che fattori non esplicitati abbiano determinato la decisione, richiede qualche spiegazione.

I realisti giuridici americani, una rispettabile scuola di filosofia del diritto, sostengono che la decisione giudiziaria sia il risultato di tutta la storia personale del giudice: che le norme di legge e spinte nascoste, come i pregiudizi politici e morali del giudice, interagiscano nel produrre la decisione giudiziaria. Il giudice della Corte Suprema [USA] Benjamin Cardozo avvertiva che “molto al di sotto della coscienza ci sono…forze, le simpatie e antipatie, le predilezioni e i pregiudizi, il complesso degli istinti ed emozioni e abitudini e convinzioni” di un giudice che contribuiscono alla decisione giudiziaria.

Questi fattori inespressi contribuiscono ancor di più nel processo decisionale dei pubblici ministeri. Fattori non esplicitati sono molto significativi nel contesto della discrezionalità dell’azione penale – un’ampia concessione di autorità discrezionale con scarso controllo e poca trasparenza. È molto più facile per un procuratore soccombere a indebite influenze non formalizzate quando crede che non dovrà giustificare pubblicamente la propria posizione.

Benché la decisione di avviare un’inchiesta spetti principalmente alla procuratrice, è strano che nessun membro del suo staff abbia pubblicamente sollevato obiezioni contro la decisione di non indagare. Ci si sarebbe aspettato che qualcuno anonimamente denunciasse la decisione presa dalla procuratrice e dal suo gruppo di esperti. L’unica spiegazione di ciò è che anche loro abbiano ragioni non esplicitate per adeguarsi alla decisione.

Poiché la maggior parte dei membri della procura ha un mandato limitato e la necessità di tener conto del proprio futuro professionale, c’è inevitabilmente il timore che future possibilità di lavoro possano essere pregiudicate dalla decisione di avviare un’inchiesta su Israele, che sarebbe interpretata da potenziali datori di lavoro come un indicatore di antisemitismo. C’è anche la paura che ciò possa portare a un divieto d’ingresso negli Stati Uniti. La maggior parte degli Stati europei vede Israele come parte dell’alleanza europea (da qui la sua inclusione nel WEOG, il gruppo dei Paesi dell’Europa Occidentale ed Altri Paesi alle Nazioni Unite) e quindi come uno Stato esentato dalle indagini da parte della CPI. Il fatto di non rispettare questo “dato di fatto” può comprensibilmente essere visto come un ostacolo per un futuro impiego.

Il presupposto non esplicitato della procuratrice è di importanza fondamentale. Ci sono fattori nella sua storia personale, in particolare in Gambia, che potrebbero fornire qualche indicazione sulle ragioni inespresse della sua decisione di proteggere Israele dalle indagini?

Tra il 1987 e il 2000 Fatou Bensouda è stata consigliera principale dello Stato, vice direttrice dei pubblici ministeri, avvocatessa generale, ministra della Giustizia e capo dei consiglieri giuridici del presidente e del governo della repubblica del Gambia. Dal 1994 al 2016 il Gambia è stato sottomesso alla brutale dittatura di Yahya Jammeh. La repressione era all’ordine del giorno, mentre i diritti umani vennero duramente eliminati. La ministra della Giustizia non poteva rimanere indifferente a ciò. Che lei fosse coinvolta in questo processo di repressione è diventato chiaro dalle prove di fronte alla Commissione Gambiana per la Verità, la Riconciliazione e il Risarcimento (TRRC). Due uomini, Batch Samba Jallow e Sainey Faye, recentemente hanno testimoniato che fu complice della loro brutale tortura, lunga detenzione senza processo e negazione di una difesa legale (5). Ciò ha portato due avvocati venezuelani a presentare una denuncia al capo del Meccanismo Indipendente di Supervisione (IOM) della CPI in cui si afferma che lei è inadeguata a ricoprire l’incarico di procuratrice. Non risulta che Fatou Bensouda abbia criticato o preso le distanze da Yahya Jammeh.

Queste denunce richiedono un’indagine seria e urgente sull’adeguatezza della procuratrice a ricoprire il suo incarico. E il timore che da parte di Israele possano essere rivelati ulteriori abusi se avviasse un’inchiesta potrebbe benissimo essere il fattore non esplicitato della sua decisione di non aprire un procedimento su Israele.

Durante il periodo dell’apartheid, in Sudafrica i giuristi invocavano i metodi dei realisti giuridici americani per denunciare le premesse sottaciute dei giudici bianchi che regolarmente emanavano sentenze razziste e a favore del governo (7). Ciò portò a un’accentuata consapevolezza da parte dei giudici sulla natura delle sentenze e diede come risultato decisioni più corrette e indipendenti. Il realismo giuridico americano è un potente antidoto in un sistema ingiusto e corrotto. Potrebbe essere proficuamente utilizzato nell’esame del lavoro dell’Ufficio della Procura della CPI.

L’intenzione del mio intervento di stanotte è di rendere consapevoli la procuratrice e la sua équipe dei pericoli di essere guidate dai loro presupposti non esplicitati, che hanno portato al fatto di non garantire giustizia per il popolo palestinese. Ho cercato di evidenziare il tipo di fattori extragiudiziari che probabilmente hanno portato la procuratrice e il suo staff a dimostrarsi di parte a favore di Israele. Spero che facciano un serio esame di coscienza e mettano in discussione i loro motivi nascosti per non aver fatto giustizia a favore del popolo palestinese.

Questo testo è stato presentato da John Dugard ad un evento parallelo dell’assemblea degli Stati membri dello Statuto di Roma, l’Aia, 5 dicembre 2019. Dugard è membro del consiglio consultivo di The Right Forum [una rete di ex- ministri e docenti di diritto internazionale che intendono promuovere una soluzione giusta e durevole al conflitto israelo-palestinese, ndtr.].

John Dugard è professore emerito di Diritto presso le università di Leida e Witwatersrand, relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 2001 al 2008, ex giudice speciale della Corte Internazionale di Giustizia e membro del comitato consultivo di The Right Forum.

(1) J-M Henkaerts e L Doswald-Beck, Customary International Humanitarian Law [Diritto Internazionale Umanitario Consuetudinario], Vol I: Rules, ICRC, CUP, 2005, Rule 130, p. 462.

(2) Legal Consequences of the Construction of a Wall in the Occupied Palestinian Territory [Conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati] , 2004 ICJ Reports 136, paras 78, 122.

(3) Articolo 53(1)(a) dello Statuto di Roma.

(4) Ibid, para 120. Il giudice statunitense Buergenthal ha contribuito a questi dati.

(5) Thierry Cruvellier e Mustapha K Darboe, ‘Will Fatou Bensouda Face the Truth Commission in Gambia?’ [Fatou Bensouda affronterà la commissione per la verità in Gambia?], JusticeInfo.Net, Fondation Hirondelle, https://www.justiceinfo.net/en/truth-commission/4/1906-will-fatou-bensouda-face-the-truth- commission-trrc-gambia.html

(6) Carlos Ramirez Lopez e Walter Marquez, ex deputato dell’Assemblea Nazionale del Venezuela e presidente della Fondazione Amparo IAP. Denuncia del 2 agosto 2019.

[7] Vedi J. Dugard, Human Rights and the South African Legal Order [Diritti umani e sistema giudiziario sudafricano], Princeton University Press, 1978, pp 366-388; J Dugard, ‘The Judicial Process, Positivism and Civil Liberty’ (1971) [Il processo giudiziario, positivismo e libertà civili], South African Law Journal 181; J Dugard, Confronting Apartheid. A Personal History of South Africa, Namibia and Palestine [Paragonare l’aprtheid. Una storia personale del Sudafrica, della Namibia e della Palestina], Jacana 2019, pp 52-53.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)