Come Israele insegna ai suoi figli a odiare

Asa Winstanley

26 luglio 2019 – Middle East Monitor

Proprio come i bianchi sudafricani, gli ebrei israeliani non rinunceranno mai volontariamente alla loro condizione privilegiata di coloni

L’importante studio accademico dell’intellettuale dissidente Nurit Peled-Elhanan, La Palestina nei libri di scuola israeliani,[vedi la recensione su zeitun.info]  è una lettura essenziale per chiunque voglia comprendere alcune importanti realtà dello Stato e della società israeliani.

In quanto entità di insediamento coloniale, un vero cambiamento della società israeliana non potrà mai provenire dall’interno. Deve essere imposto dall’esterno. Proprio come i bianchi sudafricani, gli ebrei israeliani non rinunceranno mai volontariamente alla loro privilegiata condizione di coloni.

L’apartheid sudafricano è stato sconfitto dalle masse del Sudafrica (con il sostegno di alcuni dissidenti bianchi) e dai loro leader politici, col sostegno di una campagna di solidarietà globale.

Allo stesso modo, l’apartheid israeliano sarà sconfitto dalla lotta palestinese. Questa lotta è sostenuta da una minoranza di dissidenti israeliani e dal movimento internazionale di solidarietà – in particolare dal movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS).

Il libro di Peled-Elhanan è un importante saggio su 17 libri di testo di storia, geografia ed educazione civica adottati nelle scuole israeliane. Come dice nell’intervista che si può vedere in rete (https://youtu.be/pWKPRC-_oSg), la studiosa è arrivata ad alcune nette conclusioni.

Se mai menzionano i palestinesi, i libri di testo ufficiali di Israele danno come insegnamento un “discorso razzista”, che cancella letteralmente la Palestina dalla mappa. Le mappe nei libri di scuola mostrano sempre e soltanto “la terra di Israele”, dal fiume [Giordano, ndtr.] al mare [Mediterraneo, ndtr.].

Spiega come nessuno dei libri di scuola includa “un qualsiasi aspetto culturale o sociale positivo del vitale mondo palestinese: né la letteratura né la poesia, né la storia né l’agricoltura, né l’arte né l’architettura, né i costumi né le tradizioni sono mai menzionati”.

Le rare volte in cui vengono menzionati i palestinesi è in modo straordinariamente negativo e stereotipato: “Tutti [i libri] rappresentano [i palestinesi] secondo icone razziste o in immagini umilianti che li classificano come terroristi, rifugiati o agricoltori arretrati – i tre ‘problemi’ che essi rappresentano per Israele”.

Ne conclude che i libri di testo per bambini “presentano la cultura ebraico-israeliana come superiore a quella arabo-palestinese, la concezione del progressso ebraico-israeliana superiore allo stile di vita arabo-palestinese e il comportamento israeliano-ebraico in linea con i valori universali”.

Il tutto contrapposto ad un racconto stereotipato e fuorviante in merito ai libri di scuola per bambini in Palestina. I libri stampati dall’Autorità Nazionale Palestinese dagli anni ’90 sono spesso dipinti nella demonizzazione anti-palestinese come contenenti le peggiori calunnie antisemite sul popolo ebraico.

Nel complesso, questa narrazione è una oscena montatura istigata da gruppi di propaganda anti-palestinese, come quella gestita dal colono israeliano Itamar Marcus e dal suo “Palestinian Media Watch”.

Il libro di Peled-Elhanan ha demolito in modo esauriente un secondo e complementare mito israeliano: che gli israeliani – in contrasto con i diabolici palestinesi – invece “insegnano ad amare il tuo vicino”, per citare l’ex ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni, criminale di guerra.

Sette anni fa, quando fu pubblicato il suo libro, Peled-Elhanan avvertì che, contrariamente alle speranze liberali di cambiamento dall’interno della società israeliana, le cose si stavano muovendo “sempre più indietro” e che all’epoca i libri di testo erano poco più che “manifesti militaristi”.

Abbiamo tre generazioni di studenti che non sanno nemmeno dove siano i confini” tra la Cisgiordania e il resto della Palestina storica, dice angosciata nella suddetta intervista, filmata nel 2011.

A sette anni dalla pubblicazione del libro le cose sono solo ulteriormente peggiorate.

Lo si può vedere nel video, circolato sui social media questa settimana, dei giovani soldati israeliani che festeggiavano e applaudivano dopo aver fatto saltare le case palestinesi a est di Gerusalemme. Quei soldati sono proprio il prodotto del sistema educativo israeliano.

Poiché la violenta oppressione israeliana di un intero popolo indigeno diventa sempre più evidente nel mondo, l’opinione pubblica si sta progressivamente spostando contro Israele, anche negli Stati Uniti tra gli elettori già sostenitori e la base attivista del Partito Democratico.

Dato che Israele può contare sempre meno sull’appoggio esterno, diventa sempre più importante che lo Stato dell’apartheid si prepari a difendersi e si assicuri che nella prossima generazione di coloni e soldati sia inculcata l’ideologia ufficiale dello stato israeliano: il sionismo.

Il mese scorso è emerso che Israele ha iniziato a richiedere a tutti gli studenti delle scuole superiori – compresi quei palestinesi che sono “cittadini” di seconda classe di Israele – di superare un corso online di propaganda governativa prima di poter partecipare a viaggi all’estero.

Secondo il gruppo palestinese per i diritti umani Adalah, il corso “promuove l’ideologia razzista”, facendo il lavaggio del cervello agli studenti con la leggenda che i palestinesi sono dei selvaggi intrinsecamente violenti.

Adalah riporta una domanda che chiede: “In che modo le organizzazioni palestinesi utilizzano i social network digitali?” La risposta richiesta è “incoraggiando la violenza”.

“Un’altra domanda chiede agli studenti di identificare le origini dell’antisemitismo moderno”, spiega Adalah. “La risposta corretta per l’esame è ‘le organizzazioni musulmane’ e il movimento BDS.”

In questo modo, Israele sta insegnando ai suoi figli a odiare: odiare i palestinesi, odiare i musulmani, odiare gli arabi in generale e odiare chiunque sostenga o si schieri solidale con loro contro l’oppressione.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduz. di Luciana Galliano)




Rapporto OCHA del periodo 2 – 15 luglio 2019 (due settimane)

Nella Striscia di Gaza, durante il periodo di riferimento, 359 palestinesi sono stati feriti da forze israeliane in manifestazioni svolte nel contesto della “Grande Marcia di Ritorno”,

un calo significativo di feriti da quando, nel marzo 2018, iniziarono le dimostrazioni.

In almeno undici occasioni, non collegate alla “Grande Marcia di Ritorno”, le forze israeliane hanno aperto il fuoco [di avvertimento] verso agricoltori e pescatori, allo scopo di far rispettare le restrizioni di accesso ai terreni [della Striscia] prossimi alla recinzione perimetrale con Israele e, in mare, alle zone di pesca interdette [ai palestinesi]; non sono stati segnalati feriti. Due pescatori, di cui uno minorenne, sono stati arrestati e la loro barca confiscata; uno è stato rilasciato il giorno stesso. In un altra occasione, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ed hanno svolto operazioni spianatura del terreno e di scavo in prossimità della recinzione. In un altro episodio, un palestinese è stato arrestato mentre tentava di infiltrarsi in Israele.

L’undici luglio, un 28enne palestinese, membro di Hamas, è stato ucciso con arma da fuoco dalle forze israeliane vicino alla recinzione perimetrale, ad est di Beit Hanoun, nel nord della Striscia. Secondo fonti dell’esercito israeliano, l’uomo è stato ucciso per una errata identificazione.

A Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante la protesta settimanale contro l’espansione degli insediamenti colonici e le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi], le forze israeliane hanno colpito con arma da fuoco un ragazzo di 10 anni, ferendolo alla testa. Testimoni oculari palestinesi hanno dichiarato che il ragazzo non era coinvolto negli scontri quando è stato colpito. Complessivamente, durante proteste e scontri in Cisgiordania, le forze israeliane hanno ferito 18 palestinesi, tra cui almeno nove minorenni [di seguito il dettaglio]. Questi 18 ferimenti includono: quattro palestinesi feriti nella zona di Al Isawiya a Gerusalemme Est, durante scontri con forze israeliane che stavano rimuovendo un memoriale di un palestinese ivi ucciso da un poliziotto israeliano il 27 giugno; una madre ed il figlio 14enne, aggrediti fisicamente e feriti da forze israeliane nella zona di Ras al Amud, a Gerusalemme Est, mentre resistevano all’arresto del ragazzo per presunto lancio di pietre; tre palestinesi feriti a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante la dimostrazione settimanale; cinque palestinesi, tra cui quattro minori, sono stati feriti in scontri innescati da tre operazioni di ricerca e arresto (le forze israeliane hanno condotto 142 di tali operazioni, arrestando oltre 167 palestinesi, tra cui sei minori); due palestinesi sono rimasti feriti da forze israeliane negli scontri che hanno fatto seguito all’ingresso di israeliani in un sito religioso nella città di Nablus.

Il 6 luglio, cinque soldati israeliani di pattuglia nei pressi del checkpoint di Hizma (Gerusalemme), sono stati investiti e feriti da un veicolo guidato da un palestinese. Le forze israeliane hanno svolto operazioni di ricerca nella zona e, ad un checkpoint volante vicino a Gerusalemme, hanno arrestato la persona sospettata.

Il 10 luglio, dopo 24 anni di procedure legali, le autorità israeliane hanno sfrattato una madre e i suoi quattro figli adulti dalla loro casa nella zona di Wadi al Hilweh del quartiere di Silwan, a Gerusalemme Est. La casa è stata consegnata ad una organizzazione israeliana di coloni, Elad, che ne aveva rivendicato la proprietà.

Citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele (quasi impossibili da ottenere), le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato undici strutture di proprietà palestinese nella zona C e Gerusalemme Est; non ci sono stati sfollati, ma 1.270 persone hanno subìto ripercussioni di varia entità. Tre delle strutture prese di mira dal provvedimento erano cisterne per acqua finanziate da donatori e si trovavano in Area C, nelle comunità di Dkaika, Kashem al Karem ed An Najada. Circa 1.200 persone, tra cui 400 bambini, sono state colpite dalle demolizioni o sequestri delle cisterne. Dieci delle [11] strutture prese di mira si trovavano in otto diverse Comunità dell’Area C [di seguito il dettaglio]. Era inclusa una struttura commerciale nel villaggio di Idhna (Hebron), demolita poiché si trovava all’interno di un’area designata da Israele come “zona 309A per esercitazioni a fuoco”. Le restanti nove strutture interessate in Area C [delle 10 citate] includevano una residenza disabitata, quattro strutture di sostentamento e quattro strutture agricole. Altri due edifici in costruzione sono stati demoliti nella città di Az Zaayyem ed in As Sawahira ash Sharqiya, in aree situate all’interno della zona definita da Israele come municipalità di Gerusalemme.

In otto episodi, di cui sono stati autori coloni israeliani, sono stati feriti due palestinesi e danneggiati 200 ulivi di proprietà palestinese [segue dettaglio]. Due palestinesi, tra cui un minore, sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni in due diversi episodi avvenuti nella zona H2 della città di Hebron e vicino alla città di Hizma (Gerusalemme). In altri due episodi separati, fonti della Comunità locale palestinese hanno riferito che sospetti coloni israeliani hanno vandalizzato 200 ulivi e fichi e alberelli appartenenti a contadini dei villaggi di Susiya (Hebron) e dell’Area B di Turmus’ayya (Ramallah). In altri episodi, avvenuti nei villaggi di Deir Jarir (Ramallah) e Yanun (Nablus), è stato riferito che coloni hanno fatto pascolare le loro pecore su terreni agricoli palestinesi, vandalizzando circa 3,5 ha di terra coltivata a grano e orzo. In altri due episodi, coloni israeliani sono entrati nei villaggi di Awarta (Nablus) e Deir Qaddis (Ramallah), entrambi in Area B [cioé, con amministrazione palestinese e controllo israeliano per la sicurezza], hanno bucato le gomme di 25 veicoli palestinesi e spruzzato graffiti tipo “questo è il prezzo [che dovete pagare]” su quattro case, una scuola ed un asilo nido.

Media israeliani hanno riferito di nove episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani; due coloni sono rimasti feriti e diversi veicoli sono stati danneggiati.

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La polizia israeliana espelle una famiglia palestinese a Gerusalemme est, mentre entra un gruppo di coloni

Redazione di MEE

10 luglio 2019 – Middle East Eye

La famiglia Siyam ha sostenuto una battaglia legale di 24 anni sulla proprietà contro il potente gruppo di coloni “Elad”

Mercoledì la polizia israeliana ha espulso una madre con i suoi quattro figli dalla loro casa nel quartiere della Gerusalemme est occupata di Silwan per consegnarla all’organizzazione di coloni “Elad”.

Negli ultimi 24 anni Jawad Siyam, un importante attivista locale che ha condiviso la titolarità della proprietà con la sua famiglia, è stato impegnato in una interminabile battaglia legale contro la ricca e potente “Elad” riguardo alla proprietà.

Secondo i media locali, è stato arrestato durante lo sfratto di sua sorella e dei suoi figli.

Dagli anni ’90 la famiglia Siyam ha vinto vari ricorsi nei tribunali israeliani contro Elad, ma il gruppo di coloni ogni volta ha presentato appello e esibito documenti ai giudici per dimostrare il proprio possesso della proprietà.

Lo scorso mese il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha sentenziato a favore di Elad, una potente organizzazione il cui patrimonio è stimato ammontare a oltre 300 milioni di shekel (circa 74 milioni di euro).

Ora alla famiglia Siyam sono rimaste solo due unità abitative di un edificio di otto unità, dopo che Elad ne ha ottenute quattro.

Altre due unità immobiliari sono andate alla “Custodia israeliana delle proprietà di assenti” – un ente coloniale istituito in seguito alla Nakba (Catastrofe) del 1948 per prendere il controllo delle proprietà di palestinesi fuggiti dalla repressione durante la creazione dello Stato di Israele.

Secondo testimoni, mercoledì membri di Elad hanno occupato l’ultimo appartamento dei Siyam, buttando fuori gli effetti personali della famiglia, cambiando le serrature, erigendo cancelli tra loro e i Siyam e tagliando alberi in giardino.

Il capo di Elad, David Beeri, è stato filmato mentre esaminava la proprietà e poi stringeva la mano a un ufficiale della polizia israeliana. Nel 2017 Beeri ha ricevuto il Premio Israel alla carriera.

Jawad Siyam è il fondatore e direttore del centro d’informazione “Wadi al-Hilweh”, una Ong che intende fornire informazioni ai media e all’opinione pubblica sulle attività israeliane di colonizzazione nei quartieri di Silwan e Wadi al-Hilweh e e sugli scavi e i tunnel realizzati sotto le case palestinesi dalle autorità israeliane.

A lungo i palestinesi hanno accusato Israele di cercare di “ebraicizzare” la Gerusalemme est occupata e di cacciare i suoi 300.000 abitanti palestinesi per avere il controllo totale sulla città santa.

I due quartieri si trovano a sud delle mura della Città Vecchia di Gerusalemme e nei pressi della moschea di Al-Aqsa. Il quartiere è stato una zona di attività dei coloni e delle autorità israeliane, dove vengono tuttora effettuati scavi sotto le case dei palestinesi per trovare la perduta Città di Davide.

Negli ultimi 30 anni Elad ha occupato circa 75 case palestinesi. Lo scorso mese l’ambasciatore USA in Israele David Friedman e l’inviato della Casa Bianca per il Medio Oriente Jason Greenblatt hanno partecipato all’inaugurazione di un discusso tunnel sotto Silwan.

Il progetto del tunnel, chiamato dal governo israeliano “Via del pellegrinaggio”, è stato costruito nel corso degli ultimi otto anni con il sostegno di Elad. Passa sotto il quartiere in maggioranza palestinese di Wadi al-Hilweh.

Dal 1995 l’Autorità Israeliana per le Antichità, con l’appoggio della fondazione di coloni “Ir David”, ha scavato siti archeologici a Wadi al-Hilweh, ufficialmente per creare una nuova attrazione turistica e scoprire nella zona prove dell’esistenza della trimillenaria “Città di David”.

Il completamento del progetto della nuova “Città di David”, compreso un viale di stile romano costruito su strade che hanno ospitato generazioni di palestinesi, rafforzerebbe la posizione dei 450 coloni illegali che attualmente vivono a Silwan sotto scorta pesantemente armata, ed emarginerebbe i 10.000 abitanti palestinesi del quartiere.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Come i cristiani evangelici rischiano di incendiare il Medio Oriente

Jonathan Cook

8 luglio 2019 – Middle East Eye

TB Joshua è l’ultimo di una serie di predicatori filo-sionisti che si interessano a Israele – e i palestinesi ne pagheranno le conseguenze

Il recente arrivo del più popolare telepredicatore evangelico africano, TB Joshua, per rivolgersi a migliaia di pellegrini stranieri a Nazareth, ha prodotto un insieme di costernazione e di rabbia nella città dell’infanzia di Gesù.

C’è stata un’opposizione generalizzata da parte di movimenti politici di Nazareth, così come tra i gruppi comunitari e i leader religiosi, che hanno invocato un boicottaggio dei suoi due raduni. Si è aggiunto anche il consiglio dei mufti [autorità religiosa islamica, ndtr.], che ha descritto gli eventi come “una linea rossa per la fede nei valori religiosi.”

I raduni di Joshua, che includono episodi di esorcismo in pubblico, hanno avuto luogo in un anfiteatro all’aria aperta su una collina sopra Nazareth originariamente costruita per i fedeli del papa. Il luogo è stato utilizzato da papa Benedetto nel 2009.

Il pastore nigeriano, che ha milioni di seguaci in tutto il mondo e si autodefinisce un profeta, ha sollevato l’ostilità locale non solo perché il suo modello di cristianesimo si allontana di molto dalle più tradizionali dottrine delle chiese mediorientali. Rappresenta anche una tendenza dei cristiani stranieri, guidati da una lettura apocalittica della Bibbia, che si intromettono ancor più esplicitamente in Israele e nei territori palestinesi occupati – e in un modo che aiuta direttamente le politiche del governo israeliano di estrema destra.

Incremento del turismo di cui c’è molto bisogno

Nazareth è la più grande comunità palestinese in Israele sopravvissuta alla Nakba, o catastrofe, del 1948, che cacciò la maggioranza della popolazione autoctona da gran parte della propria patria e la sostituì con uno Stato ebraico. Oggi un quinto dei cittadini israeliani è palestinese.

La città e le sue immediate vicinanze includono la più alta concentrazione di palestinesi cristiani della regione. Ma ha a lungo patito dell’ostilità delle autorità israeliane, che hanno privato Nazareth di risorse per impedire che diventasse una capitale politica, economica o culturale della minoranza palestinese.

La città praticamente non ha terre su cui espandersi o zone industriali per ampliare le proprie risorse economiche, e Israele ha rigidamente limitato le sue possibilità di sviluppare un’adeguata industria turistica. La maggioranza dei fedeli vi passa brevemente per visitare la basilica dell’Annunciazione, il luogo in cui l’angelo Gabriele avrebbe detto a Maria che avrebbe portato in grembo Gesù.

Le autorità municipali di Nazareth hanno approfittato dell’occasione di sfruttare la pubblicità, e le entrate, fornite dalla visita di Joshua. La speranza a lungo termine del Comune è che, se la città potesse attirare almeno una piccola parte dei più di 60 milioni di cristiani evangelici degli USA e gli altri milioni in Africa ed Europa ciò fornirebbe un’enorme spinta all’economia della città.

Dati recenti mostrano che il turismo evangelico verso Israele è costantemente aumentato, rappresentando ora circa un settimo di tutti i visitatori dall’estero.

Giocare con il fuoco

Ma, come indicano le conseguenze negative della visita di Joshua, Nazareth potrebbe giocare con il fuoco incoraggiando questo tipo di pellegrini a interessarsi maggiormente alla regione. La maggior parte dei cristiani locali comprende che gli insegnamenti di Joshua non sono rivolti a loro – e, di fatto, probabilmente li danneggiano.

Il pastore nigeriano ha scelto Nazareth per diffondere il suo messaggio, ma si è trovato di fronte la viva opposizione di quanti credono che stia utilizzando la città solo come scenario per la sua più grande missione – che appare totalmente indifferente al dramma dei palestinesi, sia di quelli che vivono in Israele in luoghi come Nazareth o di quelli sotto occupazione.

A Nazareth le fazioni politiche hanno sottolineato i “legami di Joshua con circoli di estrema destra e dei coloni in Israele.” Egli avrebbe avuto incontri riguardo al fatto di avviare attività nella Valle del Giordano, il luogo in cui si ritiene che sia stato battezzato Gesù, ma anche la spina dorsale agricola della Cisgiordania. L’area è presa di mira dal governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu per l’espansione delle colonie e la possibile annessione, condannando di conseguenza i tentativi di creare uno Stato palestinese.

Una visione dell’Apocalisse

Durante la sua visita in Israele, Joshua ha anche avuto modo di parlare con figure importanti del governo, come Yariv Levin, uno stretto alleato di Netanyahu, che è stato titolare di due ministeri considerati fondamentali dalla comunità evangelica: quello del turismo e quello dell’integrazione in Israele di nuovi ebrei immigrati dagli USA e dall’Europa.

Nella comunità evangelica molti, compreso Joshua, pensano che sia loro dovere incoraggiare gli ebrei a spostarsi dai loro Paesi d’origine alla Terra Promessa per anticipare la fine del mondo, che sarebbe stata profetizzata dalla Bibbia.

Questa è l’Assunzione in cielo, quando Gesù ritornerà per costruire il suo regno sulla terra e i buoni cristiani prenderanno il loro posto al suo fianco. Tutti gli altri, compresi gli ebrei che non si saranno pentiti, è implicito, bruceranno nel fuoco eterno dell’inferno.

Il dirupo sulla valle di Megiddo, dove Joshua e i suoi discepoli si sono riuniti, offre una veduta su Tel Megiddo, il nome attuale del sito biblico di Armageddon, dove molti evangelici credono avverrà presto la fine del mondo.

Accelerare la seconda venuta

Questi cristiani non sono semplici osservanti di un progetto divino rivelato, sono parte attiva, cercando di avvicinare la fine del mondo.

Difatti i traumi del conflitto israelo-palestinese – i decenni di spargimenti di sangue, colonizzazione ed espulsione violenta dei palestinesi – non possono essere compresi separandoli dall’influenza dei dirigenti cristiani dell’Occidente in Medio Oriente nello scorso secolo. Essi hanno progettato in molti modi l’Israele che oggi conosciamo.

Dopotutto i primi sionisti non furono ebrei, ma cristiani. Un forte movimento cristiano-sionista – noto allora come “restaurazionismo” – sorse all’inizio del XIX° secolo, anticipando e influenzando pesantemente la sua successiva controparte ebraica.

La particolare lettura “restaurazionista” della Bibbia comportava che essi credessero che la seconda venuta del Messia avrebbe potuto essere accelerata se il popolo eletto da dio, gli ebrei, fosse tornato alla Terra Promessa dopo 2.000 anni di presunto esilio.

Charles Taze Russell, un pastore USA della Pennsylvania, viaggiò in tutto il mondo dagli anni ’70 dell’Ottocento in poi implorando gli ebrei di fondare un focolare nazionale per sé stessi in quella che allora era la Palestina. Produsse persino un progetto su come uno Stato ebraico potesse essere creato là. Lo fece circa 20 anni prima che il giornalista ebreo viennese Theodor Herzl pubblicasse il suo famoso libro che delineava uno Stato Ebraico.

Il laico Herzl non si interessava molto di dove questo Stato ebraico sarebbe stato fondato. Ma i suoi seguaci – profondamente consapevoli della presa del sionismo cristiano nelle capitali occidentali – concentrarono la propria attenzione sulla Palestina, la Terra Promessa biblica, nella speranza di conquistarsi potenti alleati in Europa e negli USA.

Parola d’ordine per i seguaci di Herzl

L’appoggio dell’impero britannico era particolarmente prezioso. Nel 1840 Lord Shaftesbury, che grazie a sua moglie era in rapporto con Lord Palmerston, in seguito primo ministro, pubblicò sul “London Times” un’inserzione che sollecitava il ritorno degli ebrei in Palestina.

Il sionismo cristiano fu un importante fattore che influenzò il governo inglese nel 1917 per l’emanazione della Dichiarazione Balfour – di fatto un impegno della Gran Bretagna che divenne la matrice per la creazione di uno Stato ebraico sulle rovine della patria della popolazione autoctona.

Scrivendo a proposito della dichiarazione, lo storico israeliano Tom Segev ha osservato: “Gli uomini che l’hanno prodotta erano cristiani e sionisti e, in molti casi, antisemiti.” Ciò perché i cristiani sionisti partivano dal presupposto che gli ebrei non si potessero integrare nei loro Paesi d’origine. Invece avrebbero potuto servire come strumenti del volere di dio, spostandosi in Medio Oriente in modo che i cristiani potessero essere redenti.

Edwin Montagu fu l’unico ministro del governo britannico ad opporsi alla Dichiarazione Balfour, ed era anche l’unico membro ebreo. Avvertì – per buone ragioni – che il documento si sarebbe “dimostrato un terreno comune per gli antisemiti in ogni Paese al mondo.”

Lotta fino all’Assunzione”

Mentre un secolo fa gli ebrei sionisti guardavano alla potenza imperiale britannica perché li appoggiasse, oggi il loro patrono sono gli USA. I portabandiera del sionismo cristiano hanno goduto di una crescente influenza a Washington a partire dalla guerra dei Sei Giorni del 1967.

Questo processo ha raggiunto il suo apice sotto la presidenza di Donald Trump. Si è circondato di una miscela di estremisti ebrei e cristiani sionisti. Il suo ambasciatore in Israele, David Friedman, e il suo inviato in Medio Oriente, Jason Greenblatt, sono ferventi sostenitori ebrei delle colonie illegali. Ma, a quanto pare, alla Casa Bianca ci sono anche importanti cristiani, come il vice presidente Mike Pence e il segretario di Stato Mike Pompeo.

Prima che entrasse nel governo, Pompeo era stato chiaro riguardo alla sua fede evangelica. Nel 2015 ha detto a una congregazione: “È una lotta senza fine…fino all’Assunzione in cielo. Siatene parte. Partecipate alla lotta.”

Lo scorso marzo ha appoggiato l’idea che Trump possa essere stato mandato da dio per salvare Israele da minacce come l’Iran. “Confido che dio stia lavorando qui,” ha detto alla Rete Televisiva Cristiana [CBN una rete televisiva americana di produzione religiosa evangelica molto conservatrice ndtr].

Nel contempo Pence ha affermato: “La mia passione per Israele sgorga dalla mia fede cristiana…È veramente il più grande privilegio della mia vita essere il vicepresidente di un presidente che si preoccupa così profondamente del nostro più prezioso alleato.”

Il gigante addormentato si risveglia.

Lo scorso anno lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme da parte di Trump, svuotando di significato qualunque accordo negoziato del conflitto israelo-palestinese, era inteso a compiacere la sua base cristiana sionista. Circa l’80% degli evangelici bianchi ha votato per lui nel 2016 ed egli avrà bisogno del loro appoggio di nuovo nel 2020 se spera di essere rieletto.

Non a caso la nuova ambasciata USA a Gerusalemme è stata consacrata da due importanti telepredicatori evangelici, John Hagee e Robert Jeffress, noti per il loro appoggio fanatico a Israele – così come per i loro occasionali accessi antisemiti.

Più di un decennio fa Hagee, fondatore di “Cristiani Uniti per Israele”, disse ai delegati di una conferenza organizzata dall’AIPAC, principale gruppo lobbystico di Israele a Washington: “Il gigante addormentato del sionismo cristiano si è svegliato. Ci sono 50 milioni di cristiani che applaudono in piedi lo Stato di Israele.”

Le attività del gruppo di Hagee includono pressioni sul Congresso per dure leggi a favore di Israele, come la recente legge “Taylor Force” che taglia drasticamente il finanziamento USA all’Autorità Nazionale Palestinese, il governo provvisorio palestinese. Il gruppo è anche attivo nel contribuire a far pressione a favore di leggi a livello statale e federale che penalizzino chiunque boicotti Israele. Per gli evangelici USA e altrove Israele è sempre più una questione fondamentale. Un sondaggio del 2015 mostrava che circa i tre quarti credono che avvenimenti in Israele siano stati profetizzati nel Libro dell’Apocalisse della Bibbia.

Molti si aspettano da Trump che completi una catena di eventi messi in movimento da politici britannici un secolo fa – e in numero sempre maggiore sono direttamente coinvolti nella speranza di accelerare il processo.

Legami più stretti con i coloni

La visione israeliana di una “riunificazione degli esiliati” – incoraggiando gli ebrei di tutto il mondo a spostarsi nella regione in base alla “legge del ritorno” – corrisponde perfettamente alla fede dei cristiani sionisti in un progetto divino per il Medio Oriente.

Anche gli sforzi dei coloni estremisti ebrei di colonizzare la Cisgiordania, la maggior parte di un qualunque futuro Stato palestinese, si accorda con la concezione dei cristiani sionisti della Cisgiordania come il “cuore biblico”, un’area che gli ebrei devono possedere prima che Gesù ritorni.

Per queste ragioni gli evangelici stanno sviluppando rapporti sempre più stretti con gli estremisti religiosi ebrei israeliani, soprattutto nelle colonie. Recenti iniziative hanno incluso programmi di studio della Bibbia, on line e presenziali, condotti da ebrei ortodossi, spesso coloni, destinati specificamente a cristiani evangelici. I seminari sono disegnati per rafforzare la narrazione dei coloni, così come per demonizzare i musulmani e, per estensione, i palestinesi.

Il corso più popolare offerto da “Root Source” [Sorgente Principale], una di queste iniziative, è intitolato “Islam: idee e inganni”. Utilizza il Vecchio e il Nuovo Testamento per sostenere l’argomentazione secondo cui l’Islam “è estremamente pericoloso”.

Pochi mesi fa Haaretz, il principale giornale progressista israeliano, ha pubblicato un’inchiesta sul crescente afflusso di volontari e finanziamenti evangelici nelle colonie illegali in Cisgiordania – il principale ostacolo per raggiungere una soluzione dei due Stati.

Una sola organizzazione USA, “Hayovel”, ha portato più di 1.700 volontari cristiani negli ultimi 10 anni per contribuire a una colonia nei pressi di Nablus, nel cuore della Cisgiordania.

Affluisce denaro degli evangelici

Un crescente numero di iniziative simili è stato agevolato da nuove norme introdotte lo scorso anno dal governo israeliano per finanziare gruppi cristiani sionisti come Hayovel perché promuova all’estero le colonie.

È molto più difficile sapere esattamente quanto denaro degli evangelici affluisca nelle colonie, a causa della mancanza di trasparenza riguardo alle donazioni USA fatte da chiese e istituzioni benefiche. Ma l’inchiesta di Haaretz stima che nell’ultimo decennio siano stati investiti più di 65 milioni di dollari.

Dieci anni fa Ariel, una colonia posta nel pieno centro della Cisgiordania, ha ricevuto da John Hagee Ministries [Sermoni di John Hagee] 8 milioni di dollari per un centro sportivo. Un altro gruppo evangelico, “J. H. Israel”, vi ha speso 2 milioni di dollari per un centro per una leadership nazionale.

Altre associazioni benefiche cristiane che storicamente hanno finanziato progetti in Israele stanno sempre più prendendo in considerazione anche l’assistenza alle colonie.

Se un piano di pace di Trump, che dovrebbe essere reso pubblico alla fine di quest’anno, sostenesse l’annessione di parti della Cisgiordania, come ampiamente previsto, probabilmente scatenerebbe un nuovo e anche maggiore flusso di denaro degli evangelici nelle colonie.

Immune alla ragione

Proprio questo è il problema per i palestinesi, e per il Medio Oriente in generale. I cristiani sionisti si stanno ancora una volta immischiando, che si tratti di funzionari del governo, leader o comunità di una chiesa. L’influenza degli evangelici si può riscontrare dagli USA e il Brasile all’Europa, all’Africa e al Sudest asiatico.

I governi europei generalmente hanno preoccupazioni più concrete e pressanti che realizzare profezie bibliche per giustificare politiche di divide et impera in Medio Oriente. Vogliono soprattutto il controllo sulle risorse petrolifere della regione, e possono garantirsele solo attraverso il potere militare per impedire che Nazioni rivali vi si affermino.

Ma l’acritico sostegno di decine di milioni di cristiani in tutto il mondo, la cui passione per Israele è immune alla ragione, fanno il lavoro per quei governi accettando come niente fosse guerre e furto di risorse.

Sia Israele che l’Occidente hanno tratto beneficio dall’aver creato l’immagine di un impavido Stato ebraico circondato da barbari arabi e musulmani decisi a distruggerlo. In conseguenza di ciò, Israele ha goduto di una sempre crescente integrazione nel blocco delle potenze occidentali, mentre ai governi occidentali sono stati offerti facili pretesti per interferire nella regione, direttamente o delegando questa intromissione a Israele.

La ricompensa per Israele è stata l’appoggio incondizionato da parte degli USA e dell’Europa, mentre opprime ed espelle dalle loro terre i palestinesi.

Con una base evangelica dietro di lui, Trump non ha la necessità di offrire argomenti plausibili prima di agire. Può spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme o approvare l’annessione della Cisgiordania, o attaccare l’Iran.

Schierarsi contro i nemici di Israele

Da questo punto di vista qualunque nemico Israele sostenga di avere – i palestinesi o l’Iran – diventa automaticamente acerrimo nemico di decine di milioni di cristiani evangelici. Netanyahu comprende la crescente importanza di questa acritica lobby straniera, mentre la posizione sua e di Israele precipita tra gli ebrei USA progressisti, inorriditi dalla deriva verso destra dei governi che vi si susseguono.

Nel 2017 Netanyahu ha detto a una folla di evangelici a Washington: “Quando dico che non abbiamo migliori amici dei sostenitori cristiani di Israele, so che siete sempre stati con noi.” Per i palestinesi questa è una brutta notizia. La maggior parte di questi evangelici, come T.B. Joshua, sono in larga misura indifferenti o ostili al destino dei palestinesi – anche dei palestinesi cristiani, come quelli di Nazareth.

Un recente editoriale di Haaretz ha evidenziato che Netanyahu e i suoi politici stanno ora “adoperandosi per rendere gli evangelici – che appoggiano il rifiuto radicale di Israele riguardo ai palestinesi – l’unica base dell’appoggio americano per Israele.”

La verità è che questi cristiani sionisti vedono la regione attraverso un unico, esclusivo prisma: qualsiasi cosa contribuisca all’imminente arrivo del messia è ben accetta. L’unico problema è tra quanto tempo il “popolo eletto” da dio si riunirà nella Terra Promessa.

Se i palestinesi ostacolano Israele, queste decine di milioni di cristiani stranieri saranno assolutamente contenti di vedere la popolazione autoctona di nuovo cacciata – come lo è stata nel 1948 e nel 1967.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jonathan Cook

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. È l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ “accordo del secolo” di Jared Kushner è stato ideato per fallire fin dall’inizio

Bill Law

6 giugno 2019 – Middle East Eye

Al di là delle critiche, Kushner sta giocando un’importante partita sulla questione israelo-palestinese

Il genero del presidente USA Donald Trump e negoziatore per il Medio Oriente, Jared Kushner, non rilascia molte interviste – perciò quando lo fa, gli organi di informazione non sono solo attenti, ma ci si buttano a capofitto. E alcuni settori dei media statunitensi lo hanno fatto, dopo l’intervista a Kushner di Axios della [emittente televisiva americana via cavo, ndr.] HBO del 2 giugno.

Slate’ [rivista americana in rete, ndtr.] ha pubblicato un articolo dal titolo: “Le più imbarazzanti risposte dell’intervista di Jared Kushner ad Axios”. ‘Vanity Fair’ ha commentato: “In un’intervista comicamente disastrosa, il ‘primo genero’ ha imbastito risposte su nazionalismo, rifugiati, Arabia Saudita e sul suo piano di pace per il Medio Oriente.” La CNN è stata più gentile, optando per una disamina selettiva punto per punto delle “29 righe più assurde” dell’intervista.

L’ipotesi di queste ed altre apprezzate pubblicazioni nell’establishment dei media progressisti, che a Trump piace odiare, è che Kushner è al massimo un perfetto idiota, che si aggira beatamente in un paesaggio complicato senza avere idea dei pericoli in agguato – che è un ragazzino ricco e privilegiato con una storia fatta di automobili e di affari immobiliari ed una moglie che è la figlia preferita del presidente, e che è troppo complicato per lui.

Vincere perdendo

Queste convinzioni sono errate. Fin dal momento in cui a Kushner è stato assegnato l’incarico sul Medio Oriente, ha giocato una partita subdola, e quindi molto efficace, a favore sia del movimento dei coloni in Cisgiordania che dell’amico di famiglia Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano.

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Kushner, la cui fondazione di famiglia ha finanziato generosamente i progetti dei coloni, ha costruito un’attenta strategia atta a vincere perdendo.

L’ “accordo” non è mai stato pensato perché funzionasse.

Piuttosto, il suo modus operandi consiste nel costringere i palestinesi in un angolo da cui non c’è via di fuga e in cui l’unica risposta all’accordo di pace è “no”.

Kushner ha imparato questo trucco nel periodo in cui pare abbia acquistato proprietà con affitto bloccato, scacciando gli inquilini, ristrutturando gli appartamenti e poi rimettendoli sul mercato come proprietà di lusso.

É un gioco al massacro: una combinazione di cancellazione di servizi e di offerta di qualche compensazione finanziaria, ben impacchettata all’interno di minacce velate e non tanto velate, sulla linea di “accettate questo o le cose andranno solo peggio”. Kushner ha accuratamente applicato all’ “accordo del secolo” in Medio Oriente le lezioni apprese a Manhattan.

Ha colto la sua opportunità quando Trump ha sorpreso il mondo vincendo le presidenziali del novembre 2016. Nel dicembre di quell’anno Trump ha annunciato che l’avvocato fallimentarista David Friedman veniva nominato ambasciatore USA in Israele.

Nel marzo 2017 Friedman, che ha alle spalle una lunga storia di sostegno all’illegale movimento dei coloni in Cisgiordania, è stato debitamente confermato dal Senato. A Kushner è stato affidato il portafoglio del Medio Oriente, mentre un altro avvocato di Trump e strenuo difensore dei coloni, Jason Greenblatt, lo ha affiancato in qualità di inviato.

Uccidere la soluzione di due Stati

Kushner ha convinto il presidente che il suo primo viaggio oltreoceano avrebbe dovuto essere in Arabia Saudita nel maggio 2017. In quel momento Kushner aveva già instaurato uno stretto rapporto di lavoro con il vice principe ereditario Mohammed Bin Salman, che in seguito è diventato il principe ereditario. Un elemento centrale della strategia di Kushner è stato allontanare i sauditi dall’iniziativa araba di pace proposta nel 2002 dall’ex re saudita Abdullah, che all’epoca era principe ereditario.

Il piano di Abdullah includeva il riconoscimento di un credibile Stato palestinese a fianco di Israele. Quando l’ Arabia Saudita ed altri Stati del Golfo, in particolare gli Emirati Arabi Uniti, si sono avvicinati ad Israele, Kushner sembrava, almeno in privato, essere riuscito a distruggere la soluzione di due Stati di Abdullah.

Nel dicembre 2017 il presidente ha annunciato che l’ambasciata USA sarebbe stata spostata a Gerusalemme. Gli esperti erano sconcertati e Trump è stato attaccato perché concedeva qualcosa senza ottenere niente in cambio. Ma Kushner non mirava a nulla: voleva semplicemente fare una dichiarazione forte di fronte ai palestinesi. Lo ha fatto e gli USA l’hanno spuntata: il 14 maggio 2018, nel settantesimo anniversario della fondazione di Israele, l’ambasciata è stata aperta a Gerusalemme, mentre a circa 90 chilometri di distanza i palestinesi venivano abbattuti a fucilate sul confine di Gaza.

In quel momento il presidente ha annunciato che gli USA stavano abbandonando la soluzione dei due Stati. Mettendo sale sulla ferita, Washington ha tagliato più della metà del previsto finanziamento (65 milioni di dollari dei 125 milioni di aiuti complessivi) all’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi che assiste oltre cinque milioni di rifugiati registrati. Lentamente ed inesorabilmente stava avvenendo un giro di vite.

Cadono colpi di maglio

Ad agosto 2018 gli USA hanno tagliato più di 200 milioni di dollari di aiuti economici, e poi hanno proseguito cancellando il resto dei finanziamenti all’UNRWA. A settembre è stato chiuso uno dei pochi programmi di aiuti rimasti, 25 milioni di dollari per i palestinesi negli ospedali di Gerusalemme est. Poi è stato chiuso l’ufficio di Washington dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il contatto diplomatico formale con i palestinesi.

Mentre i colpi di maglio continuavano a cadere, i governi occidentali non hanno detto niente. Kushner ha capito, al di là di ogni dubbio, che stava vincendo.

La mossa successiva sono state le Alture del Golan, annesse da Israele con il pieno appoggio ed approvazione dell’amministrazione Trump a marzo. La vittoria di Netanyahu nelle elezioni israeliane di aprile doveva essere la ciliegina sulla torta per poi procedere con l’annessione delle colonie della Cisgiordania nel grande Israele.

Purtroppo per Netanyahu e Kushner, è intervenuto il destino, sotto forma di Avigdor Lieberman. L’ex Ministro della Difesa e acerrimo rivale di Netanyahu ha rifiutato di entrare nella coalizione, mandando tutto all’aria e costringendo a nuove elezioni a settembre.

Trump non è stato contento. Il suo piano, che guardava al 2020 e alla speranza della rielezione, era di lasciare la sua impronta avvantaggiando Israele e mettendo i palestinesi al loro posto. “Israele è proprio messo male con le elezioni”, ha detto. “Bibi (Netanyahu) è stato eletto, adesso all’improvviso dovranno passare di nuovo per un processo elettorale, fino a settembre? É ridicolo. Perciò noi non siamo contenti di questo.”

Incrollabile fiducia

Intanto gli Stati arabi del Golfo hanno frenato l’entusiasmo per l’accordo di Kushner. Il padre di Bin Salman, il re Salman, ha criticato il sostegno di suo figlio a Israele, riabilitando pubblicamente la soluzione di due Stati. L’accordo che non doveva essere un accordo si sta allontanando e Kushner sta per vedere il suo lavoro completamente cancellato.

Kushner non ha una buona faccia da poker. La sua arroganza e la certezza di essere vincente trapelano in ogni cosa dica e faccia. Ma i suoi critici sbagliano a sottovalutarlo.

Kushner finora ha giocato una significativa partita. La sua fiducia di vincere a favore del movimento dei coloni e di un Israele più grande, di Netanyahu o di chiunque gli succederà, e di suo suocero il presidente, resta assolutamente incrollabile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Bill Law

Bill Law è un giornalista vincitore del premio Sony. É entrato alla BBC nel 1995 e dal 2002 è stato corrispondente dal Medio Oriente. Si è recato molte volte in Arabia Saudita. Nel 2003 è stato uno dei primi giornalisti a informare sull’inizio della rivolta che ha travolto l’Iraq. Il suo documentario ‘Il Golfo: armato e pericoloso’, che è stato trasmesso alla fine del 2010, ha anticipato le rivoluzioni che sono diventate la Primavera Araba. In seguito ha lavorato sulle rivolte in Egitto, Libia e Bahrein. É stato anche corrispondente dall’Afghanistan e dal Pakistan. Prima di lasciare la BBC nel 2014, Law è stato il suo analista esperto del Golfo. Adesso lavora come giornalista indipendente che si occupa del Golfo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Un video mostra che i coloni israeliani hanno provocato gli incendi in Cisgiordania, contraddicendo le dichiarazioni dell’esercito

24 maggio 2019 – Middle East Monitor

L’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha reso pubblico un video che mostra i coloni israeliani illegali mentre incendiano i campi nella Cisgiordania occupata, contraddicendo le affermazioni dell’esercito israeliano secondo cui l’incendio sarebbe stato appiccato dai palestinesi.

Ieri l’unità del portavoce dell’esercito israeliano si è vista obbligata a cambiare le proprie dichiarazioni ufficiali in cui affermava di aver estinto “un incendio provocato dai palestinesi”.

Gli incendi sono iniziati venerdì scorso nei pressi dei villaggi della Cisgiordania occupata di Burin, Urif e Asira Al-Qibliya, tutti situati nei pressi della Strada 60 a sud di Nablus. I coloni illegali israeliani della vicina colonia di Itzhar avevano aggredito i palestinesi di questi villaggi ed entrambi si sono accusati a vicenda di aver provocato gli incendi che ne sono seguiti.

Il “Times of Israel” [giornale indipendente israeliano, ndtr.] ha informato che, contraddicendo le affermazioni dell’esercito israeliano in merito alle responsabilità palestinesi, le immagini del video reso pubblico da B’Tselem mostrano “due (coloni israeliani), uno dei quali armato di un fucile d’assalto Tavor, mentre entrano nei campi, chinati e mentre si allontanavano. Dopo poco tempo si possono vedere le fiamme nella zona dove si erano trovati.”

B’Tselem ha aggiunto che “i soldati (israeliani) che stavano vicino (ai coloni) non li hanno arrestati e hanno impedito che i palestinesi arrivassero alle loro terre in fiamme.” In un altro video si possono anche vedere i coloni mentre lanciano pietre contro le case vicine dei palestinesi, mentre quattro soldati israeliani fanno finta di niente.

B’Tselem ha evidenziato che l’esercito israeliano ha garantito “immunità quasi totale” ai coloni coinvolti negli attacchi ed ha segnalato che nessuno è stato interrogato o arrestato dopo l’incidente. Benché l’esercito israeliano abbia emesso oggi una nuova dichiarazione dicendo che “si sono sviluppati parecchi incendi e si sono estesi molto rapidamente” e che “oltre agli incendi, circa 20 coloni sono scesi nei dintorni di Asirah Al-Qibliyah ed hanno iniziato a lanciare pietre,” non ammette di aver tentato di coprire gli attacchi dei coloni. L’esercito israeliano si è anche rifiutato di commentare la ragione per cui nessun colono sia stato arrestato per aver provocato l’incendio.

Non è la prima volta che si scopre che l’esercito israeliano ha nascosto gli attacchi dei coloni contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata.

Lo scorso mese B’Tselem ha scoperto che l’esercito ha nascosto l’assassinio di Mohammed Abd Al-Fatah, di 23 anni, che è stato colpito il 3 aprile da coloni illegali nei pressi [del villaggio] di Huwara, anche questo situato sulla Strada 60. Benché sul momento le informazioni dei media abbiano affermato che un “potenziale aggressore palestinese è stato ucciso con colpi di arma da fuoco (…) durante un tentativo di attacco all’arma bianca nei pressi di Huwara”, l’inchiesta di B’Tselem ha rivelato che, di fatto, Abd Al-Fatah è stato assassinato da breve distanza da coloni israeliani armati.

B’Tselem ha raccontato nei dettagli come alle 8,30 ora locale (alle 6,30 ora del meridiano di Greenwich) Abd Al-Fatah “abbia iniziato a lanciare verso automobili con targa israeliana” pietre, una delle quali ha colpito la macchina di un colono israeliano. Il guidatore si è fermato, “e allora si sono sentiti due spari, a quanto pare esplosi da dentro l’auto”. Poi il colono è uscito dalla macchina ed “ha sparato molte altre volte” contro Abd Al-Fatah, con l’aiuto di un camionista che aveva assistito al fatto ed era arrivato per “aiutarlo”.

Pur essendo stato portato in ospedale, Abd Al-Fatah è in seguito deceduto a causa delle ferite ricevute, lasciando la moglie e una figlia piccola.

Tuttavia B’Tselem ha trovato prove che in seguito l’esercito israeliano ha coperto questa serie di avvenimenti:

Qualche minuto dopo che i due coloni hanno aperto il fuoco sul posto sono arrivate le jeep militari israeliane. (…) Otto soldati sono (allora) entrati in due negozi lì vicino per controllare le loro telecamere di sorveglianza. In uno dei negozi hanno smontato un DVR (sistema di registrazione) e se ne sono andati. Circa venti minuti dopo i soldati sono tornati al negozio, hanno risistemato il DVR ed hanno visto le immagini. Due soldati hanno ripreso lo schermo con i loro telefonini. Poi hanno cancellato le immagini del DVR e se ne sono andati.”

La Ong conclude: “Contrariamente a quanto affermato dai media, (gli) spari contro Abd Al-Fatah sono stati ingiustificati (…) Le forze di sicurezza israeliane che sono arrivate sul posto hanno ignorato questi avvenimenti. Non hanno fatto niente per arrestare i due coloni, hanno cacciato rapidamente i palestinesi dalla scena del delitto e poi si sono dedicati al compito urgente di eliminare qualunque ripresa dell’incidente per essere sicuri che non si venisse a sapere la verità e che gli assassini non dovessero essere in alcun modo incriminati o fossero ritenuti responsabili.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Dal 2009 Netanyahu ha costruito nelle colonie in Cisgiordania 19.346 unità abitative

14 maggio 2019 – Ma’an News

Il rapporto di Peace Now [organizzazione pacifista israeliana, ndtr.] riguardo alla costruzione nella Cisgiordania occupata afferma che nel 2018 è iniziata la costruzione di circa 2.100 nuove unità abitative, il 9% in più della media annuale dal 2009 (1.935 unità per anno) e che circa il 73% (1.539) delle nuove costruzioni è avvenuto in colonie a est del confine proposto dall’Iniziativa di Ginevra [bozza di accordo di pace stilata nel 2003 da politici israeliani e palestinesi, che però non venne accolta, ndtr.], cioè colonie che probabilmente sarebbero evacuate in un accordo a due Stati.

Nel contempo il rapporto mostra che almeno dieci strutture sono state costruite su terreni privati palestinesi di circa 10 dunam [1 ettaro, ndtr], e almeno 37 dunam [3,7 ettari, ndtr] supplementari di terreni privati sono stati espropriati per costruirvi un parco, una strada e mucchi di detriti abbandonati in conseguenza della costruzione di infrastrutture di colonie.

Riguardo all’Avanzamento di Piani e Gare d’Appalto del 2018 (gennaio-dicembre), Peace Now sostiene che 5.618 unità abitative sono state promosse attraverso progetti in 79 colonie e quasi l’83% (4.672 unità abitative) delle unità previste si trova a est della frontiera proposta dall’Iniziativa di Ginevra.

Sono stati pubblicati bandi di appalto per 3.808 unità abitative, un numero record da almeno due decenni. Inoltre nel 2018 sono stati pubblicati anche bandi di appalto per 603 unità a Gerusalemme est,” sottolinea il rapporto.

Secondo i calcoli di Peace Now, durante il decennio di Benjamin Netanyahu come primo ministro israeliano (2009-2018), si è iniziata la costruzione di 19.346 nuove unità abitative in colonie illegali.

Circa il 70% (13.608 unità abitative) delle nuove costruzioni è avvenuto in colonie a est della frontiera proposta dall’Iniziativa di Ginevra. Ciò si è tradotto in un incremento di oltre 60.000 coloni nelle colonie israeliane illegali.

Peace Now presenta anche dati pubblicati dall’Ufficio Centrale di Statistica israeliano su costruzioni in Israele e nelle colonie durante i dieci anni di Netanyahu al potere, che indicano che 18.502 unità abitative sono state costruite nelle colonie e dalla fine del 2008 fino alla fine del 2017 120.518 coloni si sono aggiunti agli insediamenti.

Il rapporto evidenzia gli investimenti governativi israeliani nell’ultimo decennio, in cui i vari ministeri hanno trasferito più di 10 miliardi di shekel (circa 2,48 miliardi di euro) come bilancio extra per le colonie. Nel 2016 la cifra trasferita alle colonie è stata di 1,189 miliardi di shekel [295 milioni di euro]. Nell’anno seguente, la somma è stata di 1.650 miliardi di shekel [408 milioni di euro, ndtr.] e nella prima metà del 2018 la cifra è stata di 697 milioni di shekel [170 milioni di euro, ndtr.].

Peace Now conclude il suo rapporto concentrandosi sulla costruzione su terreni privati palestinesi, affermando che, a causa di petizioni di Peace Now e di altre organizzazioni contro la costruzione nelle colonie su terreni privati palestinesi, nell’ultimo decennio c’è stata una drastica riduzione di questa attività edilizia. Nel 2018 su terreni privati sono stati costruiti 10 edifici.

Inoltre nella colonia di Naaleh sono stati costruiti su terreni privati campi da gioco e parchi, è stata tracciata una strada nella colonia ricollocata di Migron e in varie colonie continua il fenomeno di scarico su terreni privati di mucchi di detriti risultanti dalla costruzione di colonie. In questo modo sono stati portati via a proprietari palestinesi almeno 37 dunam [3,7 ettari] di terra privata palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La pulizia etnica di Israele in Palestina non è storia – continua ad avvenire

Ben White

22 Maggio 2019 – Middle East Eye

Ciò che avviene in Cisgiordania e a Gerusalemme est non è solo un’occupazione militare.

Le congetture riguardo al “piano di pace per il Medio Oriente” della Casa Bianca continuano a dominare le informazioni sui media israeliani e dei palestinesi; l’ultimo esempio è dato dall’annuncio di un “workshop” a giugno ospitato dal Bahrein per incoraggiare gli investimenti nell’economia palestinese.

Tuttavia, con l’eccezione della Striscia di Gaza – e solo parzialmente e in modo selettivo – viene posta una minima attenzione agli sviluppi sul terreno nei territori palestinesi occupati.

In Cisgiordania e Gerusalemme est il paradigma dell’occupazione militare è insufficiente da solo per comprendere che cosa stia accadendo –vale a dire, una pulizia etnica.

Che cos’è una pulizia etnica?

La recente Giornata della Nakba ha portato – almeno in alcuni ambiti – ad una riflessione sulle espulsioni di massa e sulle atrocità che hanno accompagnato la fondazione dello Stato di Israele. Ma la pulizia etnica non è un evento storico in Palestina: sta succedendo adesso.

In un saggio del 1994 sulla definizione di pulizia etnica, il giurista Drazen Petrovic ha evidenziato “l’esistenza di una sofisticata politica che sottende a singoli eventi”, eventi, o prassi, che possono comprendere diverse “misure amministrative”, come anche violenze sul territorio da parte di attori statali e non statali.

Lo scopo, ha scritto Petrovic, potrebbe essere definito come “una modificazione irreversibile della struttura demografica” di una particolare area, e “il conseguimento di una posizione più favorevole per uno specifico gruppo etnico risultante da negoziati politici basati sulla logica della divisione lungo linee etniche.”

Questa è una corretta descrizione di ciò che sta avvenendo oggi in tutti i territori palestinesi occupati per mano delle forze dello Stato israeliano e dei coloni israeliani.

In parecchie località lo Stato e i coloni stanno lavorando congiuntamente per modificare forzatamente – attraverso “misure amministrative” e violenze – la composizione demografica locale.

Prendete la Valle del Giordano, lungo il lato orientale della Cisgiordania, dove le famiglie palestinesi sono costantemente e ripetutamente evacuate con la forza dalle loro case, a volte per giorni, dalle forze di occupazione israeliane, per esercitazioni di addestramento militare.

Secondo un reportage di Haaretz, gli abitanti di Humsa – per fare un esempio – sono stati evacuati con la forza dalle loro case decine di volte negli ultimi anni. “Anche se ogni volta ritornano”, sottolinea l’articolo, “alcuni di loro sono esausti ed abbandonano le loro case per sempre.”

Non sono incidenti isolati

Nell’aprile 2014 un colonnello israeliano ha detto in una riunione della commissione parlamentare che nelle zone della Valle del Giordano “dove abbiamo significativamente ridotto la quantità di addestramenti, sono cresciute le erbacce” –intendendo indicare con questo termine le comunità palestinesi. “È qualcosa che dovrebbe essere presa in considerazione”, ha detto.

Recentemente un abitante di Khirbet Humsa al-Fawqa – una piccola comunità nel nord della Valle del Giordano – ha detto a Middle East Eye: “Non so se stanno realmente svolgendo un’esercitazione militare. A volte ci fanno evacuare e non fanno niente. Il loro scopo è costringerci a lasciare la zona definitivamente.”

Intanto l’Ong israeliana per i diritti umani B’Tselem all’inizio del mese ha riferito di un “aumento della frequenza e della gravità degli attacchi da parte dei coloni” contro i palestinesi nella Valle del Giordano.

I coloni “minacciano I pastori, li cacciano, li aggrediscono fisicamente, guidano a tutta velocità in mezzo alle greggi per spaventare le pecore e addirittura le travolgono o le rubano”, ha dichiarato B’Tselem, aggiungendo che “i soldati sono di solito presenti durante questi attacchi e a volte vi prendono anche parte.”

B’Tselem ha detto che questi attacchi “non sono incidenti isolati, ma piuttosto parte della politica che Israele applica nella Valle del Giordano.”

Lo scopo è “impadronirsi di più terra possibile, spingendo i palestinesi ad andarsene, scopo raggiunto con varie misure, incluso rendere la vita in quei luoghi così insostenibile e sconfortante che i palestinesi non abbiano altra scelta che lasciare le proprie case, apparentemente ‘per scelta’”.

Questa situazione, sintetizza la Ong, “è fatta di attacchi coordinati di soldati e coloni”, e anche di “un divieto assoluto di sviluppare le comunità palestinesi con la costruzione e l’edificazione di infrastrutture vitali, incluse acqua, elettricità e strade.”

Le comunità palestinesi nella Valle del Giordano sono solo alcune di quelle minacciate dalla politica israeliana di pulizia etnica. Si possono trovare altri esempi nei quartieri palestinesi di Gerusalemme est occupata, come Sheikh Jarrah e Silwan.

Fatti sul terreno

Il 3 maggio Jamie McGoldrick, coordinatore umanitario dell’ONU in Palestina, ha avvertito che le demolizioni a Gerusalemme est da parte delle autorità israeliane “sono aumentate a una velocità impressionante”, con 111 strutture di proprietà palestinese distrutte a Gerusalemme est nei primi quattro mesi del 2019.

In queste comunità palestinesi lo Stato israeliano, la magistratura e le organizzazioni dei coloni fanno sforzi congiunti per espellere – e rimpiazzare – le famiglie palestinesi.

Lo scorso novembre la Corte Suprema israeliana “ha aperto la strada al gruppo di coloni Ateret Cohanim [che intende creare una maggioranza ebraica nei quartieri arabi di Gerusalemme, ndtr.] per proseguire i procedimenti legali per espellere almeno 700 palestinesi che vivono nella zona di Batn al- Hawa” di Silwan. La Ong Ir Amim [associazione israeliana che difende i diritti di tutti gli abitanti di Gerusalemme, ndtr.] afferma che le espulsioni sono fondamentali per “una rapida diffusione di nuovi fatti sul terreno”.

In base a qualunque ragionevole definizione del termine, qui Israele sta portando avanti la pulizia etnica: l’uso di misure amministrative e della violenza da parte di forze statali e di coloni per cacciare i palestinesi dalle loro terre ed infine produrre una trasformazione demografica irreversibile di diverse località.

Così, il governo israeliano – da tempo abituato all’assenza di una chiamata alla responsabilità a livello internazionale per queste prassi – sarà solo molto felice non solo dei contenuti del “piano di pace” USA, ma anche dall’opportuna distrazione che esso fornisce riguardo alla terribile realtà che sta dietro ad ancor più numerosi “fatti sul terreno.”

Ben White

Ben White è l’autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Scrive per Middle East Monitor e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian e altri.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La Germania ha votato per definire antisemita il BDS

Middle East Monitor

17 maggio 2019

Oggi la Germania ha votato per definire antisemita il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), diventando il primo importante parlamento europeo a farlo.

Questo pomeriggio il parlamento tedesco – noto come Bundestag – ha votato per accettare una mozione che definisce antisemita il BDS. Questa mozione, “Resistere al movimento BDS – lottare contro l’antisemitismo”, è stata promossa dai due maggiori partiti del Bundestag – l’Unione Cristiano Democratica della cancelliera Angela Merkel e il Partito Socialdemocratico – così come dal Partito Verde e dal Partito Liberal-Democratico.

Il testo della mozione afferma che “il Bundestag tedesco è risoluto nel suo impegno a condannare e combattere l’antisemitismo in tutte le sue forme,” sottolineando che si opporrà “a chiunque diffami le persone per la loro identità ebraica (…) [e] metta in discussione il diritto dello Stato ebraico e democratico di Israele ad esistere o il diritto di Israele a difendersi.”

In particolare, sul movimento BDS la mozione sostiene che “gli argomenti, le caratteristiche e i metodi del movimento BDS sono antisemiti.” Come prova di ciò la mozione sostiene che gli adesivi “non comprare” del BDS – che intendono identificare prodotti di origine israeliana in modo che i consumatori possano evitare di comprarli – “risvegliano reminiscenze dello slogan nazista “non comprare dagli ebrei” e “ricordano il periodo più orribile della storia tedesca.”

Benché la mozione non sia vincolante, la sua importanza sia all’interno della Germania che in tutta Europa sarà probabilmente notevole.

In termini concreti, il giornale tedesco “Algemeiner” [giornale tedesco filoisraeliano on line, ndtr.] spiega che l’odierna approvazione della mozione “impedirà a ‘organizzazioni che si esprimono in termini antisemiti o mettono in dubbio il diritto all’esistenza di Israele’ l’uso di ‘locali e strutture che dipendono dall’amministrazione del Bunderstag’”. Imporrà anche al Bundestag di “non finanziare organizzazioni che non rispettino il diritto di Israele ad esistere.”

A livello europeo la mozione potrebbe rappresentare un precedente perché altri parlamenti definiscano antisemita il BDS. Negli scorsi anni parecchi Paesi europei hanno cercato di reprimere il movimento, in particolare la Spagna che, su richiesta di Israele, ha trascinato in tribunale una serie di consigli comunali perché avevano annunciato che avrebbero appoggiato un boicottaggio.

L’iniziativa potrebbe anche aprire la strada al fatto che altri gruppi vengano etichettati come antisemiti per le loro critiche contro Israele. Sostenendo che “lo Stato di Israele può anche essere inteso come una collettività ebraica,” l’approvazione della mozione restringerà ulteriormente lo spazio di critica al governo israeliano e alle sue politiche confondendolo con la retorica antisemita.

Oggi il Bundestag ha anche votato su altre due risoluzioni contro il BDS: la prima che è stata presentata dal [partito di] estrema destra “Alternativa per la Germania” (AfD), in cui si chiede che il governo tedesco metta fuorilegge il BDS nel suo complesso, mentre la seconda, proposta dal partito di sinistra “Die Linke” [La Sinistra], chiede al governo di condannare “l’antisemitismo all’interno del” movimento BDS.

Quella dell’AfD [Alternative fur Deutchland, ndtr.], chiede che il governo tedesco “proibisca” il BDS e “riconosca l’ingiustizia commessa contro i coloni ebrei in Palestina dall’appello arabo per il boicottaggio, in cooperazione e coordinamento con il regime nazista.”

Denuncia la distinzione tra Israele e le sue colonie illegali, compresa l’etichettatura da parte dell’Unione Europea (UE) dei prodotti israeliani delle colonie in Cisgiordania. Sostiene che, con l’etichettatura dei prodotti come tali, l’UE ha creato un “riconoscimento economico di fatto” di uno Stato palestinese indipendente “senza che questo sia stato in alcun modo legittimato.”

Al momento della stesura di questo articolo il risultato del voto sulla risoluzione proposta dall’AfD non è ancora stato reso noto [non è stata approvata, ndtr.]. La mozione della Linke, comunque, è stata respinta.

La Germania ha condotto a lungo una campagna contro il BDS. “Algemeiner” ha informato che, lo scorso mese, membri del Bundestag hanno chiesto che “la banca tedesca GLS – la banca di investimenti etici più antica del Paese – chiuda i conti di un gruppo a favore del BDS che si chiama ‘Voce Ebraica’”.

In marzo tre attivisti BDS sono stati processati per accuse inventate di violazione di domicilio e aggressione dopo che avevano protestato contro la politica israeliana Aliza Lavie [del partito di centro Yesh Atid, ndtr.], che nel 2017 aveva parlato all’università Humboldt di Berlino. Gli Humboldt3, come sono stati definiti – l’attivista palestinese Majid Abusalama e gli attivisti israeliani Ronnie Barkan e Stavit Sinai – hanno affermato che “lanciare accuse penali contro attivisti è una pratica comune e costante in Germania.”

Hanno aggiunto: “Tuttavia noi siamo determinati a utilizzare il nostro relativo privilegio per capovolgere la situazione e denunciare Israele in tribunale. Non ci preoccupiamo delle conseguenze per noi, ma dell’opportunità di sfidare Israele e la complicità della Germania in crimini contro l’umanità.”

La maggior parte di questa repressione avviene su richiesta di Israele, con cui la Germania ha storicamente mantenuto stretti rapporti. A ottobre il ministro israeliano per Gerusalemme, Ze’ev Elkin, ha partecipato a una conferenza nella capitale belga Bruxelles nel tentativo di convincere i partiti politici europei a definire antisemita il BDS. L’iniziativa è stata vista come un’escalation della guerra di Israele contro il BDS, per cui avrebbe stanziato un fondo di guerra di 72 milioni di dollari e che ha visto numerose campagne di calunnia lanciate contro attivisti affiliati al movimento.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Nakba nella Valle del Giordano: le esercitazioni dell’esercito israeliano gettano il caos tra i palestinesi

Shatha Hammad da Khirbet Humsa al-Fawqa, Cisgiordania occupata

15 maggio 2019 – Middle East Eye

Cacciati dalle loro case perché Israele testa le proprie armi, la commemorazione di quest’anno degli avvenimenti del 1948 vede nuove espulsioni.

A Khirbet Humsa al-Fawqa, sul pavimento di una tenda abitata giacciono giocattoli sparpagliati. Per i bambini del villaggio i giochi sono finiti quando l’esercito israeliano ha dichiarato l’area zona militare proibita e nelle prime ore di domenica ha obbligato la comunità palestinese ad andarsene dalle proprie abitazioni.

In seguito a un ordine di espulsione di quattro giorni prima, ai 98 abitanti è stato vietato l’accesso alle loro abitazioni per tre giorni. L’esercito li ha informati che tra maggio e giugno verranno cacciati 12 volte per tre giorni ciascuna.

Ai palestinesi è stato detto che le abitazioni sarebbero state nel raggio di gittata dei proiettili dei carri armati poiché l’esercito israeliano utilizza l’area per effettuare esercitazioni militari.

La mattina dell’espulsione Mohammed Sulaiman Abu Qabbash, padre di cinque figli, li ha accompagnati in una vicina comunità ed è corso indietro nel tentativo di proteggere le tende e le pecore. Il trentacinquenne è andato avanti e indietro controllando ansiosamente la zona. Ha aspettato che i soldati israeliani arrivassero e lo buttassero fuori.

Nei prossimi tre giorni dormiremo all’aperto. Non abbiamo alternative, non possiamo opporci a una potenza simile,” ha detto Mohammed a Middle East Eye.

Se la comunità rifiuta di andarsene quando gli viene ordinato rischia l’espulsione con la forza, l’esproprio delle greggi e una multa retroattiva.

In base alle leggi internazionali cacciare dalle proprie case gli abitanti di un territorio occupato è considerato trasferimento forzato di persone protette, il che costituisce un crimine di guerra. Ma gli abitanti delle comunità palestinesi nella Valle del Giordano conoscono bene tali devastanti politiche israeliane.

La valle, una striscia di terra fertile che corre a ovest lungo il fiume Giordano, è abitata da circa 65.000 palestinesi.

Dal 1967, quando l’esercito israeliano ha occupato la Cisgiordania, Israele ha trasferito almeno 11.000 suoi cittadini ebrei nella Valle del Giordano. Alcune delle colonie in cui vivono sono state interamente costruite su terre palestinesi di proprietà privata.

Da quando è iniziata l’occupazione, circa il 46% della Valle del Giordano è stata dichiarata dall’esercito israeliano zona militare proibita.

Circa 6.200 palestinesi risiedono in 38 comunità in luoghi destinati a usi militari e devono ottenere un permesso delle autorità israeliane per entrare e vivere nelle loro comunità.

In violazione del diritto internazionale l’esercito israeliano non solo scaccia regolarmente in modo temporaneo le comunità, ma a volte demolisce anche case e infrastrutture.

Oltre a subire espulsioni temporanee, le famiglie palestinesi che vi vivono devono affrontare una miriade di limitazioni nell’accesso a risorse e servizi. Nel contempo la confisca di terre da parte di Israele ha espropriato risorse naturali a favore dei coloni.

Vivere la Nakba

Il digiuno durante l’espulsione e le temperature che hanno raggiunto i 40° hanno raddoppiato le difficoltà di questo Ramadan, dice Khadija Abu Qabbash mentre si prepara ad andarsene. La donna incinta, madre di cinque figli, la mattina ha lavato a mano una pila di vestiti. La sua figlia di 15 anni, Deema, l’ha aiutata a stendere in gran fretta i panni ad asciugare prima che arrivassero i soldati israeliani.

Questa mattina abbiamo accompagnato fuori i bambini ed ora la macchina è tornata a prenderci,” dice a MEE mentre piange. “Non potrò cucinare niente per iftar [pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadan, ndtr.]. Ci dovremo accontentare di cibo in scatola.”

Le forze israeliane espellono regolarmente le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa. Tuttavia in genere le espulsioni avvengono durante il giorno, mentre agli abitanti è consentito tornare alla sera.

Non so se stanno effettivamente facendo esercitazioni militari. A volte ci cacciano e non fanno niente. Intendono obbligarci ad andarcene per sempre,” dice Khadija.

Le attività di Israele nella Valle del Giordano sono state ben documentate da gruppi per i diritti umani e da Ong locali, che affermano che l’obiettivo di queste misure è cacciare i palestinesi e soffocare il loro sviluppo nella zona.

Essendo assolutamente strategica, i politici israeliani, anche prima delle recenti affermazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu riguardo ai suoi progetti di annettere zone della Cisgiordania occupata, hanno chiarito in varie occasioni che la Valle del Giordano rimarrà in ogni caso sotto il loro controllo.

Nel 2013 negoziati di pace sono stati rifiutati da Israele quando è stata ipotizzaa la cessione di parte del controllo sulla valle.

Commentando l’evacuazione di Khirbet Humsa al-Fawqa di domenica, Walid Assaf, capo della Commissione Nazionale per la Resistenza al Muro e alle Colonie dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha detto in un comunicato che ci sono stati tentativi con l’intervento di legali per bloccare l’espulsione temporanea, ma non si è potuto mettere in discussione l’ordine militare israeliano.

Proprio come hanno cacciato i palestinesi dale loro case nel 1948, oggi stanno facendo lo stesso. Non cederemo,” ha aggiunto Khadija, riferendosi alla Nakba, la pulizia etnica della Palestina storica da parte delle milizie sioniste 71 anni fa, che si commemora ogni anno il 15 maggio.

Qui non vogliono palestinesi”

Principalmente composte di pastori, le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa si alzano alle 3 del mattino per mungere le proprie pecore e preparare il formaggio prima di andare ai mercati della vicina cittadina di Tubas.

Harb Abu Qabbash, 40 anni, dice a MEE che ogni famiglia possiede circa 300 pecore. Dato che è difficile spostarle fuori dalla zona, quando i palestinesi vengono evacuati molti degli agnelli rimangono indietro e spesso muoiono di fame senza nessuno che si occupi di loro.

Aggiunge che durante le esercitazioni militari migliaia di ettari di orzo e grano rischiano di essere bruciati. Secondo Harb ciò avviene regolarmente. “Il nostro maggior timore è che una bomba cada su una delle nostre tende. Se ciò accadesse sarebbe una catastrofe e perderemmo tutto,” dice Harb.

Gli israeliani vogliono impossessarsi della zona e svuotarla dei suoi abitanti. Non vogliono palestinesi qui,” aggiunge.

Nel 2005 hanno demolito le nostre tende e infrastrutture con il pretesto che erano state costruite senza permesso. Quando facciamo richiesta di un permesso loro non lo concedono.”

Quando non devono affrontare un’evacuazione, le esercitazioni militari e le demolizioni, i palestinesi della comunità lottano per approvvigionarsi dell’acqua sufficiente per le loro necessità sotto l’occupazione israeliana.

Ogni famiglia con le sue pecore utilizza un totale di due o tre serbatoi d’acqua al giorno,” dice Harb.

Per trasportare il camion cisterna alla comunità ci vogliono due ore. C’è un pozzo d’acqua a cinque minuti da qui, ma l’esercito israeliano ci ha vietato di utilizzarlo e lo ha destinato all’uso esclusivo dei coloni israeliani.”

(traduzione di Amedeo Rossi)