Rapporto OCHA del periodo 6 -19 novembre 2018 ( due settimane)

Due giorni di intense ostilità, a Gaza e nel sud di Israele, hanno provocato l’uccisione di 15 palestinesi ed un israeliano, e la distruzione o il danneggiamento di decine di abitazioni.

Il crescendo di violenza, avvenuto tra l’11 ed il 13 novembre, è stato provocato dagli scontri tra un’unità israeliana sotto copertura, in azione a Khan Yunis, e un’unità militare di Hamas. Gli scontri hanno provocato l’uccisione di sette membri dell’unità palestinese e di un ufficiale israeliano. L’episodio è stato seguito da un intenso lancio di razzi su Israele e attacchi aerei su tutta Gaza. Il 13 novembre, con il sostegno dell’Egitto e delle Nazioni Unite, è stato raggiunto un cessate il fuoco informale, ancora in vigore alla fine del periodo di riferimento.

Gruppi armati palestinesi hanno lanciato più di 400 razzi verso varie località del sud di Israele, uccidendo un palestinese della Cisgiordania e ferendo gravemente almeno una donna israeliana. La maggior parte dei razzi è caduta in aree aperte o è stata intercettata in volo; tuttavia alcuni di essi, caduti in varie località israeliane, hanno danneggiato diverse abitazioni, un asilo infantile, un edificio industriale e un deposito di gas. Secondo fonti israeliane, oltre 20 civili israeliani, che hanno subito lesioni da lievi a moderate (tra cui l’inalazione di fumo), sono stati ricoverati negli ospedali ed almeno 15 famiglie sono state sfollate a seguito di danni alle loro case. Inoltre, vicino alla recinzione perimetrale che circonda Gaza, un soldato israeliano è stato gravemente ferito quando palestinesi hanno lanciato un missile anticarro contro un autobus utilizzato dai militari.

Gli attacchi aerei israeliani, estesi su tutta la Striscia di Gaza, hanno ucciso sette palestinesi, tra cui almeno due civili, e ferito altri 27, tra cui cinque minori; 33 unità abitative sono state distrutte o gravemente danneggiate e gli abitanti sono stati sfollati. Una delle vittime civili era un contadino al lavoro sulla propria terra. Tre membri della stessa famiglia sono rimasti feriti a causa delle schegge di missili israeliani caduti sulla loro casa. Operatori di Shelter Cluster [Organismo di Protezione internazionale, cui partecipa anche l’ONU] hanno distribuito materassi, coperte, set da cucina e altri articoli a 39 famiglie sfollate o colpite. Secondo fonti israeliane, sono stati presi di mira e distrutti circa 150 siti e strutture utilizzate da fazioni militari, ma anche un certo numero di edifici situati in zone residenziali, tra cui un hotel ed una stazione televisiva affiliata ad Hamas.

Nella prosecuzione delle manifestazioni della “Grande Marcia di Ritorno”, svolte vicino alla recinzione perimetrale israeliana attorno a Gaza, un palestinese è stato ucciso e 265 sono stati feriti e ricoverati in ospedale. L’uomo è stato ucciso dalle forze israeliane il 9 novembre, durante una protesta ad est di Rafah. Un altro palestinese è morto il 7 novembre per le ferite riportate durante le proteste di fine ottobre. Del totale dei ferimenti, oltre 50 si sono verificati sulla spiaggia, nell’area settentrionale di Beit Lahiya, durante le proteste contro il blocco navale; la gran parte dei restanti ferimenti si sono avuti durante le manifestazioni settimanali del venerdì. Secondo il Ministero della Sanità palestinese, quasi la metà dei feriti ospedalizzati sono stati colpiti da armi da fuoco. Dall’inizio di novembre, c’è stata una diminuzione della violenza durante le proteste, inclusa una diminuzione del lancio di ordigni incendiari e tentativi di aprire brecce nella recinzione. Il Comitato organizzatore ha chiesto ai manifestanti di evitare di raggiungere la recinzione o di scontrarsi con le forze israeliane. L’8 novembre, ad est del Campo Profughi di Maghazi, un altro palestinese, non coinvolto in manifestazioni, è stato colpito ed ucciso dalle forze israeliane mentre si avvicinava alla recinzione perimetrale.

Il 7 e il 14 novembre, in due diversi episodi, due pescatori palestinesi sono stati uccisi da forze navali egiziane e israeliane. Gli episodi si sono verificati in mare, al largo di Rafah e Beit Lahia [rispettivamente a Sud e Nord della Striscia].

In Cisgiordania, durante quattro diverse incursioni nelle scuole, 63 minori palestinesi e nove adulti sono stati feriti da forze israeliane; ad una di queste incursioni hanno partecipato anche coloni israeliani. Due delle scuole interessate si trovano nella zona H2 della città di Hebron, le altre nei villaggi di Tuqu’ (Betlemme) e ‘Urif (Nablus). L’incursione effettuata in quest’ultima scuola ha coinvolto circa 50 coloni israeliani -provenienti, a quanto riferito, dall’insediamento colonico di Yitzhar – che hanno preso d’assalto la scuola accompagnati da forze israeliane. Secondo un rapporto dei media israeliani, questa incursione era in risposta a precedenti attacchi da parte di palestinesi. Dei feriti, due (adulti) sono stati colpiti con armi da fuoco, nove con proiettili di gomma ed i rimanenti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno. Dall’inizio del 2018 c’è stato un aumento significativo di incursioni nelle scuole palestinesi da parte di forze israeliane e coloni.

In Cisgiordania, in numerosi scontri e operazioni di ricerca-arresto, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 73 palestinesi. Del totale, 27 feriti sono stati registrati durante dimostrazioni tenute nel villaggio di Ras Karkar (Ramallah) per protesta contro la costruzione di una nuova strada riservata a coloni israeliani, ma costruita su terreni di proprietà palestinese. Scontri e ulteriori 15 feriti si sono avuti dopo l’ingresso di coloni israeliani nella città di Nablus in visita ad un sito religioso (la Tomba di Giuseppe). Altri 17 feriti sono stati provocati da operazioni [israeliane] di ricerca-arresto nella città di Al Bireh e nel villaggio di Abu Qash (Ramallah) e nei Campi Profughi di Jenin e Balata (Nablus).

Il 14 novembre, a Gerusalemme Est, un ragazzo palestinese di 17 anni ha pugnalato e ferito un poliziotto israeliano; successivamente è stato colpito con arma da fuoco ed è morto sei giorni dopo per le ferite riportate. In un episodio separato, il 6 novembre, una donna palestinese è stata colpita e ferita dalle forze israeliane; secondo quanto riferito, aveva tentato di pugnalare soldati israeliani all’ingresso dell’insediamento Kfar Adumim (Gerusalemme).

Vicino al villaggio di Abud (Ramallah) quattro palestinesi sono stati colpiti con armi da fuoco e feriti da soldati israeliani posizionati su una torre di osservazione. L’episodio è avvenuto il 18 novembre: secondo quanto riferito, gli uomini avevano ignorato l’ordine, impartito dalle forze israeliane, di fermare il loro veicolo.

Un palestinese è morto per le ferite riportate in precedenti scontri con le forze israeliane seguiti ad un assalto di coloni israeliani in un villaggio palestinese. Gli scontri si erano verificati il 26 ottobre nel villaggio di Al Mazra’a al Qibliya (Ramallah), dopo che coloni israeliani erano entrati in un parco pubblico [palestinese] di nuova costruzione, situato nella parte di villaggio in Area B. Qui i palestinesi si erano radunati per proteggere il parco da attacchi di coloni; fatto già verificatosi precedentemente. Questo è il secondo palestinese ucciso in episodi simili.

Almeno 11 attacchi di coloni israeliani hanno provocato feriti tra i palestinesi e/o danni alle loro proprietà. In un caso, nella città vecchia di Hebron, coloni hanno bloccato e colpito con pietre un’ambulanza palestinese che stava trasportando un paziente. Il trasporto era stato concordato con le autorità israeliane. Questo è il terzo episodio di questo tipo verificatosi negli ultimi tre mesi. Gli attacchi includono l’aggressione fisica di tre contadini che stavano lavorando sulla loro terra nel villaggio di Susiya (Hebron); la vandalizzazione di 21 veicoli in Kafr ad Dik (Salfit), Burin, Za’tara e Huwwara (Nablus) e Beit Eskaria (Betlemme); il lancio di pietre contro diverse abitazioni a ‘Urif (Nablus). Nelle settimane precedenti, in diversi episodi simili, coloni israeliani avevano vandalizzato e, secondo quanto riferito, tentato di incendiare un parco nel villaggio di Al Mazra’a al Qibliya (vedi paragrafo precedente). In un ulteriore episodio verificatosi a Gerusalemme Ovest (non incluso nel conteggio), sconosciuti hanno aggredito fisicamente e ferito una donna palestinese e i suoi due figli.

A Gerusalemme Est e nella zona C della Cisgiordania, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, venti strutture di proprietà palestinese sono state demolite o sequestrate e 20 persone sono state sfollate. Quattro delle strutture prese di mira erano situate in tre Comunità in Area C ed erano state fornite come assistenza umanitaria in risposta a precedenti demolizioni.

Il 18 novembre, le autorità di Hamas di Gaza hanno revocato le restrizioni all’uscita di titolari di permesso e di cittadini stranieri attraverso il valico di Erez [al confine con Israele]. Le restrizioni erano state imposte il 12 novembre, in seguito ad una operazione israeliana sotto copertura, ed hanno gravemente compromesso l’accesso, tra gli altri, di operatori umanitari, uomini d’affari e giornalisti. I preesistenti requisiti per la registrazione [finalizzata al transito] rimangono comunque in vigore.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, è stato aperto in entrambe le direzioni, ad eccezione di quattro giorni. 1.356 persone sono entrate a Gaza e 2.545 ne sono uscite. Dal 12 maggio 2018, il valico è stato aperto, quasi continuamente, cinque giorni a settimana.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




In violazione dei diritti umani, Netanyahu sostiene la pena di morte per i palestinesi

Ramzy Baroud

14 novembre 2018, Palestine Chronicle

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, appartenente alla destra, sta intensificando la sua guerra al popolo palestinese, anche se per ragioni quasi interamente legate alla politica israeliana. Ha appena dato il via libera a una legge che renderebbe più facile per le corti israeliane emettere condanne a morte contro i palestinesi accusati di compiere atti “terroristici”.

La decisione di Netanyahu è stata presa il 4 novembre, ma la disputa sul tema è in corso da qualche tempo.

Il disegno di legge sulla pena di morte è stato il grido di battaglia del partito “Israel Beiteinu” (“Israele casa nostra”, ndtr.), guidato dal politico israeliano ultranazionalista Avigdor Lieberman, attuale ministro della Difesa, durante la sua campagna elettorale del 2015.[Lieberman si è dimesso per contrasti con Netanyahu sulla tregua con Hamas, accettata di fatto dal primo ministro. Ndt]

Ma quando Lieberman ha tentato di far passare il disegno di legge alla Knesset israeliana (il parlamento) subito dopo la formazione dell’attuale governo di coalizione nel luglio 2015, il progetto è stato clamorosamente sconfitto con 94 voti contro 6, e Netanyahu stesso a opporsi.

Da allora è stato battuto più volte. Tuttavia, l’umore politico in Israele si è spostato tanto da obbligare Netanyahu ad accogliere le richieste dei politici più aggressivi, i falchi nel suo governo.

Quando la coalizione di Netanyahu si è fatta più audace e instabile, il primo ministro israeliano si è unito al coro. È tempo di “cancellare il sorriso dalla faccia dei terroristi”, ha detto nel luglio 2017, mentre visitava l’insediamento ebraico illegale di Halamish, a seguito dell’uccisione di tre coloni. All’epoca, chiese la pena di morte per i “casi gravi”.

Alla fine, la posizione di Netanyahu sul problema si è evoluta fino a diventare una copia carbone di quella di Lieberman. Quest’ultimo aveva fatto della “pena di morte” una delle principali precondizioni per unirsi alla coalizione di Netanyahu.

Lo scorso gennaio, la proposta di legge di “Israel Beiteinu” è stata approvata durante la lettura preliminare alla Knesset. Mesi dopo, il 4 novembre, la legge è stata approvata dai legislatori israeliani in prima lettura con il sostegno di Netanyahu stesso.

Lieberman ha vinto.

Questo riflette la realtà delle correnti in lotta nella politica israeliana, con il primo ministro israeliano, da lungo tempo in carica, sempre più attaccato, con accuse provenienti sia dall’interno della sua coalizione che da fuori, di essere troppo debole nella gestione della resistenza a Gaza.

C’è anche il cerchio che si stringe nelle indagini della polizia sulla corruzione di Netanyahu, della sua famiglia e dei suoi più stretti collaboratori, e al leader israeliano non resta che picchiare sui palestinesi ad ogni minima occasione di mostrare la propria bravura.

Persino il leader dell’ex partito laburista, Ehud Barak, sta tentando di rispolverare la sua fallita carriera di politico confrontando le proprie passate violenze contro i palestinesi con la presunta debolezza di Netanyahu.

Netanyahu è “debole”, “impaurito” e non è in grado di prendere provvedimenti risolutori per tenere a freno Gaza, “quindi dovrebbe tornare a casa”, ha detto di recente Barack in un’intervista alIa TV israeliana Channel 10.

Confrontando il proprio presunto eroismo con la “resa” di Netanyahu alla resistenza palestinese, Barack si è vantato di aver ucciso “più di 300 membri di Hamas (in) tre minuti e mezzo”, quando era Ministro della Difesa del Paese.

La sinistra dichiarazione di Barack si riferisce all’omicidio di centinaia di abitanti di Gaza, tra cui donne, bambini e neo-cadetti di polizia, avvenuto a Gaza il 27 dicembre 2008, inizio di una guerra che uccise e ferì migliaia di palestinesi e preparò il terreno per altre, altrettanto letali, guerre a seguire.

Quando commenti così inquietanti sono fatti da una persona considerata nel lessico politico di Israele una “colomba”, si può solo immaginare la violenza del discorso politico di Netanyahu e della sua coalizione estremista.

In Israele, le guerre – così come le leggi razziste mirate ai palestinesi – sono spesso il risultato di manovre politiche israeliane. Incontrastati da un partito forte e imperterriti alle accuse delle Nazioni Unite, i leader israeliani continuano a mostrare i muscoli, ad appellarsi al loro elettorato radicalizzato e a marcare il proprio terreno elettorale a spese dei palestinesi.

La Legge sulla pena di morte non fa eccezione.

Il disegno di legge, una volta acquisito come legge israeliana, sarà applicato solo ai palestinesi, perché in Israele il termine “terrorismo” si riferisce quasi sempre agli arabi palestinesi, e difficilmente, se mai, agli ebrei israeliani.

Aida Touma-Suleiman, cittadina palestinese di Israele e fra i pochi membri arabi della Knesset, come la maggior parte dei palestinesi capisce bene le intenzioni del disegno di legge.

La legge è “destinata principalmente al popolo palestinese”, ha detto ai giornalisti lo scorso gennaio. “Non sarà certamente mai impugnata contro gli ebrei che commettono attacchi terroristici contro i palestinesi “, essendo il disegno di legge redatto e sostenuto dall’estrema destra del paese.

Infine, il disegno di legge sulla pena di morte deve essere compreso nel più ampio contesto del crescente razzismo e sciovinismo di Israele, che sta scalzando qualsiasi debole appello alla democrazia presente in Israele fino a poco tempo fa.

Il 19 luglio di quest’anno, il governo israeliano ha approvato la “Legge dello Stato Nazione” ebraico che designa Israele come “stato nazionale del popolo ebraico”, svalutando apertamente i cittadini arabi palestinesi del Paese, la loro cultura, lingua e identità.

Come molti hanno temuto, l’auto-definizione razzista di Israele sta ora ispirando una serie di nuove leggi che mirano ulteriormente ai palestinesi, abitanti nativi del paese, sempre più marginalizzati.

La legge sulla pena di morte sarebbe la ciliegina sulla torta in questa orribile e incontrastata agenda israeliana che oltrepassa le linee di partito e unisce la maggioranza dei cittadini e dei politici ebrei del Paese in un’ininterrotta festa dell’odio.

Certamente, Israele ha già giustiziato centinaia di palestinesi in quelli che sono noti come “assassinii mirati” e “neutralizzazioni”, uccidendone anche di più a sangue freddo.

Quindi, in un certo senso, la proposta di legge israeliana, una volta divenuta legge, cambierà ben poco delle sanguinose dinamiche che muovono il comportamento di Israele.

Tuttavia, l’esecuzione di palestinesi perché resistono alla violenta occupazione israeliana evidenzierà ulteriormente il crescente estremismo della società israeliana e la crescente vulnerabilità dei palestinesi.

Proprio come la “Legge dello Stato Nazione”, la legge sulla pena di morte contro i palestinesi esibisce la natura razzista di Israele e sancisce il totale disprezzo per le leggi internazionali, una realtà dolorosa che dovrebbe essere urgentemente e apertamente messa in discussione dalla comunità internazionale.

Quelli che sinora si sono permessi di “lavarsene le mani” mentre Israele brutalizzava i palestinesi, dovrebbero immediatamente rompere il silenzio.

A nessun governo, nemmeno a Israele, dovrebbe essere permesso di farsi razzista e violare i diritti umani in modo così spudorato e senza assumersene alcuna responsabilità.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo prossimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea di Studi Globali e Internazionali, Università della California a Santa Barbara. Il suo sito web è www.ramzybaroud.net.

(traduzione di Luciana Galliano)




Rapporto OCHA del periodo 23 ottobre – 5 novembre 2018 (due settimane)

Nei pressi della recinzione israeliana che circonda Gaza sono continuate le dimostrazioni del venerdì: quattro palestinesi sono stati uccisi da forze israeliane e 531 sono rimasti feriti.

Tutte le uccisioni si sono verificate il 26 ottobre, quando centinaia di manifestanti hanno raggiunto la recinzione e, secondo fonti israeliane, hanno lanciato un numero relativamente elevato di bottiglie incendiarie, granate rudimentali e palloncini incendiari, mettendo in atto vari tentativi di aprire brecce nella recinzione. Al contrario, il venerdì successivo, 2 novembre, è stata registrata una considerevole riduzione degli scontri violenti e non sono state registrate uccisioni. Fonti israeliane hanno segnalato che in questo secondo venerdì non sono stati lanciati aquiloni o palloncini incendiari e che non sono stati registrati tentativi di violazione della recinzione. Secondo il Ministero della Salute palestinese per 405 feriti [dei 531] si è reso necessario il ricovero in ospedale.

Nel corso di altre manifestazioni e attività che si sono svolte in altri giorni, sempre nel contesto della “Grande Marcia di Ritorno”, altri due palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane e 112 sono stati feriti. Uno dei due è stato ucciso, con arma da fuoco, il 23 ottobre presso la recinzione, mentre partecipava ad una manifestazione tenutasi nella zona di Deir al Balah. Il secondo è stato ucciso, con arma da fuoco, il 29 ottobre, nell’area settentrionale di Beit Lahiya, durante una dimostrazione a sostegno dei tentativi di rompere il blocco navale.

Altri tre palestinesi sono morti per le ferite riportate durante le proteste delle settimane precedenti.

Tra il 26 e il 27 ottobre, un gruppo armato palestinese ha sparato decine di razzi e colpi di mortaio verso il sud di Israele. Successivamente, l’aviazione israeliana ha attaccato diversi siti in Gaza. Non ci sono notizie di feriti, ma, nel nord di Gaza, l”Ospedale indonesiano” ha subito danni ed è stato costretto ad interrompere l’erogazione dei servizi; nella città di Gaza un edificio disabitato di cinque piani, utilizzato, a quanto riferito, da una fazione armata, è stato preso di mira e distrutto e diverse abitazioni sono state danneggiate. Tutti i razzi sparati contro Israele o sono caduti in aree aperte (inclusi alcuni caduti all’interno di Gaza) o sono stati intercettati in volo e non hanno provocare vittime. L’ala armata della Jihad islamica palestinese si è assunta la responsabilità del lancio dei razzi, sostenendo che è stata una risposta all’uccisione di quattro palestinesi, avvenuta durante le proteste di quel giorno, e il 27 ottobre ha annunciato un cessate il fuoco unilaterale.

Il 28 ottobre, vicino alla recinzione perimetrale, ad est di Deir el Balah, tre minori palestinesi, di età compresa tra i 13 e i 15 anni, sono stati uccisi da un attacco aereo israeliano. Secondo fonti israeliane, i ragazzi sono stati colpiti perché avvistati mentre tentavano di collocare un rudimentale ordigno esplosivo contro la recinzione. Secondo il Centro palestinese per i diritti umani a Gaza, i ragazzi non portavano alcunché e non rappresentavano alcuna minaccia. Un’equipe medica palestinese ha potuto recuperare i loro corpi un’ora dopo l’accaduto.

Il 4 novembre, un 17enne è morto per le ferite riportate il giorno precedente; era stato colpito, secondo quanto riferito, mentre si avvicinava alla recinzione; il suo corpo è trattenuto dalle autorità israeliane. A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, in almeno sette occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, senza provocare feriti. In due distinti episodi, verificatisi il 23 ottobre, le forze navali israeliane hanno arrestato quattro pescatori e confiscato le loro due barche. In due occasioni, ad est della città di Gaza e nella zona settentrionale, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo nelle vicinanze della recinzione perimetrale.

Dal 28 ottobre, nella Striscia di Gaza, in conseguenza dell’approvvigionamento di carburante aggiuntivo per il funzionamento della Centrale Elettrica, la fornitura di elettricità è passata dalle 4-5 ore dei mesi precedenti, a 12-16 ore al giorno. L’incremento è da attribuire al carburante entrato a Gaza dal 9 ottobre e finanziato dal governo del Qatar. Di conseguenza, rispetto al precedente funzionamento ad una sola turbina, la centrale ha iniziato ad attivare tre delle sue quattro turbine. Si prevede che questo sviluppo migliorerà significativamente le condizioni di vita. Nonostante ciò, durante le interruzioni di corrente, i servizi sanitari di base, la fornitura di acqua ed il trattamento dei reflui continueranno a dipendere dal carburante fornito dall’ONU per il funzionamento dei generatori elettrici di riserva e dei veicoli di emergenza.

In Cisgiordania, in due diversi episodi, due palestinesi sono stati colpiti con armi da fuoco e uccisi dalle forze israeliane. Il 24 ottobre, nel villaggio di Tammun (Tubas), un’operazione di ricerca-arresto ha innescato scontri che hanno provocato la morte di un palestinese di 22 anni. Il 26 ottobre, nel villaggio di Al Mazra’a al Qibilya (Ramallah), durante scontri con le forze israeliane un uomo di 33 anni è stato ucciso con arma da fuoco. Gli scontri erano seguiti ad una incursione di coloni israeliani nel villaggio, nel quale si stava manifestando contro la violenza dei coloni e l’espansione degli insediamenti colonici.

In Cisgiordania, in numerosi scontri, 62 palestinesi, tra cui nove minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. 50 delle 153 operazioni di ricerca-arresto condotte dalle forze israeliane, hanno innescato scontri con i residenti: 30 palestinesi sono stati feriti. Nel villaggio di Ar Ram, nel corso di una operazione, le forze israeliane hanno fatto irruzione nell’ufficio del Governatorato di Gerusalemme dell’Autorità Palestinese (AP); si sono scontrate con i dipendenti, ferendone cinque e sequestrando attrezzature. A Gerusalemme Est, in un episodio separato, il governatore di Gerusalemme dell’Autorità Palestinese è stato arrestato. Altri 27 palestinesi sono rimasti feriti nel villaggio di Al Mazra’a al Qibilya (Ramallah) durante le proteste sopra menzionate. Altri tre palestinesi sono rimasti feriti a Kafr Qaddum (Qalqiliya), nel corso della manifestazione settimanale contro le restrizioni all’accesso e contro l’espansione degli insediamenti [colonici israeliani]. Durante il periodo di riferimento, nei villaggi di Bil’in e Ni’lin (entrambi a Ramallah) e Madama (Nablus), sono proseguite altre dimostrazioni settimanali simili e scontri, conclusi senza feriti.

Un palestinese è stato ferito con arma da fuoco e successivamente arrestato: secondo quanto riferito, aveva tentato di pugnalare un soldato israeliano. L’episodio è avvenuto il 5 novembre vicino all’insediamento israeliano di Kiryat Arba ‘(Hebron).

Nell’Area C della Cisgiordania, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, 13 strutture di proprietà palestinese sono state demolite o sequestrate, sfollando 14 persone e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 34. Sette delle strutture prese di mira si trovavano nella comunità di pastori di Al Hadidiya, nella Valle del Giordano, ed erano state fornite precedentemente come assistenza umanitaria. Le autorità israeliane hanno inoltre emesso ordini di stop lavori o di demolizione contro cinque strutture finanziate da donatori (tra queste una scuola e quattro abitazioni) in due comunità situate nella “Zona 918 per esercitazioni a fuoco” dell’area di Massafer Yatta, nella Cisgiordania meridionale.

In seguito al rinvio della demolizione della Comunità beduina di Khan al Ahmar-Abu al-Helu, le autorità israeliane hanno smantellato le strutture che avevano installato nel sito di trasferimento prefissato (Al Jabal Ovest); nonostante questi sviluppi, permangono preoccupazioni per la possibile demolizione e il trasferimento forzato della Comunità.

Coloni israeliani hanno ferito, in due episodi separati, cinque palestinesi, tra cui tre minori. Il 4 novembre, un bambino di quattro anni è stato ferito alla testa, quando coloni israeliani hanno lanciato pietre contro un veicolo palestinese che viaggiava sulla strada 60, vicino all’avamposto [=colonia israeliana non autorizzata da Israele] di Havat Gilad (Nablus). Gli altri quattro palestinesi sono stati fisicamente aggrediti e feriti il 2 novembre, in scontri con un gruppo di decine di coloni israeliani che marciavano nella città vecchia di Hebron; le forze israeliane sono intervenute e hanno sparato lacrimogeni, ferendo un palestinese (incluso nel totale sopra). Inoltre, durante il periodo di riferimento, nella città vecchia di Hebron, è stato vandalizzato da coloni un negozio palestinese. Inoltre, in una serie di altri attacchi, coloni israeliani hanno aggredito o intimidito palestinesi: agricoltori intenti alla raccolta delle olive nel villaggio di Jit (Qalqiliya) e nell’area di Tel Rumeida (Hebron); lavoratori durante il ripristino di una strada agricola nel villaggio di Qaryut (Nablus); attivisti internazionali e palestinesi nella città vecchia di Hebron.

550 alberi di proprietà palestinese sono stati sradicati dalle autorità israeliane, con la motivazione che erano stati piantati in “terra di stato” [definita tale da Israele]; 8.000 mq di terra sono stati sequestrati per la costruzione di una strada destinata ad un insediamento colonico. L’episodio dello sradicamento, che ha interessato 200 ulivi e 350 mandorli, si è svolto il 29 ottobre in Area C, nel villaggio di Beit Ula (Hebron). Il sequestro di terra è stato compiuto per far posto a una nuova strada di accesso all’insediamento israeliano di Qedumim (Qalqiliya); i lavori di costruzione hanno causato danni a 35 ulivi.

In Cisgiordania, vicino a Hebron, Ramallah e Gerusalemme, in tre occasioni, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani; secondo fonti israeliane, hanno causato danni ad almeno un veicolo privato. Non sono stati segnalati feriti. A Nablus, le forze israeliane hanno chiuso l’ingresso principale della scuola Al Lubban ash Sharqiya / As Sawiya, secondo quanto riferito, in risposta al ripetuto lancio di pietre da parte di studenti contro veicoli israeliani. Per lo stesso motivo, durante il periodo di riferimento del precedente Rapporto, la scuola era già stata chiusa per un giorno su ordine militare.

Il valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, è stato aperto in entrambe le direzioni per tutto il periodo di riferimento, ad eccezione di quattro giorni. Un totale di 1.454 persone sono entrate a Gaza, 2.644 ne sono uscite. Dal 12 maggio 2018, il valico è stata quasi continuativamente aperto cinque giorni a settimana.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 7 novembre un pescatore palestinese, mentre navigava ad ovest di Rafah, è stato ucciso con armi da fuoco dalle forze navali egiziane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




A Hebron i coloni israeliani attaccano palestinesi che raccolgono le olive

Ma’an News

31 ottobre 2018

Hebron (Ma’an) – Martedì un gruppo di coloni israeliani ha attaccato palestinesi che raccoglievano le olive nella zona di Tel Rumeida, nella città di Hebron, nel sud della Cisgiordania occupata, ed ha cercato di impedire loro di raccogliere le olive nelle loro terre nei pressi dell’illegale colonia israeliana di Ramat Yishai.

Le terre sono di proprietà della locale famiglia di Muhammad Abu Haikal; il proprietario della terra, insieme ad attivisti locali ed internazionali, è entrato nel terreno nonostante le procedure militari israeliane.

I raccoglitori di olive hanno continuato [il lavoro] nonostante attacchi da parte di coloni israeliani in quanto hanno insistito sul fatto di essere sui propri terreni e di non lasciarli senza protezione.

La scorsa settimana a Tel Rumeida il gruppo “Youth against Settlement” [“Giovani contro le Colonie”, attivisti palestinesi di Hebron, ndtr.] ha lanciato una campagna per la raccolta delle olive, con la partecipazione di organizzazioni internazionali che lavorano per la pace e la giustizia.

Il coordinatore della campagna, Izzat al-Karaki, ha detto: “Stiamo lavorando per appoggiare la tenacia delle famiglie palestinesi che subiscono gli attacchi dei coloni israeliani e dell’esercito nelle aree chiuse della città di Hebron.”

Al-Karaki ha sottolineato che decine di attivisti internazionali e locali hanno partecipato alla raccolta delle olive.

L’agronomo Murad Amr, coordinatore del gruppo “Youth against Settlement”, ha detto che la campagna continua nelle zone ad alta tensione di Tel Rumeida e nelle aree adiacenti alla colonia di Kiryat Arba, ad Hebron.

Amr ha aggiunto che il suo gruppo ha anche formato un comitato di sorveglianza notturna per evitare che il raccolto di olive venga rubato dai coloni israeliani.

La zona di Tel Rumeida è da lungo tempo un punto caldo di tensione tra i palestinesi e i coloni e l’esercito israeliani, in quanto si trova nei pressi di colonie israeliane illegali i cui abitanti sono notoriamente aggressivi verso i palestinesi.

Tel Rumeida è all’interno dell’area della città denominata H2, una zona che occupa la maggior parte della Città Vecchia di Hebron, sotto totale controllo militare israeliano e il luogo in cui si trovano cinque colonie israeliane che si espandono continuamente nei vicini quartieri palestinesi.

L’area H2, controllata dagli israeliani, è abitata da 30.000 palestinesi e circa 800 coloni israeliani che vivono sotto la protezione delle forze israeliane.

Tra i 500.000 ed i 600.000 israeliani vivono nelle colonie di soli ebrei a Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupate in violazione delle leggi internazionali.

Il governo palestinese non ha giurisdizione sugli israeliani in Cisgiordania, e azioni poste in atto da coloni israeliani spesso avvengono in presenza delle forze militari israeliane che raramente intervengono per proteggere gli abitanti palestinesi.

La maggior parte dei furti commessi contro i palestinesi rimane impunita, e raramente gli israeliani pagano le conseguenze per tali furti.

Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani Yesh Din, solo l’1,9% delle denunce presentate dai palestinesi contro attacchi o furti da parte di coloni israeliani porta ad una condanna, mentre il 95,6% delle indagini per danni agli ulivi viene chiuso per inadempienza della polizia israeliana.

Secondo gruppi palestinesi e dei diritti umani il principale obiettivo di Israele, sia delle sue politiche nell’Area C, in cui più del 60% del territorio palestinese è sotto totale controllo israeliano, che dell’illegale colonizzazione israeliana, è spopolare la terra dei suoi abitanti palestinesi e sostituirli con comunità ebraiche israeliane per manipolare la situazione demografica in tutta la Palestina storica.

B’Tselem afferma che lo spostamento di coloni israeliani che hanno occupato la terra palestinese e poi cacciato la locale popolazione palestinese è stato una “costante” della politica israeliana fin dalla conquista della Cisgiordania e di Gerusalemme nel 1967, sottolineando che tutte le “istituzioni legislative, legali, di pianificazione, di finanziamento e di difesa israeliane” hanno giocato un ruolo attivo nella spoliazione dei palestinesi della loro terra.

B’Tselem sostiene anche che, spacciandola per “occupazione militare temporanea”, Israele ha “utilizzato la terra come se fosse sua: rubandola, sfruttando a proprio favore le risorse naturali della zona e fondando colonie permanenti,” stimando che Israele nel corso degli anni ha espropriato i palestinesi di circa 200.000 ettari di terre nei territori palestinesi occupati.

(traduzione di Amedeo Rossi)




‘Una scelta crudele’: perché Israele prende di mira le scuole palestinesi

Ramzy Baroud

23 ottobre 2018,Ma’an News

Il 15 ottobre diversi studenti palestinesi, insieme a insegnanti e dirigenti, sono stati feriti nell’attacco dell’esercito israeliano ad una scuola a sud di Nablus in Cisgiordania. Gli studenti della scuola mista al-Sawiya al-Lubban stavano sfidando un ordine militare israeliano di chiudere la loro scuola, sulla base dell’accusa onnipresente che la scuola fosse un “sito di terrorismo e rivolta popolare.”

Terrorismo popolare” è un’espressione in codice dell’esercito israeliano che sta per proteste. Ovviamente gli studenti hanno tutto il diritto di protestare, non solo contro l’occupazione militare israeliana, ma anche contro l’aggressiva colonizzazione degli insediamenti di Alje e Ma’ale Levona. Questi due insediamenti ebrei illegali hanno illecitamente confiscato migliaia di dunum [unità di misura terriera in Medio Oriente: 10 dumun corrispondono a 1 ettaro, ndtr.] di terra appartenente ai villaggi di al-Sawiya e al-Lubban.

I cittadini israeliani” che l’esercito di occupazione intende proteggere attraverso la chiusura della scuola sono, di fatto, proprio i coloni ebrei armati che hanno terrorizzato per anni questa regione della Cisgiordania.

Secondo uno studio del 2016 commissionato dalle Nazioni Unite, ogni giorno almeno 2.500 studenti palestinesi di 35 comunità della Cisgiordania devono attraversare i checkpoint militari israeliani per raggiungere le loro scuole. Circa la metà di questi studenti ha subito aggressioni e violenze da parte dell’esercito solo per aver cercato di arrivare a lezione o di tornare a casa.

Però questa è solo metà della storia, perché i violenti coloni ebrei sono sempre alla ricerca di bambini palestinesi. Anche questi coloni, che “creano anche loro checkpoint”, compiono regolarmente atti di violenza, “tirando pietre” contro i bambini (palestinesi) oppure “maltrattandoli fisicamente”.

ONU, “i gruppi di protezione dell’UNICEF hanno riferito che i propri volontari hanno subito attacchi fisici, aggressioni, arresti e detenzione e minacce di morte”.

In altri termini, addirittura i “protettori” stessi cadono spesso vittime delle tattiche terroristiche dell’esercito e dei coloni ebrei.

Aggiungete a questo il fatto che l’area C – la maggior parte della Cisgiordania, sotto pieno controllo militare israeliano – rappresenta l’apice della sofferenza palestinese. Qualcosa come 50.000 bambini affrontano moltissimi ostacoli, compresa la mancanza di servizi, aggressioni, violenza, chiusura e ingiustificati ordini di demolizione.

La scuola di al-Sawiya al-Lubban, situata in area C, è quindi alla totale mercé dell’esercito israeliano, che non tollera alcuna forma di resistenza, comprese le proteste non violente degli alunni della scuola.

Ciò che è davvero confortante però è che, nonostante l’occupazione militare israeliana e le continue restrizioni alla libertà dei palestinesi, la popolazione palestinese resta una delle più istruite in Medio Oriente.

Secondo il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), il tasso di alfabetizzazione in Palestina (stimato del 96,3%) è uno dei più alti in Medio Oriente ed il tasso di analfabetismo (3,7% tra le persone sopra i 15 anni), è uno dei più bassi al mondo.

Se queste statistiche non sono abbastanza incoraggianti, tenendo conto della costante guerra di Israele contro la scuola e i programmi scolastici, considerate questo: la Striscia di Gaza, assediata e devastata dalla guerra, ha un tasso di alfabetizzazione persino più alto della Cisgiordania, in quanto [queste zone] registrano rispettivamente il 96,6% e il 96%.

In realtà questo non dovrebbe stupire del tutto. I rifugiati palestinesi della prima ondata che subì la pulizia etnica dalla Palestina storica erano talmente desiderosi di assicurare che i loro figli fossero in condizioni di proseguire la loro educazione che già nel 1948 crearono delle tende adibite a scuola, gestite da insegnanti volontari.

I palestinesi sanno bene che l’educazione è l’arma più forte per ottenere la libertà a lungo negata. Anche Israele è consapevole di questa dicotomia, sapendo che una popolazione palestinese competente è in grado di sfidare il dominio israeliano molto più di una con scarsi mezzi culturali, di qui il fatto che Israele prenda di mira incessantemente e sistematicamente il sistema educativo palestinese.

La strategia israeliana nel distruggere l’infrastruttura del sistema scolastico palestinese si incentra sull’accusa di “terrorismo”: cioè, i palestinesi insegnano “terrorismo” nelle scuole; i libri scolastici palestinesi celebrano i “terroristi”; le scuole sono covi del “terrorismo popolare”, e varie altre accuse, che, nella logica israeliana, costringono l’esercito a chiudere scuole, distruggere servizi, arrestare gli studenti e sparargli.

Prendiamo ad esempio i recenti commenti fatti dal sindaco israeliano di Gerusalemme, Nir Barkat, che ora sta conducendo una campagna governativa con lo scopo di chiudere le attività dell’organizzazione dell’ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, l’UNRWA.

È tempo di rimuovere l’UNRWA da Gerusalemme”, ha annunciato Barkat all’inizio di ottobre.

Senza alcuna prova, Barkat ha denunciato che “l’UNRWA sta rafforzando il terrorismo” e che “ai bambini di Gerusalemme viene insegnato, sotto la sua egida, il terrorismo, e ciò deve essere fermato.”

Ovviamente Barkat è disonesto. L’attacco all’UNRWA a Gerusalemme fa parte di una più vasta campagna israelo-americana finalizzata a chiudere un’organizzazione che si è dimostrata fondamentale per lo status e il benessere dei rifugiati palestinesi.

Secondo questo pensiero distorto, senza l’UNRWA I rifugiati palestinesi non avrebbero un riconoscimento giuridico, quindi chiudere l’UNRWA significa chiudere una volta per tutte il capitolo dei rifugiati palestinesi e del loro diritto al ritorno.

La chiusura della scuola al-Sawiya al-Lubban, l’attacco all’UNRWA da parte di Israele e Stati Uniti, i tanti checkpoint che separano gli studenti dalle loro scuole in Cisgiordania ed altro ancora, sono molto più in rapporto tra loro della falsa accusa israeliana di “terrorismo”.

La scrittrice israeliana Orly Noy ha sintetizzato la logica israeliana in una frase: “Distruggendo le scuole nei villaggi palestinesi dell’area C e altrove, Israele costringe i palestinesi a fare una scelta crudele – tra la loro terra e il futuro dei propri figli”, ha scritto all’inizio di quest’anno.

E’ questa logica brutale che ha guidato la strategia del governo israeliano riguardo all’educazione dei palestinesi per 70 anni. È una guerra di cui non si può discutere o che non può essere compresa al di fuori della più complessiva guerra all’identità e alla libertà dei palestinesi e, di fatto, alla stessa esistenza del popolo palestinese.

La lotta degli studenti per il proprio diritto all’educazione alla scuola mista al-Sawiya al-Lubban non è assolutamente una scaramuccia isolata che riguarda alunni palestinesi e soldati israeliani dal grilletto facile. È invece al centro della lotta del popolo palestinese per la sua libertà.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è “The last earth: a palestinian story” [L’ultima terra: una storia palestinese].

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Nonostante il rinvio, Israele ha deciso di distruggere Khan al-Ahmar

Tamara Nassar

23 ottobre 2018,Electronic Intifada

Sabato Israele ha rimandato la demolizione e deportazione del villaggio palestinese di Khan al-Ahmar.

Secondo il quotidiano israeliano “Haaretz” il ritardo intende “finalizzare una proposta per l’evacuazione volontaria”.

Gli abitanti del villaggio si sono sistematicamente ed energicamente opposti al trasferimento forzato dalla loro terra, che non può essere in nessun caso “volontario” se avviene sotto minaccia.

Khan al-Ahmar sarà evacuato, è un verdetto della corte, è la nostra politica e sarà fatto,” ha detto domenica il primo ministro Benjamin Netanyahu in una conferenza stampa con il ministro del Tesoro USA Steven Mnuchin.

Netanyahu ha aggiunto che il ritardo sarà breve, finché gli abitanti daranno il loro “assenso” a sgomberare e distruggere il loro villaggio.

Alcuni ministri israeliani di Destra, tra cui il ministro dell’Educazione Naftali Bennett, la ministra della Giustizia Ayelet Shaked e il deputato Bezalel Smotrich, si sono opposti alla decisione di Netanyahu.

Tutti e tre sono membri del partito nazionalista di estrema destra “Casa Ebraica”.

Khan al-Ahmar deve essere distrutto. Dobbiamo opporci al mondo,” ha detto Smotrich lunedì da una collina che sovrasta il villaggio, secondo il giornale israeliano “The Jerusalem Post” [giornale israeliano di destra in lingua inglese, ndtr.].

Dobbiamo togliere di mezzo questa comunità dopo aver dato loro un’alternativa,” ha detto la vice-ministra Tzipi Hotovely sulla collina di mattina presto.

Il governo israeliano ha investito milioni per creare questa alternativa e penso che la comunità internazionale sarebbe molto più d’aiuto se non utilizzasse i beduini come strumento politico,” ha detto Hotovely.

Yehuda Glick, parlamentare dello stesso partito di Netanyahu, il Likud, e uno dei dirigenti del movimento estremista ebreo che intende distruggere la moschea di al-Aqsa a Gerusalemme, si è unito a Hotovely nella sua visita a Khan al-Ahmar.

La scelta tra spazzatura e liquami

Le alternative che Israele ha proposto non sono adeguate alla vita nomade dei beduini che vivono a Khan al-Ahmar.

Le alternative che Israele sta proponendo sono nei pressi di una discarica o dello scarico di una fogna,” ha detto all’israeliano “i24 News” [canale televisivo di informazioni in arabo, francese e inglese, ndtr.] Tawfique Jabareen, un avvocato che rappresenta gli abitanti di Khan al Ahmar.

Israele vuole obbligarli a spostarsi in una zona chiamata “al-Jabal ovest”, situata nei pressi della discarica del villaggio palestinese di Abu Dis. Israele ha anche proposto di spostare gli abitanti del villaggio in una zona vicina a un impianto di trattamento dei rifiuti nei pressi della colonia di Mitzpe, vicino alla città di Gerico, nella Cisgiordania occupata.

Jabareen ha aggiunto che gli abitanti hanno proposto all’Alta Corte israeliana di spostarsi di qualche centinaio di metri dalla loro attuale sistemazione, ma rimanendo ancora all’interno [della zona] di Khan al-Ahmar, un’idea che Israele ha rifiutato.

La Corte Penale Internazionale mette in guardia contro crimini di guerra

Il rinvio annunciato da Israele avviene dopo che la procuratrice generale della Corte Penale Internazionale Fatou Bensouda ha manifestato preoccupazione per la situazione a Khan al-Ahmar.

Una vasta distruzione di proprietà senza necessità di carattere militare e il trasferimento di popolazione in un territorio occupato costituiscono crimini di guerra,” ha affermato Bensouda il 17 ottobre.

Di conseguenza mi vedo obbligata a ricordare a tutte le parti che la situazione resta sotto esame preliminare da parte del mio ufficio.”

Secondo Haaretz alla polizia israeliana e all’amministrazione civile – la burocrazia militare che gestisce l’occupazione della Cisgiordania – non sia stato detto di lasciare la zona.

Nelle scorse settimane le autorità israeliane sono arrivate nel villaggio per preparare la demolizione, e talvolta hanno arrestato e ferito i manifestanti. Anche i coloni israeliani maltrattano regolarmente gli abitanti.

Durante la notte attivisti e giornalisti sono rimasti con loro nel villaggio per resistere all’invasione e all’imminente demolizione.

Khan al Ahmar si trova tra le colonie israeliane di Maaleh Adumim e Kfar Adumim.

Questa terra a est di Gerusalemme, la cosiddetta zona E1, si trova dove Israele pianifica di espandere la sua grande colonia di Maaleh Adumim, completando l’isolamento tra loro della parte nord da quella sud della Cisgiordania e circondando Gerusalemme di colonie.

In base alle leggi internazionali tutte le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata sono illegali.

Lunedì la Francia – uno dei numerosi Stati europei che si sono opposti al progetto di Israele di distruggere Khan al-Ahmar sulla base del fatto che in questo modo verrebbe compromessa la soluzione dei due Stati – ha detto di “prendere nota” del rinvio.

Chiediamo alle autorità israeliane di abbandonare definitivamente i progetti di demolire Khan al-Ahmar e di far cessare l’incertezza che circonda il destino di questo villaggio.”

Tuttavia, a parte l’opposizione verbale, gli Stati dell’UE non hanno espresso chiaramente le conseguenze per Israele se dovesse sfidare questi appelli.

Prendere il controllo di Hebron

Nel contempo, all’inizio di questo mese Israele ha approvato un progetto per espandere la colonia esclusivamente ebraica nel cuore della città di Hebron, nella Cisgiordania occupata.

Secondo Haaretz questa sarà la prima costruzione di una colonia nel cuore di Hebron in oltre un decennio.

L’edificazione del progetto da 6 milioni, che è destinato a includere 31 unità abitative, potrebbe iniziare in qualunque momento.

Parte del progetto riguarda una ex-base militare israeliana che, secondo Haaretz, “è stata costruita su terreni che erano di proprietà di ebrei.”

Quando Israele costruisce colonie in Cisgiordania spesso vengono presentate fittizie rivendicazioni di proprietà sul terreno [da edificare].

Incendiare la regione”

Il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha festeggiato il nuovo insediamento.

Un nuovo quartiere ebraico a Hebron per la prima volta in 20 anni,” ha twittato.

Lieberman ha elogiato il governo per aver approvato il suo progetto per il quartiere, il cosiddetto quartiere “Hezekiah”, che ha definito “un’altra importante pietra miliare nell’estesa attività che stiamo conducendo per rafforzare l’insediamento in Giudea e Samaria.”

Ayman Odeh, capo della “Lista Araba Unita” [coalizione di tutti i partiti arabo-israeliani, ndtr.] nel parlamento israeliano, ha condannato l’iniziativa, accusando il governo di “infiammare continuamente la regione e poi gridare che non ci sono partner” per fare la pace, tutto a vantaggio di un “pugno di coloni estremisti.”

Più di 800 coloni vivono in un’area nel cuore di Hebron sotto totale controllo militare israeliano.

I coloni israeliani hanno preso il controllo della maggior parte della moschea di Abramo [o Tomba dei patriarchi, per gli ebrei, ndtr.] nella città, in seguito al massacro nel 1994 da parte di Baroch Goldstein, un colono americano, di 29 fedeli palestinesi nel sito.

A lungo i palestinesi hanno temuto che la divisione della moschea di Abramo potesse servire come modello per una presa di possesso totale o parziale da parte di Israele del complesso di al-Aqsa a Gerusalemme.

Coloni si aggirano liberamente nella zona di Hebron, sotto totale controllo militare israeliano, mentre i palestinesi sono sottoposti a severe restrizioni negli spostamenti, comprese strade segregate, e alle violenze e ai maltrattamenti dei soldati come dei coloni.

Demolizioni a Hebron

Nel frattempo le forze di occupazione israeliane hanno messo in atto demolizioni di case palestinesi nelle zone nei dintorni di Hebron e in altre parti della Cisgiordania occupata.

All’inizio di questo mese le forze israeliane hanno confiscato nel villaggio di Khirbet al-Halawa, sulle colline meridionali di Hebron, nella Cisgiordania occupata, una tenda di una famiglia composta da sei persone.

La famiglia include quattro bambini, che secondo B’Tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndtr.] sono rimasti senza casa.

Khirbet al-Halawa è una frazione dei villaggi chiamati Masafer Yatta.

Il 3 ottobre le forze israeliane sono arrivate a Khirbet al-Mufaqara, sempre a Masafer Yatta, ed hanno confiscato materiale edile per una casa prefabbricata.

Gli abitanti dei villaggi di Masafer Yatta hanno vissuto per vent’anni sotto minaccia di espulsione forzata.

B’Tselem ha affermato: “Dagli anni ’90 Israele ha sistematicamente tentato di cacciare gli abitanti palestinesi di Masafer Yatta dalle loro case.”

Sia Masafer Yatta che Khan al.-Ahmar si trovano nell’area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania occupata.

In base ai termini degli accordi di Oslo, firmati tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina negli anni ’90, l’area C resta sotto il totale controllo militare israeliano.

Israele ha negato praticamente a ogni palestinese il permesso edilizio nell’area C, obbligando i palestinesi a costruire senza permessi e a vivere con la continua paura che le loro case o comunità vengano demolite.

Martedì mattina le forze di occupazione israeliane hanno smantellato e confiscato roulotte utilizzate come aule scolastiche a Ibziq, un villaggio nel nord della valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata.

Un video postato da attivisti mostra le forze israeliane che portano via le strutture su camion.

Pare che le roulotte siano state finanziate dall’Unione Europea e dalla Finlandia, che non hanno fatto niente per chiedere conto ad Israele della distruzione delle decine di milioni di dollari dei progetti per i palestinesi pagate dai contribuenti europei.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Dare lavoro al nemico: la storia dei lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane

Middle East Monitor

Editore: Zed Books

Data di pubblicazione: 15 July 2017

Autore: Matthew Vickery

Recensione di: Mustafa Fatih Yavuz

Chi fa ricerca e discute del conflitto tra Palestina e Israele scoprirà che persino l’argomento più specifico è stato ben indagato. Tuttavia temi quali la soluzione dei due Stati, le questioni riguardanti la sicurezza, lo status di Gerusalemme e persino i rifugiati palestinesi riflettono discussioni dell’élite che non fanno riferimento a quelli che rimangono ai margini del discorso – le vittime dell’occupazione. Questi sono i lavoratori palestinesi che non hanno altra alternativa che lavorare nelle colonie israeliane in Cisgiordania a causa degli alti tassi di disoccupazione e delle restrizioni israeliane.

Quando ero a Tel Aviv ho chiesto dei palestinesi a una delle mie amiche che si definisce sionista. Mi ha risposto in modo generico: “A me vanno bene, e costruiscono la mia strada, lavorano per me.” Anche se la risposta mi ha deluso per il suo tono altezzoso, c’era una realtà nascosta dietro di essa. L’espansione delle colonie israeliane e della popolazione ebraica ha raggiunto più di 600.00 [abitanti] dal 1967, ed anche la conseguente involuzione economica palestinese è cresciuta in questo periodo. Ci sono 37.000 palestinesi in Cisgiordania obbligati a guadagnarsi da vivere lavorando in quelle colonie a causa dello sviluppo agricolo ed economico degli insediamenti. Ma quelle storie di palestinesi sono state per lo più ignorate, e quel che è peggio i lavoratori sono stati etichettati dai loro connazionali come “traditori” o “parte del problema”.

Invece il libro di Matthew Vickery offre indicazioni in merito alla loro vita quotidiana, alle principali difficoltà che devono affrontare, a come i coloni li trattano e alle loro condizioni di vita. In quanto giornalista, Vickery sceglie una narrazione non accademica per far entrare il lettore nelle storie dei lavoratori palestinesi. Ha realizzato una serie di interviste con lavoratori palestinesi in Cisgiordania ed ha utilizzato queste interviste come base per il suo libro. Poiché credono che quello che fanno sia sbagliato, lavorare per la gente che sta rubando la loro terra è diventata una vergogna per loro e non ne parlano facilmente.

Il libro di Vickery è diviso in due parti principali, in cui intende mostrare come i coloni abbiano dato lavoro ai palestinesi e come il loro impiego diventi sfruttamento. Nella prima parte il lettore viene introdotto alle varie discussioni riguardo allo status giuridico ed ai sentimenti dei palestinesi che lavorano nelle colonie – vergogna, disperazione, umiliazione ed alienazione. Vickery evidenzia soprattutto le cattive condizioni di lavoro, come il fatto di essere pagati sotto il salario minimo e lo status giuridico dei palestinesi. In base alla legge israeliana, ogni lavoratore nelle colonie ha diritto a un minimo di 214,62 shekel (circa 50 €) al giorno. Ma i palestinesi che non possono avere dalla polizia israeliana un permesso di lavoro sono pagati 140 shekel (circa 33 €) e anche meno.

Lo status giuridico dei palestinesi che lavorano nelle colonie è in realtà incerto. Secondo Vickery la loro condizione dovrebbe essere equiparata a quella dei lavoratori all’interno di Israele nel 2007. Tuttavia ciò non è mai stato applicato. Egli fornisce un interessante aneddoto dall’interno di una commissione della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] nel 2013: “Il ministero dell’Economia ha detto che, quando si tratta di salute e controlli sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, non svolge alcuna attività nelle colonie perché non sa quali leggi applicare.”

Vickery dedica un capitolo ai mediatori di queste questioni di lavoro. I palestinesi vengono assunti attraverso caporali che fanno da intermediari tra i coloni e la forza lavoro palestinese. L’autore non evita di descrivere questi caporali palestinesi come strumenti per sfruttare la manodopera palestinese facendo riferimento a un’altra fonte: “Gli intermediari sono aggressivi, motivati dal denaro e non hanno nessun problema nello sfruttare i loro stessi connazionali.”

Con i dati da fonti affidabili utilizzati nella seconda sezione è ben descritto come Israele sfrutta la manodopera palestinese controllando la popolazione, realizzando colonie ebraiche e limitando gli investimenti palestinesi in Cisgiordania. L’autore pone il lettore nella prospettiva economica dell’occupazione. La segregazione nel mercato del lavoro e lo strangolamento dell’economia palestinese diventano lo strumento principale per controllare i palestinesi e non lasciar loro altre possibilità se non lavorare nelle colonie come operai di serie B. Dato che l’argomento riguarda soprattutto i “lavoratori”, l’autore evidenzia l’impostazione marxista e ne mette alla prova l’ideologia. Utilizza il [concetto di] “esercito industriale di riserva” per confrontare questa nozione con la situazione dei lavoratori palestinesi e scopre che la definizione marxista non è sufficiente per descrivere il rapporto tra lavoratori palestinesi e coloni ebrei capitalisti.

È evidente che la classe operaia israeliana e quella palestinese non sono la stessa cosa, divise semplicemente dallo sfruttamento capitalista. L’importanza di comprenderlo è che risulta possibile ridefinire e utilizzare i concetti marxisti riguardo ad Israele e all’occupazione dei territori palestinesi.” Vickery sostiene anche che i palestinesi che vivono nell’Area C della Cisgiordania [in base agli accordi di Oslo, sotto totale controllo temporaneo di Israele, ndtr.], sottoposti all’occupazione israeliana, sono in realtà lavoratori forzati. L’autore cita un certo numero di fonti che definiscono il lavoro forzato e sostiene che i palestinesi sono in realtà indirettamente lavoratori forzati a causa del fatto di non avere alternative.

Nella grande maggioranza dei casi i lavoratori palestinesi delle colonie in Cisgiordania non sono liberi nella scelta dell’impiego. Sono stati di fatto integrati nel settore attraverso politiche del governo israeliano riguardo ai lavoratori palestinesi, al regime dei permessi, al controllo del mercato e dell’economia palestinesi e alle restrizioni nella libertà di movimento all’interno della Cisgiordania.” scrive Vickery.

Le storie dei lavoratori palestinesi nelle colonie sono veramente molto tristi e non rare per la società palestinese in generale. Le persone sono in realtà abbandonate dalla loro amministrazione, dal loro popolo, dall’attenzione internazionale e lasciate nelle mani del loro aguzzino. Sono davvero, come afferma uno dei titoli dei capitoli del libro, i “miserabili della Terra Santa.” Questo saggio sarà una buona lettura per quanti sono curiosi riguardo la situazione dei lavoratori in Cisgiordania e a come i coloni, in quanto datori di lavoro, trattano i loro dipendenti palestinesi. Forse i lettori possono trovare storie simili a quelle dei palestinesi nei lavoratori in altre parti del mondo. Forse questa occupazione non è stata architettata attraverso la potenza dell’esercito e dei rapporti diplomatici ma del capitale. Chi lo sa?

(traduzione di Amedeo Rossi)




Appena comincia la raccolta delle olive, i coloni attaccano

Yumna Patel

11 ottobre 2018, MONDOWEISS

Il tempo è finalmente arrivato: gli abitanti di Turmusayya, un rigoglioso villaggio palestinese incastonato in una valle tra Ramallah e Nablus, nella parte centrale della Cisgiordania occupata, hanno avuto il permesso delle autorità israeliane per andare a raccogliere le olive dei loro alberi.

Questa possibilità viene concessa solo due volte all’anno: due giorni in primavera per coltivare la loro terra e due giorni in autunno per raccogliere le olive.

Pieni di eccitazione e della sensazione di urgenza, i contadini sono arrivati ai loro campi coltivati, che sono circondati da una colonia e da un avamposto israeliani. Quando sono arrivati, sono rimasti sconvolti nel vedere decine di alberi abbattuti, sradicati e marciti.

I 40 ulivi erano di proprietà del settantottenne palestinese Mahmoud al-Araj, che aveva curato gli alberi da quando era un ragazzino.

Alcuni di quegli alberi hanno 40, 50, 60, 70 anni”, dice a Mondoweiss al-Araj, seduto all’ombra di un grande ulivo con il tronco che è stato squarciato.

Ho coltivato queste piante, questa terra, da quando ero ragazzo. Aiutavamo le nostre famiglie e abbiamo faticato su questa terra per poter mantenere i nostri figli e le future generazioni,” dice.

Additando l’avamposto israeliano illegale di Adei Ad, costruito su terreni di Turmusayya, a poche centinaia di metri di distanza, l’angoscia nella voce di al-Araj si accentua.

Abbiamo dato tutto quello che abbiamo per la nostra terra e per questi alberi, e ora i coloni arrivano e distruggono tutto.”

Gli attacchi dei coloni sono una parte ‘inevitabile’ del raccolto

Quando abbiamo visto gli alberi in queste condizioni, non abbiamo chiamato Mahmoud perché avevamo paura che gli venisse un infarto,” dice a Mondoweiss Said Hussein, un parente di Al-Araj, mentre lo aiuta su per l’accidentato sentiero verso il suo uliveto. Hussein, che gestisce una serie di attività commerciali in America, passa il suo tempo tra Chicago e il suo luogo di nascita, Turmusayya. È proprietario di vari acri di terreno nel villaggio, a molti dei quali non può assolutamente accedere.

Sono proprietario di 114 dunum (11,4 ettari) di terra all’interno e attorno a Turmusayya,” dice Hussein a Mondoweiss, indicando le colline ondulate in lontananza, “ma ho accesso solo a circa 30 dunum. E anche per questi 30 dunum devo avere il permesso degli israeliani per accedervi.”

Hussein dice che la sua famiglia era proprietaria di circa 1.000 ulivi sulla terra del villaggio. Ora questo numero di aggira tra i 150 e i 200 alberi. “Prima che arrivassero i coloni, ci divertivamo a venire qui al terreno non solo per lavorarci, ma per starci in famiglia e persino per fare un picnic,” dice Hussein, sorridendo mentre rammenta bei ricordi della sua giovinezza.

Ogni venerdì venivamo qui a sederci sotto gli alberi a mangiare e a divertirci insieme,” dice. “Ora possiamo solo venire qui quattro giorni all’anno, e non possiamo neanche godercelo perché cerchiamo di fare il lavoro in tempo.”

Secondo Hussein, le restrizioni israeliane sui contadini di Turmusayya sono iniziate nel 1998, lo stesso anno in cui è stato costruito l’avamposto di Adei Ad.

Ci hanno reso sempre più difficile l’accesso alla terra, finché, intorno al 2002, è stato ufficializzato che dovevamo avere l’autorizzazione israeliana per accedere ai terreni,” dice.

Hussein sostiene che quattro giorni all’anno non sono praticamente sufficienti per occuparsi degli ulivi e della terra.

Questi alberi li devi amare e te ne devi prendere cura come se fossero figli tuoi. La terra ha bisogno di lavoro continuo per togliere le erbacce, potare i rami degli alberi, e via di seguito,” dice. “Come potremmo fare tutto questo solo in pochi giorni?”

E poi, quando abbiamo la fortuna di venirci, non possiamo neanche goderci pienamente la terra perché dobbiamo continuamente guardarci le spalle per via dei coloni che arrivano a tormentarci e ad attaccarci mentre stiamo lavorando,” continua.

Hussein raccontato a Mondoweiss di essere stato vittima di diversi attacchi da parte dei coloni nel corso degli anni.

Hanno cosparso i miei alberi con veleno e li hanno uccisi, hanno abbattuto e sradicato alberi e hanno incendiato la mia macchina e rotto le mie finestre mentre stavo lavorando sul terreno,” ha affermato.

L’attacco dei coloni è diventato parte inevitabile della raccolta delle olive,” dice scuotendo la testa. “È stabilito che accada ogni anno.”

Gli ulivi sono nemici dei coloni”

I casi di Hussein e al-Araj non sono gli unici. A Turmusayya circa il 60% dei [circa] 1.760 ettari di terra del villaggio si trovano nell’Area C – la zona della Cisgiordania sotto totale controllo israeliano per la sicurezza e amministrativo in cui sono vietati l’edificazione o i lavori agricoli da parte dei palestinesi.

La maggior parte della terra nell’Area C è agricola, per lo più coltivata a ulivi, così come a vigna, grano e altre colture.

Secondo il funzionario del comune Wadi Abu Awwad, 65 anni, direttore dei servizi topografici a Turmusayya, tutti gli 11.000 abitanti di Turmusayya sono proprietari di qualche appezzamento di terra agricola nella zona, rendendo l’agricoltura uno degli aspetti più significativi della vita del villaggio.

Turmusayya è circondato da cinque colonie e avamposti israeliani a nord e a est del villaggio, esponendolo a frequenti attacchi dei coloni.

Dal 1990, o persino prima, Turmusayya e i villaggi attorno a noi hanno sofferto molto,” dice a Mondoweiss Abu Awwad nel suo ufficio del Comune. “Nel corso degli anni i coloni hanno tagliato migliaia di ulivi, hanno danneggiato e bruciato le auto della gente e i loro attacchi hanno causato la morte di quattro persone.”

Abu Awwad dice che nel 2014 i coloni hanno abbattuto circa 2.000 alberi. “Fanno tutto il possibile per farci lasciare la terra, fanno buchi negli alberi, li avvelenano e li cospargono con pesticidi.”

Durante il suo incarico presso il Comune, Abu Awwad ha presentato più di 93 ricorsi alle autorità israeliane contro i coloni. Dice che neanche uno ha portato neppure a un arresto.

I soldati dicono sempre che non abbiamo prove e cercano di sostenere che forse abbiamo ‘nemici’ nel villaggio che tagliano gli alberi.”

Pochi anni fa, secondo Abu Awwad, un colono perse la sua carta d’identità sulla scena di un attacco contro gli ulivi. “Abbiamo mostrato il documento ai soldati e abbiamo detto: ‘Guardate, abbiamo una prova”, ma hanno detto che non era sufficiente, e che al colono era semplicemente successo di perdere la sua carta d’identità nella zona.”

Ma siamo certi che ogni volta che c’è un attacco contro gli alberi o una proprietà del villaggio sono stati i coloni,” dice.

Come mai perdiamo alberi solo nelle zone vicino alle colonie? La valle di Turmusayya è vasta, e ci sono molti alberi nel villaggio che non sono mai stati toccati. È perché i coloni non vi hanno accesso.”

Abu Awwad, come molte altre vittime palestinesi degli attacchi dei coloni, crede che i coloni prendano di mira l’agricoltura come parte di una strategia a lungo termine per cacciare i palestinesi dalle loro terre.

Gli ulivi sono un nemico dei coloni. Perché, se sulla tua terra sono piantati gli alberi, significa che continuerai a starci,” dice. “Loro vogliono che la terra non sia coltivata in modo che possano averla in base alla legge ottomana che dice che se non coltivi la terra per 5 anni il governo ha il diritto di appropriarsene.”

Nonostante decenni di attacchi da parte dei coloni, Abu Awwad sostiene di aver fiducia che il popolo di Turmusayya non se ne andrà mai dalla sua terra.

Pensano che tagliando gli alberi loro possono fare in modo che i contadini si arrendano, ma ciò non è mai successo e non succederà mai,” dice.

Ogni volta che li tagliano, noi torniamo sempre e li ripiantiamo.”

Yumna Patel è una giornalista multimediale che vive a Betlemme, Palestina.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il mattino seguente

Edward Said

21.10.1993  The London Review of Books

Ora che è svanita parte dell’euforia, possiamo riesaminare l’accordo Israele-OLP con il dovuto buonsenso. E ciò che emerge da questa analisi è un accordo più lacunoso e più sfavorevole, almeno per la maggior parte della popolazione palestinese, di quello che in molti si aspettavano. La volgarità mondana della cerimonia alla Casa Bianca, lo spettacolo degradante offerto da un Yasser Arafat che ringraziava tutti per aver sospeso la maggior parte dei diritti del suo popolo e la fatua solennità della performance di Bill Clinton, che sembrava un imperatore romano del ventesimo secolo mentre guida due re vassalli a rituali di riconciliazione e di rispetto: tutto questo ha oscurato solo temporaneamente le proporzioni davvero sorprendenti della capitolazione palestinese.

Quindi, prima di tutto, chiamiamo l’accordo con il suo vero nome: uno strumento della resa palestinese, una Versailles palestinese. Ciò che lo rende peggiore è che, almeno negli ultimi quindici anni, l’OLP avrebbe potuto negoziare un accordo ben migliore di questo piano Allon modificato, senza così tante concessioni unilaterali a Israele. Per ragioni che la leadership conosce bene, tutte le precedenti aperture sono state rifiutate. Per citare solo un esempio di cui sono personalmente a conoscenza: alla fine degli anni Settanta, il Segretario di Stato americano Cyrus Vance mi chiese di convincere Arafat ad accettare la Risoluzione ONU 242 con una clausola, accettata dagli Stati Uniti e formulata dall’OLP, che avrebbe insistito sui diritti nazionali del popolo palestinese e sulla sua autodeterminazione. Vance promise che gli Stati Uniti avrebbero riconosciuto immediatamente l’OLP e avrebbero inaugurato negoziati con Israele. Arafat rifiutò categoricamente l’offerta, come fece con altre offerte simili. Poi c’è stata la Guerra del Golfo e, a causa delle disastrose posizioni assunte in quel periodo, l’OLP perse ancora più terreno. Le conquiste dell’intifada erano state gettate al vento e oggi i sostenitori del nuovo documento dicono: “Non avevamo alternative”. Il modo corretto di frasare il concetto è: “Non avevamo scelta perché abbiamo perso o buttato via molte altre alternative, lasciandoci solo questa”.

Per poter avanzare verso l’autodeterminazione palestinese – che ha un significato solo se ha come obiettivo la libertà, la sovranità e l’uguaglianza, piuttosto che la perenne sottomissione a Israele – dobbiamo riconoscere onestamente dove siamo adesso, ora che l’accordo temporaneo sta per essere negoziato. Ciò che appare particolarmente mistificante è il modo in cui così tanti leaders palestinesi e gli intellettuali al loro seguito continuino a parlare dell’accordo come di una “vittoria”. Nabil Shaath l’ha definita una “completa parità” tra israeliani e palestinesi. Ma rimane il fatto che Israele non ha concesso nulla, come ha affermato anche l’ex Segretario di Stato americano James Baker in un’intervista televisiva, tranne, in modo blando, il riconoscimento dell’esistenza dell’ OLP come rappresentante del popolo palestinese. Come sostenuto dalla “colomba” israeliana Amos Oz nel corso di un’intervista alla BBC, “questa è la seconda più grande vittoria nella storia del sionismo”.

Invece, il riconoscimento da parte di Arafat del diritto all’esistenza di Israele porta con sé tutta una serie di rinunce: alla Carta dell’OLP; alla violenza e al terrorismo; a tutte le risoluzioni ONU pertinenti, eccezion fatta per la 242 e la 338 che non dicono una parola sui diritti e le aspirazioni dei palestinesi. Di conseguenza, l’OLP ha accantonato numerose altre risoluzioni ONU (che, insieme ad Israele e agli Stati Uniti, sembra ora voler tentare di modificare o rescindere) che, dal 1948, hanno riconosciuto ai palestinesi lo status di rifugiati, compresi il diritto al rimpatrio o ad essere indennizzati. I palestinesi avevano vinto numerose risoluzioni internazionali – approvate, tra gli altri, dalla Comunità Europea, dal movimento dei paesi non allineati, dalla Conferenza Islamica e dalla Lega Araba, così come dall’ONU – risoluzioni che vietavano o condannavano gli insediamenti, le annessioni e i crimini israeliani contro il popolo sotto occupazione.

Sembrerebbe quindi che l’OLP abbia posto fine all’intifada, che non incarnava il terrorismo o la violenza ma il diritto palestinese alla resistenza, anche se Israele continua ad occupare la Cisgiordania e Gaza. Nel documento, la considerazione principale riguarda la sicurezza di Israele, mentre non si parla della sicurezza dei palestinesi dalle incursioni israeliane. Nella sua conferenza stampa del 13 settembre, Rabin è stato molto esplicito sul fatto che Israele avrebbe mantenuto il controllo. E inoltre, che Israele si sarebbe tenuta il fiume Giordano, i confini con l’Egitto e la Giordania, il mare, la terra tra Gaza e Gerico, Gerusalemme, gli insediamenti e le strade. Nel documento c’è ben poco che faccia pensare ad una rinuncia israeliana alla violenza contro i palestinesi o, come è stato costretto a fare l’Iraq dopo il suo ritiro dal Kuwait, ad un risarcimento alle vittime delle sue politiche degli ultimi 45 anni.

Né Arafat né gli altri leaders palestinesi che hanno incontrato gli israeliani ad Oslo hanno mai visto un insediamento israeliano. Ne esistono oltre duecento, principalmente su colline, promontori e punti strategici in tutta la Cisgiordania e a Gaza. Molti probabilmente si ridurranno fino a morire, ma i più grandi sono progettati per essere permanenti. Un sistema indipendente di strade li collega ad Israele, creando una discontinuità invalidante tra i principali centri della popolazione palestinese. La terra occupata da questi insediamenti, più la terra destinata all’esproprio, ammonta – si calcola – ad oltre il 55 per cento della superficie totale dei Territori Occupati. La sola “grande Gerusalemme”, annessa ad Israele, comprende un’enorme fetta di terra virtualmente rubata, pari ad almeno il 25 per cento del totale. Gli insediamenti di Gaza nel nord (tre), nel centro (due) e nel sud, lungo la costa fra il confine egiziano fino a Khan Yunis (12), costituiscono almeno il 30% della Striscia. Inoltre, Israele ha sfruttato tutte le falde acquifere della Cisgiordania e ora utilizza circa l’80% dell’acqua per gli insediamenti e per Israele. (Probabilmente ci sono simili installazioni idrauliche anche nella “zona di sicurezza” libanese occupata da Israele.) Quindi negli accordi di Oslo la questione del dominio (se non il furto definitivo) della terra e delle risorse idriche passa inosservato nel caso dell’acqua, o, nel caso della terra, viene rimandato ad una soluzione futura.

Ciò che peggiora ulteriormente le cose è che tutte le informazioni sugli insediamenti, la terra e l’acqua sono detenute da Israele, che le ha condivise solo in minima parte con i palestinesi, così come non ha condiviso le entrate generate dalle tasse spropositate che ha imposto su di loro per 26 anni. Tavoli tecnici di ogni tipo (ai quali hanno partecipato palestinesi non residenti in Palestina) sono stati istituiti dall’OLP nei territori per prendere in considerazione tali questioni, ma ci sono poche prove che i risultati delle commissioni, se ce ne sono stati, siano stati utilizzati dalla delegazione palestinese a Oslo. Quindi rimane l’impressione di un’enorme discrepanza tra ciò che Israele ha ottenuto e ciò che i palestinesi hanno concesso o trascurato.

Dubito che ci sia un solo palestinese che, assistendo alla cerimonia della Casa Bianca, non abbia sentito che un secolo di sacrificio, privazione e lotta eroica stava finendo nel nulla. E la cosa che disturbava di più e che mentre Rabin ha pronunciato un discorso, Arafat ha pronunciato parole che suonavano come un accordo di affitto. Lungi dall’essere visti come vittime del sionismo, i palestinesi sono stati presentati agli occhi del mondo come i suoi aggressori pentiti: come se le migliaia di vittime dei bombardamenti israeliani sui campi profughi, gli ospedali e le scuole in Libano; l’espulsione da Israele di 800.000 persone nel 1948 (i cui discendenti ora sono circa tre milioni, molti dei quali privi di nazionalità); la conquista della loro terra e della loro proprietà; la distruzione di oltre quattrocento villaggi palestinesi; l’invasione del Libano; le devastazioni di 26 anni di brutale occupazione militare – come se tutte queste sofferenze fossero state riassunte nell’essere un popolo di terroristi e violenti, rinunciando a rivendicarle e facendole passare sotto silenzio. Israele ha sempre descritto la resistenza palestinese come terrorismo e violenza, e quindi anche nella formulazione dell’accordo ha ricevuto uno storico dono morale.

Ed in cambio, cosa si è ottenuto esattamente? Il riconoscimento israeliano dell’OLP – indubbiamente un significativo passo avanti. Oltre a ciò, anche accettando che le questioni sulla terra e la sovranità vengano rimandate ai “negoziati sullo status finale”, i palestinesi hanno in effetti rinunciato alla loro rivendicazione unilaterale e internazionalmente riconosciuta sulla Cisgiordania e su Gaza: questi sono ora diventati “territori contesi”. Così, con l’assistenza palestinese, a Israele è stata riconosciuta almeno una rivendicazione alla pari su questi territori. Il calcolo israeliano sembra puntare sul fatto che accettando di fare i poliziotti a Gaza – un lavoro che Begin cercò già di far fare a Sadat quindici anni fa – l’OLP cadrà presto in disgrazia in favore dei concorrenti locali, Hamas fra gli altri. E inoltre, piuttosto che diventare più forti durante il periodo provvisorio, i palestinesi potrebbero indebolirsi, diventare più succubi di Israele, e quindi essere meno in grado di opporsi alle rivendicazioni israeliane quando inizierà l’ultima serie di trattative. Ma sulla questione di come, con quale specifico meccanismo, passare dallo stato provvisorio ad uno successivo, il documento è intenzionalmente reticente. Questo significa, minacciosamente, che lo stato provvisorio potrebbe essere quello definitivo?

I commentatori israeliani hanno suggerito che entro, diciamo, sei mesi l’OLP e il governo di Rabin negozieranno un nuovo accordo che rinvierà ulteriormente le elezioni, consentendo così all’OLP di continuare a governare. Vale la pena ricordare che almeno due volte durante la scorsa estate Arafat ha affermato che la sua esperienza di governo si basa sui dieci anni durante i quali ha “controllato” il Libano, un pensiero non confortante per i molti libanesi e palestinesi che hanno un ricordo molto amaro di quel periodo. E al momento non esiste una procedura di svolgimento delle elezioni, anche se fossero programmate. L’imposizione del potere dall’alto e il lungo retaggio dell’occupazione non hanno contribuito alla crescita delle istituzioni democratiche e di base. Indiscrezioni della stampa araba indicano che l’OLP avrebbe già nominato i ministri fra la sua cerchia ristretta di Tunisi, e i vice ministri fra residenti fidati della Cisgiordania e di Gaza. Ci saranno mai istituzioni veramente rappresentative? Non si può essere molto ottimisti, dato il totale rifiuto di Arafat di condividere o delegare il potere, per non parlare delle risorse finanziarie che lui solo conosce e controlla.

Sulle questioni di sicurezza interna e di sviluppo economico Israele e l’OLP sembrano ora allineati. Membri e consulenti dell’OLP hanno incontrato funzionari del Mossad sin dallo scorso ottobre per discutere dei problemi di sicurezza, compresa la sicurezza di Arafat. E questo nel periodo della peggiore repressione israeliana sui palestinesi sotto occupazione militare. Il pensiero alla base della collaborazione è che impedirà a qualsiasi palestinese di manifestare contro l’occupazione. Nonostante il fatto che Israele non si ritirerà, ma si limiterà a un ridispiegamento. Inoltre, i coloni israeliani resteranno dove sono sempre stati, sotto una giurisdizione diversa da quella dei palestinesi. L’OLP diventerà quindi spalleggiatore di Israele, una prospettiva infelice per la maggior parte dei palestinesi. È interessante notare che l’African National Congress di Mandela si rifiutò sempre di fornire funzionari di polizia al governo sudafricano finché il potere non sarebbe stato condiviso, proprio per evitare di apparire come spalleggiatori del governo bianco. Alcuni giorni fa si è saputo che ad Amman 170 membri dell’esercito di liberazione della Palestina, addestrati in Giordania per il lavoro di polizia a Gaza, si sono rifiutati di cooperare proprio per la stessa ragione. Con circa 14.000 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane – alcuni dei quali saranno forse rilasciati da Israele – c’è una contraddizione intrinseca, per non dire incoerenza, con le nuove disposizioni sulla sicurezza. Ci sarà più spazio per la sicurezza palestinese?

L’unico argomento su cui la maggior parte dei palestinesi è d’accordo è lo sviluppo economico, descritto nei termini più ingenui che si possano immaginare. Ci si aspetta che la comunità mondiale dia alle aree semi-autonome un sostegno finanziario su larga scala; dalla diaspora palestinese ci si attende lo stesso. Tuttavia, tutti i finanziamenti per la Palestina dovranno essere convogliati attraverso il “Comitato congiunto di cooperazione economica israelo-palestinese”, anche se, secondo il documento, “entrambe le parti coopereranno sia congiuntamente che unilateralmente con attori regionali e internazionali per sostenere questi obiettivi”. Israele è il potere economico e politico dominante nella regione – e il suo potere è naturalmente rafforzato dalla sua alleanza con gli Stati Uniti. Oltre l’80 per cento dell’economia della Cisgiordania e di Gaza dipende da Israele, che probabilmente controllerà le esportazioni, la produzione e la manodopera palestinesi nel prossimo futuro. A parte la piccola classe imprenditoriale e borghese, la grande maggioranza dei palestinesi è impoverita e priva di terra, soggetta ai capricci della produzione israeliana e della comunità commerciale che impiega i palestinesi come manodopera a basso costo. La maggior parte dei palestinesi, dal punto di vista economico, rimarrà quasi certamente nella stessa situazione, anche se ora dovrà lavorare nel settore privato, in parte nel settore di servizi controllati dai palestinesi, tra cui resort, piccoli impianti di assemblaggio, fattorie e simili.

Un recente studio del giornalista israeliano Asher Davidi cita Dov Lautman, presidente dell’Associazione israeliana dei produttori: “Non è importante se ci sarà uno Stato palestinese, un’autonomia o uno stato palestinese-giordano. I confini economici tra Israele e i territori devono rimanere aperti”. Con le sue istituzioni ben sviluppate, le strette relazioni con gli Stati Uniti e la sua economia aggressiva, Israele in pratica incorporerà i territori economicamente, mantenendoli in uno stato di dipendenza permanente. Israele si rivolgerà poi al resto del mondo arabo, usando i benefici politici dell’accordo palestinese come trampolino per irrompere nei mercati arabi, che sfrutterà e probabilmente dominerà.

Ad inquadrare tutto questo sono gli Stati Uniti, l’unica potenza globale, la cui idea di Nuovo Ordine Mondiale si basa sul dominio economico di poche corporazioni gigantesche e sulla pauperizzazione, se necessario, delle popolazioni subalterne (anche quelle nei paesi sviluppati). Gli aiuti economici per la Palestina sono supervisionati e controllati dagli Stati Uniti, scavalcando di fatto le Nazioni Unite, le cui agenzie UNRWA e UNDP sarebbero di gran lunga in miglior posizione per farlo. Prendi il Nicaragua e il Vietnam. Entrambi sono ex nemici degli Stati Uniti; Il Vietnam ha effettivamente sconfitto gli Stati Uniti, ma ora ne ha bisogno economicamente. Il boicottaggio contro il Vietnam continua e i libri di storia vengono scritti in modo tale da mostrare come i vietnamiti abbiano peccato e “maltrattato” gli Stati Uniti per il suo gesto idealistico di aver invaso, bombardato e devastato il loro paese. Il governo sandinista del Nicaragua è stato attaccato dal movimento Contra finanziato dagli Stati Uniti; i porti del paese sono stati minati, la sua gente devastata da carestie, boicottaggi e ogni forma immaginabile di insicurezza. Dopo le elezioni del 1991, che portarono al potere un candidato sostenuto dagli Stati Uniti, la signora Chamorro, gli Stati Uniti promisero molti milioni di dollari in aiuti, di cui solo 30 milioni si sono materializzati. A metà settembre tutti gli aiuti furono interrotti. Ci sono ora carestia e guerra civile in Nicaragua. Non meno sfortunati sono stati i destini di El Salvador e Haiti. Gettarsi fra le braccia, come ha fatto Arafat, della tenera misericordia degli Stati Uniti significa quasi certamente subire lo stesso destino che gli Stati Uniti hanno riservato ai popoli ribelli o “terroristi” del Terzo mondo, dopo che questi hanno promesso di non resistere più agli Stati Uniti.

Di pari passo con il controllo economico e strategico dei paesi del Terzo mondo che sono in possesso di risorse necessarie agli Stati Uniti come il petrolio, o che capitano nei paraggi, viene il controllo del sistema dei media, la cui presa sul pensiero è davvero sbalorditiva. Per almeno venti anni, Yasser Arafat era stato considerato l’uomo meno attraente e moralmente repellente sulla terra. Ogni volta che appariva nei media, o che si parlava di lui, veniva presentato come se avesse un solo pensiero in testa: uccidere ebrei, in particolare donne e bambini innocenti. Nel giro di pochi giorni, i “media indipendenti” hanno completamente riabilitato Arafat. Ora è diventato una figura accettata e amabile il cui coraggio e il cui realismo hanno concesso a Israele i suoi diritti. Si è pentito, è diventato un ‘amico’, e lui e il suo popolo sono ora dalla “nostra” parte. Chiunque si opponga o critichi il suo operato è un fondamentalista come i coloni del Likud o un terrorista come i membri di Hamas. È diventato quasi impossibile dire qualsiasi cosa tranne che l’accordo israelo-palestinese – di solito senza leggerlo o esaminarlo, oppure parlandone in modo poco chiaro, senza dozzine di dettagli cruciali – è il primo passo verso l’indipendenza palestinese.

Per quanto riguarda i critici e gli analisti veramente indipendenti, il problema è come possono liberarsi dal sistema ideologico presentato dall’accordo e dai media. Ciò di cui necessitiamo adesso sono la memoria e lo scetticismo, se non addirittura il sospetto. Anche se è palesemente ovvio che la libertà palestinese in senso reale non sia stata raggiunta, e chiaramente non si pianifica che questo possa avvenire al di là dei limiti angusti imposti da Israele e dagli Stati Uniti, la celebre stretta di mano diffusa in tutto il mondo non è pensata solo per simboleggiare un grande momento di successo, ma anche per cancellare le realtà passate e presenti.

I palestinesi con un minimo di onestà dovrebbero essere in grado di vedere che la grande maggioranza delle persone che l’OLP dovrebbe rappresentare non trarrà veramente vantaggi dall’accordo, se non sul piano cosmetico. È vero, i residenti della Cisgiordania e di Gaza sono giustamente lieti di vedere che alcune truppe israeliane si ritireranno, e che potrebbero iniziare a entrare grosse somme di denaro. Ma è palese disonestà non rendersi conto di ciò che l’accordo comporta in termini di ulteriore occupazione, controllo economico e profonda insicurezza. Poi c’è il gigantesco problema dei palestinesi che vivono in Giordania, per non parlare delle migliaia di profughi apolidi in Libano e in Siria, stati arabi “amichevoli” che hanno sempre avuto una legge per i palestinesi e una per i nativi. Questi doppi standard si sono già rafforzati, come testimoniano le spaventose scene di ritardo e di molestie che si sono verificate sul ponte Allenby da quando è stato annunciato l’accordo.

Quindi cosa si deve fare, se piangere sul latte versato è inutile? La prima cosa è mettere in chiaro non solo le virtù dell’essere riconosciuti da Israele e accettati alla Casa Bianca, ma anche le mancanze veramente gravi. Prima il pessimismo della ragione, poi l’ottimismo della volontà. Non si può migliorare una situazione negativa che è in gran parte dovuta all’incompetenza tecnica dell’OLP – che ha negoziato in inglese, una lingua che né Arafat né il suo emissario a Oslo conoscono, senza alcun consulente legale – finché almeno a livello tecnico non sono coinvolte persone che possono pensare con la loro testa e non essere meri strumenti di quella che è ormai una unica autorità palestinese. Trovo straordinariamente scoraggiante che tanti intellettuali arabi e palestinesi, che una settimana prima si lamentavano dei modi dittatoriali di Arafat, del suo controllo unilaterale sul denaro, della cerchia di cortigiani e parassiti che lo hanno circondato a Tunisi negli ultimi anni, dell’assenza di responsabilità e di riflessione, almeno dalla Guerra del Golfo, abbiano improvvisamente fatto una giravolta di 180 gradi, iniziando ad applaudire il suo genio tattico e la sua vittoria finale. La marcia verso l’autodeterminazione può essere intrapresa solo da un popolo con aspirazioni e obiettivi democratici. Altrimenti non ne vale la pena.

Dopo tutto il trambusto per celebrare “il primo passo verso uno stato palestinese”, dovremmo ricordare a noi stessi che molto più importante che avere uno stato è il tipo di stato che abbiamo. La storia del mondo postcoloniale è sfigurata da tirannie di partiti unici, oligarchie rapaci, dislocazione sociale causata da “investimenti” occidentali e pauperizzazione su larga scala causata da carestie, guerre civili o rapine a titolo definitivo. Più che un fondamentalismo religioso, il semplice nazionalismo non è, e non potrà mai essere, la “risposta” ai problemi delle nuove società secolari. Purtroppo si possono già vedere nella potenziale statualità della Palestina i lineamenti di un matrimonio tra il caos del Libano e la tirannia dell’Iraq.

Se ciò non dovesse accadere, è necessario affrontare una serie di problemi specifici. Uno è la diaspora palestinese, che è all’origine dell’ascesa al potere di Arafat e dell’OLP, che li ha mantenuti lì finora, e che adesso è relegata in esilio permanente o con status di rifugiato. Poiché i palestinesi della diaspora costituiscono almeno la metà della popolazione totale palestinese, i loro bisogni e aspirazioni non sono trascurabili. Una piccola parte della comunità di esuli è rappresentata dalle varie organizzazioni politiche “ospitate” dalla Siria. Un numero significativo di indipendenti (alcuni dei quali, come Shafik al-Hout e Mahmoud Darwish, si sono dimessi in segno di protesta dall’OLP) hanno ancora un ruolo importante da svolgere, non semplicemente applaudendo o condannando a margine, ma sostenendo specifiche modifiche alla struttura dell’OLP, cercando di cambiare l’atmosfera trionfalistica del momento in qualcosa di più appropriato, mobilitando il sostegno e costruendo un’organizzazione all’interno delle varie comunità palestinesi in tutto il mondo per continuare la marcia verso l’autodeterminazione. Queste comunità sono rimaste disilluse, prive di leaders e indifferenti da quando è iniziato il processo di Madrid.

Uno dei primi compiti è un censimento palestinese, che deve essere considerato non solo come un esercizio burocratico, ma come l’affrancamento dei palestinesi ovunque essi siano. Israele, Stati Uniti e stati arabi – tutti loro – si sono sempre opposti ad un censimento: darebbe ai palestinesi un profilo troppo alto nei paesi in cui dovrebbero essere invisibili, e prima della Guerra del Golfo avrebbe reso chiara ai vari governi del Golfo al loro dipendenza da una comunità ‘ospite’ impropriamente grande, di solito sfruttata. Soprattutto, l’opposizione al censimento deriva dal rendersi conto che, se i palestinesi fossero contati tutti insieme, nonostante la dispersione e l’espropriazione, tramite quell’esercizio potrebbero avvicinarsi a costituire una nazione piuttosto che una semplice raccolta di persone. Ora più che mai, tenere un censimento e forse, in seguito, elezioni mondiali – dovrebbe essere un elemento chiave nell’agenda dei palestinesi ovunque. Sarebbe un atto di autorealizzazione storica e politica al di fuori dei limiti imposti dall’assenza di sovranità. E darebbe corpo al bisogno universale di partecipazione democratica, ora apparentemente limitato da Israele e dall’OLP in un’alleanza prematura.

Certamente un censimento dovrebbe sollevare ancora una volta la questione del ritorno per quei palestinesi che non sono in Cisgiordania e a Gaza. Questo problema deve essere sollevato ora, anche se è stato compresso nella formula generale del “rifugiato”, rinviata alle trattative finali da tenersi in un indefinito futuro. Il governo libanese, ad esempio, ha pubblicamente scaldato la retorica contro la cittadinanza e la naturalizzazione per i 350-400.000 palestinesi in Libano, la maggior parte dei quali sono apolidi, poveri, permanentemente in stallo. Una situazione simile si verifica in Giordania e in Egitto. Queste persone, che hanno pagato il prezzo più pesante di tutti i palestinesi, non possono né essere lasciate a marcire né sbattute da qualche altra parte contro la loro volontà. Israele è in grado di offrire il diritto al ritorno ad ogni ebreo nel mondo: i singoli ebrei possono diventare cittadini israeliani e vivere in Israele in qualsiasi momento. Questa straordinaria iniquità, intollerabile per tutti i palestinesi da quasi mezzo secolo, deve essere rettificata. È impensabile che tutti i rifugiati del 1948 vogliano o siano in grado di tornare in un posto così piccolo come uno stato palestinese: d’altra parte, è inaccettabile che a tutti venga detto di trasferirsi altrove, o di abbandonare qualsiasi idea di rimpatrio o risarcimento.

Una delle cose che l’OLP e i palestinesi indipendenti dovrebbero quindi fare è sollevare una questione non affrontata dagli Accordi di Oslo – per svuotare di contenuti in anticipo i colloqui sullo status finale – ovvero chiedere il risarcimento ai palestinesi che sono stati vittime di questo terribile conflitto. Sebbene secondo il desiderio del governo israeliano (espresso con forza da Rabin alla sua conferenza stampa di Washington) l’OLP dovrebbe chiudere “le sue cosiddette ambasciate”, questi uffici dovrebbero essere mantenuti aperti selettivamente in modo che le richieste di rimpatrio o risarcimento possano essere sottomesse.

In sintesi, dobbiamo passare dallo stato di supina abiezione in cui gli accordi di Oslo sono stati negoziati (“accetteremo qualsiasi cosa se ci riconoscete”) ad uno che ci consenta di perseguire accordi paralleli con Israele e gli arabi in merito alle aspirazioni nazionali palestinesi, piuttosto che a quelle municipali. Ma ciò non esclude la resistenza contro l’occupazione israeliana, che continua indefinitamente. Finché esistono occupazione e insediamenti, legittimati o meno dall’OLP, i palestinesi e tutti quanti devono denunciarli. Una delle questioni non sollevate, né dagli Accordi di Oslo, né dallo scambio di lettere OLP-Israele o dai discorsi di Washington, è se la violenza e il terrorismo a cui l’OLP rinuncia includano la resistenza non violenta, la disobbedienza civile e così via. Questi sono diritti inalienabili di qualsiasi popolo a cui si neghi la piena sovranità e l’indipendenza, e devono essere sostenuti.

Come tanti governi arabi impopolari e antidemocratici, l’OLP ha già iniziato ad appropriarsi dell’autorità definendo “terroristi” e “fondamentalisti” i suoi oppositori. Questa è demagogia. Hamas e la Jihad islamica sono contrari all’accordo di Oslo, ma hanno detto più volte che non useranno la violenza contro altri palestinesi. Inoltre, la loro influenza combinata equivale a meno di un terzo dei cittadini della Cisgiordania e di Gaza. Per quanto riguarda i gruppi con base a Damasco, mi sembrano paralizzati o screditati. Ma ciò non esaurisce affatto l’opposizione palestinese, che comprende anche noti esponenti laici, persone impegnate in una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese, realisti e democratici. Mi considero parte di questo gruppo che, credo, sia molto più grande di quanto si pensi.

Il pensiero centrale in questa opposizione è il disperato bisogno di una riforma all’interno dell’OLP, per metterlo in guardia fin da ora sul fatto che affermazioni riduttive sull’unità nazionale non sono più una scusa per l’incompetenza, la corruzione e l’autocrazia. Per la prima volta nella storia palestinese tale opposizione non può essere equiparata al tradimento, se non con una logica assurda e insensata. La nostra affermazione è che siamo contrari al settarismo palestinese e alla cieca lealtà verso la leadership: rimaniamo impegnati nei vasti principi democratici e sociali di responsabilità e capacità che il nazionalismo trionfalista ha sempre cercato di annullare. Credo che un’opposizione su vasta scala alla pasticciata storia dell’OLP emergerà nella diaspora, ma arriverà ad includere anche persone e partiti nei Territori Occupati.

Infine, c’è la questione confusa dei rapporti tra israeliani e palestinesi che credono nell’autodeterminazione per due popoli, reciprocamente e con pari diritti. Le celebrazioni sono premature e, per troppi ebrei israeliani e non israeliani, sono una facile via d’uscita dalle enormi disparità che rimangono. I nostri popoli sono già troppo legati l’uno all’altro in un conflitto e in una storia condivisa di persecuzione perché basti  uno spettacolino in stile americano per poter curare le ferite e aprire la via da seguire. Ci sono ancora una vittima ed un carnefice. Ma può esserci solidarietà nel lottare per porre fine alle ingiustizie, e gli israeliani possono fare pressioni sul loro governo per porre fine all’occupazione, all’esproprio e agli insediamenti. Dopo tutto, i palestinesi hanno ben poco da dare. La comune battaglia contro la povertà, l’ingiustizia e il militarismo deve ora essere unita seriamente, e senza le richieste rituali di sicurezza psicologica per gli israeliani – perché se non ce l’hanno ora, non la avranno mai. Più di ogni altra cosa, questo dimostrerà se la simbolica stretta di mano sarà davvero un primo passo verso la riconciliazione e la vera pace.

 Traduzione a cura dell’Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze




Ho chiesto all’unica giornalista israeliana in Palestina di mostrarmi qualcosa di scioccante – e questo è ciò che ho visto

Robert Fisk

 a Bir Naballa, Cisgiordania

18 settembre, The Indipendent 

È la vecchia strada da Ramallah a Gerusalemme, lungo la quale si trovano ricchezze perdute, speranze dimenticate e case una volta amate. Tutto ciò ora finisce, ovviamente, al muro

Mostrami qualcosa che mi scioccherà, ho detto ad Amira Hass. Così l’unica giornalista israeliana nella Cisgiordania palestinese – o in Palestina, se si crede ancora a una parola così in disuso – mi ha portato lungo una strada fuori Ramallah che ricordavo come un’autostrada che portava a Gerusalemme. Ma ora, appena sopra una collina, si trasforma in una strada semi-asfaltata, una serie di porte arrugginite di negozi chiusi e spazzatura. Lo stesso vecchio odore estivo di scarichi fognari si insinua su per la strada. Giace, verde e tranquillo, in uno stagno alla base del muro.

O il “Muro”. O, per scribacchini più prudenti, il “Muro di Sicurezza”. O, per anime più delicate, la “Barriera di Sicurezza”. O per penne ancora più sciatte la “Barriera”. O, se ti preoccupi davvero delle implicazioni politiche, la “Recinzione”. La Recinzione – come i familiari pali e travi di legno che si possono trovare lungo il confine di un campo. O – se vuoi davvero spaventare i direttori di televisione e far arrabbiare gli israeliani – il “Muro della Segregazione”, o persino il “Muro dell’apartheid”. Perché presto parleremo dei “Bantustan” palestinesi che si ritrovano tagliati fuori dal Muro, da strade solo per israeliani e dal vasto impero delle colonie israeliane su terra araba.

Fidati di Amira perché ti dia degli spunti. Della frase “Bantustan palestinese” è disseminata la sua irata digressione mentre mi porta in giro nelle enclave palestinesi in Cisgiordania e, dopo un’ora o due, al Muro: torreggiante otto metri sopra di noi, severo, mostruoso nella sua determinazione, ritto e serpeggiante tra blocchi di abitazioni e che si insinua in uad [letti asciutti di torrenti, ndtr.] e si ritorce indietro su se stesso finché trovi due muri uno dietro all’altro, un muro doppio ma lo stesso muro, così sono i tornanti alpini di questa creatura. Scuoti la testa per un momento quando – improvvisamente, sicuramente per via di qualche errore di calcolo – non c’è assolutamente nessun muro ma una via commerciale o una semplice collina di boscaglia e pietre. E poi il massiccio progetto colonialista degli insediamenti israeliani, tutto alberi verdi e case con il tetto rosso e strade ordinate e, sì, più muri e recinzioni di filo spinato e muri ancora più grandi. E poi la bestia vera e propria. Il Muro.

Ma la parte di muro a cui Amira Hass mi porta – guida turistica e analista della società israeliana, ammette, non vanno insieme – è un posto veramente miserabile. Non epico come Dante. Forse un corrispondente di guerra potrebbe descriverlo meglio. È la vecchia strada tra Ramallah e Gerusalemme, lungo la quale si trovano ricchezze perdute, speranze dimenticate e case una volta amate, che ora finisce, ovviamente, al Muro.

“Ora, se questo non è scioccante, non so cosa lo possa essere,” dice Amira. “Questa è la distruzione della vita della gente – è la fine del mondo. Vedi qui? Andavamo dritti verso Gerusalemme. Ora non più. Questa era una via trafficata e qui puoi vedere come la gente ha investito in case con un po’ di grazia, la solidità delle case, la pietra. Guarda i cartelli in ebraico – perché questi palestinesi solevano avere molti clienti israeliani. Persino il nome ‘falegname’ è in ebraico.”

Ma quasi tutti i negozi sono chiusi, le case sprangate, erbacce e rami secchi lungo i marciapiedi rotti. I graffiti sono patetici, il sole senza pietà, il cielo così incrostato di calore che il grigio del muro a volte si fonde nel grigio pietra del cielo. “È penoso” dice Amira Hass, senza emozione. “Questo posto – ho sempre mostrato questo alla gente; sempre, sai, probabilmente un centinaio di volte ormai, e non smette mai di scioccarmi.”

Il liquame, una volta che ci fai l’abitudine, è in qualche modo adeguato. È come un posto in cui l’immaginazione si è esaurita, lasciando dietro solo uno squallido stagno, il verde sempre più luminoso perché il Muro sta acquisendo la patina del tempo.

Il silenzio non è opprimente – come potrebbe essere in un romanzo – ma richiede una risposta. Chiedo ad Amira cosa ci dice il Muro. “Penso a quello che dice a me…”, comincia. “Poiché si rende conto di non poter cacciare via i palestinesi, deve nasconderli. Deve occultarli ai nostri occhi. Qualcuno deve uscire per lavorare là per gli ebrei. E ciò è visto come se gli si facesse un favore. Gli israeliani non entrano, perché noi israeliani non abbiamo bisogno di queste zone – non ci servono – questa è spazzatura, questo è liquame. Il Muro dice quanto forte è la necessità di essere puri – e quante persone hanno preso parte a questo atto di violenza? Dicono che è a causa degli attacchi suicidi, ma l’infrastruttura giuridica e amministrativa per questa separazione esisteva da prima del Muro, per cui il Muro è una specie di manifestazione grafica o concreta o tangibile di leggi di separazione che c’erano già.”

Ed è un’israeliana che mi parla, la tenace e instancabile figlia di una madre partigiana bosniaca che dovette consegnarsi alla Gestapo e di un ebreo rumeno sopravvissuto all’Olocausto, e il cui socialismo, penso, le ha dato un coraggio forte, marxista.

Lei probabilmente non è d’accordo, ma penso a lei come a una figlia della Seconda Guerra Mondiale, anche se è nata 11 anni dopo la morte di Hitler. Suppone che le siano rimasti da 100 a 500 lettori israeliani; grazie a dio, dicono molti di noi, il suo giornale, “Haaretz”, esiste ancora.

La madre di Amira rimase colpita, lungo la strada dalla stazione del treno di Bergen Belsen nel 1944, dalle casalinghe tedesche che arrivavano per vedere la fila di prigionieri distrutti, da come le donne tedesche “stavano lì a guardare”. Amira Hass, sospetto, non starà mai lì a guardare. È cresciuta abituandosi all’odio e alla violenza del suo stesso popolo. Ma lei è realista.

“Guarda, non possiamo ignorare che per un certo periodo (il Muro) è servito alla funzione immediata della sicurezza,” dice. Ed ha ragione. La campagna palestinese di attentati suicidi è stata stroncata. Ma il Muro è stato anche una macchina per l’espansione [territoriale]; si è insinuato nelle terre arabe che non erano parte dello Stato di Israele più di quanto lo fossero le vaste colonie che ora ospitano circa 400.000 ebrei in Cisgiordania. Non ancora, in ogni caso.

Amira porta occhiali rotondi che la fanno sembrare un po’ come uno di quei dentisti che tutti abbiamo incontrato, che studiano con disappunto, cinismo e una certa demoralizzazione il terribile stato dei nostri denti. Scrive così. Ha appena finito un lungo articolo per Haaretz – sarà pubblicato tra due giorni, una feroce dissertazione sugli accordi di Oslo del 1993 che arriva quasi a provare che gli israeliani non hanno mai inteso l’accordo di “pace” come finalizzato a dare uno Stato ai palestinesi.

“La situazione dei Bantustan, riserve o enclave palestinesi,” scrive nel triste venticinquesimo anniversario degli accordi di Oslo, “è un fatto concreto… contrariamente a quello che avevano ritenuto i palestinesi, molte persone nel campo pacifista israeliano all’epoca e i Paesi europei, da nessuna parte [Oslo] stabiliva che l’obiettivo fosse la fondazione di uno Stato palestinese nei territori occupati nel 1967.” Amira dice che ad ‘Haaretz’ “il problema è che i correttori di bozze – li chiamo i ragazzi – cambiano ogni paio di anni e ogni volta mi chiedono: ‘Come sai che Oslo non riguardava la pace?’…Ora il giornale è orgoglioso perché ha qualcuno che aveva ragione. Vent’anni fa pensavano che fossi matta.”

Il giro di Hass continua attorno a quella che definisce come “la prigione a 5 stelle”. Ci soffermiamo sulla città di Ramallah, temporanea pseudo-capitale dell’inesistente Stato palestinese. Lei immagina – lo fa spesso – che un marziano arrivi in Cisgiordania dallo spazio. Il marziano, dice, noterebbe che le case palestinesi hanno cisterne nere sul tetto – perché la loro acqua arriva razionata dall’Autorità Nazionale Palestinese – mentre le colonie ebraiche hanno un acquedotto. “Non hanno di che preoccuparsi.” Le colonie sulle colline – “così lussureggianti, così attraenti, con un’aria molto buona” – hanno tetti rossi spioventi, in stile europeo. Ora le famiglie palestinesi più ricche stanno imitando i tetti rossi dei loro occupanti.

Il marziano di Amira Hass ricompare: “Vede una città tentacolare (Ramallah), edifici eleganti…ci sono cinema, negozi e commerci. Laggiù vede le auto. Il nostro extraterrestre dice: ‘Qual è il problema? Perché vi lamentate dell’occupazione?’ Per cui il problema è che c’è l’illusione di non essere sotto occupazione in questo spazio limitato, in un luogo in gabbia, in questa prigione a cinque stelle…I contorni, i confini sono molto chiari. Ma le persone all’interno dei confini si sono abituate a un certo tipo di normalità che adesso per loro è molto difficile lasciare.”

“Fondamentalmente sanno che se si impegnano in un’altra ondata di resistenza possono perdere persino questo – persino il poco che hanno, questa normalità… Per me una delle prove migliori che qui c’è un certo tipo di normalità sono i palestinesi con cittadinanza israeliana che ogni fine settimana vengono in questo bantustan palestinese per sfuggire al razzismo israeliano e all’arroganza che affrontano quotidianamente in Israele – e vengono qui per sfuggirvi, per trovarsi in un ambiente totalmente palestinese.”

L’analisi è severa e con una prospettiva storica. “I palestinesi sanno che questa non è l’indipendenza. Ma ora ritengono che non ne varrebbe la pena. Durante gli ultimi due o tre anni, quando qualche giovane era impegnato in attacchi all’arma bianca e c’era qualche studente che veniva qui ai posti di blocco per scontrarsi con l’esercito israeliano, si emozionavano per loro. Ma non vedevi le masse uscire per affrontare l’esercito. Ora non si tratta di paura, non è la polizia palestinese che li blocca. Adesso, con la divisione palestinese tra Hamas e Fatah, i palestinesi nel fondo della loro ‘saggezza’ politica, e con l’America – Trump – e tutto questo, [sanno che] non c’è ragione di sacrificarsi per niente.”

Lei guida, supera una base militare dove evidenzia le parole scritte – in inglese – con la bomboletta su un muro. “Gli ebrei hanno fatto l’11 settembre.” Con simili parole i palestinesi non potrebbero incolpare in modo più assoluto la loro società agli occhi dell’Occidente? Ma ci sono altre scritte. In un piccolo villaggio palestinese, forse a 200 metri dalla colonia ebraica di Beit El – telecamere puntate verso l’esterno lungo la sua recinzione – [Amira] sottolinea le parole scritte con lo spray sul muro di una casa palestinese dopo che i coloni hanno fatto un’incursione nel villaggio. “Giudea e Samaria”, dice in ebraico, riferendosi alla Cisgiordania. “Verrà versato sangue.” Aisha Fara ci mostra il tetto della sua casa, dove il pannello solare è stato rotto da piccole pietre – sparate con la fionda da studenti religiosi, dice, solo tre giorni prima – e nonostante i suoi 74 anni non usa mezzi termini. Intuisco in silenzio che è nata nel 1944 nella Palestina originaria del Mandato [britannico], lo stesso anno in cui la madre di Amira è stata mandata a Bergen-Belsen.

“I ladri sono arrivati prima del tramonto,” dice Fara dei lanciatori di pietre. “Hanno bruciato per tre volte i nostri alberi. Ma i ladri non restano per sempre. E la gente spaventata tornerà alle proprie case, se dio vuole…Mi chiedi chi sono (i coloni)? Voi li avete mandati. Voi li avete tutti nelle vostre telecamere…Voglio che i porci americani lo sappiano – non siamo pellerossa!” Amira ascolta con attenzione. “Per lei la storia è una lunghissima catena di espulsioni,” dice di Aisha Fara. “Ci sono cose su cui smetti di scrivere. La solita routine.”

Ciò, penso, ha ferito Amira Hass, il modo in cui una storia giornalistica viene lasciata perdere una volta che diventa un avvenimento quotidiano. Un lancio di pietre, un incendio, un’altra colonia. E i privilegi di essere cittadino israeliano sono sempre presenti. “In certo modo, quando siamo stati bombardati, era più facile perché ero con gli altri. È una cosa che posso percepire – la paura delle bombe, ovviamente, la condivido. Ma per esempio il fatto di essere rinchiusi, è una cosa che non posso capire. Non posso comprenderlo. Per me un muro è semplicemente una cosa brutta lungo la strada per Gerusalemme. Ma per i palestinesi è dove finisce il mondo. Quando vado a Gerusalemme non posso dire ai miei vicini che ci vado – mi vergogno. Mi sento in imbarazzo… perché per loro Gerusalemme è come la luna.”

Quindi vivrà tutto il resto della sua vita tra i palestinesi della Cisgiordania, l’unica inviata israeliana dalla parte dura della storia? “Non avrei mai pensato che avrei vissuto a El-Bireh, ma ora è la città dove ho vissuto più a lungo che in qualunque altro posto,” risponde. “Non l’ho mai pianificato – ma è quello che è successo. E so che se dovesse succedere qualcosa – se me ne dovessi andare, sia perché smetto di lavorare o gli israeliani mi dicono di andarmene o me lo dicono i palestinesi, fa lo stesso, non riuscirò mai a tornare in un quartiere esclusivamente ebraico. Andrò ad Acri o ad Haifa [città israeliane, ndtr.]…Ad Haifa ci sono palestinesi.”

Quando mi appresto a tornare a Gerusalemme, sulla “luna”, ringrazio Amira Hass per il suo tour istruttivo, accademico ed anche giornalistico e – agli occhi dei suoi non-lettori israeliani – per un commento altrettanto terribile delle mail di odio che le hanno mandato. “Ho la tendenza a dire alla gente quello che non vuole sentire,” dice. A me sembra una vera giornalista. E capisco allo stesso tempo che lei non sarà mai una spettatrice.

(traduzione di Amedeo Rossi)

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