La “soluzione dei due Stati” ha sempre e solo voluto dire un grande Israele che governa su un bantustan palestinese. Lasciamola perdere

Jeff Halper

18 gennaio 2018, Haaretz

Quando gli ebrei della sinistra “estrema” conducono una battaglia per uno Stato unico, sostenendo il solo orizzonte politico che non sia l’apartheid, gli ebrei USA ci attaccano – perché lottiamo per gli stessi valori democratici che essi apprezzano così tanto a casa loro

Nel suo editoriale su Haaretz (“Ciò che una ‘soluzione dello Stato unico’ significa realmente: l’apartheid sancito da Israele o un’eterna, sanguinosa guerra civile”) Eric Yoffie chiede: “Non ci sono là israeliani sensati – di sinistra, di destra e soprattutto di centro – che comprendano i pericoli (di una soluzione dello Stato unico)?”

Questa domanda potrebbe essere posta esattamente al contrario: cos’altro deve succedere prima che gli israeliani, di sinistra, di destra e di centro, finalmente capiscano che il loro governo ha già deliberatamente, sistematicamente e concretamente eliminato la soluzione dei due Stati?

Yoffie propone una falsa simmetria: una sinistra e una destra “estremiste” che sostengono entrambe, nei fatti o esplicitamente, un unico Stato bi-nazionale, mentre un presunto futuro governo israeliano incarnerebbe ancora una volta un’“orgogliosa, liberale e democratica patria ebraica”, che viva in pace accanto ai suoi vicini palestinesi in una soluzione dei due Stati.

Questa è un’opinione, a dir poco, distorta. Di fatto ogni governo israeliano dal 1967 non è mai stato all’altezza di quegli orgogliosi valori liberali, perseguendo un Israele allargato che dominasse su un bantustan palestinese monco, anche se lo hanno fatto spacciandolo per una “soluzione dei due Stati”.

A poche settimane dall’inizio dell’occupazione nel 1967, il piano Allon (sotto il governo del primo ministro laburista Levi Eshkol) aveva già proposto che Israele annettesse il territorio circondando ed isolando i centri abitati palestinesi.

Questo piano ha guidato la politica di colonizzazione israeliana negli ultimi 50 anni ed è oggi un fatto compiuto irreversibile. Quando il “processo di pace” di Oslo iniziò, c’erano 200.000 coloni (e, sì, io includo Gerusalemme est, che è occupata, indipendentemente da quello che sostengono Israele e l’amministrazione Trump).

Nel 2000, alla fine di Oslo, c’erano 400.000 coloni in popolosi “blocchi di colonie” che hanno frammentato il territorio palestinese in circa 70 piccole enclave delle Aree A e B, oltre alla prigione che è Gaza. Oggi la popolazione di coloni si avvicina agli 800.000.

Se la soluzione dei due Stati è finita, ciò è dovuto ai successivi israeliani “sensati” al governo, in particolare Golda Meir e Ehud Barak [entrambi laburisti, ndt.], così come quelli del Likud [partito di destra, ndt.], di Kadima [partito di centro, ndt.] e della destra religiosa, e della sinistra sionista, della destra “estremista” e del sempre disponibile centro che li ha portati al governo.

Netanyahu e la destra religiosa hanno proclamato ai quattro venti la fine della soluzione dei due Stati, mentre entrambi i partiti della sinistra sionista, il Laburista ed il Meretz, hanno di fatto abbandonato la lotta per la pace, dichiarandosi partiti “socialdemocratici” preoccupati principalmente di questioni interne israeliane. I dirigenti laburisti, in particolare, per parecchi anni sono stati esplicitamente d’accordo con il Likud che “i tempi non sono maturi per una soluzione dei due Stati”.

Se un qualche settore della società israeliana ha mai sostenuto sinceramente la soluzione dei due Stati è stata la sinistra “estremista” – alla sinistra del Meretz – che ha lottato instancabilmente per questo al di fuori di qualunque governo (e, siamo onesti, anche l’Autorità Nazionale Palestinese sotto Arafat e Abbas l’ha appoggiata, persino quando i governi israeliani la stavano logorando).

Chi, se non la sinistra extraparlamentare, ha costantemente manifestato contro la costruzione di colonie, un’impresa perseguita con altrettanto vigore dai laburisti come dal Likud?

Quando, nel 1999, l’allora primo ministro Ehud Barak dichiarò, dopo il fallimento dei negoziati di Camp David, che “non c’erano controparti (palestinesi) per la pace,” l’opinione pubblica ebrea israeliana, compresi il Meretz, Peace Now [organizzazione pacifista, ndt.] e il resto della “sinistra sionista”, abbandonarono la ricerca di una pace giusta – ma non la sinistra “estremista”, che ha continuato ad impegnarsi persino quando la soluzione dei due Stati è scomparsa dalla nostra vista.

Ma Yoffie si sbaglia anche quando descrive quello che lui chiama la posizione per lo Stato unico della “sinistra estrema”. I gruppi di sinistra che riconoscono la fine della soluzione dei due Stati non si sono spostati verso un’alternativa dello Stato unico – almeno non ancora. Jewish Voice for Peace [gruppo di ebrei americani contrario all’occupazione ed alla colonizzazione della Cisgiordania, ndt.], che Yoffie demonizza perché appoggia il BDS, non sostiene attivamente una simile soluzione. Ed il resto della sinistra “estremista” sta ancora dibattendo su dove andare.

Benché molti di noi sostengano ancora la soluzione dei due Stati come una soluzione percorribile, se non giusta, ciò non può significare apartheid. Se l’“estrema” sinistra si è in effetti spostata su una posizione dello Stato unico è semplicemente perché abbiamo avuto il coraggio di riconoscere la realtà politica e i “fatti sul terreno”: la soluzione dei due Stati è morta quando l’impresa di colonizzazione ha raggiunto una massa critica, quando la frammentazione del territorio palestinese ha reso impossibile uno Stato palestinese sostenibile e sovrano.

Siamo rimasti con una sola via d’uscita. Dobbiamo trasformare lo Stato unico dell’ apartheid, che Israele ha creato, in uno Stato democratico di uguali diritti per tutti i suoi cittadini. Una democrazia – che non dovrebbe essere un concetto assolutamente estraneo a un americano come Yoffie, o agli israeliani che sostengono che il loro Paese è l’unica democrazia del Medio Oriente.

La sinistra “estremista” deve ora condurre una lotta per un unico Stato democratico binazionale in Israele/Palestina, non perché lo vogliamo, ma perché sono stati i sionisti “sensati” di Yoffie che ci hanno lasciato questa come unica opzione possibile rispetto all’apartheid. È l’unico modo per evitare che gli ebrei diventino gli afrikaaner [popolazione di origine olandese che ha colonizzato il Sudafrica ed ha imposto l’apartheid alla popolazione nativa, ndt.] , o peggio, del Medio Oriente.

Vogliamo una via d’uscita dal vicolo cieco del sionismo politico, e un ritorno al sionismo culturale di Ben-Yehuda, Henrietta Szold, Ahad Ha-am, Judah Magnes e Martin Buber, che immaginavano un popolo ebraico che vivesse insieme ai propri vicini palestinesi.

Questa è una sfida che libererà realmente entrambi i popoli, un progetto positivo di una nuova generazione di sionisti culturali. Abbiamo bisogno di uno Stato che offra uguali diritti a tutti i propri cittadini – un’unica cittadinanza, un unico voto, un unico parlamento – ma che garantisca il diritto costituzionale sia degli ebrei israeliani che degli arabi palestinesi alla propria identità, alla propria narrazione e alle proprie istituzioni.

Non c’è motivo di credere che ciò porterebbe ad una “guerra civile senza fine e sanguinosa”, come sostiene Yoffie. Gli ebrei israeliani avrebbero il diritto di vivere ovunque, comprese le colonie; i rifugiati palestinesi potrebbero tornare a casa; si svilupperebbe una società civile comune; economicamente il Paese fiorirebbe, sostenuto da due ricche e colte diaspore parallele, ebraica e palestinese.

Questa è la sfida che l’“estrema” sinistra deve cercare di realizzare. Che piaccia o meno, questo è tutto ciò che ci hanno lasciato i sionisti “sensati” sbandierati da Yoffie, insieme con la destra “estrema” che ci governa.

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Jeff Halper è il capo del Israeli Committee Against House Demolitions   [ICAHD, Comitato Israeliano contro la Demolizione delle Case, ndt.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 2 – 15 gennaio 2018

Nei Territori palestinesi occupati (oPt) [Cisgiordania e Striscia di Gaza], in quattro diversi episodi, le forze israeliane hanno ucciso quattro civili palestinesi, tre dei quali minori.

Tre delle uccisioni (due minori di 15 e 17 anni e un uomo di 25) sono avvenute in tre distinti episodi di proteste e scontri, il 3, 11 e 15 gennaio, nel villaggio di Deir Nidham (Ramallah), vicino alla recinzione perimetrale, ad est del Campo profughi di Al Bureij (Gaza) e nel villaggio di Jayyus (Qalqiliya); proteste seguenti al riconoscimento, da parte dell’amministrazione statunitense, di Gerusalemme quale capitale d’Israele. Un altro ragazzo di 17 anni è stato ucciso con arma da fuoco l’11 gennaio, in Iraq Burin (Nablus), durante scontri con lancio di pietre contro le forze israeliane.

Il 9 gennaio, sulla Strada 60, vicino all’incrocio di Sarra-Jit (Nablus), un colono israeliano di 35 anni è stato ucciso da palestinesi che hanno sparato da un’auto in corsa. A seguito dell’attacco, le forze israeliane hanno imposto restrizioni di accesso alla città di Nablus ed ai villaggi circostanti. Le operazioni di ricerca sono state intensificate, causando l’interruzione degli ingressi e delle uscite dalla città di Nablus.

Nei Territori palestinesi occupati, durante molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito complessivamente, 269 palestinesi, tra cui 83 minori. 67 di tali ferimenti si sono avuti nella Striscia di Gaza, in scontri verificatisi durante proteste vicino alla recinzione perimetrale. I rimanenti (202) sono stati registrati in Cisgiordania; la maggioranza durante proteste vicino al checkpoint di Huwwara (Nablus); a seguire, le città di Al Bireh (Ramallah), Abu Dis e Al ‘Eizariya (Gerusalemme). Altri 28 feriti sono stati registrati durante operazioni di ricerca-arresto, la maggior parte nel Campo profughi di Ad Duheisha (Betlemme). 61 dei feriti sono stati colpiti con armi da fuoco, 62 da proiettili di gomma, 137 hanno inalato gas lacrimogeno, con necessità di trattamento medico, o sono stati colpiti direttamente da bombolette lacrimogene.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 176 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 261 palestinesi, tra cui almeno 22 minori. Dieci di queste operazioni hanno provocato scontri con i residenti. Nella Striscia di Gaza, nei pressi di Khan Younis e Beit Hanoun, in due occasioni le forze israeliane hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Gaza, in almeno 13 casi, le forze israeliane, al fine di imporre le restrizioni di accesso, hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori presenti in zone limitrofe alla recinzione perimetrale ed in zone di pesca lungo la costa. Cinque pescatori sono stati feriti, altri otto, tra cui due minori, sono stati arrestati e tre barche sono state confiscate. È stato riferito che, in almeno quattro occasioni, membri di un gruppo armato di Gaza hanno sparato razzi verso Israele, tre dei quali atterrati nel sud di Israele: non sono stati segnalati feriti. In risposta, le autorità israeliane hanno portato quattro attacchi aerei e lanciato missili contro siti di addestramento militare ed aree aperte: segnalati danni, ma non feriti.

Secondo agricoltori palestinesi di Gaza, in quattro diverse occasioni, il 7 e il 9 gennaio, aerei israeliani hanno irrorato erbicidi su terreni agricoli situati lungo la recinzione perimetrale con Israele.

Il 13 gennaio, nei pressi della Striscia meridionale di Gaza, le forze navali egiziane hanno aperto il fuoco verso una barca da pesca, uccidendo un pescatore palestinese di 33 anni; non sono chiare le circostanze dell’episodio.

In Area C e in Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito e/o sequestrato tre strutture, sfollando due palestinesi e colpendo le proprietà di altri 16. Due delle strutture prese di mira (una abitativa ed una agricola) erano a Beit Hanina e Silwan (Gerusalemme Est); la terza (una struttura agricola) nella parte del villaggio di Al Khadr (Betlemme) che si trova in Area C. Sempre in Area C, le autorità israeliane hanno emesso sei ordini di arresto lavori contro tredici strutture nel villaggio di Duma e nella comunità di Khirbet al Marajim (Nablus); tra queste, due strutture abitative in uso e dodici rifugi per animali.

In 14 diversi episodi di cui sono stati protagonisti coloni israeliani, cinque palestinesi sono rimasti feriti, 115 alberi e sette veicoli di proprietà palestinese sono stati vandalizzati. Secondo quanto riferito, sette di questi episodi sono stati perpetrati da coloni dell’insediamento di Yitzhar contro abitanti dei villaggi di Madama, Burin, Yatma, Urif e Al Lubban ash Sharqiya (tutti a Nablus): 100 alberi danneggiati, un uomo aggredito fisicamente e quattro veicoli palestinesi danneggiati da lancio di pietre. Su terreni appartenenti a palestinesi di Deir al Hatab (Nablus), altri 15 alberi sono stati vandalizzati, a quanto riferito, da coloni dell’insediamento di Elon Moreh. Dopo l’attacco in cui è stato ucciso un colono israeliano [vedi sopra], coloni hanno attaccato abitazioni nei villaggi di Sarra, Huwwara (Nablus), Far’ata (Qalqiliya) e in Al Lubban ash Sharqiya (Nablus); sono stati segnalati danni alle abitazioni. In quest’ultima località, 42 palestinesi sono rimasti feriti negli scontri che hanno coinvolto forze israeliane. Nella città di Nablus, in seguito all’ingresso di coloni israeliani nel sito della Tomba di Giuseppe, altri cinque palestinesi sono rimasti feriti durante scontri con forze israeliane.

Secondo resoconti di media israeliani, ci sono stati almeno cinque casi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani, con conseguente danno a cinque veicoli privati: nei pressi di Betlemme, Gerusalemme e Ramallah. Inoltre, a Gerusalemme Est, nell’area di Shu’fat, sono stati segnalati danni alla metropolitana leggera.

In seguito alla scoperta di un tunnel (successivamente distrutto), le autorità israeliane hanno chiuso per due giorni (il 14 e il 15 gennaio) Kerem Shalom, l’unico valico per il transito delle merci di Gaza.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 23.000 persone, compresi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Nella notte di mercoledì 17 gennaio 2018, le forze israeliane hanno effettuato un’operazione di ricerca-arresto in una casa situata tra il villaggio di Birqin (Jenin) e il Campo profughi di Jenin. Secondo fonti giornalistiche, nel corso dell’operazione sarebbe stato ucciso un palestinese coinvolto, a quanto riferito, nell’uccisione del colono israeliano avvenuta il 9 gennaio (vedi sopra). Durante l’operazione sono rimasti feriti altri tre palestinesi e due membri delle forze israeliane; tre abitazioni sono state demolite.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Abbas dichiara morti gli accordi di Oslo: “Il piano di pace di Trump è uno schiaffo e noi glielo restituiremo.”

Jack Khoury

15 gennaio 2018, Haaretz

Abbas: “Israele ha ucciso gli accordi di Oslo. Futuri negoziati avranno luogo nel contesto della comunità internazionale” Il vice capo di Fatah: “Congelare il riconoscimento di Israele è un’opzione”

Domenica il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha detto che Israele ha ucciso gli accordi di Oslo e durante una drammatica riunione a Ramallah ha definito il piano di pace per il Medio Oriente del presidente USA Donald Trump “uno schiaffo in faccia”, aggiungendo che “glielo restituiremo”.

Abbas ha aggiunto che “oggi è il giorno in cui sono finiti gli accordi di Oslo. Israele li ha uccisi. Siamo un’autorità senza potere, e un’occupazione senza alcun costo. Trump minaccia di tagliare i finanziamenti all’Autorità [Nazionale Palestinese] perché i negoziati sono falliti. Ma quando mai le trattative sono iniziate?!”

Ha aggiunto che “ogni futuro negoziato avrà luogo solo nel contesto della comunità internazionale, da parte di una commissione internazionale creata nell’ambito di una conferenza internazionale. Permettetemi di essere chiaro: non accetteremo la leadership dell’America in un processo politico che riguardi i negoziati.

L’ambasciatore USA in Israele David Friedman è un colono che si oppone alla fine dell’occupazione. È un essere umano aggressivo e non accetterò di incontrarmi con lui da nessuna parte. Hanno chiesto che mi incontrassi con lui e mi sono rifiutato, non a Gerusalemme, non ad Amman, non a Washington. Anche l’ambasciatrice USA all’ONU, Nikki Haley, minaccia di colpire le persone che nuocciono ad Israele con il tacco della sua scarpa, e noi risponderemo nello stesso modo.”

Il consiglio centrale palestinese si è riunito nel contesto dell’annuncio del presidente USA Donald Trump il 6 dicembre, in cui ha dichiarato che Gerusalemme è la capitale di Israele, e del contrasto senza precedenti che ciò ha provocato tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Washington. Abbas ha detto: “Il ministro degli Esteri della Lega Araba ha accusato i palestinesi di non protestare abbastanza contro la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.”

Noi siamo un popolo che si è messo a fare proteste non-violente in seguito al riconoscimento di Trump (di Gerusalemme come capitale di Israele), e il risultato è stato 20 morti, più di 5.000 feriti e oltre 1000 arresti, e loro hanno la faccia tosta di dire che il popolo palestinese non è sceso nelle strade,” ha continuato, aggiungendo che “l’ho detto al ministro, che se egli vuole davvero aiutare il popolo palestinese ci appoggi e ci dia concretamente una mano. Sennò potete andare tutti quanti all’inferno.”

Poi Abbas si è rivolto al Regno Unito, affermando che “continuiamo a chiedere delle scuse dalla Gran Bretagna per la dichiarazione Balfour [in cui nel 1917 la GB si impegnava a favorire la costituzione di un “focolare ebraico” in Palestina, ndt.], e continueremo a chiedere che riconosca lo Stato palestinese.” Ha osservato che “la frase di Herzl ‘una terra senza popolo per un popolo senza terra’ era un’invenzione. Venne qui e vide un popolo, e per questa ragione parlò della necessità di sbarazzarsi dei palestinesi.”

Abbas ha parlato per circa due ore e mezza di come gli ebrei sono stati portati in Israele. Ha sottolineato che Inghilterra e Stati Uniti hanno partecipato al processo di trasferimento degli ebrei in Palestina dopo l’Olocausto, cercando di risolvere il problema di avere gli ebrei senza patirne le conseguenze.

Abbas ha continuato: “A Camp David hanno tentato un’operazione insensata. Hanno detto agli americani che eravamo pronti a rinunciare al diritto al ritorno, al 13% della Cisgiordania e a fornire agli ebrei uno spazio per pregare nella moschea di Al-Aqsa.

La nostra posizione è uno Stato palestinese all’interno dei confini del ’67 con capitale a Gerusalemme est e la messa in pratica delle decisioni della comunità internazionale, così come una soluzione giusta per i rifugiati.

Siamo a favore della lotta nazionale, che è più efficace perché non c’è nessun altro su cui possiamo contare.

Gli americani ci hanno chiesto di non entrare a far parte di 22 organizzazioni, compresa la Corte Penale Internazionale. Gli abbiamo detto che non l’avremmo fatto finché non avessero chiuso gli uffici dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che riunisce i principali gruppi palestinesi ed è dominata da Fatah, ndt.], non avessero spostato la loro ambasciata a Gerusalemme ed avessero congelato l’edificazione negli insediamenti. Non hanno accettato, e di conseguenza non siamo vincolati da nessun accordo. Aderiremo a quelle organizzazioni.

Abbiamo accettato 86 decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per i palestinesi, e nessuna di esse è stata messa in pratica. Ad altre 46 gli americani hanno posto il veto.

Israele ha importato impressionanti quantità di droga per distruggere la nostra generazione più giovane. Dobbiamo stare attenti, e per questa ragione abbiamo creato un’autorità per combattere le droghe e stiamo investendo molto nello sport, soprattutto nel calcio. Abbiamo già denunciato Israele alla FIFA.

Pubblicheremo una lista nera di 150 imprese che lavorano con le colonie e renderemo pubblici all’Interpol i nomi di decine di persone sospettate di corruzione.

I prigionieri e i membri delle loro famiglie sono nostri figli e continueremo a fornire loro un sussidio.

Le famiglie dei palestinesi uccisi hanno il diritto di rivolgersi alla Corte Penale Internazionale e di chiedere giustizia dalla comunità internazionale.

Non intendiamo accettare che gli USA tentino di farci delle imposizioni e non vogliamo accettarli come mediatori.

Non saremo un’autorità senza potere e un’occupazione senza costi. Difenderemo le nostre conquiste nella comunità internazionale e a livello locale, e continueremo a combattere il terrorismo, e a lottare con la non-violenza. Parteciperemo a tutti i processi politici guidati dalla comunità internazionale per la fine dell’occupazione.”

Il capo di “Iniziativa Nazionale Palestinese” [gruppo politico palestinese che sostiene la lotta non violenta contro l’occupazione, ndt.], il dottor Mustafa Barghouti, dopo il discorso di Abbas ha detto ad Haaretz: “Il discorso ha sollevato la questione. È chiaro che gli USA hanno esaurito il loro ruolo come unici sostenitori del processo di pace e i palestinesi hanno sottolineato che non accetteranno più nessuna imposizione di parti terze. Lunedì stileremo le conclusioni e da parte mia chiederò che la bozza includa la posizione secondo cui noi lavoreremo per mettere in pratica una soluzione dello Stato unico con gli stessi diritti civili e nazionali per tutti.”

Hamas ha attaccato Abbas dicendo che le sue dichiarazioni non sono condivise tra i palestinesi.

L’incontro di domenica nella città cisgiordana di Ramallah – sede del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese – si è tenuto con i rappresentanti della maggior parte delle fazioni palestinesi, ma due importanti organizzazioni, Hamas e Jihad Islamica, hanno annunciato che non vi avrebbero partecipato, benché fossero state invitate.

Il portavoce di Hamas Fauzi Barhum ha criticato la decisione di convocare l’incontro a Ramallah, affermando che si sarebbe dovuto tenere in un altro Paese, per garantire la partecipazione dei principali rappresentanti di tutte le fazioni.

Haaretz è venuto a sapere che nelle discussioni che si sono tenute durante il fine settimana, sia nel Comitato Centrale di Fatah che nel Comitato Esecutivo dell’OLP, sono state prese in considerazione una serie di proposte, tra cui l’idea di annullare gli accordi di Oslo e il coordinamento per la sicurezza, sulla base del fatto che Israele ha violato tutti gli accordi per cui i palestinesi non sono più obbligati a continuare a rispettare i patti.

Altri membri di Fatah e dell’OLP hanno appoggiato l’opzione di continuare con i tentativi a livello internazionale, soprattutto attraverso le Nazioni Unite, l’Unione Europea, la Cina e la Russia, per portare avanti il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese all’interno dei confini del 1967.

Secondo funzionari di Fatah la prossima mossa palestinese sarà la messa in pratica della loro richiesta di rendere il conflitto una questione internazionale e di chiedere che l’ONU istituisca un gruppo per risolverla. I funzionari hanno detto che gli Stati Uniti potrebbero essere membri di questo gruppo, ma non gli unici mediatori del processo politico.

Il vice capo di Fatah Mahmoud Al-Aloul ha detto che molti palestinesi hanno grandi aspettative per la decisione del consiglio centrale. “Dobbiamo rispondere a queste aspettative, perché oggi siamo arrivati ad un punto di svolta della questione nazionale palestinese.” Al-Aloul ha aggiunto che queste decisioni sono difficili e non porteranno ad abbandonare gli amici di Fatah.

Al-Aloul ha detto ad Haaretz che il consiglio centrale di Fatah ha preso le sue decisioni in modo indipendente e che c’è una lista di suggerimenti che devono essere presi in considerazione, compreso il congelamento del riconoscimento di Israele.

Le decisioni prese dal consiglio sono state trasmesse al comitato esecutivo dell’OLP per essere messe in pratica.

Haaretz ha saputo anche che durante gli ultimi giorni Paesi europei ed arabi come l’Arabia Saudita hanno fatto pressioni sull’ANP, e su Abbas in particolare, perché non prendessero iniziative radicali e per consentire un’azione a livello internazionale e diplomatico.

Un altro suggerimento chiederebbe al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di riconoscere lo Stato palestinese all’interno dei confini del ’67, così come la definizione delle terre dell’ANP come un Paese sotto occupazione. Un’ulteriore indicazione è stata di rivolgersi alla Corte Internazionale di Giustizia per iniziare un procedimento legale contro Israele.

Il consiglio centrale palestinese è un ente consultivo che si riunisce quando è impossibile convocare una seduta del Consiglio Nazionale Palestinese (l’organo legislativo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina), e si prevede che fornisca al comitato esecutivo dell’OLP, che è l’organo esecutivo palestinese di maggior importanza, raccomandazioni relative alle politiche.

Un importante membro del comitato esecutivo dell’OLP ha detto ad Haaretz che, nonostante l’atmosfera drammatica che i collaboratori di Abbas hanno cercato di creare, non ci si aspettano cambiamenti radicali.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 19 dicembre 2017 – 1 gennaio 2018

Nei Territori palestinesi occupati (TPO), durante il periodo di riferimento del presente bollettino, l’ondata di proteste e scontri è continuata, seppur con intensità ridotta; era iniziata il 6 dicembre, dopo il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele da parte degli Stati Uniti.

Dall’inizio delle proteste, complessivamente, 14 palestinesi sono stati uccisi e 4.549 sono stati feriti dalle forze israeliane. Le persone ferite durante tale periodo rappresentano circa il 56% del totale dei feriti nel 2017.

Nella Striscia di Gaza, in scontri correlati alle summenzionate proteste, tre civili palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane e 280 sono rimasti feriti; altri due civili sono morti per le ferite riportate in episodi simili accaduti durante il precedente periodo di riferimento. Gli episodi si sono svolti vicino alla recinzione perimetrale tra Gaza e Israele ed hanno comportato lanci di pietre contro le forze israeliane schierate dalla parte israeliana. Queste, a loro volta, hanno sparato contro i manifestanti con armi da fuoco, proiettili di gomma e bombolette lacrimogene. I tre morti, tutti uomini, si sono avuti in distinti episodi accaduti il 22 ed il 30 dicembre: ad est di Jabalia, nella città di Gaza e ad est di Deir al-Balah. Gli altri due, sempre uomini, sono morti per le ferite riportate l’8 e il 17 dicembre. Dei feriti registrati, almeno 27 erano minori; più di un terzo (103) sono stati colpiti con armi da fuoco; i rimanenti sono stati medicalizzati per inalazione di gas lacrimogeno o perché colpiti direttamente da bombolette lacrimogene.

1.386 palestinesi, di cui almeno 226 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane nel corso di scontri; la maggioranza (93%) nel contesto delle proteste sopra menzionate. Il numero più consistente di feriti durante proteste è stato registrato nella città di Nablus, seguita dalla città di Jericho, dalla città di Al Bireh (Ramallah) e dalla città di Abu Dis (Gerusalemme). Degli altri feriti, la maggior parte è stata registrata nel corso di operazioni di ricerca-arresto, le più vaste delle quali si sono svolte nella città di Qalqiliya e nel Campo profughi di Aqbat Jaber (Gerico). Così come era avvenuto nel precedente periodo di riferimento, la maggior parte delle lesioni (68%) sono state causate da inalazioni di gas lacrimogeni con esigenza di trattamento medico, seguite da ferite causate da proiettili di gomma (21%).

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 170 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 214 palestinesi, di cui almeno 18 minori. Più di un terzo di queste operazioni ha provocato scontri con i residenti. Altri tre palestinesi, tra cui una donna e un minore, sono stati arrestati, in tre diversi episodi mentre, secondo fonti israeliane, tentavano di aggredire con coltello forze israeliane (in due casi) e per possesso di esplosivi (un caso).

Gruppi armati palestinesi di Gaza hanno sparato numerosi razzi in direzione del sud di Israele: due di questi sono caduti in Israele ed hanno danneggiato un edificio; la maggior parte sono stati intercettati in aria da missili israeliani o sono ricaduti nella Striscia di Gaza. I lanci di razzi sono stati seguiti da attacchi aerei israeliani sulla Striscia di Gaza, con danni a numerosi siti che, secondo quanto riferito, apparterrebbero a gruppi armati palestinesi.

In almeno 22 occasioni, le forze israeliane, allo scopo di imporre le restrizioni di accesso, hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori presenti in zone limitrofe alla recinzione perimetrale ed in zone di pesca lungo la costa di Gaza: quattro pescatori sono stati arrestati, uno dei quali ferito con arma da fuoco, e una barca è stata confiscata. In cinque occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza, vicino a Khan Younis e nell’area centrale, ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo nelle vicinanze della recinzione perimetrale.

In Area C e Gerusalemme Est, per la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato cinque strutture, sfollando cinque palestinesi e coinvolgendone altri 33. Tre delle strutture prese di mira, una delle quali demolita dai proprietari dopo aver ricevuto ordini di demolizione, erano in Gerusalemme Est; le altre due nelle parti locate in Area C dei villaggi di Tarqumiya (Hebron) ed Al Walaja (Betlemme).

Sempre in Area C, nel villaggio di Bani Na’im (Hebron), le autorità israeliane hanno emesso ordini di demolizione ed arresto lavori contro otto strutture finanziate da donatori; tra queste una scuola, una clinica sanitaria, una moschea e cinque strutture residenziali. Tre di queste strutture erano state finanziate dal Fondo Umanitario per i Territori occupati [Organismo delle Nazioni Unite].

Il 21 dicembre, nella Città Vecchia di Gerusalemme, la polizia israeliana ha costretto una famiglia palestinese a svuotare delle loro merci un magazzino-negozio e l’ha consegnato ad un’organizzazione di coloni israeliana che ne rivendicava la proprietà. Lo sfratto conclude lunghi procedimenti presso tribunali israeliani, dove la famiglia aveva contestato, senza successo. lo sfratto, sostenendo di essere un “inquilino protetto”. A Gerusalemme Est, sono state presentate almeno 180 istanze di sfratto contro famiglie palestinesi. La maggior parte di queste istanze, avviate da organizzazioni di coloni israeliani, si basano sia su rivendicazioni di proprietà, sia su attestazioni che gli affittuari non sono più “inquilini protetti”.

L’esercito israeliano ha bloccato un certo numero di strade, sia di accesso che interne all’area di Massafer Yatta di Hebron, ed ha emesso un ordine militare che impone ai palestinesi l’acquisizione di permessi per superare i nuovi ostacoli. Per circa 1.400 persone, residenti in 12 comunità, le nuove restrizioni hanno interrotto l’accesso ai servizi ed ai mezzi di sussistenza. Queste comunità si trovano in una zona designata da Israele “area chiusa per addestramento militare” (zona per esercitazioni a fuoco 918) e sono considerate ad alto rischio di trasferimento forzato. Nella Cisgiordania centrale, il 1° gennaio, dopo averlo bloccato per sette giorni consecutivi, l’esercito israeliano ha riaperto il checkpoint principale che controlla, da est, l’accesso a Ramallah (checkpoint DCO).

Il 29 dicembre, una ragazzina palestinese di 9 anni, malata e con bisogni speciali, è morta mentre si recava in un ospedale della città di Nablus: al checkpoint di Awarta (Nablus) i soldati israeliani le avevano negato l’accesso. Secondo la famiglia della ragazza, dopo aver discusso per circa mezz’ora con i soldati, hanno fatto una deviazione verso il checkpoint di Huwwara. A causa di scontri in corso, anche questo risultava bloccato; dopo un lungo ritardo sono riusciti comunque a superarlo. Circa 90 minuti dopo aver lasciato la loro casa nel villaggio di Awarta, sono arrivati all’ospedale dove la ragazza è stata dichiarata morta. La durata normale del viaggio tra il villaggio e l’ospedale è di 15 minuti.

Sono stati segnalati almeno otto attacchi da parte di coloni israeliani con conseguenti lesioni a palestinesi o danni a proprietà. Secondo quanto riferito, quattro di questi episodi sono stati perpetrati da coloni dell’insediamento di Yitzhar contro abitanti dei villaggi di Madama e Burin (Nablus), ed hanno comportato danni a 62 alberi, l’aggressione fisica a due uomini palestinesi e l’incursione in una scuola. In conseguenza di quest’ultimo episodio, le forze israeliane sono intervenute, scontrandosi con gli studenti e ferendone 11. Altri 22 palestinesi sono rimasti feriti nella città di Nablus, durante scontri con le forze israeliane in seguito all’ingresso di coloni israeliani nel sito della Tomba di Giuseppe. A Ya’bad (Jenin) e Beit Safafa (Gerusalemme Est), in due distinti episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di coloni israeliani, tre veicoli palestinesi e una casa hanno subito danni.

Sono stati segnalati almeno undici episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani nelle zone di Hebron, Ramallah e Gerusalemme. Secondo rapporti di media israeliani, sono stati provocati danni a cinque veicoli privati e alla metropolitana leggera nell’area di Shu’fat di Gerusalemme Est.

Il valico di Rafah sotto controllo egiziano è stato aperto un giorno, il 19 dicembre, in entrambe le direzioni, consentendo a 569 persone di lasciare Gaza e a 92 di tornarvi. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, compresi casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 3 gennaio, in scontri scoppiati durante una manifestazione nel villaggio di Deir Nidham (Ramallah), un ragazzo palestinese di 17 anni è stato ucciso con arma da fuoco dalle forze israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

þ

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Ahed Tamimi è diventata il simbolo di una nuova generazione della resistenza palestinese

Ben Ehrenreich

24 dicembre 2017,The Nation

Sarebbe molto meglio, tuttavia, se potesse essere solo una ragazzina

Pronti a resistere?

Ahed Tamimi aveva 11 anni quando l’ho incontrata [per la prima volta], era una piccola cosa bionda, con i capelli quasi più grandi di lei. La ricordo fare delle smorfie quando ogni mattina sua madre scioglieva con il pettine i nodi [nei suoi capelli] nel loro soggiorno. La seconda volta andai ad una manifestazione a Nabi Saleh, il villaggio della Cisgiordania dove vive, e Ahed e sua cugina Marah finirono per guidare il corteo. Non perché lo volessero, ma perché la polizia di frontiera israeliana si mise ad inseguire tutti quanti, a sparare e lanciare granate assordanti e lei e Marah corsero davanti alla folla. Ed è stato così da allora. L’esercito israeliano continua a fare pressione – nel villaggio, nel cortile, nella casa, sotto la pelle, nelle teste e nei tessuti e nelle ossa dei suoi familiari ed amici –e Ahed finisce per andare davanti, dove tutti possono vederla. Era là di nuovo la scorsa settimana dopo che un video di lei che prende a schiaffi un soldato israeliano è diventato virale. Posso garantire che non è lì che lei vorrebbe essere. Vorrebbe piuttosto stare con i suoi amici, sui loro telefonini, facendo quello che fanno gli adolescenti. Preferirebbe essere una ragazzina piuttosto che un’eroina.

L’immagine di Ahed venne diffusa in tutto il mondo per la prima volta poco dopo che l’incontrai [per la prima volta]. In quella foto stava sollevando il suo magro braccio nudo per agitare il pugno davanti a un soldato israeliano grande due volte lei. I suoi commilitoni avevano appena arrestato suo fratello. All’improvviso divenne quello che nessun bambino dovrebbe mai essere: un simbolo.

Era allora il terzo anno delle manifestazioni a Nabi Saleh. I coloni israeliani avevano confiscato una sorgente nella valle tra il villaggio e la colonia di Halamish, e Nabi Saleh si era unito a un pugno di altri villaggi che avevano scelto il cammino della resistenza disarmata, manifestando per protestare ogni venerdì, settimana dopo settimana, contro l’occupazione. Il cugino di Ahed, Mustafa Tamimi, era già stato ucciso, colpito al volto da un candelotto lacrimogeno sparato da dietro una jeep dell’esercito israeliano. Suo zio materno, Rushdie Tamimi, sarebbe stato ucciso pochi mesi dopo. Nel novembre del 2012 un soldato israeliano gli sparò alla schiena appena sotto la collina su cui sorge la casa di Ahed . Non era affatto qualcosa di inconsueto, solo che il piccolo villaggio non si fermò. Iniziarono ad accumulare vittime, e continuarono a marciare, ogni venerdì, verso la sorgente. Non vi si sono quasi mai avvicinati. La maggior parte dei venerdì, prima di arrivare alla curva sulla strada, i soldati li fermavano con gas lacrimogeni e vari altri proiettili. L’esercito arrivava anche durante la settimana, in genere prima dell’alba, procedendo a fare arresti, perquisendo le case, seminando la paura, consegnando un messaggio diventato sempre più chiaro: le vostre vite, le vostre case, la vostra terra, persino i vostri corpi e quelli dei vostri bambini, niente vi appartiene.

La scorsa settimana i soldati sono arrivati per prendere Ahed. Mi risulta difficile comprenderlo ora, ma non avrei mai pensato che le potesse succedere. Pensavo che le sarebbe stato risparmiato, che le sarebbe stato consentito di finire la scuola e di andare all’università e senza questa interruzione sarebbe diventata la coraggiosa e brillante donna che un giorno era sicuramente destinata ad essere. Credevo che i suoi fratelli e suo cugino sarebbero tutti finiti in carcere prima o poi – la maggior parte di loro in effetti ci è finita – e che qualcuno di loro sarebbe rimasto ferito, o peggio. Ogni volta che vado a visitare Nabi Saleh e guardo i volti dei bambini cerco di non immaginare chi lo sarà, e quanto gravemente. Due venerdì fa, una settimana prima che Ahed cacciasse i soldati dal suo cortile, è stato ferito suo cugino Mohammed, uno degli amici più intimi del suo fratello minore. Un soldato gli ha sparato in faccia. La pallottola – rivestita di gomma, ma comunque una pallottola – si è conficcato nella sua testa. Una settimana dopo era ancora in coma farmacologico.

Se avete visto il video che ha portato al suo arresto, potreste esservi chiesti perché Ahed fosse così arrabbiata contro i soldati che sono entrati nel suo cortile, perché gridava loro di andarsene, perché li ha presi a sberle. Questa è la ragione. Questa e un migliaio di altre. Suo zio e suo cugino sono stati uccisi. Sua madre colpita a una gamba e con le stampelle per più di un anno. I suoi genitori e suo fratello portati via per mesi. E mai una notte di riposo senza la possibilità di doversi svegliare, come ha fatto martedì mattina presto, come ha dovuto fare per tante volte prima, con i soldati alla porta, nella sua casa, nella sua stanza, là per portare via qualcuno.

Non faccio affidamento sul sorprendente timore dell’opinione pubblica israeliana, o che un video di Ahed, senza paura, che schiaffeggia un soldato per obbligarlo ad uscire dal cortile, possa scuotere una simile faccia tosta. Ahed Tamimi non è stata arrestata per aver infranto la legge – Israele, nel suo controllo della terra che occupa, mostra uno scarso rispetto della legalità. È stata arrestata perché era su tutte le prime pagine e l’opinione pubblica e i politici stavano chiedendo che venisse punita. Hanno usato parole come “castrati” e “impotenti” per descrivere come si sentissero quando hanno visto quel soldato con il suo elmetto, il giubbotto antiproiettile e il fucile e la ragazzina con la maglietta rosa e la giacca a vento blu che lo ha messo in ridicolo. Ha fatto vergognare tutti quanti per tutta la loro forza, il loro potere, il loro benessere e la loro arroganza.

Il divario tra le due opposte fantasie che definiscono l’autorappresentazione di Israele non ha fatto che crescere negli anni: un Paese che si immagina ancora come Davide contro il Golia arabo – nobile, in inferiorità numerica e coraggioso –, mentre si compiace del suo esercito senza pari, letale e tecnologicamente sofisticato. Ahed ha mandato in frantumi queste due convinzioni. Di fronte al mondo, ha di nuovo messo in evidenza che Israele è il prevaricatore. E, guardando quel filmato, si sono resi conto che i loro fucili sono inutili, che la loro forza è una finzione. Ahed doveva essere punita per aver svelato questi segreti, per aver mostrato al mondo quanto deboli e paurosi sanno di essere. E così il ministro della Difesa del Paese con l’esercito tecnologicamente più avanzato al mondo è sceso dal suo trono per promettere di persona che non solo Ahed e i suoi genitori, ma “chiunque intorno a loro” avrebbero avuto “quello che meritano”. Il ministro dell’Educazione è stato più preciso: Ahed dovrebbe essere imprigionata a vita, ha detto, dato che il suo reato è stato così grave.

Per ora hanno arrestato Ahed, sua madre Nariman e sua cugina Nour, anche loro nel filmato. Hanno arrestato Nariman quando è andata al commissariato per vedere sua figlia e sono tornati a prendere Nour il giorno dopo. Gli uomini della propaganda hanno lavorato duro diffondendo menzogne – che Ahed non è una ragazzina o che non è palestinese, che i Tamimi non sono affatto una famiglia, o sono tutti quanti dei terroristi, che niente di tutto questo è vero, che l’occupazione non è un’occupazione e quello che pensi di vedere nel filmato è una finzione messa in scena per gli stranieri in modo da far apparire Israele come malvagio. Tutto è più facile da accettare della verità, che Ahed ha mostrato loro come sono, e come cinquant’anni di occupazione li hanno svuotati come Nazione, come li renda ogni giorno più deboli e più spaventati.

Per favore, non fate di Ahed un idolo. Gli eroi, quando sono palestinesi, finiscono per morire o dietro le sbarre. Lasciate che sia una ragazzina. Lottate per renderla libera, in modo che un giorno possa essere una donna qualunque, in una terra qualunque.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il New York Times cerca di mettere a tacere la vicenda di Ahed Tamimi

James North

23 dicembre 2017,Mondoweiss

Oggi il New York Times ha pubblicato un articolo sul modo molto diverso in cui israeliani e palestinesi considerano l’episodio degli schiaffi che ha visto coinvolti la sedicenne Ahed Tamimi e un soldato israeliano.

Il titolo è “Atti di resistenza e di repressione in Cisgiordania che sfuggono ad una facile definizione”, ed è stato scritto da David Halbfinger.

L’articolo fa di tutto per minimizzare il caso, in cui una coraggiosa ragazza di sedici anni, il cui cugino era stato da poco colpito, si ribella alla disumanità dell’occupazione. No, il senso dell’articolo è fare in modo che i sostenitori di Israele che potrebbero aver sentito parlare della vicenda scuotano la testa sulla “doppia narrazione”, per tornare ai propri affari.

Ecco il piano di insabbiamento del Times:

1.Fare in modo che nell’edizione a stampa non compaia nessuna delle impressionanti foto divenute virali della coraggiosa resistenza di Ahed Tamimi.

2.Non dire da nessuna parte che gli israeliani sono occupanti e che gli insediamenti (le colonie) sono illegali in base alle leggi internazionali.

3. Infilarci astutamente il seguente paragrafo: “L’apparente incoraggiamento della famiglia alle rischiose sfide della ragazzina ai soldati offende alcuni palestinesi e manda in bestia molti israeliani.”

4.Citare di sfuggita il fatto che l’illegale insediamento/colonia di Halamish ha preso il controllo dell’accesso del villaggio di Nabi Salh alla sua sorgente e non fare nessun tentativo di dare conto di chi abbia ragione. Trattare invece la questione come se fosse un “da una parte… ma dall’altra…”

5. Nella prima frase, far sembrare che il soldato israeliano sia la vittima: “Una ragazzina, con una kefiah sulla giacca di jeans, urlando in arabo, colpisce ripetutamente, schiaffeggia e prende a calci un ufficiale dell’esercito israeliano pesantemente armato, che l’affronta impassibile, incassando qualche colpo, schivandone altri, ma senza mai reagire.” (Di sicuro vi concentrate sulla kefiah e sugli “urli in arabo”: perle di perfetto orientalismo).

6. Far in modo che il colono Yossi Klein Halevi [presentato nell’articolo del NYT come uno scrittore e intervistato dal giornalista, ndt.] ribadisca il concetto che l’israeliano è la vittima: “La mia prima reazione è stata che sono fiero dei soldati, ma ero anche incerto: questo potrebbe incitare altre aggressioni, anche più gravi?”

7. Aggiungere un altro odioso paragrafo: “…la scena di una giovane donna trascinata via potrebbe aver fornito ai palestinesi l’evidente colpaccio propagandistico che gli era stato negato all’inizio dell’incidente.”

8. Mettere solo nel tredicesimo paragrafo l’informazione che ore prima dello scontro un soldato israeliano aveva sparato in faccia al cugino di Ahed Tamimi. Ignorare il nome del cugino, Mohammad, e la gravità delle ferite. No, per saperlo devi andare su Al Jazeera.

9 Citare 6 israeliani ebrei e solo 4 palestinesi. Ma soprattutto non citare nessun membro della coraggiosa famiglia Tamimi, nonostante siano stati menzionati nel fondamentale articolo di Ben Ehrenreich apparso sul “New York Times Magazine” [supplemento domenicale del NYT, ndt.] a proposito di Nabi Saleh. E nonostante il fatto che l’episodio degli schiaffi [al militare] sia avvenuto quando il soldato aveva violato la loro proprietà.

P.S. Louis Allday, un dottorando alla School of Oriental and African Studies [Scuola di Studi Orientali ed Africani, ndt.] dell’università di Londra, che sta digitalizzando documenti coloniali, aggiunge [citazioni da un tweet, ndt.]: 23 dicembre: Questo non è neppure un commento di opinione, questo è un reportage del responsabile della redazione di Gerusalemme del New York Times, David M. Halbfinger.

Lo strenuo tentativo di Halbfinger di far sì che qualcosa di molto semplice ed ovvio risulti complicato (elogiando efficacemente la “moderazione” israeliana) è un chiaro esempio di come i mezzi di comunicazione in generale parlino della Palestina, soprattutto il NYT.

(Una correzione: il post originale diceva: “La maggior parte di persone legge ancora il Times su carta.” In realtà il Times ha 2,5 milioni di abbonati alla versione digitale, contro 1 milione di abbonati alla versione cartacea).

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Colono israeliano uccide un contadino ma vengono accusati dei palestinesi

Maureen Clare Murphy

19 dicembre 2017,Electronic Intifada

Un palestinese – ma ancora nessun israeliano – deve rispondere di gravi accuse in merito a uno scontro tra coloni e abitanti di un villaggio della Cisgiordania, che lo scorso mese ha lasciato un bilancio di un contadino palestinese ucciso.

Muhammad Wadi è stato accusato di tentato omicidio da un tribunale militare israeliano.

Il quotidiano israeliano Haaretz informa che l’atto di accusa sull’incidente del 30 novembre nel villaggio di Qusra sostiene che Wadi è entrato in una grotta in cui un gruppo di bambini e un adulto si erano rifugiati ed ha lanciato grosse pietre contro di loro da distanza ravvicinata, ferendo l’adulto alla testa.

Il giornale aggiunge che altri diciannove palestinesi sono stati arrestati perché sospettati di essere coinvolti [nell’episodio].

Lo scontro mortale è avvenuto quando un gruppo di bambini sono stati portati a fare un’escursione nei pressi del villaggio palestinese come parte di una festa di bar mitzvah [rito ebraico che celebra l’ingresso a pieno titolo nella comunità dei bambini maschi di 13 anni, ndt.].

I coloni sostengono che gli abitanti di Qusra li hanno attaccati e che uno degli accompagnatori dell’escursione ha sparato con il suo fucile per difendersi, uccidendo Mahmoud Zaal Odeh, di 48 anni.

Lo sparatore è stato interrogato dalla polizia in quanto sospettato di omicidio colposo e successivamente rilasciato.

Il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha affermato che l’israeliano ha agito “per legittima difesa”, sostenendo che un gruppo di palestinesi ha tentato di “linciare” i bambini.

I miei ringraziamenti e il mio apprezzamento alla scorta armata che ha salvato gli escursionisti da un pericolo evidente ed immediato per le loro vite,” ha aggiunto.

Gli abitanti di Qusra, tuttavia, hanno detto ai mezzi di comunicazione che Odeh stava lavorando la propria terra quando è stato colpito.

Secondo il gruppo per i diritti umani “Adalah” a insaputa e senza il permesso della sua famiglia l’esercito israeliano ha portato il corpo di Odeh a Tel Aviv per l’autopsia, prima che venisse restituito ai suoi cari per il funerale.

Una settimana dopo, decine di coloni sono tornati a Qusra per continuare l’escursione con una massiccia scorta militare e insieme al vice ministro degli Esteri israeliano Tzipi Hotovely ed al ministro dell’Agricoltura Uri Ariel:

Circa 100 coloni arrivano fuori da Qusra per terminare il percorso del bar mitzvah che era finito in scontri con palestinesi la scorsa settimana. Ad accompagnare il ragazzino del bar mitzvah è il ministro Uri Ariel.

Alla domanda se fosse proprio il caso di portare così tanti bambini in una zona che si sta ancora tranquillizzando dopo la violenza della scorsa settimana, Ariel ha detto: “Abbiamo un forte esercito e ci sentiamo sicuri ovunque andiamo sulla nostra terra.”

E si parte. Si uniscono alla festa anche il vice ministro degli Esteri Tzipi Hotovely e Itamar Ben Gvir” [citazione di una cronaca twittata da Jacob Magid, giornalista del quotidiano indipendente israeliano “Times of Israel”, ndt.]

Con loro c’era anche Itamar Ben Gvir, un colono, militante di estrema di destra e avvocato che è considerato “un amico a cui rivolgersi” per gli israeliani che hanno commesso atti di violenza contro i palestinesi, compresi due adolescenti sospettati di essere coinvolti in un attacco incendiario che ha ucciso tre membri di una famiglia palestinese in un villaggio della Cisgiordania [a Duma, nei pressi di Nablus, in cui morì anche un bambino di 18 mesi, ndt.] nel 2015.

Sarit Michaeli, responsabile internazionale del gruppo israeliano per i diritti umani “B’Tselem”, ha definito l’escursione una “sfilata provocatoria dei coloni”.

La gita si è conclusa con una foto di gruppo e un raduno alla grotta in cui i coloni accusano i palestinesi di aver assediato il gruppo di bambini.

Violenza dei coloni

Gli abitanti di Qusra sono da molto tempo vittime di violenze, danni alle proprietà e vessazioni da parte dei coloni.

Nel settembre 2011 la moschea del villaggio è stata devastata e bruciata con gomme incendiate come atto di “price tag” [lett. “pagare il prezzo”; indica le azioni di rappresaglia dei coloni contro i palestinesi, ndt.] o vendetta dopo che la polizia ha demolito tre strutture dell’avamposto non autorizzato dei coloni “Migron”.

Quello stesso mese l’abitante di Qusra Issam Badran è stato ucciso dai soldati durante scontri che sono scoppiati dopo che i coloni sono entrati nelle terre del villaggio.

Un’inchiesta dell’esercito riguardo all’uccisione di Badran è stata chiusa senza che venisse presentato un atto d’accusa. Nel gennaio 2014 gli abitanti di Qusra hanno bloccato più di dodici coloni che avevano fatto incursione nel villaggio e avevano tentato di sradicare ulivi.

Gli abitanti di Qusra sono stati anche sottoposti a incursioni notturne nelle loro case da parte delle forze israeliane come parte delle loro “procedure di mappatura” per censire tutta la popolazione civile palestinese.

Invece un minore israeliano della vicina colonia di Itamar che aveva aggredito un attivista dei diritti umani e lo aveva minacciato con un coltello è stato condannato a svolgere un lavoro socialmente utile per l’incidente dell’ottobre 2015.

L’adolescente aveva attaccato Arik Ascherman, allora capo di Rabbis for Human Rights [gruppo di rabbini che si oppone all’occupazione dei territori palestinesi, ndt.], mentre quest’ultimo stava aiutando un contadino palestinese a raccogliere le olive.

Haaretz ha informato che la giudice che ha emesso la sentenza contro il giovane “ha scritto di aver optato per i lavori socialmente utili perché una detenzione avrebbe potuto danneggiare le possibilità per il ragazzo di essere arruolato nell’esercito israeliano, e perché era convinta che avesse buone possibilità di essere rieducato.”

L’adolescente era rappresentato in giudizio da Itamar Ben-Gvir.

Bambini palestinesi arrestati da Israele per imputazioni come aver tirato pietre ai soldati non godono di una simile indulgenza.

Un crescente numero di parlamentari statunitensi sta appoggiando una legge che imporrebbe al Segretario di Stato [il ministro degli Esteri USA, ndt.] di attestare ogni anno che nessuno dei fondi USA destinati ad Israele venga utilizzato per “finanziare la detenzione militare, gli interrogatori, gli abusi o i maltrattamenti contro i bambini palestinesi.”

La legge condanna i procedimenti giudiziari israeliani contro i minori palestinesi nei tribunali militari, mentre nello stesso territorio i coloni israeliani sono sottoposti alle leggi civili.

Nella Cisgiordania occupata Israele mette in atto un sistema giuridico a due livelli: i palestinesi sono sottoposti ai tribunali militari, in cui viene loro negato un processo minimamente equo e si trovano a dover affrontare una detenzione quasi certa, mentre i coloni israeliani sono soggetti alla giurisdizione della polizia e dei tribunali civili israeliani.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Dopo la bomba atomica di Trump su Gerusalemme: valutazioni sulle opzioni per i palestinesi

Nadia Hijab,

8 dicembre 2017, Al-Shabaka

In tutto il mondo vengono organizzate proteste contro la decisione del presidente USA Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.

Facendo questo, Trump ha ignorato dettagli quali confini e frontiere – insieme allo stesso diritto internazionale – ed ha ribadito l’impegno USA, da sempre vuoto di significato, di favorire “un duraturo accordo di pace”.

Date le politiche assolutamente scandalose di Trump riguardo a Gerusalemme e ai diritti dei palestinesi in generale, come anche la velocità con cui la sua amministrazione agisce per fare a pezzi i diritti umani ed ambientali negli Stati Uniti e nel mondo intero, è facile cadere nella disperazione. Eppure in un momento simile è importante ricordare le tendenze di più lungo termine che lavorano a favore dei palestinesi e per porre il movimento nazionale palestinese – sia a livello politico che della società civile – nella migliore posizione.

Il lungo percorso di Israele verso lo smascheramento

Molti degli orientamenti a favore dei palestinesi sono dovuti al fatto che Israele sta superando i limiti. Ha vinto molte battaglie, ma non può vincere la guerra. Può sembrare illusorio, data la grande forza militare, politica ed economica che fa di Israele una superpotenza regionale. Ma consideriamo il percorso del Paese. La vittoria del 1967 avrebbe dovuto metterlo in grado di avere la pace con gli arabi nei termini da lui stabiliti del 78% della Palestina che aveva colonizzato nel 1948, e seppellire così la causa palestinese per sempre.

Invece ha proseguito sulla strada tracciata dagli estremisti sionisti del XX secolo, che erano decisi a colonizzare ed espropriare, per garantire il minimo numero di autoctoni palestinesi ed il massimo numero di ebrei. Come disse Moshe Dayan nel 1950 riguardo ai 170.000 palestinesi riusciti a rimanere in ciò che divenne Israele nel 1948, dopo che 750.000 di loro furono costretti a diventare rifugiati: “Spero che nei prossimi anni possa verificarsi un’altra possibilità di attuare il trasferimento di quegli arabi fuori dalla Terra di Israele.” Dayan divenne poi un eroe di guerra israeliano nel 1967, quando altri circa 450.000 palestinesi furono costretti a diventare rifugiati.

Iniziata lentamente nel 1967, ma con una drastica accelerazione dopo gli accordi di Oslo apparentemente finalizzati, al momento della loro firma nel 1993, a portare la pace, la corsa inarrestabile di Israele alla colonizzazione dei territori appena acquisiti ha prodotto circa 600.000 coloni in 200 insediamenti, che frammentano la Cisgiordania e dividono tra loro i palestinesi. Il piano israeliano per Gerusalemme è apertamente improntato ad un rapporto di 70% a 30% tra ebrei israeliani ed arabi palestinesi, previsto come risultato del diradamento degli abitanti di Gerusalemme est.

Sulla base del “successo” di questi sforzi, i leader israeliani ora pensano che non sia necessario occultare le loro ambizioni e proclamano esplicitamente i loro obiettivi, compresi i piani di ulteriori espulsioni di palestinesi e di discriminazione verso quelli che rimangono. Il numero di leggi discriminatorie nei confronti dei palestinesi cittadini di Israele è balzato da circa 50 a quasi 70 negli ultimi anni.

Sia le istituzioni ufficiali che le organizzazioni di destra stanno sempre più infliggendo simili trattamenti agli ebrei israeliani che cercano di difendere i diritti di tutti gli esseri umani, a prescindere dalla religione o dall’etnia. Gli attacchi contro “Breaking the Silence” (Rompere il Silenzio), una Ong che promuove il fatto che i soldati israeliani denuncino ciò che sono costretti a fare ai palestinesi durante il loro servizio militare, ne sono solo un esempio. La repressione del ministro dell’Educazione Naftali Bennett nei confronti di ACRI (l’Associazione per le Libertà Civili in Israele) è un altro. “Goliath: life and loathing in greater Israel” (Golia: vita e odio nel grande Israele) di Max Blumenthal registra il percorso israeliano sempre più draconiano attraverso il XX secolo fino ad oggi ed è una lettura imprescindibile per chi si occupa di questa questione.

Lo status di “luce per le nazioni” di cui Israele ha goduto in quanto “unica democrazia” nel Medio Oriente è svanito da tempo. Oggi il progetto di insediamento, con la sua flagrante violazione dei diritti dei palestinesi, ha messo a repentaglio la fondamentale pretesa israeliana di uno Stato ebraico. Molti hanno usato il termine apartheid per descrivere quanto sta accadendo ai palestinesi nei territori occupati (OPT), comprese strade separate, differenti sistemi giudiziari e gravi restrizioni all’accesso all’acqua, alla terra ed anche allo spettro elettromagnetico.

Sempre di più, la situazione nei territori occupati ha spinto gli Stati e i difensori della società civile a tenere conto di quanto accade – e di quanto è accaduto – ai cittadini palestinesi di Israele. Quando niente meno che l’ex direttrice dell’ufficio di Gerusalemme del New York Times Jodi Rudoren, che aveva mostrato prudenza nei suoi reportage durante il suo mandato, afferma che il termine apartheid ben si addice al trattamento dei cittadini palestinesi di Israele, allora è chiaro che la vera natura dell’impresa è venuta in superficie. La prova è evidente: non è possibile avere uno Stato che privilegia gli ebrei senza discriminare i “non ebrei”. Chi può ora sostenere seriamente che Israele è uno Stato democratico?

Questa situazione ha condotto a quella che forse è la più importante tendenza a lungo termine in questo conflitto: il cambiamento del punto di vista degli ebrei americani. Esiste oggi una piccola percentuale, ma in rapida crescita, di ebrei americani che si mobilitano per i diritti umani nel movimento di solidarietà con la Palestina. A capo di questo cambiamento c’è “Jewish Voice for Peace (JVP)” (Voce ebrea per la pace), che sostiene i diritti dei palestinesi secondo la definizione data dai palestinesi stessi nell’appello del 2005 per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro Israele, fino a quando non rispetterà il diritto internazionale, e che ricopre un ruolo strategico fondamentale nel movimento USA per i diritti. (1)

Il secondo grande, e più recente, cambiamento nella comunità ebraica degli Stati Uniti è dovuto all’emergere di latenti tensioni tra Israele e gli ebrei riformati e conservatori [i primi sostengono un rapporto individuale e liberale con la fede, i secondi contestano la secolarizzazione della religione portata dalla società moderna e dall’illuminismo, ndt.], che rappresentano i due terzi degli ebrei americani. Vi è stata una quantità di articoli ed analisi sulla questione, che indicano che il primo ministro Benjamin Netanyahu ed i suoi alleati puntano sugli ebrei ortodossi americani e trascurano gli altri – trattandoli addirittura come ebrei di seconda classe. Questo è un grave errore strategico da parte di Israele: gli ebrei americani contribuiscono generosamente alle cause filantropiche, come anche alle politiche e alle posizioni ufficiali. Alienandosi questo importante bacino elettorale – anche se spende milioni per controllare il dibattito e confondere le critiche ad Israele e al progetto politico sionista con l’antisemitismo – Israele sta accelerando dei cambiamenti negli Stati Uniti che eroderanno l’automatico sostegno politico ed il massiccio aiuto militare che riceve, e favoriranno l’appoggio generale ai diritti dei palestinesi ed il riconoscimento della storia della Palestina.

La lotta rivitalizzata della Palestina

La lotta palestinese si è sviluppata ed evoluta parallelamente al percorso di Israele. Trent’anni dopo che il governo coloniale britannico sconfisse la rivolta per i diritti e la libertà del 1936-39, e vent’anni dopo la catastrofica perdita di quattro quinti della Palestina nel 1948 e la diaspora dei quattro quinti del suo popolo, entrò in scena l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e divenne in breve tempo una forza con cui fare i conti. Tuttavia i reiterati attacchi all’OLP da parte israeliana – ed araba – unitamente ai gravissimi errori della sua leadership, condussero ad colpo quasi mortale con l’invasione israeliana del Libano nel 1982 e l’esilio dell’OLP da Beirut, la sua ultima roccaforte ai confini di Israele.

Eppure dopo solo cinque anni la lotta palestinese assunse una nuova forma con la Prima Intifada, la rivolta nonviolenta guidata dai leader locali dei territori occupati. L’intifada portò i palestinesi sulla ribalta mondiale e vicino al raggiungimento dei loro obiettivi, dato l’impegno dell’amministrazione di George W. Bush a garantire un buon accordo in seguito alla prima guerra del Golfo nel 1990. Tragicamente, i negoziati segreti dell’OLP con Israele, che portarono agli accordi di Oslo, sperperarono le fonti di energia palestinese così attentamente costruite, che includevano un movimento globale di solidarietà ed il sostegno del Terzo Mondo.

Nonostante tali battute d’arresto, i palestinesi non stanno scomparendo. Dal 1948 la lotta nazionale è stata accompagnata da un fiorire di letteratura, arte, film e cultura che ha rafforzato e cementato l’identità palestinese. Come ha detto Steven Salaita [studioso e scrittore americano di origine araba, ndtr.] in un recente saggio, “Niente fa più paura ad Israele della sopravvivenza dell’identità palestinese attraverso successive generazioni.” Ed anche se la leadership nazionale palestinese è in confusione, per usare un eufemismo, la causa palestinese è spalleggiata da un movimento di solidarietà internazionale che include, e ne è rafforzato, il movimento BDS a guida palestinese. Negli ultimi cinque anni Israele ed i suoi alleati hanno gettato tutto il loro peso contro questo movimento nello sforzo di recuperare terreno e controllare il dibattito, ma esso è vivo e vegeto.

Quanto sarebbe stato più facile per Israele fare un accordo con Giordania, Egitto e Siria nel 1967, invece di azzardare per ottenere tutto e di doversela vedere con il movimento per i diritti dei palestinesi che continuamente si evolve e si rinnova!

Le opzioni palestinesi nella lotta per i diritti

Con queste premesse, quali opzioni hanno i palestinesi? È indubbio che il periodo attuale presenta gravi rischi per loro. Il movimento dei coloni ha avuto il semaforo verde per andare avanti da parte di Trump, che non si è nemmeno degnato di pronunciare “Stato palestinese” nel suo intervento su Gerusalemme, limitandosi a parlare di pace come “inclusiva di …una soluzione a due Stati” e condizionando anche questo all’approvazione di Israele, con l’aggiunta “se concordato dalle due parti.”

Il timore più grande è per la stessa Gerusalemme – sia per i suoi abitanti che per il complesso di Al Aqsa. Vi sono gravi preoccupazioni che Israele possa accelerare l’espropriazione e l’espulsione dei palestinesi, usando le varie tecniche burocratiche perfezionate nel corso degli anni, ed anche i bulldozer e le demolizioni. E, benché Trump abbia detto di continuare a “sostenere lo status quo” nei luoghi santi di Gerusalemme, questo è ampiamente ignorato dal movimento del Monte del Tempio, che intende edificare un terzo tempio ebraico al posto del complesso della moschea di Al Aqsa.

C’è molto da temere anche dal “Quartetto arabo” – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto – e dal suo capofila, il principe ereditario Mohammad Bin Salman, che sostiene il piano di annessione USA-Israele e che ha ripetutamente offerto ai palestinesi come capitale Abu Dis, un sobborgo di Gerusalemme separato dalla città dal muro illegale che Israele ha costruito ampiamente all’interno dei territori occupati e che separa i palestinesi tra di loro e dalle principali colonie. D’altro lato, è in dubbio fino a che punto il Quartetto arabo possa conseguire i risultati desiderati. Lo stesso Bin Salman si è spinto troppo oltre con la sua guerra allo Yemen, con la repressione nei confronti dei suoi principi ed infine con il fallito tentativo di costringere il primo ministro libanese Saad Hariri a dimettersi, nel tentativo di indebolire Hezbollah, partito e forza militare libanese alleato di Iran e Siria.

Anche il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas non potrebbe essere in una posizione meno invidiabile. Se respinge la pressione delle forze schierate contro di lui, perderà l’aiuto degli Stati Uniti e di molti Paesi arabi, senza il quale i dipendenti pubblici [dell’ANP] non potranno essere pagati, il che colpirà circa un milione e mezzo di persone. Se china il capo, sarà costretto a rinunciare ai diritti dei palestinesi. In tutti i casi, il suo arcinemico ed ex capo della sicurezza palestinese Mohammed Dahlan, il protetto degli emirati, è in attesa dietro le quinte ed assai verosimilmente è disposto a firmare.

Il pesante prezzo di sfidare la comunità internazionale è chiaro nella Striscia di Gaza, dove Hamas ha rifiutato di ammettere la sconfitta o deporre le armi. Il costo che i palestinesi di Gaza hanno sostenuto nell’ultimo decennio, e continuano a sostenere, è davvero alto. E tra le varie voci che si susseguono sul piano finale di colonizzazione che Israele e USA intendono imporre ai palestinesi vi è la deportazione dei palestinesi di Gaza nel deserto egiziano del Sinai, molto lontano dai confini della loro patria originaria (circa il 70% dei 1.900.000 palestinesi di Gaza sono rifugiati).

D’altra parte, l’OLP/ANP e la società civile palestinese, sostenuti dal movimento globale di solidarietà, non sono privi di opzioni, se c’è la volontà di unire le risorse ed usare tutte le strade disponibili, come occorre fare per contrastare questa grave minaccia alla richiesta di diritti per i palestinesi. A livello interno, la riconciliazione fra palestinesi di Fatah e Hamas deve essere attuata, non solo come di per sé positivo. È anche essenziale mettere in grado il sistema politico palestinese di attrarre il sostegno di diversi Stati arabi ed asiatici, alcuni dei quali sono più vicini ad un partito che all’altro. Ogni possibile relazione che Fatah e Hamas riescano ad ottenere, ciascuno per conto proprio o insieme, per rafforzare la posizione palestinese deve essere sfruttata. È un segnale positivo che Abbas intenda convocare il Consiglio Centrale dell’OLP ad una sessione straordinaria a cui saranno invitate “tutte le fazioni”.

Occorre anche trovare il modo di ridurre ed eliminare gradualmente il coordinamento per la sicurezza tra l’ANP e Israele. Sarà molto difficile, considerate le misure che Israele può intraprendere contro i palestinesi, la loro leadership e Abbas in persona. Come minimo, verrebbe limitata la sua possibilità di muoversi oltre i confini della Cisgiordania e di viaggiare. Eppure le conoscenze sul settore della sicurezza esistono e c’è molta letteratura in proposito, comprese serie analisi politiche della rete di Al-Shabaka. Queste competenze sarebbero immediatamente disponibili per l’ANP se decidesse di ridimensionare il coordinamento (con Israele). È anche decisamente tempo di andare oltre gli appelli per la protezione internazionale dei palestinesi e sviluppare una coerente strategia per garantirsi tale protezione.

L’OLP/ANP deve essere il più possibile attiva sulla scena europea. Finora quei Paesi europei che sostengono il diritto internazionale hanno consentito un facile cammino ad Israele. L’Unione Europea nel 2016 ha ribadito la sua posizione per cui i prodotti delle colonie che entrano nella UE devono essere etichettati per permettere ai consumatori una scelta informata – una misura timida e alla fine inefficace. Gli avvertimenti che 18 Stati dell’UE hanno emesso per mettere in guardia le imprese sui rischi (sul piano legale, di immagine e finanziario) di mettersi in affari con amministrazioni delle colonie hanno un maggiore impatto, ma non sono stati recepiti nella legislazione e nella normativa interna.

Nonostante questo atteggiamento pusillanime, l’UE e la maggioranza dei suoi membri non potranno mai approvare l’occupazione israeliana. Per gli europei il sistema di diritto internazionale stabilito dopo la seconda guerra mondiale è la loro garanzia contro altre guerre devastanti. Per riuscire nel suo tentativo di legalizzare l’occupazione, Israele dovrebbe scalzare – e ha cercato di farlo – tutto quel sistema legale. Finora gli europei hanno potuto chiudere un occhio e fare il minimo possibile sul fronte israelo-palestinese, felici di lasciare agli USA il ruolo del cosiddetto mediatore imparziale.

La dichiarazione di Trump di riconoscimento di Gerusalemme [come capitale di Israele], con il suo implicito attacco al diritto internazionale, costringerà gli europei a sedersi al posto di guida, a meno che intendano assistere al crollo della delicata struttura che hanno messo in piedi. Per di più, la questione dei territori occupati e dell’annessione riguarda direttamente gli europei dal momento dell’occupazione ed annessione russa della Crimea nel 2014. Avendo imposto sanzioni alla Russia, gli europei sono in difficoltà a continuare a trattare Israele con i guanti mentre cerca di legalizzare la sua illegale impresa di colonizzazione.

L’OLP in particolare dovrebbe trarre vantaggio dal rifiuto europeo del riconoscimento di Trump ed impegnarsi in una vasta campagna di pubbliche relazioni e sensibilizzazione nei confronti dei governi e dei diplomatici europei. Dovrebbe mostrare risolutezza e determinazione e promuovere la responsabilità dei Paesi europei nel difendere il diritto internazionale, nonché continuare a sostenere fattivamente la loro posizione e i loro passi contro le depredazioni israeliane. L’OLP dispone di alcuni diplomatici molto esperti che può mettere in campo per questo compito – dopotutto, alcuni di loro hanno condotto e vinto la causa contro il muro di Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia nel 2004.

In altre regioni del pianeta Israele ha lavorato per rovesciare le partnership e le alleanze con la Palestina nel Terzo Mondo, che sono state importanti fonti di sostegno negli anni ’70 e ’80. Lo ha fatto con successo in Asia, specialmente in India, in Africa e in America Latina. Ma non è troppo tardi per i palestinesi per riconquistare terreno e stringere questi legami, offrendo servizi e collegamenti dove possono. Cosa della massima importanza, l’OLP/ANP deve lavorare sodo per impedire che altri Paesi seguano le orme di Trump verso il riconoscimento o, peggio, l’effettivo trasferimento delle loro ambasciate a Gerusalemme.

In questo impegno, soprattutto negli USA, in Europa e sempre più in America Latina, l’OLP sarebbe appoggiata dalla società civile palestinese e dal movimento mondiale di solidarietà, che può mobilitare decine di migliaia di attivisti per fare pressione sui propri rappresentanti politici. Soprattutto negli Stati Uniti, il movimento di solidarietà con la Palestina ha creato diverse forti istituzioni che portano avanti le voci palestinesi e in favore dei palestinesi nei media, forniscono supporto legale agli studenti ed insegnanti che vengono attaccati per i loro discorsi, difendono i diritti dei palestinesi con i rappresentanti al Congresso e coinvolgono un crescente numero di ebrei nella lotta per uguali diritti per tutti.

Il ruolo della società civile palestinese e mondiale, oltre a mantenere la pressione su Israele ed a respingere i suoi tentativi di controllare la narrazione, è di mantenere l’OLP sulla retta via. Ciò che Trump ha fatto potrebbe infliggere un colpo mortale alla causa palestinese se i palestinesi ed i loro alleati non danno una risposta coerente e coordinata. Riflettendo su queste ed altre questioni e sviluppando delle strategie, i palestinesi ed i loro alleati possono trasformare questa tragedia in un’opportunità.

Note:

  1. È importante sottolineare la seconda parte di questo documento, dati i fraintendimenti circa il BDS. Il linguaggio dell’appello del BDS chiarisce che il movimento è contro le politiche di Israele, non contro la sua esistenza e che una volta che gli obbiettivi del movimento – autodeterminazione, libertà dall’occupazione, giustizia per i rifugiati ed uguaglianza per i palestinesi cittadini di Israele – fossero raggiunti, il BDS terminerà.

Nadia Hijab

Nadia Hijab è cofondatrice e direttrice esecutiva di Al-Shabaka, la rete di politica palestinese, e scrittrice, conduttrice e commentatrice sui media. Il suo primo libro, “Woman power: the arab debate on women at work “(Potere delle donne: il dibattito arabo sulle donne lavoratrici) è stato pubblicato dalla Cambridge University Press, ed è coautrice di “Citizens apart: a portrait of palestinians in Israel” (Cittadini a parte: un ritratto dei palestinesi in Israele) (I.B. Tauris). È stata capo redattrice della rivista sul Medio Oriente con sede a Londra, prima di lavorare per le Nazioni Unite a New York. È cofondatrice ed ex copresidentessa della Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi ed ora lavora nel suo comitato consultivo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La dichiarazione di Trump su Gerusalemme dà ad Abbas un’occasione per smuovere la situazione

Amira Hass

9 dicembre 2017,Haaretz

Sfortunatamente, però, la dirigenza palestinese ha dimenticato come si operano dei cambiamenti

Il riconoscimento americano di Gerusalemme capitale di Israele è un’occasione per la leadership palestinese di disfarsi dei modi sclerotizzati di pensare e agire che hanno reso quegli stessi leader incapaci di cambiamento.

Sarà sfruttata questa opportunità di intraprendere un processo interno di democratizzazione? In primo luogo per ripristinare i rapporti tra un élite palestinese non eletta che è stata al potere per diversi decenni e la popolazione (non solo in Cisgiordania e a Gaza ma anche nella diaspora palestinese)? La speranza è che venga usata per operare un cambiamento. La preoccupazione è che ciò non accada.

Quando la leadership palestinese si riprenderà dallo shock provocato dal cambiamento simbolico nella politica americana – simbolico, ma potenzialmente esplosivo -, dirà che si tratta di un problema pan-islamico, pan-arabo, o forse europeo. La leadership avrebbe ragione a dirlo, ovviamente. I leader diranno che i palestinesi sono l’anello più debole della catena e che non possono essere lasciati soli a trattare con il piromane della Casa Bianca.

La si potrebbe considerare anche in altri termini. Il cambiamento nella posizione americana consente ai leader palestinesi, guidati dal presidente Mahmoud Abbas, di operare cambiamenti che dimostrino al loro popolo di non aver scelto la via diplomatica che dipende dal coordinamento con Israele su economia e sicurezza solo per favorire i propri immediati interessi personali e economici – e quelli dei gruppi vicini alla leadership dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e di Fatah.

Una delle spiegazioni prevalenti del fatto che Abbas abbia ostinatamente evitato lo svolgimento di elezioni e che, all’interno della sua fazione di Fatah, le elezioni siano state stabilite e dettate dall’alto e in modo tale da non essere discusse pubblicamente, è il “tornaconto personale”. Per lo stesso motivo si sostiene che Abbas abbia evitato di apportare modifiche al suo gabinetto che avrebbero permesso al suo governo di essere rappresentativo delle varie organizzazioni politiche e non solo della propria.

Ripresisi dallo shock, Abbas e il suo gruppo diranno, giustamente, che il cambiamento nella posizione americana non riflette necessariamente il fallimento del percorso diplomatico palestinese, ma piuttosto l’inettitudine delle fazioni moderate all’interno del Partito Repubblicano statunitense.

Dopo tutto, il presidente Trump ha insultato tutti i musulmani, compresi quelli di Paesi i cui governi sono considerati alleati degli Stati Uniti, oltre ad attaccare il Vaticano e l’Europa. I leader palestinesi potranno dire che l’audacia di Trump, nel rompere le convenzioni internazionali, non si limita ad un ambito specifico.

Recentemente lui e la destra economica ed evangelica che [Trump] serve e rappresenta hanno ottenuto due importanti vittorie: un aumento dei profitti per le grandi aziende attraverso i tagli delle imposte per le imprese e una sentenza della Corte Suprema che ha permesso l’immediata applicazione del divieto di ingresso ai cittadini di sei Paesi musulmani. Di conseguenza, Abbas e i suoi soci diranno che non esiste alcun nesso tra la situazione interna palestinese e i tentativi della comunità internazionale di fare i conti con le politiche di Trump.

La via diplomatica – che implica il riconoscimento simbolico internazionale di uno Stato palestinese – è stata preparata lentamente, inclusi diversi risultati incoraggianti, come l’accettazione [della Palestina] in istituzioni internazionali e la firma di convenzioni internazionali. Ma poi il percorso è stato bloccato dagli Stati Uniti. La strada diplomatica ha fatto arrabbiare Israele, ma ora si è esaurita senza aver cambiato la realtà dei fatti: autonomia limitata per l’Autorità Nazionale Palestinese, divisa tra enclave separate, assolvendo nel contempo Israele nonostante le sue responsabilità di potenza occupante. I Paesi occidentali appongono tuttora il loro timbro di approvazione su una leadership palestinese non eletta e non amata a causa del suo impegno a tenere a freno la popolazione e a mantenerla calma nei confronti di Israele, e per la sua volontà di far finta che ci sia ancora un “processo” in corso per edificare uno Stato. Il rischio è che la mossa di Trump non faccia altro che sostenere la richiesta dell’Europa che Abbas e le sue forze di sicurezza continuino a tenere a bada il popolo palestinese in cambio del loro immutato riconoscimento di questa come leadership legittima.

Gli Stati Uniti, finanziatori molto generosi dell’UN Relief and Works Agency [(UNRWA, l’agenzia ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, ndt.] e delle forze di sicurezza palestinesi, hanno accettato la realtà delle enclave molto prima dell’arrivo di Trump. Questo era il messaggio dietro il finanziamento per lo sviluppo delle strade rurali, al posto di larghe e veloci autostrade, ma in questa operazione Israele ha bloccato l’accesso [alle campagne] dalle città e dai villaggi palestinesi a beneficio dei coloni ebrei della Cisgiordania.

I Paesi europei non sono esenti, tuttavia, da responsabilità nel favorire la realtà delle enclave, con le loro donazioni che in qualche modo mitigano la cronica crisi finanziaria causata dalle restrizioni israeliane. Ma quei Paesi hanno cercato e stanno cercando di aiutare i palestinesi a rimanere sulla loro terra, prendendo misure non ancora definitive per boicottare i prodotti delle colonie e dichiarando che l’Area C (che è sotto il pieno controllo israeliano) fa parte dello Stato palestinese. Sono almeno consapevoli del loro ruolo negativo nel sovvenzionare l’occupazione.

Non smetteranno certo di sovvenzionarla ora – attraverso l’assistenza umanitaria ai palestinesi – con il crescente senso di un’imminente catastrofe. Anche questo rafforzerà la logica di mantenere il governo di Abbas così come è adesso.

L’appello di Fatah, partito di Abbas, ai tre giorni di rabbia sulla questione di Gerusalemme senza apportare modifiche alla struttura interna [del potere] è una scommessa rischiosa. Mette in pericolo la vita e la salute di centinaia di giovani palestinesi, esponendoli ad arresti di massa, e tutto questo per niente. Per lo più, potrebbe invece dimostrare che il popolo palestinese non risponde agli appelli di Fatah e dell’Autorità Nazionale Palestinese poiché non si fida di loro. La popolazione agirà piuttosto quando e come vorrà.

Invece di perseguitare chiunque li critichi su Facebook e di mettere a tacere gli oppositori con una legge relativa a Internet, Abbas e le persone intorno a lui potrebbero iniziare a fare dei passi per rinnovare il sistema politico che hanno costruito con gli auspici degli accordi di Oslo. È difficile immaginare come potrebbe svolgersi tale processo, a causa della lunga sclerosi delle istituzioni dell’OLP e dell’Autorità Nazionale Palestinese. In ogni caso, richiederebbe l’inclusione e il coinvolgimento attivo di ampi settori della popolazione nelle fasi di ideazione e di azione, cosa che i leader di Fatah e dell’OLP hanno da tempo dimenticato di fare.

(traduzione di Luciana Galliano)




Rapporto OCHA del periodo 21 novembre- 4 dicembre 2017 ( due settimane)

Il 30 novembre, un agricoltore palestinese 48enne è stato colpito con arma da fuoco ed ucciso da un colono israeliano che accompagnava un gruppo di giovani coloni in escursione in un’area agricola prossima al villaggio di Qusra (Nablus).

Mentre testimoni oculari palestinesi hanno riferito che lo sparo è stato preceduto da un alterco tra i coloni e l’agricoltore, i media israeliani hanno riferito che lo sparatore ha aperto il fuoco in risposta al lancio di pietre da parte del palestinese. Per due giorni il corpo dell’agricoltore è stato trattenuto dalle autorità israeliane per autopsia. Immediatamente dopo l’omicidio, abitanti di Qusra sono arrivati sul posto ed hanno lanciato pietre ai coloni, che si erano nascosti in una grotta; questi ultimi hanno risposto sparando e ferendo un palestinese; due coloni sono stati feriti da pietre. La polizia israeliana ha aperto un’indagine sul caso.

Più tardi, nello stesso giorno, in due episodi separati, nei villaggi di Qusra ed ‘Asira al Qibliya (Nablus), altri 34 palestinesi sono stati feriti durante scontri con coloni israeliani armati e soldati. Uno dei feriti è stato colpito con arma da fuoco, 15 da pallottole di gomma, 15 hanno subìto lesioni da inalazione di gas lacrimogeno, tutti da parte dei soldati israeliani, mentre tre palestinesi sono stati feriti da pietre lanciate da coloni. Altri tre palestinesi sono stati aggrediti e feriti da coloni in due distinti episodi in Gerusalemme Est e nel villaggio di Susiya (Hebron).

Inoltre, 36 palestinesi, sette dei quali minori, sono stati feriti da forze israeliane durante scontri avvenuti in Cisgiordania: 19 di questi ferimenti sono stati registrati nel villaggio di Qusra il 2 dicembre, in occasione del funerale dell’agricoltore di cui sopra, e due nella città di Nablus, in seguito all’entrata di coloni israeliani nel sito della Tomba di Giuseppe. La maggior parte degli altri ferimenti sono avvenuti in questi contesti: operazioni di ricerca-arresto che hanno innescato scontri, i più ampi dei quali nel governatorato di Hebron; durante la dimostrazione settimanale contro l’espansione dell’insediamento colonico israeliano e contro le restrizioni di accesso in Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Nabi Saleh (Ramallah); e prima di una demolizione punitiva nel villaggio di Qabatiya (Jenin).

Il 30 novembre, tre civili palestinesi, tra cui una donna, sono stati feriti nel corso di attacchi israeliani a postazioni militari nella città di Gaza e nella parte nord della Striscia: i siti presi di mira hanno subìto danni. A quanto riferito, gli attacchi sono stati condotti in risposta al lancio di 12 granate di mortaio effettuato nello stesso giorno da un gruppo armato palestinese. Le granate erano cadute in Israele, senza causare feriti o danni.

Ancora in Gaza, durante scontri scoppiati nel corso di due proteste svolte vicino alla recinzione perimetrale, le forze israeliane hanno ferito con arma da fuoco due minori palestinesi. Inoltre, in almeno 35 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in direzione di civili presenti in Aree ad Accesso Riservato, in terra ed in mare, senza causare feriti, ma interrompendo il lavoro di agricoltori e pescatori. Nella zona settentrionale della Striscia di Gaza un minore palestinese è stato arrestato ed un altro è stato ferito e arrestato mentre tentavano di entrare in Israele attraverso la recinzione perimetrale.

Per punizione, le autorità israeliane hanno demolito una casa nel villaggio di Qabatiya (Jenin), sfollando cinque persone, tra cui tre minori. La casa demolita apparteneva ad uno dei due palestinesi, attualmente in carcere, che uccisero un colono israeliano il 4 ottobre 2017. Dall’inizio del 2017, nove case sono state demolite o sigillate per motivi punitivi, sfollando 49 palestinesi.

Citando la mancanza delle licenze edilizie israeliane, le autorità israeliane hanno demolito 13 strutture in Area C e Gerusalemme Est, sfollando 24 palestinesi, tra cui 12 minori; altre 78 persone sono state diversamente toccate dalle demolizioni. Otto delle strutture demolite erano in Area C, e tre di esse appartenevano a comunità di pastori: in Al Jiftlik-Abu al ‘Ajaj e in Al Jiftlik-ash-Shuneh (entrambe in Jericho) e nella comunità di Halaweh, situata nel sud di Hebron, nella “zona 918 per esercitazioni a fuoco”. Le restanti quattro strutture erano in Gerusalemme Est, nei quartieri di Shu’fat, Beit Hanina, Al ‘Isawiya ed Umm Tuba.

Il 4 dicembre, le autorità israeliane hanno informato la Corte Suprema Israeliana della loro intenzione di demolire 46 strutture nel villaggio di Susiya (Hebron). Come conseguenza quaranta persone, tra cui 14 minori, saranno sfollate, mentre tutti i suoi 160 residenti in Area C si troveranno ad alto rischio di trasferimento forzato. L’intera Comunità (327 abitanti) sarà colpita dalla demolizione delle 46 strutture, che includono otto abitazioni, due strutture sanitarie, 12 locali usati per la scuola, altre due strutture di sussistenza ed un impianto di pannelli solari. Secondo le autorità, queste strutture furono realizzate senza i permessi necessari, a partire dal 2014, in violazione di un’ingiunzione del tribunale.

I media israeliani hanno riportato cinque episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: vicino a Betlemme, Hebron e Ramallah; in almeno due di tali episodi sono stati danneggiati veicoli.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è stato aperto in una direzione per un solo giorno, permettendo a 174 persone di entrare in Gaza. Secondo le autorità palestinesi in Gaza, più di 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate ed in attesa per attraversare il valico. Nonostante la chiusura al transito di viaggiatori, il valico di Rafah è stato aperto per nove giorni per il transito di combustibile importato dall’Egitto e destinato alla Centrale Elettrica Gaza.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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