Dal 2009 Netanyahu ha costruito nelle colonie in Cisgiordania 19.346 unità abitative

14 maggio 2019 – Ma’an News

Il rapporto di Peace Now [organizzazione pacifista israeliana, ndtr.] riguardo alla costruzione nella Cisgiordania occupata afferma che nel 2018 è iniziata la costruzione di circa 2.100 nuove unità abitative, il 9% in più della media annuale dal 2009 (1.935 unità per anno) e che circa il 73% (1.539) delle nuove costruzioni è avvenuto in colonie a est del confine proposto dall’Iniziativa di Ginevra [bozza di accordo di pace stilata nel 2003 da politici israeliani e palestinesi, che però non venne accolta, ndtr.], cioè colonie che probabilmente sarebbero evacuate in un accordo a due Stati.

Nel contempo il rapporto mostra che almeno dieci strutture sono state costruite su terreni privati palestinesi di circa 10 dunam [1 ettaro, ndtr], e almeno 37 dunam [3,7 ettari, ndtr] supplementari di terreni privati sono stati espropriati per costruirvi un parco, una strada e mucchi di detriti abbandonati in conseguenza della costruzione di infrastrutture di colonie.

Riguardo all’Avanzamento di Piani e Gare d’Appalto del 2018 (gennaio-dicembre), Peace Now sostiene che 5.618 unità abitative sono state promosse attraverso progetti in 79 colonie e quasi l’83% (4.672 unità abitative) delle unità previste si trova a est della frontiera proposta dall’Iniziativa di Ginevra.

Sono stati pubblicati bandi di appalto per 3.808 unità abitative, un numero record da almeno due decenni. Inoltre nel 2018 sono stati pubblicati anche bandi di appalto per 603 unità a Gerusalemme est,” sottolinea il rapporto.

Secondo i calcoli di Peace Now, durante il decennio di Benjamin Netanyahu come primo ministro israeliano (2009-2018), si è iniziata la costruzione di 19.346 nuove unità abitative in colonie illegali.

Circa il 70% (13.608 unità abitative) delle nuove costruzioni è avvenuto in colonie a est della frontiera proposta dall’Iniziativa di Ginevra. Ciò si è tradotto in un incremento di oltre 60.000 coloni nelle colonie israeliane illegali.

Peace Now presenta anche dati pubblicati dall’Ufficio Centrale di Statistica israeliano su costruzioni in Israele e nelle colonie durante i dieci anni di Netanyahu al potere, che indicano che 18.502 unità abitative sono state costruite nelle colonie e dalla fine del 2008 fino alla fine del 2017 120.518 coloni si sono aggiunti agli insediamenti.

Il rapporto evidenzia gli investimenti governativi israeliani nell’ultimo decennio, in cui i vari ministeri hanno trasferito più di 10 miliardi di shekel (circa 2,48 miliardi di euro) come bilancio extra per le colonie. Nel 2016 la cifra trasferita alle colonie è stata di 1,189 miliardi di shekel [295 milioni di euro]. Nell’anno seguente, la somma è stata di 1.650 miliardi di shekel [408 milioni di euro, ndtr.] e nella prima metà del 2018 la cifra è stata di 697 milioni di shekel [170 milioni di euro, ndtr.].

Peace Now conclude il suo rapporto concentrandosi sulla costruzione su terreni privati palestinesi, affermando che, a causa di petizioni di Peace Now e di altre organizzazioni contro la costruzione nelle colonie su terreni privati palestinesi, nell’ultimo decennio c’è stata una drastica riduzione di questa attività edilizia. Nel 2018 su terreni privati sono stati costruiti 10 edifici.

Inoltre nella colonia di Naaleh sono stati costruiti su terreni privati campi da gioco e parchi, è stata tracciata una strada nella colonia ricollocata di Migron e in varie colonie continua il fenomeno di scarico su terreni privati di mucchi di detriti risultanti dalla costruzione di colonie. In questo modo sono stati portati via a proprietari palestinesi almeno 37 dunam [3,7 ettari] di terra privata palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La pulizia etnica di Israele in Palestina non è storia – continua ad avvenire

Ben White

22 Maggio 2019 – Middle East Eye

Ciò che avviene in Cisgiordania e a Gerusalemme est non è solo un’occupazione militare.

Le congetture riguardo al “piano di pace per il Medio Oriente” della Casa Bianca continuano a dominare le informazioni sui media israeliani e dei palestinesi; l’ultimo esempio è dato dall’annuncio di un “workshop” a giugno ospitato dal Bahrein per incoraggiare gli investimenti nell’economia palestinese.

Tuttavia, con l’eccezione della Striscia di Gaza – e solo parzialmente e in modo selettivo – viene posta una minima attenzione agli sviluppi sul terreno nei territori palestinesi occupati.

In Cisgiordania e Gerusalemme est il paradigma dell’occupazione militare è insufficiente da solo per comprendere che cosa stia accadendo –vale a dire, una pulizia etnica.

Che cos’è una pulizia etnica?

La recente Giornata della Nakba ha portato – almeno in alcuni ambiti – ad una riflessione sulle espulsioni di massa e sulle atrocità che hanno accompagnato la fondazione dello Stato di Israele. Ma la pulizia etnica non è un evento storico in Palestina: sta succedendo adesso.

In un saggio del 1994 sulla definizione di pulizia etnica, il giurista Drazen Petrovic ha evidenziato “l’esistenza di una sofisticata politica che sottende a singoli eventi”, eventi, o prassi, che possono comprendere diverse “misure amministrative”, come anche violenze sul territorio da parte di attori statali e non statali.

Lo scopo, ha scritto Petrovic, potrebbe essere definito come “una modificazione irreversibile della struttura demografica” di una particolare area, e “il conseguimento di una posizione più favorevole per uno specifico gruppo etnico risultante da negoziati politici basati sulla logica della divisione lungo linee etniche.”

Questa è una corretta descrizione di ciò che sta avvenendo oggi in tutti i territori palestinesi occupati per mano delle forze dello Stato israeliano e dei coloni israeliani.

In parecchie località lo Stato e i coloni stanno lavorando congiuntamente per modificare forzatamente – attraverso “misure amministrative” e violenze – la composizione demografica locale.

Prendete la Valle del Giordano, lungo il lato orientale della Cisgiordania, dove le famiglie palestinesi sono costantemente e ripetutamente evacuate con la forza dalle loro case, a volte per giorni, dalle forze di occupazione israeliane, per esercitazioni di addestramento militare.

Secondo un reportage di Haaretz, gli abitanti di Humsa – per fare un esempio – sono stati evacuati con la forza dalle loro case decine di volte negli ultimi anni. “Anche se ogni volta ritornano”, sottolinea l’articolo, “alcuni di loro sono esausti ed abbandonano le loro case per sempre.”

Non sono incidenti isolati

Nell’aprile 2014 un colonnello israeliano ha detto in una riunione della commissione parlamentare che nelle zone della Valle del Giordano “dove abbiamo significativamente ridotto la quantità di addestramenti, sono cresciute le erbacce” –intendendo indicare con questo termine le comunità palestinesi. “È qualcosa che dovrebbe essere presa in considerazione”, ha detto.

Recentemente un abitante di Khirbet Humsa al-Fawqa – una piccola comunità nel nord della Valle del Giordano – ha detto a Middle East Eye: “Non so se stanno realmente svolgendo un’esercitazione militare. A volte ci fanno evacuare e non fanno niente. Il loro scopo è costringerci a lasciare la zona definitivamente.”

Intanto l’Ong israeliana per i diritti umani B’Tselem all’inizio del mese ha riferito di un “aumento della frequenza e della gravità degli attacchi da parte dei coloni” contro i palestinesi nella Valle del Giordano.

I coloni “minacciano I pastori, li cacciano, li aggrediscono fisicamente, guidano a tutta velocità in mezzo alle greggi per spaventare le pecore e addirittura le travolgono o le rubano”, ha dichiarato B’Tselem, aggiungendo che “i soldati sono di solito presenti durante questi attacchi e a volte vi prendono anche parte.”

B’Tselem ha detto che questi attacchi “non sono incidenti isolati, ma piuttosto parte della politica che Israele applica nella Valle del Giordano.”

Lo scopo è “impadronirsi di più terra possibile, spingendo i palestinesi ad andarsene, scopo raggiunto con varie misure, incluso rendere la vita in quei luoghi così insostenibile e sconfortante che i palestinesi non abbiano altra scelta che lasciare le proprie case, apparentemente ‘per scelta’”.

Questa situazione, sintetizza la Ong, “è fatta di attacchi coordinati di soldati e coloni”, e anche di “un divieto assoluto di sviluppare le comunità palestinesi con la costruzione e l’edificazione di infrastrutture vitali, incluse acqua, elettricità e strade.”

Le comunità palestinesi nella Valle del Giordano sono solo alcune di quelle minacciate dalla politica israeliana di pulizia etnica. Si possono trovare altri esempi nei quartieri palestinesi di Gerusalemme est occupata, come Sheikh Jarrah e Silwan.

Fatti sul terreno

Il 3 maggio Jamie McGoldrick, coordinatore umanitario dell’ONU in Palestina, ha avvertito che le demolizioni a Gerusalemme est da parte delle autorità israeliane “sono aumentate a una velocità impressionante”, con 111 strutture di proprietà palestinese distrutte a Gerusalemme est nei primi quattro mesi del 2019.

In queste comunità palestinesi lo Stato israeliano, la magistratura e le organizzazioni dei coloni fanno sforzi congiunti per espellere – e rimpiazzare – le famiglie palestinesi.

Lo scorso novembre la Corte Suprema israeliana “ha aperto la strada al gruppo di coloni Ateret Cohanim [che intende creare una maggioranza ebraica nei quartieri arabi di Gerusalemme, ndtr.] per proseguire i procedimenti legali per espellere almeno 700 palestinesi che vivono nella zona di Batn al- Hawa” di Silwan. La Ong Ir Amim [associazione israeliana che difende i diritti di tutti gli abitanti di Gerusalemme, ndtr.] afferma che le espulsioni sono fondamentali per “una rapida diffusione di nuovi fatti sul terreno”.

In base a qualunque ragionevole definizione del termine, qui Israele sta portando avanti la pulizia etnica: l’uso di misure amministrative e della violenza da parte di forze statali e di coloni per cacciare i palestinesi dalle loro terre ed infine produrre una trasformazione demografica irreversibile di diverse località.

Così, il governo israeliano – da tempo abituato all’assenza di una chiamata alla responsabilità a livello internazionale per queste prassi – sarà solo molto felice non solo dei contenuti del “piano di pace” USA, ma anche dall’opportuna distrazione che esso fornisce riguardo alla terribile realtà che sta dietro ad ancor più numerosi “fatti sul terreno.”

Ben White

Ben White è l’autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Scrive per Middle East Monitor e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian e altri.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La Germania ha votato per definire antisemita il BDS

Middle East Monitor

17 maggio 2019

Oggi la Germania ha votato per definire antisemita il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), diventando il primo importante parlamento europeo a farlo.

Questo pomeriggio il parlamento tedesco – noto come Bundestag – ha votato per accettare una mozione che definisce antisemita il BDS. Questa mozione, “Resistere al movimento BDS – lottare contro l’antisemitismo”, è stata promossa dai due maggiori partiti del Bundestag – l’Unione Cristiano Democratica della cancelliera Angela Merkel e il Partito Socialdemocratico – così come dal Partito Verde e dal Partito Liberal-Democratico.

Il testo della mozione afferma che “il Bundestag tedesco è risoluto nel suo impegno a condannare e combattere l’antisemitismo in tutte le sue forme,” sottolineando che si opporrà “a chiunque diffami le persone per la loro identità ebraica (…) [e] metta in discussione il diritto dello Stato ebraico e democratico di Israele ad esistere o il diritto di Israele a difendersi.”

In particolare, sul movimento BDS la mozione sostiene che “gli argomenti, le caratteristiche e i metodi del movimento BDS sono antisemiti.” Come prova di ciò la mozione sostiene che gli adesivi “non comprare” del BDS – che intendono identificare prodotti di origine israeliana in modo che i consumatori possano evitare di comprarli – “risvegliano reminiscenze dello slogan nazista “non comprare dagli ebrei” e “ricordano il periodo più orribile della storia tedesca.”

Benché la mozione non sia vincolante, la sua importanza sia all’interno della Germania che in tutta Europa sarà probabilmente notevole.

In termini concreti, il giornale tedesco “Algemeiner” [giornale tedesco filoisraeliano on line, ndtr.] spiega che l’odierna approvazione della mozione “impedirà a ‘organizzazioni che si esprimono in termini antisemiti o mettono in dubbio il diritto all’esistenza di Israele’ l’uso di ‘locali e strutture che dipendono dall’amministrazione del Bunderstag’”. Imporrà anche al Bundestag di “non finanziare organizzazioni che non rispettino il diritto di Israele ad esistere.”

A livello europeo la mozione potrebbe rappresentare un precedente perché altri parlamenti definiscano antisemita il BDS. Negli scorsi anni parecchi Paesi europei hanno cercato di reprimere il movimento, in particolare la Spagna che, su richiesta di Israele, ha trascinato in tribunale una serie di consigli comunali perché avevano annunciato che avrebbero appoggiato un boicottaggio.

L’iniziativa potrebbe anche aprire la strada al fatto che altri gruppi vengano etichettati come antisemiti per le loro critiche contro Israele. Sostenendo che “lo Stato di Israele può anche essere inteso come una collettività ebraica,” l’approvazione della mozione restringerà ulteriormente lo spazio di critica al governo israeliano e alle sue politiche confondendolo con la retorica antisemita.

Oggi il Bundestag ha anche votato su altre due risoluzioni contro il BDS: la prima che è stata presentata dal [partito di] estrema destra “Alternativa per la Germania” (AfD), in cui si chiede che il governo tedesco metta fuorilegge il BDS nel suo complesso, mentre la seconda, proposta dal partito di sinistra “Die Linke” [La Sinistra], chiede al governo di condannare “l’antisemitismo all’interno del” movimento BDS.

Quella dell’AfD [Alternative fur Deutchland, ndtr.], chiede che il governo tedesco “proibisca” il BDS e “riconosca l’ingiustizia commessa contro i coloni ebrei in Palestina dall’appello arabo per il boicottaggio, in cooperazione e coordinamento con il regime nazista.”

Denuncia la distinzione tra Israele e le sue colonie illegali, compresa l’etichettatura da parte dell’Unione Europea (UE) dei prodotti israeliani delle colonie in Cisgiordania. Sostiene che, con l’etichettatura dei prodotti come tali, l’UE ha creato un “riconoscimento economico di fatto” di uno Stato palestinese indipendente “senza che questo sia stato in alcun modo legittimato.”

Al momento della stesura di questo articolo il risultato del voto sulla risoluzione proposta dall’AfD non è ancora stato reso noto [non è stata approvata, ndtr.]. La mozione della Linke, comunque, è stata respinta.

La Germania ha condotto a lungo una campagna contro il BDS. “Algemeiner” ha informato che, lo scorso mese, membri del Bundestag hanno chiesto che “la banca tedesca GLS – la banca di investimenti etici più antica del Paese – chiuda i conti di un gruppo a favore del BDS che si chiama ‘Voce Ebraica’”.

In marzo tre attivisti BDS sono stati processati per accuse inventate di violazione di domicilio e aggressione dopo che avevano protestato contro la politica israeliana Aliza Lavie [del partito di centro Yesh Atid, ndtr.], che nel 2017 aveva parlato all’università Humboldt di Berlino. Gli Humboldt3, come sono stati definiti – l’attivista palestinese Majid Abusalama e gli attivisti israeliani Ronnie Barkan e Stavit Sinai – hanno affermato che “lanciare accuse penali contro attivisti è una pratica comune e costante in Germania.”

Hanno aggiunto: “Tuttavia noi siamo determinati a utilizzare il nostro relativo privilegio per capovolgere la situazione e denunciare Israele in tribunale. Non ci preoccupiamo delle conseguenze per noi, ma dell’opportunità di sfidare Israele e la complicità della Germania in crimini contro l’umanità.”

La maggior parte di questa repressione avviene su richiesta di Israele, con cui la Germania ha storicamente mantenuto stretti rapporti. A ottobre il ministro israeliano per Gerusalemme, Ze’ev Elkin, ha partecipato a una conferenza nella capitale belga Bruxelles nel tentativo di convincere i partiti politici europei a definire antisemita il BDS. L’iniziativa è stata vista come un’escalation della guerra di Israele contro il BDS, per cui avrebbe stanziato un fondo di guerra di 72 milioni di dollari e che ha visto numerose campagne di calunnia lanciate contro attivisti affiliati al movimento.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Nakba nella Valle del Giordano: le esercitazioni dell’esercito israeliano gettano il caos tra i palestinesi

Shatha Hammad da Khirbet Humsa al-Fawqa, Cisgiordania occupata

15 maggio 2019 – Middle East Eye

Cacciati dalle loro case perché Israele testa le proprie armi, la commemorazione di quest’anno degli avvenimenti del 1948 vede nuove espulsioni.

A Khirbet Humsa al-Fawqa, sul pavimento di una tenda abitata giacciono giocattoli sparpagliati. Per i bambini del villaggio i giochi sono finiti quando l’esercito israeliano ha dichiarato l’area zona militare proibita e nelle prime ore di domenica ha obbligato la comunità palestinese ad andarsene dalle proprie abitazioni.

In seguito a un ordine di espulsione di quattro giorni prima, ai 98 abitanti è stato vietato l’accesso alle loro abitazioni per tre giorni. L’esercito li ha informati che tra maggio e giugno verranno cacciati 12 volte per tre giorni ciascuna.

Ai palestinesi è stato detto che le abitazioni sarebbero state nel raggio di gittata dei proiettili dei carri armati poiché l’esercito israeliano utilizza l’area per effettuare esercitazioni militari.

La mattina dell’espulsione Mohammed Sulaiman Abu Qabbash, padre di cinque figli, li ha accompagnati in una vicina comunità ed è corso indietro nel tentativo di proteggere le tende e le pecore. Il trentacinquenne è andato avanti e indietro controllando ansiosamente la zona. Ha aspettato che i soldati israeliani arrivassero e lo buttassero fuori.

Nei prossimi tre giorni dormiremo all’aperto. Non abbiamo alternative, non possiamo opporci a una potenza simile,” ha detto Mohammed a Middle East Eye.

Se la comunità rifiuta di andarsene quando gli viene ordinato rischia l’espulsione con la forza, l’esproprio delle greggi e una multa retroattiva.

In base alle leggi internazionali cacciare dalle proprie case gli abitanti di un territorio occupato è considerato trasferimento forzato di persone protette, il che costituisce un crimine di guerra. Ma gli abitanti delle comunità palestinesi nella Valle del Giordano conoscono bene tali devastanti politiche israeliane.

La valle, una striscia di terra fertile che corre a ovest lungo il fiume Giordano, è abitata da circa 65.000 palestinesi.

Dal 1967, quando l’esercito israeliano ha occupato la Cisgiordania, Israele ha trasferito almeno 11.000 suoi cittadini ebrei nella Valle del Giordano. Alcune delle colonie in cui vivono sono state interamente costruite su terre palestinesi di proprietà privata.

Da quando è iniziata l’occupazione, circa il 46% della Valle del Giordano è stata dichiarata dall’esercito israeliano zona militare proibita.

Circa 6.200 palestinesi risiedono in 38 comunità in luoghi destinati a usi militari e devono ottenere un permesso delle autorità israeliane per entrare e vivere nelle loro comunità.

In violazione del diritto internazionale l’esercito israeliano non solo scaccia regolarmente in modo temporaneo le comunità, ma a volte demolisce anche case e infrastrutture.

Oltre a subire espulsioni temporanee, le famiglie palestinesi che vi vivono devono affrontare una miriade di limitazioni nell’accesso a risorse e servizi. Nel contempo la confisca di terre da parte di Israele ha espropriato risorse naturali a favore dei coloni.

Vivere la Nakba

Il digiuno durante l’espulsione e le temperature che hanno raggiunto i 40° hanno raddoppiato le difficoltà di questo Ramadan, dice Khadija Abu Qabbash mentre si prepara ad andarsene. La donna incinta, madre di cinque figli, la mattina ha lavato a mano una pila di vestiti. La sua figlia di 15 anni, Deema, l’ha aiutata a stendere in gran fretta i panni ad asciugare prima che arrivassero i soldati israeliani.

Questa mattina abbiamo accompagnato fuori i bambini ed ora la macchina è tornata a prenderci,” dice a MEE mentre piange. “Non potrò cucinare niente per iftar [pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadan, ndtr.]. Ci dovremo accontentare di cibo in scatola.”

Le forze israeliane espellono regolarmente le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa. Tuttavia in genere le espulsioni avvengono durante il giorno, mentre agli abitanti è consentito tornare alla sera.

Non so se stanno effettivamente facendo esercitazioni militari. A volte ci cacciano e non fanno niente. Intendono obbligarci ad andarcene per sempre,” dice Khadija.

Le attività di Israele nella Valle del Giordano sono state ben documentate da gruppi per i diritti umani e da Ong locali, che affermano che l’obiettivo di queste misure è cacciare i palestinesi e soffocare il loro sviluppo nella zona.

Essendo assolutamente strategica, i politici israeliani, anche prima delle recenti affermazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu riguardo ai suoi progetti di annettere zone della Cisgiordania occupata, hanno chiarito in varie occasioni che la Valle del Giordano rimarrà in ogni caso sotto il loro controllo.

Nel 2013 negoziati di pace sono stati rifiutati da Israele quando è stata ipotizzaa la cessione di parte del controllo sulla valle.

Commentando l’evacuazione di Khirbet Humsa al-Fawqa di domenica, Walid Assaf, capo della Commissione Nazionale per la Resistenza al Muro e alle Colonie dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha detto in un comunicato che ci sono stati tentativi con l’intervento di legali per bloccare l’espulsione temporanea, ma non si è potuto mettere in discussione l’ordine militare israeliano.

Proprio come hanno cacciato i palestinesi dale loro case nel 1948, oggi stanno facendo lo stesso. Non cederemo,” ha aggiunto Khadija, riferendosi alla Nakba, la pulizia etnica della Palestina storica da parte delle milizie sioniste 71 anni fa, che si commemora ogni anno il 15 maggio.

Qui non vogliono palestinesi”

Principalmente composte di pastori, le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa si alzano alle 3 del mattino per mungere le proprie pecore e preparare il formaggio prima di andare ai mercati della vicina cittadina di Tubas.

Harb Abu Qabbash, 40 anni, dice a MEE che ogni famiglia possiede circa 300 pecore. Dato che è difficile spostarle fuori dalla zona, quando i palestinesi vengono evacuati molti degli agnelli rimangono indietro e spesso muoiono di fame senza nessuno che si occupi di loro.

Aggiunge che durante le esercitazioni militari migliaia di ettari di orzo e grano rischiano di essere bruciati. Secondo Harb ciò avviene regolarmente. “Il nostro maggior timore è che una bomba cada su una delle nostre tende. Se ciò accadesse sarebbe una catastrofe e perderemmo tutto,” dice Harb.

Gli israeliani vogliono impossessarsi della zona e svuotarla dei suoi abitanti. Non vogliono palestinesi qui,” aggiunge.

Nel 2005 hanno demolito le nostre tende e infrastrutture con il pretesto che erano state costruite senza permesso. Quando facciamo richiesta di un permesso loro non lo concedono.”

Quando non devono affrontare un’evacuazione, le esercitazioni militari e le demolizioni, i palestinesi della comunità lottano per approvvigionarsi dell’acqua sufficiente per le loro necessità sotto l’occupazione israeliana.

Ogni famiglia con le sue pecore utilizza un totale di due o tre serbatoi d’acqua al giorno,” dice Harb.

Per trasportare il camion cisterna alla comunità ci vogliono due ore. C’è un pozzo d’acqua a cinque minuti da qui, ma l’esercito israeliano ci ha vietato di utilizzarlo e lo ha destinato all’uso esclusivo dei coloni israeliani.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 26 marzo – 8 aprile 2019 (due settimane)

Nella Striscia di Gaza, nel contesto delle manifestazioni della “Grande Marcia di Ritorno” (GMR), quattro palestinesi, tra cui due minori, sono stati uccisi dalle forze israeliane e altri 1.456 sono rimasti feriti.

Tre dei quattro, tra cui due ragazzi 17enni, sono stati uccisi sabato 30 marzo, giornata anniversario sia del “Giorno della Terra” che dell’inizio, un anno fa, delle manifestazioni [per la GMR]. Il quarto uomo, ferito durante le manifestazioni, è morto tre giorni dopo. La mattina del 30 marzo, in un episodio non collegato alle manifestazioni della GMR, un altro uomo è stato colpito e ucciso vicino alla recinzione perimetrale.

Sempre nella Striscia di Gaza, per imporre [ai palestinesi] le restrizioni di accesso [stabilite da Israele] sia alle aree lungo la recinzione perimetrale [lato interno a Gaza] che a quelle di mare, le forze israeliane, in almeno 27 occasioni non legate agli eventi della GMR, hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori, senza provocare feriti. In altre quattro occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo nelle vicinanze della recinzione perimetrale. In altri due episodi, cinque palestinesi, tra cui tre minori, sono stati arrestati mentre tentavano di infiltrarsi in Israele.

In Cisgiordania, in due operazioni di ricerca e arresto, le forze israeliane hanno ucciso due palestinesi [di seguito il dettaglio]. Un paramedico volontario palestinese 18enne è stato ucciso dalle forze israeliane il 27 marzo, con arma da fuoco: il giovane era in servizio nel Campo Profughi di Duheisheh, a Betlemme, mentre si svolgeva un’operazione militare. Secondo fonti palestinesi, nell’area interessata all’uccisione non erano in corso scontri. Il secondo palestinese, 24enne, è stato ucciso dai soldati israeliani il 2 aprile, nelle vicinanze del Campo Profughi di Qalandiya; qui erano scoppiati scontri tra palestinesi e l’esercito israeliano durante operazioni di ricerca-arresto. Nel contesto di questi due episodi sono stati feriti, con armi da fuoco, altri quattro palestinesi, tra cui due minori.

Ancora in Cisgiordania, in altri scontri, per lo più conseguenti a operazioni di ricerca-arresto e proteste, sono stati feriti dalle forze israeliane 304 palestinesi, tra cui 239 minori [78,6%]. Nel complesso, in Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 169 operazioni di ricerca, otto di esse hanno provocato scontri nel corso dei quali sono stati feriti undici palestinesi [dei 304 riportati sopra]. I palestinesi arrestati sono stati 197, tra cui quindici minori. Il governatorato di Gerusalemme ha registrato il maggior numero di tali operazioni. In due distinti episodi, il 7 e l’8 marzo, nell’area a controllo israeliano della città di Hebron (zona H2), le forze israeliane, a quanto riferito facendo seguito al lancio di pietre da parte di minori palestinesi, hanno sparato bombolette lacrimogene all’interno di un complesso scolastico; come risultato 225 studenti e 35 insegnanti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno. Altri otto palestinesi sono rimasti feriti durante scontri scoppiati nel contesto di diverse proteste: in commemorazione del “Giorno della Terra”e durante la protesta settimanale contro la violenza dei coloni e contro l’espansione degli insediamenti colonici nel villaggio di Al Mughayyir (Ramallah) e nell’area della Valle del Giordano. Complessivamente, il 90% delle lesioni sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche (o perché colpiti dalle bombolette contenenti il gas); il 7% da proiettili di gomma; il 2% da armi da fuoco.

Il 3 aprile, vicino al raccordo stradale di Beita (Nablus), un colono israeliano della colonia Elon Moreh ha aperto il fuoco per tre volte, ferendo due palestinesi. Uno dei due, un 23enne, è morto più tardi in ospedale; secondo Organizzazioni per i Diritti Umani, il giovane, quando è stato colpito, stava lanciando pietre contro veicoli israeliani. L’altro ferito palestinese è stato colpito mentre lavorava nella sua bottega situata nella zona. Non sono stati segnalati ferimenti di israeliani.

Altri undici attacchi da parte di coloni israeliani hanno provocato lesioni o danni a proprietà palestinesi. Tre degli episodi hanno visto la vandalizzazione di 35 ulivi nei villaggi di Buring e Yanun (entrambi a Nablus) e 400 alberi e alberelli in terreni privati del villaggio di Deir Jarir (Ramallah). Nel villaggio di Ras Karkar (Ramallah), coloni israeliani hanno distrutto, su terreno di proprietà privata, un edificio parte di un progetto agricolo; il danno causato ricade su nove persone. Un ragazzo palestinese è rimasto ferito e quattro veicoli sono stati vandalizzati in cinque distinti episodi di lancio di pietre da parte di coloni a Ya’bad (Jenin), e nei villaggi di Al Mughayyir, Beitin e An Nabi Salih (tutti a Ramallah). Vicino al villaggio di Jibiya (Ramallah), i componenti di una famiglia di tre persone, tra cui una ragazza di 17 anni, sono stati feriti da coloni mentre si stavano recando sui loro terreni. Nella città di Beit Hanina (Gerusalemme Est), coloni hanno forato le gomme di 15 veicoli ed hanno spruzzato scritte su veicoli e muri delle case; danneggiate 15 famiglie, per un totale di 75 persone. Nel 2019, OCHA [Office for the Coordination of Humanitarian Affairs] ha registrato 104 episodi in cui coloni israeliani hanno ucciso o ferito palestinesi o hanno danneggiato proprietà palestinesi (compresi oltre 2.500 alberi): un incremento del 53% del numero di episodi rispetto al corrispondente periodo del 2018.

I media israeliani hanno riferito di nove episodi di lancio di pietre, da parte di palestinesi, contro veicoli di coloni israeliani; non sono state riportate vittime, ma sono state danneggiati cinque veicoli.

A Gerusalemme Est, in sei diverse località, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite dieci strutture, sfollando nove palestinesi e colpendo i mezzi di sostentamento di altri 83. Delle dieci strutture demolite, cinque erano abitative e sono state autodemolite dagli stessi proprietari che avevano ricevuto ordini definitivi di demolizione; secondo quanto riferito, per evitare di incorrere in ulteriori multe. In Cisgiordania, dall’inizio del 2019, complessivamente, sono state demolite o sequestrate dalle autorità israeliane 145 strutture.

In concomitanza con le elezioni nazionali israeliane, il 9 aprile, le autorità israeliane hanno imposto ai Territori Palestinesi occupati la chiusura di un giorno. Il valico commerciale di Kerem Shalom e il passaggio pedonale di Erez con la Striscia di Gaza sono stati chiusi, fatta eccezione per i casi urgenti autorizzati. In Cisgiordania la chiusura ha comportato il divieto di accesso in Gerusalemme e in Israele per tutti i detentori di documento di identità della Cisgiordania e titolari di regolari permessi di ingresso rilasciati da Israele; è stata fatta eccezione per il personale ONU, delle Ong e per il personale diplomatico.

Il 1° aprile, le autorità israeliane hanno esteso a 15 miglia nautiche la zona di pesca permessa [ai palestinesi] lungo la parte meridionale della costa di Gaza: la più ampia consentita dal 2000 ad oggi. Lungo le aree settentrionale e centrale l’accesso rimane limitato a 6-12 miglia nautiche. Si prevede che l’ampliamento aumenterà il volume e la qualità del pescato.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, controllato dall’Egitto, è stato aperto per sei giorni in entrambe le direzioni e per quattro giorni in una direzione. Sono entrate a Gaza 3.267 persone e ne sono uscite 3.393.

245

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Democrazia secondo Israele

Hagai El Ad

7 aprile 2019  New York Times

Un’elezione, un piano di pace e un’occupazione senza fine

[El-Ad è il direttore esecutivo dell’organizzazione per i diritti umani israeliana B’Tselem]

GERUSALEMME. Quando sarà “svelato” l’accordo del secolo”,come il presidente Trump ha definito il suo prossimo piano per la pace israelo-palestinese?
Certamente non prima del 9 aprile, quando si terranno le prossime elezioni in Israele. Ma quanto tempo dopo? “In meno di 20 anni”, ha detto evasivamente il segretario di Stato Mike Pompeo di recente a una commissione parlamentare.

In ogni caso, i piani di pace americani non sono una novità. Qualcuno ricorda, ad esempio, i Piani Rogers, dal nome del Segretario di Stato William P. Rogers, in servizio sotto il presidente Richard Nixon 50 anni fa? Quando il secondo dei suoi piani fu discusso alla Knesset nel 1970, un parlamentare israeliano prefigurò fiduciosamente che “non ci vorrà molto tempo – un anno, un anno e mezzo, due al massimo – perché quella cosa chiamata ‘territori occupati’ non esista più, e l’esercito israeliano possa tornare nei confini di Israele”.
Inutile dire che quella “cosa” è lungi dal “non esistere più”. Mentre i Piani Rogers sono quasi del tutto scomparsi dalla memoria, cancellati da una serie di piani presentati dai successivi presidenti americani, la realtà dei territori palestinesi occupati semplicemente non si è fermata. L’occupazione di Israele si è approfondita e trasformata. Gaza è diventata la più grande prigione a cielo aperto del mondo, ogni tanto bombardata per sottometterla; Gerusalemme Est è stata formalmente annessa ad Israele; la Cisgiordania è diventata un arcipelago di Bantustan palestinesi, circondato da insediamenti, mura e posti di blocco, soggetto a una combinazione di violenza di Stato e dei coloni. Eppure la vera prodezza di Israele è stata non solo di portare a termine tutto questo, ma di farlo impunemente, provocando reazioni minime da parte del resto del mondo, aggrappandosi in qualche modo nelle pubbliche relazioni alla preziosa etichetta di “vivace democrazia”.

È la storia di questi ultimi 50 anni che dovremmo riconoscere come il vero accordo: quello che è già in vigore, l’accordo del mezzo secolo. In questo accordo, finché Israele procede nell’impresa dell’occupazione con un livello di brutalità appena al di sotto di quello che susciterebbe l’indignazione internazionale, gli è permesso di continuare, godendo ancora di vari privilegi internazionali corroborati – come ha recentemente affermato il primo ministro Benjamin Netanyahu – dal grandioso impegno, ovviamente falso, verso i “valori condivisi di libertà e democrazia”.

Il che ci porta al 9 aprile, quando gli israeliani voteranno per un parlamento che governa sia i cittadini israeliani che milioni di soggetti palestinesi a cui è negato lo stesso diritto. I coloni israeliani in Cisgiordania non hanno nemmeno bisogno di andare fino ad un seggio elettorale in Israele per votare sul destino dei loro vicini palestinesi. Anche i coloni nel cuore di Hebron possono votare proprio lì, con 285 elettori registrati (su una popolazione totale di circa 1.000 coloni), circondati da circa 200.000 palestinesi senza voto. O come la definisce Israele, “democrazia”.

Questa è la quindicesima elezione nazionale dall’inizio dell’occupazione, e forse quella in cui le vite dei palestinesi contano meno, tranne che per conteggiarne i morti e celebrarne la distruzione. All’inizio di quest’anno, il generale Benny Gantz, ora leader del nuovo partito “centrista” che rappresenta la maggiore sfida al primo ministro Benjamin Netanyahu, ha pubblicato un video che mette in evidenza quanti “terroristi” palestinesi siano stati uccisi a Gaza nell’estate del 2014, quando Il signor Gantz era a capo dei comandi militari. (Secondo una ricerca condotta da B’Tselem, la maggior parte delle vittime dell’esercito israeliano quell’estate erano civili, di cui oltre 500 bambini.) Da parte sua, il signor Netanyahu ha promesso che se rimarrà in carica l’occupazione continuerà. “Non dividerò Gerusalemme, non evacuerò alcuna comunità e farò in modo di controllare il territorio a ovest della Giordania”, ha detto in un’intervista nel fine settimana.
Invece dei diritti e della libertà per i palestinesi, la campagna elettorale si è concentrata sul probabile rinvio a giudizio di Netanyahu per accuse di corruzione. Ma è davvero importante per una famiglia palestinese il cui figlio sarà ucciso impunemente o la cui casa sarà rasa al suolo se il primo ministro responsabile di quelle politiche è corrotto o irreprensibile?
Ad un certo punto, dopo il 9 aprile, potremo finalmente sapere che “piano” abbia in mente l’amministrazione Trump. In effetti, non si può fare a meno di chiedersi se non stia già prendendo forma sotto i nostri occhi: lo scorso maggio, l’amministrazione Trump spostò l’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme; pochi mesi dopo, interruppe gli aiuti ai palestinesi e all’agenzia delle Nazioni Unite che aiuta i profughi palestinesi; più recentemente, ha esteso il riconoscimento della sovranità di Israele sulle alture del Golan, mossa celebrata da una fonte ufficiale israeliana come segno di ciò che accadrà riguardo al futuro della Cisgiordania.

È difficile credere che “l’accordo del secolo” sarà qualcosa di diverso da una continuazione dell’accordo di mezzo secolo. David M. Friedman, ambasciatore dell’amministrazione Trump in Israele, lo ha più o meno ammesso in un’intervista a The Washington Examiner [sito di notizie e rivista gratuita di destra, ndt.], quando ha affermato che l’amministrazione vorrebbe “vedere l’autonomia palestinese migliorare in modo significativo, a patto che non metta a rischio la sicurezza israeliana “. Ma i palestinesi meritano piena libertà, non una maggiore autonomia spacciata dall’America, che suggerisce null’altro che il proseguimento dell’occupazione israeliana. Il che significa un futuro basato non sulla giustizia né sul diritto internazionale, ma su maggior controllo, oppressione e violenza di Stato.

A meno che la comunità internazionale non tolga di mezzo l’accordo del mezzo secolo, facendo sì che Israele scelga finalmente tra l’ulteriore oppressione dei palestinesi o il subire delle effettive conseguenze, l’occupazione continuerà. L’amministrazione Trump, chiaramente, non è all’altezza di questo compito. Ma le Nazioni Unite, tra cui il Consiglio di Sicurezza, i principali Stati membri dell’Unione Europea – principale partner commerciale di Israele – e l’opinione pubblica internazionale hanno tutti una notevole possibilità di intervento. E gli americani che credono sinceramente nei diritti umani e nella democrazia, non solo come vuoti slogan o elementi di una contrattazione, ma come rivendicazioni autentiche, non hanno bisogno di aspettare fino al 2020 per mostrare il loro potere politico.

Insieme all’occupazione sistematica delle terre e all’imposizione di restrizioni sulla libertà di movimento, la negazione dei diritti politici è stata una delle pietre angolari dell’apartheid in Sudafrica. Anche quel paese si considerava una democrazia.

Molti israeliani considerano il 9 aprile una festa della democrazia. Non lo è. Questo giorno di elezioni non dovrebbe essere altro che il doloroso ricordo di una realtà profondamente antidemocratica, che l’amministrazione Trump sembra felice di perpetuare – e che il resto della comunità internazionale continuerà a permettere finché non smetterà finalmente di guardare dall’altra parte. Noi, i quasi 14 milioni di esseri umani che vivono in questa terra, abbiamo bisogno di un futuro per cui valga la pena di combattere: basato sulla comune umanità di palestinesi e israeliani che credono in un futuro di giustizia, uguaglianza, diritti umani e democrazia – per tutti noi.

(traduzione di Luciana. Galliano)




Il ‘kahanismo’: la logica conclusione del sionismo

Asa Winstanley

2 aprile 2019, Middle East Monitor

Tutti sanno che Kahane aveva ragione’

Nelle elezioni israeliane che si terranno questo mese una coalizione di estrema destra, guidata dall’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu, sarà probabilmente vincente.

L’attuale compagine di parlamentari probabilmente includerà i kahanisti del partito ‘Otzma Yehudit’ (Potere Ebraico).

Il rabbino Meir Kahane era un fanatico razzista antiarabo e antipalestinese. Chiedeva esplicitamente che i palestinesi fossero espulsi dalla Palestina storica – che definiva la “terra di Israele”, dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo).

Il suo libro del 1981 era un sermone diretto e vero e proprio che sosteneva la pulizia etnica esplicitamente razzista della Palestina. Si intitolava “Devono andarsene”.

Kahane, come molti sionisti, era talmente razzista che si rifiutava di usare il termine “palestinesi”, sostenendo che essi non esistevano realmente ed erano semplicemente “arabi” che erano arrivati nella terra di Israele in periodi successivi – un comune mito sionista.

“Gli ebrei e gli arabi della terra di Israele sostanzialmente non possono coesistere”, ha scritto. “Per noi c’è solo una strada percorribile: il trasferimento immediato degli arabi da Eretz Yisrael, la Terra di Israele, verso le loro terre.”

A New York nel 1968 aveva fondato la cosiddetta “Jewish Defence League” [Lega di Difesa Ebraica] (JDL). Questo gruppo di estremisti sionisti era violentemente razzista nei confronti degli afro-americani, dei palestinesi e degli altri arabi.

Per anni ha condotto una campagna interna di terrore contro obbiettivi civili – soprattutto palestinesi, altri arabi e sovietici – ma a volte anche contro altri ebrei e addirittura sionisti, quando doveva risolvere conflitti intestini.

Furono presi di mira gli uffici del famoso intellettuale palestinese Edward Said. E’ stata messa una bomba nell’ufficio dell’attivista palestinese-americano per i diritti civili Alex Odeh, provocando l’uccisione di Odeh.

I principali sospettati dall’FBI fuggirono in Israele, dove alcuni di loro sono tuttora nascosti.

Nel 1971 Kahane si trasferì in Israele, dove fondò il partito Kach ed iniziò a partecipare alle elezioni. Kahane affermò che il Kach era la sezione israeliana della JDL. Questa venne infine giudicata un’organizzazione terroristica dall’FBI e il Kach venne messo fuorilegge persino da Israele.

Alla fine nel 1984 Kahane entrò alla Knesset, il parlamento israeliano. Probabilmente il suo partito avrebbe guadagnato più seggi nelle elezioni del 1988, ma gli fu proibito di presentarsi dopo essere stato messo fuorilegge.

Kahane fu assassinato a New York nel 1990, ma il suo pensiero politico sopravvive oggi in molti partiti politici israeliani. Non si tratta solo di ‘Potere ebraico’, benché sia già abbastanza cattivo.

I capi di ‘Potere ebraico’ sono Michael Ben-Ari e Baruch Marzel.

Marzel è uno dei coloni israeliani più violentemente radicali della Cisgiordania. Vive nella colonia di Tel Rumeida, nella città occupata di Hebron, ed ha partecipato alla creazione di molte colonie simili, espellendo con la violenza i palestinesi e colonizzando la loro terra.

I sostenitori di Marzel hanno scritto che lui è stato, per 25 anni, “la mano destra del rabbino Meir Kahane”, entrando nel Kach quando era giovane e fungendo da suo portavoce per un decennio.

Ha anche “guidato il fronte militare in Giudea e Samaria (la Cisgiordania), agendo con mano ferma e senza compromessi contro il nemico arabo”, come si è vantato un tempo in un “Curriculum Vitae ed esposizione delle attività pubbliche”, ora cancellato.

Marzel per decenni ha celebrato una commemorazione presso la tomba di Baruch Goldstein – un noto seguace americano di Kahane, che massacrò 29 civili palestinesi nel 1994 nella moschea di Ibrahim a Hebron.

Questi sono i sionisti estremisti che adesso pare che Netanyahu farà entrare nel governo. Netanyahu ha spinto perché ‘Potere ebraico’ venisse integrato in un’ampia coalizione di estrema destra, rendendone molto più probabile la partecipazione nel suo governo di coalizione.

Le lobby israeliane negli Stati Uniti hanno stranamente condannato ‘Potere ebraico’. Per esempio, l’“American Jewish Committee” [Commissione Ebraica Americana] ha affermato che “le opinioni di ‘Potere ebraico’ sono deplorevoli. Non rispecchiano i valori fondamentali che stanno alla base della creazione dello Stato di Israele.”

Quest’ultima affermazione è tuttavia palesemente falsa, considerando il fatto che lo Stato di Israele è stato fondato sulla pulizia etnica di oltre 750.000 palestinesi espulsi dalla Palestina.

A quanto pare, solo la “Zionist Organisation of America” [Organizzazione Sionista Americana] (ZOA) di Morton Klein, apertamente razzista nei confronti dei palestinesi, ha spalleggiato Netanyahu sulla questione di ‘Potere ebraico’.

Secondo il quotidiano liberale israeliano Haaretz, questo è dovuto al fatto che la ZOA ha rapporti finanziari più stretti e diretti con il donatore miliardario sionista americano di estrema destra antipalestinese Sheldon Adelson.

Benché la dichiarazione di ZOA – che di per sé è palesemente razzista– non vada presa del tutto sul serio, bisogna riconoscere che il presidente di ZOA Morton Klein ha ragione quando afferma che la condanna da parte di AIPAC, ADL, AJC e delle altre lobby filoisraeliane è “ipocrita”.

Assomiglia alla condanna fatta a marzo nei confronti di Netanyahu per aver detto che Israele non è uno Stato per tutti i suoi cittadini, ma solo per gli ebrei. In entrambi i casi, l’indignazione non si riferisce alla sostanza del razzismo israeliano, ma al fatto che i leader dell’estrema destra israeliana accampano la pretesa e la finzione che Israele non sia uno Stato razzista e che il sionismo non sia razzismo.

Sono menzogne difficili da sostenere quando i tuoi politici seguono come un guru l’uomo che ha asserito che gli arabi se ne debbano andare.

Uno degli slogan popolari tra i coloni israeliani è “Oggi tutti sanno che Kahane aveva ragione”. Non c’era bisogno che Netanyahu togliesse il bando sul partito Kach, perché la maggior parte di ciò che Kahane sosteneva è stata adottata in toto dai principali partiti politici israeliani.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Elezioni israeliane: creare un fronte contro l’apartheid

Oren Yiftachel

3 aprile 2019, Middle East Eye

È urgentemente necessario un nuovo discorso che rifletta la situazione sul terreno per stimolare le forze democratiche sia in Israele/Palestina che all’estero**

La campagna elettorale israeliana, in pieno svolgimento a meno di due settimane dal voto, ha oscillato tra le discussioni sulla corruzione e sul terrorismo.

Tuttavia criticamente pare aver evitato a tutti i costi la questione centrale che determinerà il futuro di Israele: il sistema di apartheid che gradualmente sta plasmando i rapporti tra ebrei e palestinesi.

Quelli che hanno fatto della pace il loro programma – come l’ex-ministra degli Esteri Tzipi Livni – sono stati messi da parte. Persino il recente intervento del presidente USA Donald Trump, che ha riconosciuto le pretese di sovranità israeliane sulle Alture del Golan, ha infiammato il dibattito più sul futuro del fronte settentrionale che sulla probabile futura annessione di terre palestinesi.

Il fatto di tacere su questa questione rende solo più grave il suo impatto a lungo termine, come una malattia non curata. Il campo democratico deve creare un fronte locale e internazionale contro l’apartheid per salvare il Paese da questo cupo futuro, guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu e dai suoi alleati.

Cecità geografica

Lunghi anni di incitamenti contro l’idea stessa di pace e di uno Stato palestinese – contro le organizzazioni per i diritti umani e la “sinistra” in generale – stanno avendo effetto. Molti israeliani progressisti hanno sollevato nuove (e importanti) bandiere, come i diritti delle donne e dei gay, la protezione ambientale e la giustizia sociale. Pare che la resistenza all’oppressione israeliana da parte dei palestinesi possa attendere un altro giorno. Ma si tratta di un’illusione pericolosa.

Questa noncuranza produce una cecità geografica, senza eguali in qualunque altra campagna elettorale nel suo complesso. Per un verso milioni di palestinesi controllati da Israele non sono tra i votanti e non hanno voce in capitolo nel decidere il governo che determinerà le loro vite. Dall’altro centinaia di migliaia di coloni ebrei – che risiedono nella stessa zona – sono considerati cittadini a tutti gli effetti e probabilmente saranno determinanti per stabilire chi farà parte del prossimo governo.

È importante ricordare che i territori palestinesi e i loro cinque milioni di abitanti non se ne andranno da nessuna parte. Israele colonizza questi territori con un continuo progetto coloniale, governando i palestinesi con un violento pugno di ferro. Nonostante la burla dell’“autodeterminazione” palestinese in piccole enclave, note come aree A e B [in base agli accordi di Oslo, ndt.], i recenti interventi israeliani hanno messo in evidenza chi siano i veri padroni della Palestina.

Questi hanno incluso il blocco del trasferimento delle imposte all’Autorità Nazionale Palestinese, le continue incursioni e le frequenti uccisioni dell’esercito israeliano nelle aree palestinesi “autogovernate”, il trasferimento e la distribuzione da parte di Israele dei soldi del Qatar a Gaza e il bombardamento a discrezione di decine di obiettivi palestinesi dopo attacchi con i razzi.

Apartheid strisciante

Israele controlla la zona tra il Giordano e il mar Mediterraneo in modo praticamente totale. Ma la cecità geografica attraverso cui le politiche elettorali “vedono” gli ebrei ma non i palestinesi tende a una trasformazione più profonda, meglio definita come apartheid strisciante.

In base a questo sistema durato decenni è stata creata e istituzionalizzata una serie di tipologie principali di cittadinanza come “separate e diseguali”. Gli ebrei possiedono ovunque sulla terra piena cittadinanza, mentre i palestinesi sono frammentati in categorie giuridiche inferiori: cittadini israeliani di seconda classe, “residenti” di Gerusalemme est, “sudditi” della Cisgiordania e di Gaza, rifugiati nei campi.

I paralleli con l’apartheid sudafricano sono chiari: gli ebrei sono simili ai “bianchi”, i palestinesi in Israele sono i “coloured” [definizione che in Sudafrica comprendeva la popolazione non bianca ma neppure nera, come indiani e mulatti, ndt.], e i loro fratelli in Cisgiordania e a Gaza sono i “neri”.

Geograficamente le centinaia di colonie in Cisgiordania sono state collegate al resto di Israele, mentre i palestinesi sono chiusi nelle loro enclave, che sembrano bantustan [territori in cui le popolazioni native del Sudafrica esercitavano un autogoverno formale, ndt.], dai due lati della Linea Verde [il confine tra il territorio israeliano e quello palestinese occupato, ndt.].

Ciò ha trasformato l’occupazione militare – che si presumeva “esterna” e “temporanea” – in un dominio interno, civile e permanente. Questo fatto è stato di recente codificato con la legge dello Stato-Nazione, che ha dichiarato Israele patria degli ebrei, dove solo essi godono del diritto all’autodeterminazione, e che promuove la colonizzazione ebraica in tutta la zona.

La politica economica di Israele – che destina la grande maggioranza delle risorse agli ebrei, ebraicizzando la terra e soffocando lo sviluppo palestinese – è un altro caposaldo della struttura “separata e ineguale”. I palestinesi hanno contribuito alla situazione di stallo con anni di terrorismo, ma il potere di cambiare direzione rimane fermamente nelle sue [di Israele] mani.

Definizioni distorte

Ciò richiede la riconfigurazione delle definizioni politiche e delle lotte. Il linguaggio della “destra contro la sinistra” è distorto, dipingendo Israele come uno Stato normale con un campo nazionalista conservatore in competizione con un campo liberale più progressista. In tali Stati “normali”, la lotta tra destra e sinistra è contenuta in confini demografici e politici chiari. Nessun campo chiede la rottura di questi confini, di annettere nuovi territori o assoggettare milioni di persone al potere coloniale contro la loro volontà.

Eppure nelle imminenti elezioni israeliane questo è esattamente il programma di tutti i partiti associati alla cerchia del Likud e oltre, compresi tutti i partiti religiosi ebrei, che sommano più di metà del parlamento (ma che rappresentano forse un quarto delle persone sottoposte al governo israeliano).

Questi politici si oppongono alla fondazione di uno Stato palestinese e appoggiano la prosecuzione del controllo israeliano su tutta la terra, contro le leggi internazionali e la volontà dei palestinesi.

Ciò è stato reso ancora più evidente con l’inclusione del partito razzista Otzma Yehudit (Potere Ebraico) nel campo conservatore “legittimo”, dopo decenni in cui tutti i partiti ebraici hanno rifiutato una simile alleanza.

Quindi la maschera è caduta – questo è un progetto colonialista contro i diritti dei palestinesi e quanti ne appoggiano la lotta, e lo strumento principale è l’emergere di uno Stato dell’apartheid.

La lotta contro questo progetto inizia dandogli il nome corretto. Questo non è un “programma di destra”, ma l’emergere di un blocco dell’apartheid. Questa non è una semplice lotta tra due movimenti nazionali, questo è colonialismo. È probabile che, dopo le elezioni, la situazione di apartheid si accentui, creando maggiori barriere geografiche, legali ed economiche all’uguaglianza e alla democrazia. 

La nuova mappa politica dei territori palestinesi sembrerà probabilmente sempre più simile ai bantustan neri del Sudafrica prima del 1994 [data della fine formale del sistema di apartheid sudafricano, ndt.], con il previsto appoggio del regime USA e la silenziosa accettazione da parte di Russia, India e persino Europa.

Coalizioni internazionali

Cosa dovrebbero fare le forze democratiche e progressiste? Innanzitutto, a breve termine prima delle elezioni, l’ovvia situazione di apartheid dovrebbe essere denunciata ovunque. Chiunque creda nella democrazia deve creare un fronte unito contro l’apartheid.

Questo è un comune denominatore che può unire le forze, dalla destra moderata ai partiti arabi, nonostante le notevoli differenze su altre questioni. Chiedere un fronte contro l’apartheid metterà la questione sotto i riflettori, rompendo l’attuale cecità geografica e politica. La vecchia retorica della “democrazia qui e occupazione là” o “sinistra contro destra” è morta.

Il discorso di Bar-Ilan [università nei pressi di Tel Aviv, ndt.], in cui Netanyahu ha parlato di una soluzione dei due Stati un decennio fa, è morto. È urgentemente necessario un nuovo discorso che rifletta la situazione sul terreno per stimolare le forze democratiche sia in Israele/Palestina che all’estero. Ciò è particolarmente significativo per le comunità ebraiche in tutto il mondo che sono spesso in prima fila nella lotta per la democrazia e i diritti umani, ma che in genere tacciono sui crimini israeliani. È altrettanto importante per i sostenitori della lotta dei palestinesi per la giustizia affrontare la nuova situazione.

I discorsi pubblici non cambiano da un momento all’altro. Il fronte contro l’apartheid dovrà lavorare dopo le elezioni e raccogliere ogni possibile minimo appoggio per combattere i pericoli che si trova di fronte. Dovrà creare coalizioni tra ebrei, palestinesi ed internazionali, mobilitare le leggi internazionali, attirare l’attenzione dei media e occupare le piazze.

Le soluzioni all’attuale scenario di apartheid possono variare. Conflitti di lungo termine simili in Irlanda del Nord, Bosnia, Macedonia, Colombia e Sudafrica hanno indicato una serie di soluzioni: partizione, confederazione, federazione, Stato unitario binazionale o liberal-democratico.

Tutte sono possibili in Israele-Palestina, anche se la federazione sembra la più probabile. Ma prima si deve costituire un fronte contro l’apartheid per bloccare la degenerazione – e al più presto.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Oren Yiftachel è professore ospite [della cattedra] Leverhulme nel dipartimento di geografia dell’University College di Londra.

(traduzione di Amedeo Rossi)

**Nota redazionale: abbiamo deciso di tradurre questo articolo in quanto ci sembra interessante come parte del dibattito relativo alle imminenti elezioni israeliane.  Yiftachel è un noto studioso ed intellettuale israeliano, autore dell’importante saggio “Ethnocracy”, relativo alle politiche discriminatorie, anche su base territoriale, praticate dall’élite askenazita in Israele. Tuttavia la redazione non concorda con alcune valutazioni espresse in questo intervento. Non riteniamo che Tzipi Livni, né tanto meno il resto dello spettro politico israeliano, possa essere considerato il campo favorevole alla pace. In questo senso il fatto di non citare esplicitamente il principale sfidante di Netanyahu e della sua coalizione, il generale Benny Gantz e la sua alleanza di centro come sostenitori delle politiche di apartheid sembra indicare la destra estrema come unica responsabile. Infine già esiste una coalizione internazionale tra palestinesi, militanti israeliani di sinistra e internazionali che lotta contro le politiche israeliane e contro il sistema di apartheid: il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), di cui l’autore non fa parola.

 




Soldati israeliani arrestano bambino di 10 anni

Soldati israeliani irrompono in una scuola palestinese e arrestano un bambino di 10 anni

Soldati pesantemente armati entrano nella scuola a Hebron occupata, minacciano gli insegnanti e portano via un bambino andando probabilmente oltre il loro potere di arrestarlo perché troppo giovane

+972

Di Meron Rapoport – 21 marzo 2019

 

Questa settimana soldati israeliani pesantemente armati hanno fatto irruzione in una scuola palestinese a Hebron, nella Cisgiordania occupata, ed hanno portato via un bambino di 10 anni. Per le leggi israeliane sia civili che militari l’età minima per essere imputati penalmente è di 12 anni.

Benché i soldati in questo caso siano probabilmente andati oltre il loro potere, non sarebbe la prima volta che ciò accade. È stato documentato che nel corso degli anni soldati israeliani hanno arrestato e imprigionato bambini palestinesi ancora più giovani, soprattutto ad Hebron.

L’episodio di questa settimana è avvenuto alla scuola Haj Ziad Jaber di Hebron, una città della Cisgiordania in cui centinaia di soldati israeliani sono dislocati in permanenza vicino a centinaia di coloni ebrei e a decine di migliaia di palestinesi.

Mentre i coloni ebrei che vivono nella stessa città sono sottoposti alle leggi civili israeliane, i palestinesi, anche quelli che abitano nella stessa via, sono sottoposti alle leggi militari e possono essere arrestati in qualunque momento dalle truppe israeliane – un esercito straniero.

Secondo un articolo di Ma’an News [sito di notizie palestinese, ndt.], che ha pubblicato un video dell’episodio, i soldati hanno fatto irruzione nella scuola e hanno trascinato via il bambino dall’aula. La scuola ha scritto sulla sua pagina Facebook che il bambino frequenta la quarta elementare.

Nel video si può vedere un ufficiale dell’esercito israeliano afferrare il bambino, che sembra giovanissimo. Qualche adulto palestinese, compreso il vice-preside della scuola, cerca di impedire ai soldati di portarselo via.

Si vede un altro soldato israeliano spingere un anziano palestinese, che Ma’an ha identificato come il vice-preside. Quando un altro insegnante palestinese cerca di spiegare ai soldati che si tratta di un bambino piccolo, l’ufficiale israeliano gli risponde in ebraico: “Hanno lanciato pietre, non mi importa la loro età,” aggiungendo che li avrebbe portati in una stazione di polizia israeliana.

Quando il vice-preside chiede ai soldati israeliani di spiegare in arabo quello che sta succedendo, l’ufficiale dell’esercito risponde, di nuovo in ebraico: “Non me ne frega niente del tuo arabo.”

La maggioranza dei palestinesi non parla ebraico e quasi tutti i soldati israeliani, persino quelli con funzioni che richiedono loro di interagire quotidianamente con la popolazione palestinese occupata, non parla arabo.

Nel video ad un certo punto si vede l’ufficiale israeliano parlare nella sua radio e ordinare ad altri soldati di entrare a scuola, dicendo: “Ci sono insegnanti che mi stanno saltando addosso.” Un altro soldato allora minaccia di rompere un braccio a uno dei maestri palestinesi.

Quando un insegnante palestinese chiede di parlare con un ufficiale israeliano di grado superiore, l’ufficiale che per primo ha fatto irruzione nella scuola per arrestare il bambino risponde: “Parla con chi vuoi, non me ne frega niente.”

Alla fine, dopo che i rinforzi dell’esercito israeliano hanno occupato i corridoi della scuola elementare, ognuno con in mano un fucile da guerra, i soldati portano via il bambino palestinese di 10 anni e almeno uno degli adulti.

Secondo Ma’an, “fonti locali” hanno detto che a quel punto le autorità palestinesi hanno cercato di intervenire e il bambino è stato rilasciato qualche tempo dopo.

Gaby Lasky, avvocatessa israeliana specializzata in diritti umani nei territori palestinesi occupati, ha affermato che, poiché l’età minima per essere imputati penalmente è di 12 anni, “i soldati non avevano l’autorità di arrestare il bambino.”

“Ogni soldato, e sicuramente ogni ufficiale, dovrebbe sapere di non avere l’autorità legale di arrestare o giudicare un bambino di quell’età,” ha spiegato Lasky. Anche entrare in una scuola durante le ore di lezione con delle armi, senza autorizzazione e senza essersi messi d’accordo con la direzione della scuola è una cosa che dovrebbe essere vietata. Di solito, dice, persino l’esercito evita di farlo.

Lasky dice che sta pensando di presentare un esposto contro i soldati per essere entrati nella scuola ed aver arrestato il bambino.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha risposto affermando che un gruppo di studenti aveva lanciato pietre verso auto israeliane nella colonia ebraica di Hebron e che, in seguito all’incidente, una “forza militare ha fatto un ammonimento verbale agli scolari, ma non sono stati arrestati.”

Tuttavia, ha aggiunto il portavoce, “l’episodio verrà indagato e in base a ciò verrà chiarito il regolamento.”

 

Meron Rapoport è un giornalista di “Local Call” [sito di notizie in ebraico di +972, ndt.], dove è già stata pubblicata una versione in ebraico di questo articolo.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 

 




L’antisionismo è una forma di antisemitismo?

Azmi Bishara

15 marzo 2019, il lavoro culturale

Durante la visita del 27 febbraio scorso al cimitero ebraico di Quatzenheim, nel dipartimento francese del Basso Reno, il presidente Francese Emmanuel Macron ha promesso di prendere «misure legali» per combattere l’antisemitismo, dichiarando: «agiremo, approveremo delle leggi e puniremo». Successivamente Macron ha visitato il Memoriale dell’Olocausto a Parigi assieme ai Presidenti del Senato e dell’Assemblea Nazionale.

Il giorno seguente, in un discorso alla 34° cena annuale del CRIF (Conseil Représentatif des Institutions Juives de France, n.d.r.), Macron ha promesso che la Francia adotterà una definizione di antisemitismo nella sua legislazione in conformità con quella utilizzata dall’International Holocaust Remembrance Alliance. Questa include l’antisionismo, che Macron ha definito «una delle forme moderne di antisemitismo».[1] Non c’è alcun dubbio che i ripugnanti graffiti che hanno dissacrato quelle tombe costituiscano un crimine d’odio antisemita. Ma in che modo questo ha a che fare con l’antisionismo e certe posizioni verso Israele?

A prescindere dal fatto che Macron voglia veramente, o addirittura possa far approvare una legge del genere, sembra che il presidente francese abbia ben poche conoscenze sia sull’antisionismo sia sull’antisemitismo. Macron sarà sorpreso di apprendere che, non solo alcuni dei più importanti pensatori antisionisti sono degli intellettuali ebrei di varie sensibilità politiche, ma che lo stesso antisionismo, come il sionismo, è un fenomeno ebraico, sviluppatosi originariamente come risposta ebraica al sionismo. Sarà difficile per Macron classificare l’antisionismo come forma di antisemitismo dato che non esiste alcuna connessione tra le due idee.

È vero che prima e dopo la creazione di Israele, e in un contesto di intensa attività sionista in Palestina, ci sono state alcune intersezioni tra il rifiuto indigeno del sionismo in quanto progetto coloniale (non ebraico) e alcuni tratti della propaganda antisemita europea. Questa propaganda ha fornito terminologie e teorie del complotto pronte per l’importazione in Palestina, ma non c’era alcuna relazione storica o teorica tra i due fenomeni. Il rifiuto arabo e palestinese del sionismo non era una questione di ostilità etnica, religiosa o sociale verso gli ebrei ma di rifiuto della conquista coloniale del loro Paese, proprio come gli algerini rifiutavano di accettare l’insediamento di coloni nel loro Paese e altri popoli hanno fatto e farebbero a prescindere dalla loro religione o dalla religione dei coloni.

Tutte le risoluzioni approvate dalle conferenze palestinesi e siriane degli anni Venti rappresentano i primi esempi di distinzione tra ebrei “nazionali” (ovvero indigeni) e coloni ebrei. Il ripugnate (per quanto raro) utilizzo da parte di una certa retorica del nazionalismo arabo di elementi tratti dal linguaggio dell’estrema destra europea, specialmente dopo la sconfitta del 1967, rappresenta la generalizzazione di una propaganda ostile nel contesto di un conflitto militare. La propaganda interna israeliana invece è stata tutt’altro che timida nell’utilizzare un linguaggio e un immaginario razzista per colpire arabi e musulmani. Il razzismo antiarabo ha infatti penetrato il sistema educativo israeliano, la retorica militare e mediatica e molti lavori di letteratura.[2]

Gli ebrei antisionisti hanno giustificato la loro posizione sulla base di argomentazioni religiose, morali e intellettuali, sia da sinistra sia da posizioni liberali. Proprio come esistono degli ebrei antisionisti, in Europa e negli Stati Uniti ci sono anche molti antisemiti che ammirano sia Israele sia il sionismo. Il motivo di questa ammirazione può essere il poderoso stato coloniale che il sionismo ha costruito, il militarismo israeliano, o il modello che Israele ha offerto nella lotta al terrorismo e ai musulmani. In alcuni casi dietro l’ammirazione si nasconde un doppio fine, dato che il sionismo agisce per svuotare l’Europa della sua popolazione ebraica. Questo è quello che gli antisemiti vogliono. I movimenti antisemiti hanno osservato con soddisfazione gli ebrei concentrarsi in un Paese del Medio Oriente, così da non essere più una seccatura per l’Europa.

Non sussiste alcuna sovrapposizione sostanziale tra antisemitismo e antisionismo. Quindi perché sostenere che l’antisionismo sia un fenomeno ebraico?

Il sionismo emerse in seguito alla creazione di una nuova definizione di giudaismo che storicamente ha trasformato il significato dell’ebraicità. È logico che la prima reazione a questo avvenimento sarebbe apparsa in seno alla comunità ebraica. Per i credenti, il sionismo ha riformulato l’essere ebreo dall’essere “il popolo eletto di Dio”, “il popolo del libro” o “un popolo come nessun altro” all’essere parte di una nazione etnica che, come altre nazioni europee del diciannovesimo secolo, cerca di acquisire la sovranità nazionale nella forma di uno Stato-nazione (fuori dall’Europa nel caso di Israele). Anche per i laici il sionismo ha riformulato il giudaismo e lo ha trasformato dall’essere una religione – che non avrebbe dovuto rappresentare un ostacolo all’integrazione nelle nazioni degli Stati laici di cui erano cittadini – in un’identità etnica.

Le prime posizioni antisioniste apparvero all’interno delle principali correnti religiose ebraiche, non solo perché il sionismo è un movimento secolare, ma anche perché il sionismo ha commesso il peccato imperdonabile di secolarizzare il giudaismo stesso, trasformando la religione in una nazionalità etnica.

Le correnti religiose ebraiche hanno modificato la loro idea di popolo eletto di Dio. Alcuni gruppi credono che Dio abbia posto gli ebrei al di sopra degli altri popoli, mentre altri traggono il significato di “eletto” dai tempi della profezia, facendone derivare dei doveri religiosi ed etici e maggiori obblighi piuttosto che privilegi. Esistono molte altre idee. Tuttavia, c’è un consenso generale nel rifiutare l’idea che l’ebraismo sia una nazione che lotta per l’edificazione di uno Stato in questo mondo. Alcuni di questi movimenti aspettano l’arrivo del Messia per costruire uno Stato paradisiaco e salvare il popolo ebraico. Il sionismo è quindi considerata una falsa profezia, incarnata dal progetto statuale, che si proclama (falso) Messia e interferisce nel lavoro di Dio. La maggioranza delle correnti religiose ebraiche, siano esse chassidiche, pseudomistiche o ultraortodosse modaliste, si sono opposte a questa secolarizzazione della comunità ebraica.[3]

Ci fu una ristretta corrente del pensiero religioso ebraico che si intersecò col sionismo, dando vita al movimento Mizrahi. Questo movimento, secondo l’opinione mia e di molti altri, ha formato il nucleo della successiva sovrapposizione tra nazionalismo e religione nei movimenti dei coloni e nelle organizzazioni di estremisti nazionalisti religiosi in Israele. Prima della crescita di questo movimento, religiosità ebraica e “sionistizzazione” erano completamente separate. L’espansione dei movimenti nazional-religiosi in Israele può essere fatta risalire alla crescita in influenza della Yeshiva Mercaz HaRav a Gerusalemme e all’euforia israeliana in seguito al “miracolo divino” del 1967, che portò all’occupazione di “Giudea e Samaria” (la Cisgiordania) e “alla riunificazione” dell’Israele biblica sotto lo Stato di Israele.

Fino ad allora, il sionismo secolare ha fatto uso della religione per necessità, perché era altrimenti impossibile giustificare la scelta della Palestina come luogo in cui edificare lo Stato senza un collegamento biblico ed anche perché la risposta data dal sionismo e dallo Stato di Israele alla domanda “chi è un ebreo?” – una domanda necessaria per definire la cittadinanza – era la definizione di ebrei come formulata dal giudaismo. Da tempo ho previsto che questi movimenti sarebbero cresciuti e che la loro retorica sarebbe divenuta egemonica come risultato delle pratiche di occupazione e della convergenza tra retorica sionista e retorica religiosa nella giustificazione dell’occupazione di Gerusalemme e della Cisgiordania.[4]

La seconda corrente in contrasto col sionismo è la sinistra ebraica. Alcuni all’interno dei partiti comunisti (in particolare i Bolscevichi russi), consideravano il sionismo un movimento borghese che avrebbe condotto alla separazione dei lavoratori ebrei dalla lotta del proletariato per una società più giusta; per essi, la questione ebraica e l’oppressione di tutte le minoranze poteva risolversi con la fine dello sfruttamento e con la lotta di classe. I bundisti ebrei concepivano l’ebraicità sia in una dimensione religiosa che culturale/nazionale. Essi credevano che la questione ebraica si sarebbe risolta grazie al socialismo, ma che i problemi degli ebrei erano simili a quelli del resto della popolazione russa, e che questi problemi si sarebbero risolti attraverso l’ottenimento dello status legale di minoranza. Essi vedevano il sionismo come un movimento isolazionista che cercava di contribuire alle attività coloniali nel Levante Arabo a non a una soluzione della questione ebraica in Europa.[5]

Nelle province russe, in Polonia e nei Paesi baltici, la sinistra ebraica inquadrata in movimenti e sindacati lasciò crescere alcune correnti sioniste che aspiravano a combinare la liberazione nazionale e di classe attraverso la creazione di colonie socialiste in Palestina. Essi non furono però in grado di risolvere la contraddizione tra ciò che vedevano come liberazione nazionale e di classe e le pratiche di colonizzazione della terra di un altro popolo, rimanendo così prigionieri di questa contraddizione. Il movimento antisionista di sinistra rimase forte per tutto il Ventesimo secolo, poiché il numero degli ebrei nei movimenti di sinistra, comunisti e socialisti d’Europa, inclusa la Francia, era alto rispetto alla proporzione degli ebrei nella popolazione generale. Essi credevano che la soluzione alla questione ebraica risiedesse nel risolvere il problema delle classi sociali in Europa.

Una terza corrente è rappresentata dagli ebrei assimilazionisti composta di liberali, democratici e altre forze non-ideologiche di cui facevano parte il filosofo Hermann Cohen, lo scrittore Karl Kraus e molti altri. Anche lo stesso padre del sionismo, Herzl, era in favore dell’assimilazione prima di assistere al processo Dreyfus in Francia. Molti di essi credevano che la transizione degli europei verso la democrazia liberale avrebbe garantito agli ebrei cittadinanza e integrazione nelle loro società.[6] Era questo il caso della maggioranza degli ebrei tedeschi, francesi e britannici che furono sopresi dal Nazismo rendendoli nuovamente coscienti della loro ebraicità. Le tragiche vicende di persone come Stefan Zweig, forse anche lo stesso Walter Benjamin, ne furono espressioni particolarmente rappresentative. Ma più importanti sono i milioni di ebrei cui nessun scrittore o pensatore dà voce.

Nei lavori in cui Zygmunt Bauman trae alcune lezioni dall’Olocausto, specialmente nel suo Modernità e Olocausto, egli tenta di tenere assieme una posizione generale contro il razzismo, l’estremismo nazionalista e la xenofobia a un’opposizione al trattamento del popolo palestinese da parte di Israele. Nel suo libro Bauman rifiuta la pretesa israeliana di parlare a nome delle vittime e la strumentalizzazione sionista dell’olocausto.[7] Hannah Arendt e altri pensatori lo hanno preceduto con critiche simili che derivavano da una morale universale e dal rifiuto di ogni forma di razzismo, compreso il razzismo ebraico.

Il sionismo ha da allora criticato gli ebrei per essersi fatti ingannare dalle idee socialiste e liberali e dal fallimento delle loro politiche. Gli scrittori sionisti rivendicano il successo del sionismo nell’aver colto l’ideologia dominante dell’epoca, il nazionalismo; i sionisti, una volta una minoranza tra gli ebrei, sono riusciti dove le idee più popolari tra gli ebrei hanno fallito. Secondo la loro visione, il sionismo ha riconosciuto che la soluzione alle questioni etniche non risiedeva nella democrazia liberale o nel socialismo, ma nell’edificazione di uno Stato. Secondo questa visione, il nazismo e l’antisemitismo sono le migliori conferme del fatto che il sionismo sia stata la scelta migliore e che gli assimilazionisti in Germania, Francia e nel resto d’Europa si sbagliavano.

Il dibattito ha fino a ora ignorato la natura di questa “soluzione nazionale” della questione ebraica e la sua natura di progetto coloniale portato avanti a danno di altri, i palestinesi. Al contrario, si continua a riflettere sul sionismo come se fosse una questione europea, interna e soprattutto ebraica.

Come affronterà questi fatti il signor Macron? L’ignoranza non è una scusa per i capi di Stato, soprattutto di uno Stato importante come il suo. Questi dibattiti sono parte della storia della Francia, non solo della Germania. Come dimostra l’esperienza di Herzl, l’antisemitismo francese ha contribuito alla nascita del sionismo. La Francia ha fornito il prototipo di integrazione civile, ma l’antisemitismo ha ciononostante rialzato orrendamente la sua testa durante il caso Dreyfus, “risvegliando” Herzl e facendogli aprire gli occhi su una “realtà” che non aveva mai visto prima: ovvero, che la discriminazione degli ebrei nei Paesi europei era una malattia cronica e incurabile e che gli ebrei sarebbero rimasti degli stranieri in Europa nonostante tutti gli sforzi fatti per essere assimilati.[8]

L’involontario e oggettivo alleato ideologico del sionismo è l’antisemitismo. Il pensatore ebreo Claude Montefiore lo osservò agli inizi del Ventesimo secolo nella sua critica della creazione di una doppia lealtà per gli ebrei.[9] Inoltre, il sionismo sin dalla sua nascita, non solo ha considerato l’antisemitismo una malattia eterna che appesta i popoli dei Paesi dove vivono gli ebrei, ma ha anche plasmato una visione negativa (quasi razzista) dell’ebreo debole, umiliato e reietto che non possiede un carattere e un sentimento nazionale.

antisionismo e antisemitismoIl libro di Herzl descrive lo Stato ebraico dipingendo con tratti dispregiativi gli immigrati ebrei russi in Europa centrale, utilizzando una terminologia che non sarebbe apparsa fuori luogo in un dizionario antisemita.[10] In seguito il sionismo sviluppò il “profilo” dell’ebreo israeliano così sicuro di sé al punto di diventare aggressivo, che lavora la terra e che imbraccia le armi, che riesce a salvarsi dal vittimismo diventando un occupante (un persecutore).

Storicamente, sono stati l’antisemitismo e le ondate persecutorie sofferte dagli ebrei che hanno dato vita al loro progetto. I gruppi ebraici sono stati persuasi a emigrare dai loro Paesi sotto il peso delle diverse ondate di antisemitismo in Europa, che si trattasse delle Centurie Nere in Russia, dei nazisti in Germania o dei razzisti francesi. Ma dopo ogni ondata, erano gli Stati Uniti e non Israele la destinazione preferenziale della maggior parte degli emigranti. Anche quando perseguitati, la maggior parte degli ebrei non divenne sionista. Per essi, il progetto sionista era qualcosa di distinto che cercava di raggiungere degli obiettivi che non avevano niente a che fare con la fine delle loro sofferenze.

È naturale per i non-ebrei non essere sionisti. Il sionismo è un movimento ebraico. Non preoccupa i non-ebrei a meno che non rappresenti una minaccia o comporti idee e pratiche che contraddicano i loro principi. E non ogni intellettuale in disaccordo col sionismo diventa necessariamente ostile o essenzialmente antisionista. Né, certamente, questo comporta posizioni negative nei confronti degli ebrei.

Coloro che odiavano gli ebrei per motivi religiosi, etnici o sociali (le tre fonti dell’antisemitismo), lo facevano ben prima dell’emergere del sionismo. La maggioranza di coloro che erano contrari al sionismo erano ebrei. L’antisemitismo, religioso o sociale, è un fenomeno razzista che esisteva prima del sionismo. Tuttavia, non si tratta più del fenomeno centrale nella vita sociale dell’occidente, e non divenne mai un fenomeno globale, diversamente da quanto Israele ha cercato di sostenere per ragioni politiche.[11]

Non si può affermare che arabi e musulmani del diciannovesimo secolo fossero antisionisti. Non sapevano nemmeno che cosa fosse e il sionismo non significava nulla per loro. Quando l’ostilità nei confronti del sionismo cominciò a crescere in Palestina, questa non era di carattere intellettuale, ma piuttosto si trattava di un’attitudine collettiva di contadini, intellettuali e borghesia nazionale di una popolazione che aveva vissuto in Palestina per secoli e si opponeva alla colonizzazione della propria terra, in particolare dopo aver compreso che si trattava di un progetto politico teso alla creazione di uno Stato risultante dalla Dichiarazione Balfour nel Mandato Britannico.

Allo stesso tempo, la fondazione di uno Stato ebraico in un Paese dove vivevano una maggioranza araba e una piccola minoranza ebraica, poteva solo significare l’espulsione della prima dalla propria terra. La tolleranza era il sentimento prevalente a quel tempo, con ebrei praticanti che vivevano in Palestina da prima del sionismo. Questo è chiaro dati i numerosi quartieri ebraici a Gerusalemme, Hebron, Tiberiade e Safed. Gli arabi non avevano familiarità con l’antisemitismo.

L’impero ottomano e i Paesi arabi hanno vissuto occasionalmente ondate di istigazione e pratiche brutali contro le minoranze religiose, specialmente in tempo di crisi. Tuttavia, si trattava di eccezioni e non della regola.  Non c’erano particolari fenomeni di ostilità antiebraica da potersi definire antisemiti. Bisogna anche ricordare che una delle prime condanne contro gli insediamenti sionisti in Palestina venne dalla comunità ebrea ortodossa di Gerusalemme. Furono i primi a denunciare ideologicamente gli insediamenti sionisti in Palestina in una petizione diretta al Sultano ottomano.[12]

Le posizioni all’interno della comunità ebraica sono cambiate da quando il sionismo è riuscito a fondare uno Stato. Il sionismo rimase un movimento minoritario all’interno dell’ebraismo internazionale fino alla vittoria israeliana nella guerra del 1967, la quale attrasse ampio sostegno per Israele e convinse gli ebrei in tutto il mondo che il progetto era realistico e che non si trattava solo di avventurismo. Ma il più importante cambiamento è avvenuto proprio in Israele. Molti partiti religiosi si sono legati ai servizi forniti dallo Stato, “sionistizzandosi” nella loro partecipazione al nazionalismo israeliano durante la lotta contro gli arabi. La destra e la sinistra israeliana, che avevano solo affinità trascurabili con la sinistra e la destra ebraica prima della fondazione dello Stato ebraico, sono emerse parallelamente al militarismo israeliano e alla vanità del potere, col profilarsi di un conflitto per la definizione del carattere laico o religioso dello Stato.

Herzl appare un laico moderato rispetto alla classe politica di questo Stato. Sosteneva la concessione di eguali diritti civili agli arabi e voleva tenere fuori Gerusalemme e il cosiddetto “Monte del Tempio” per preservare il carattere laico del suo futuro Stato. Ma Israele che occupa tutta Gerusalemme, la Cisgiordania, le Alture del Golan, che assedia Gaza e possiede armamenti nucleari, continua a presentarsi come una vittima e utilizza la memoria dell’Olocausto per rappresentare delle vittime che non hanno mai chiesto questa rappresentanza. Allo stesso tempo taccia di antisemitismo chiunque in occidente critichi le sue politiche.

Le questioni del razzismo e del sionismo si sovrapposero con le politiche internazionali. Il 10 novembre 1975, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la risoluzione 3379 la quale affermava che “il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale”. Questa risoluzione fu abrogata dalla risoluzione 46/86 il 16 dicembre 1991, dopo la caduta del comunismo.[13]

In entrambi i casi, pesarono questioni di alleanze internazionali e il passaggio, nell’equilibrio internazionale del potere, da una fase di alleanza tra Paesi neutrali e il campo socialista negli anni Sessanta e Settanta, in cui l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) raggiunse un certo peso, alla rottura di queste alleanze. Il rapporto tra Israele e Stati Uniti ha giocato un ruolo chiave in tutto ciò, ma l’antisemitismo non era in questione ma lo erano le pratiche di Israele nei confronti dei palestinesi sotto occupazione. Questo non è cambiato, si è piuttosto aggravato, con crescenti livelli di razzismo nella stessa Israele, secondo quanto riferito da indagini israeliane di ogni tipo.[14]

La destra estrema di oggi nei Paesi europei, la cui retorica e cultura politica sono in linea col “profilo” dell’antisemitismo, ammira Israele e Netanyahu. L’antisemita è sbalordito nel vedere Israele che costruisce il muro di separazione in Palestina, guarda con stupore le sue politiche verso gli arabi, esempi che l’Europa e l’America dovrebbero seguire, in amore di Putin e Trump e in odio dei musulmani. L’antisemitismo contemporaneo non è antisionismo, ma xenofobia e, in particolare, islamofobia. L’antisemitismo non può essere combattuto ingraziandosi i favori di lobbisti e politici israeliani durante un meeting. Esso ci impone di combattere tutti i tipi di razzismo, che sia diretto contro gli ebrei, i musulmani, i neri o i bianchi.

[1] “Macron announces measures to combat anti-Semitism in France”, France 24, 21 febbraio 2019: https://amp.france24.com/en/20190220-macron-announces-measures-combat-anti-semitism-france-crif-definition-anti-zionism; and Richard Lough, “France’s Macron says anti-Zionism is a form of anti-Semitism”, Reuters, 21 febbraio 2019: https://uk.reuters.com/article/uk-france-antisemitism-idUKKCN1QA1GX

[2] Daniel Bar-Tal and Yona Teichman, Stereotypes and Prejudice in Conflict: Representations of Arabs in Israeli Jewish Society(Cambridge: Cambridge University Press, 2009). Mazal Mualem, “Anti-Arab racism becomes tool in Israeli elections”, Al-Monitor,  10 febbraio 2015 at: http://bit.ly/2Udgp5i; Nurit Peled-Elhanan, Palestine in Israeli School Books: Ideology and Propaganda in Education, (New York: I.B. Tauris, 2012); Ben White, Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy, forward by Haneen Zoabi (London: Pluto Press, 2012),. Ali Abunimah, “Anti-Arab racism and incitement in Israel”, The Electronic Intifada, 30 marzo 2008: http://bit.ly/2IAmS8V;

[3] La posizione degli ebrei ortodossi è ben nota, come anche la formazione del partito antisionista Agudat Israel nel 1912. Non è possibile citare qui i numerosi esempi della forte ostilità che gli ebrei ortodossi provarono verso il sionismo. Ma lo stesso si può dire dell’ebraismo riformista. Posizioni antisioniste apparvero anche prima del Primo Congresso Sionista del 1897, per esempio alla conferenza conservatrice di Francoforte (1845) e alla conferenza rabbinica di Filadelfia (1869) o alla Piattaforma di Pittsburgh (1885) e in una risoluzione approvata durante la prima Conferenza Centrale del Gruppo Riformista (1890).

[4] Azmi Bishara, “Dawwamat ad-Din wa’d-Dawla fi Isra’il”, ad-Dirasat al-Filistiniyya 1:3 (Summer 1990), p. 24 (accessed on 28/02/2019, https://bit.ly/2Eyv7hv).

[5] La sezione ebraica del Partito Comunista Sovietico (Yevsektsiya), ad esempio, adottò una posizione esplicitamente antisionista nel suo sforzo di mobilitare i lavorati ebrei all’interno delle organizzazioni rivoluzionarie, e invocò una soluzione alla “questione ebraica” sulla base della lotta al capitalismo, all’imperialismo e alla discriminazione razziale e religiosa che includeva la lotta ai capitalisti ebrei alleati col sionismo.

[6] Durante la prima metà del Diciannovesimo secolo, Marx e Bruno Bauer animarono il dibatto su quale fosse la soluzione, la democrazia liberale o il socialismo. Bauer credeva che la cittadinanza in ogni stato democratico europeo fosse sufficiente all’integrazione degli ebrei in quanto cittadini, mentre Marx sosteneva che la società dovesse prima essere liberata del capitale affinché gli ebrei fossero anch’essi liberati.

[7] Zygmunt Bauman, Modernity and the Holocaust (Ithaca, N.Y.: Cornell University Press, 1989).

[8] Il caso Dreyfus iniziò nel 1894 quando il Capitano Alfred Dreyfus, un ebreo francese, fu accusato di tradimento sulla base di accuse secondo le quali avrebbe inviato informazioni sensibili in Germania. Il caso divise gli intellettuali e i politici francesi fino al 1906 e portò Herzl a fare della “soluzione al problema ebraico” la sua ossessione. In proposito si veda: Katrin Schultheiss, “The Dreyfus Affair and History,” Journal of The Historical Society, vol. 12, no. 2 (June 2012), pp. 189-203, visitato il 28 febbraio 2019: https://bit.ly/2HaWd0f; “Herzl,” Neue Freie Presse, June 1899, in: Alex Bein, Theodor Herzl: A Biography (New York: Jewish Publication Society of America, 1941).

[9] Geoffrey Alderman, Modern British Jewry, (New York: Clarendon Press of Oxford University Press, 1992) Rev.ed.1998, p. 232.

[10] Theodor Herzl, A Jewish State: An Attempt at a Modern Solution of the Jewish Question (New York: The Maccabaean Publishing Co, 1904), pp. 12-13.

[11] La deputata americana Ilhan Omar è stata oggetto di un’ampia campagna che l’ha accusata di antisemitismo per via di un tweet critico nei confronti di un gruppo di pressione israeliano (AIPAC), una lobby che lavora apertamente ed ufficialmente per influenzare i politici, le cu attività dovrebbero essere oggetto di critiche, anche pesanti se necessario. Nel giro di dodici ore, la leadership del Partito Democratico ha rilasciato un comunicato in cui rimproverava Omar per il suo tweet, per il quale lei stessa si è scusata. Molti repubblicani hanno continuato ad invocare la sua espulsione dalla commissione affari esteri del Congresso. Si veda in proposito: “Muslim Congresswoman Ilhan Omar in anti-Semitism row after criticising pro-Israel politicians” The New Arab, 12 febbraio 2019: http://bit.ly/2EcDYUV; John Bowden, “Omar deletes tweets at center of anti-Semitism controversy”, The Hill, Feb. 26, 2019, https://bit.ly/2Vmwcif ; Sheryl Gay Stolberg, “Ilhan Omar Apologizes for Statements Condemned as Anti-Semitic”, The New York Times, 11 febbraio 2019: https://nyti.ms/2I9ywY3.

[12] Zvi Sobel, Benjamin Beit-Hallahmi (eds.), Tradition, Innovation, Conflict: Jewishness and Judaism in Contemporary Israel, (New York, State University of New York Press, 2012), pp. 5-7.

[13] “United Nations General Assembly Resolution 3379: Elimination of All Forms of Racial Discrimination”, 10 novembre 1975: http://bit.ly/2Tha6QM ; “General Assembly Resolution 46/86, Revocation of Resolution 3379”, 16 dicembre 1991: http://bit.ly/2SYRWDW.

[14] Si veda: “Huquq al-Insan 2016: Tahdidat wa-Furas”, ACRI, 16/12/2016 (accessed on 26/02/2019 at http://bit.ly/2IErryU); Aviram Zino, “Racism in Israel on the Rise”, Ynet News, 12 August 2007, accessed at: http://bit.ly/2Nu0zAH.

Azmi Bishara, ex membro palestinese del parlamento israeliano è direttore dell’Arab Center for Research and Policy Studies.

( Traduzione di Saverio Leopardi)