Annettere Israele alle colonie

Oren Yiftachel

Haaretz, 12 giugno 2017

I leader dei coloni ne hanno abbastanza dell’interminabile dibattito israeliano sull’annessione dei territori occupati. Così, invece di star lì ad aspettare, hanno cominciato ad annettere Israele alle colonie.

“Abbiamo trovato una soluzione creativa al problema, come si fa nelle colonie. Li abbiamo sloggiati: dov’è il problema?” ha detto Yair Maayan, che vive nella colonia di Nokdim e, all’interno  dell’ufficio del Primo Ministro, è a capo dell’Autorità per lo sviluppo e l’insediamento dei Beduini. Stava parlando nel corso di una recente puntata dello show televisivo Hamakor (“La Sorgente”), a proposito del villaggio beduino non riconosciuto di Umm al-Hiran. Questa disinvolta dichiarazione ci dice qualcosa sui metodi usati dal progetto per popolare il Negev con gli Ebrei, un progetto che il governo ha promosso da molti anni e che danneggia fortemente i Beduini.

Quella dichiarazione rivela anche un altro, più profondo, processo che sta cambiando la situazione tra il fiume Giordano e il Mediterraneo e che si può descrivere come una “annessione alla rovescia.” I leader dei coloni, le loro organizzazioni e i loro sostenitori ne hanno avuto abbastanza dell’interminabile dibattito sull’annessione dei territori e di tutte le risposte evasive senza seguito da parte del governo di Benjamin Netanyahu. E allora, invece di star lì ad aspettare, hanno cominciato ad annettere Israele alle colonie.

In pratica, vogliono cancellare la Linea Verde, ma solo per gli Ebrei, lasciando i Palestinesi senza diritti. In questo modo non fanno altro che trasformare il silenzioso apartheid di oggi in un aperto e dichiarato regime di apartheid. Questo sta avvenendo su tre fronti principali: quello strategico, quello legale e quello pubblico.

Sul fronte strategico, certe operazioni governative che sono consuete nelle colonie sono straripate ormai da anni all’interno di Israele. La più evidente è la violenza contro i cittadini beduini del sud, tra cui il numero record di oltre 1000 demolizioni di case all’anno (molte più di quelle distrutte in Cisgiordania). Al tempo stesso, Israele ha annullato le richieste di terra da parte dei Beduini, in modo simile a come tratta i proprietari di terra in Cisgiordania.

Intanto, come in Cisgiordania, Israele sta istituendo nuove comunità per soli Ebrei, sotto la guida della Divisione Colonie dell’Organizzazione Mondiale Sionista, un organismo che poteva precedentemente operare solo nei territori occupati. Sta anche adottando pratiche importate dalla Cisgiordania, come l’insediamento di gruppi “di nucleazione” in tutto il paese e soprattutto nelle città in sviluppo e nel cuore dei quartieri arabi delle città israeliane, come Jaffa e Acri. Allo stesso modo, dozzine di fattorie individuali costruite illegalmente da Ebrei sono state “imbiancate”, cioè in altre parole sono state legalizzate, proprio come gli avamposti non autorizzati della Cisgiordania.

Sul fronte legale, l’esempio più notevole è la legge per l’esproprio retroattivo di terre, una legge promossa dai rappresentanti dei coloni e che per la prima volta permetterà di applicare ufficialmente una legge della Knesset in un’area che si trova al di là dei confini. Questa è una pratica che è stata usata da anni in modo non ufficiale, oppure mediante l’escamotage di ordinanze emesse dal comando militare in Cisgiordania.

La nuova proposta di una “legge per lo stato-nazione ebraico” comprende anche clausole per dare la priorità alla giurisprudenza ebraica, ciò che offrirà ai coloni che vivono al di là dei confini dello stato una condizione di privilegio rispetto ai cittadini arabi di Israele.

Altre mosse avanzate per accelerare l’annessione comprendono la legalizzazione degli avamposti non autorizzati, la continua registrazione di terre coltivate palestinesi come terre di proprietà dello stato, il riconoscimento della Ariel University da parte del Consiglio dell’Educazione Superiore e l’estensione della legge penale e dellalegge fondamentale israeliana agli Ebrei della Cisgiordania, ma non ai Palestinesi. Questa annessione inversa è particolarmente appariscente nel momento in cui, in occasione del cinquantenario della guerra dei sei giorni del 1967, i comitati della Knesset hanno tenuto sessioni speciali col Yesha Council delle colonie ebraiche per celebrare i 50 anni dalla “liberazione” dei territori.

Sul terzo fronte, quello pubblico, c’è una campagna per intimidire e mettere a tacere chi si oppone alle colonie e all’annessione. Qui spiccano soprattutto le attività di organizzazioni di destra come Regavim, Im Tirtzu e l’Istituto per le Strategie Sioniste. La campagna comprende un costante attacco alle organizzazioni per i diritti umani e continui tentativi di mettere a tacere insegnanti universitari e ricercatori dell’opposizione. Per esempio, imponendo un codice etico e organizzando comitati di controllo nelle università.

All’interno di questa campagna, ad attivisti che si oppongono all’occupazione, tra cui alcuni dei più importanti intellettuali ebrei del mondo come Noam Chomsky e Judith Butler, è stato impedito l’ingresso in Israele. Questi sforzi per zittire gli oppositori hanno raggiunto anche il mondo artistico, con tentativi di cancellare spettacoli e progetti che hanno a che fare con l’occupazione e con l’oppressione dei Palestinesi.

Si possono capire le attività dei coloni, che hanno interesse a portare avanti i loro obiettivi di lungo termine. È più difficile capire il silenzio della maggioranza degli Israeliani, che accettano apatici la situazione.

Saprà la maggioranza degli Israeliani svegliarsi e impedire questa annessione inversa e la sua degenerazione in apartheid? Arriverà il giorno in cui nascerà uno stato palestinese e Yair Maayan non potrà più dire ammiccante che abbiamo copiato all’interno di Israele le politiche della Cisgiordania? Non c’è occasione migliore di questo cinquantenario per cominciare un profondo cambiamento, invocato ormai da 50 anni in questa terra contesa.

Oren Yiftachel

Collaboratore di Haaretz

Il Prof. Yiftachel insegna geografia politica e pianificazione urbanistica all’Università Ben Gurion del Negev.

Traduzione di Donato Cioli

A cura di Assopace Palestina




Rapporto OCHA del periodo 16 – 29 maggio 2017 (due settimane)

A quanto riferito, la crisi elettrica di Gaza si è aggravata in seguito all’annuncio, da parte delle Autorità palestinesi di Ramallah, di una riduzione dei finanziamenti per l’acquisto di energia elettrica da Israele[e destinata alla Striscia di Gaza].

Se l’annuncio verrà confermato, aumenterebbero ulteriormente i tagli di corrente programmati, portandoli dalle attuali 18-20 ore/giorno ad oltre 22 ore/giorno. Nel frattempo la Centrale elettrica di Gaza, chiusa il 16 aprile dopo aver esaurito le proprie riserve di carburante, è rimasta ferma. Il Ministero della Salute di Gaza ha annunciato che attualmente, a causa del peggioramento della crisi elettrica e della crescente carenza di forniture mediche, almeno un terzo degli interventi chirurgici viene rinviato. Inoltre, durante la prossima estate, a causa della mancanza di energia elettrica e/o di combustibile per l’irrigazione, si prevede che Gaza soffrirà la carenza di prodotti alimentari di prima necessità, con conseguente forte aumento dei prezzi di alcuni prodotti. Questa situazione continua a compromettere la fornitura di servizi essenziali, già ora operanti a livelli minimi ed affidati al funzionamento di generatori elettrici di emergenza.

Il 25 maggio, nella Striscia di Gaza, le autorità di Hamas hanno giustiziato tre uomini condannati da uno speciale “tribunale militare di campo” per il coinvolgimento nell’omicidio, avvenuto il 24 marzo 2017, di un autorevole membro di Hamas, ed accusati inoltre di “collaborazione con un partito nemico”. L’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani ha fermamente condannato le esecuzioni capitali ed ha dichiarato che esse costituiscono una “privazione arbitraria della vita”.

Due aggressioni e presunte aggressioni palestinesi hanno provocato l’uccisione di due sospetti aggressori, uno dei quali minorenne, e il ferimento di un poliziotto israeliano. Il 22 maggio, ad un checkpoint a sud-est di Gerusalemme (“il Container”), le forze israeliane hanno colpito e ucciso un ragazzo palestinese di 15 anni, presumibilmente dopo che questi aveva tentato di aggredire con un coltello un poliziotto di frontiera che non ha riportato ferite. Il 23 maggio, nella città di Netanya (Israele), un 45enne palestinese ha pugnalato e ferito un poliziotto israeliano ed è stato successivamente colpito e ferito: è morto due giorni dopo per le ferite riportate. Inoltre, al checkpoint di Qalandia (Gerusalemme), una ragazza 14enne è stata arrestata per la presunta detenzione di un coltello.

Una ragazza palestinese di 16 anni è morta per le ferite da arma da fuoco riportate il 15 marzo, quando guidò l’auto contro una fermata dell’autobus dei coloni, al raccordo stradale di Gush Etzion (Hebron). Questo porta a 18, otto dei quali minorenni, il numero di palestinesi uccisi nel 2017 in Cisgiordania dalle forze israeliane nel contesto di scontri e di aggressioni e presunte aggressioni.

Il 18 maggio, un palestinese di 21 anni è stato colpito con arma da fuoco e ucciso da un colono israeliano che ha anche ferito un altro palestinese. L’episodio si è verificato in un tratto della strada 60 che attraversa l’abitato del villaggio di Huwwara (Nablus), durante una manifestazione in solidarietà con i detenuti palestinesi. Una ripresa video mostra il colono che investe i dimostranti che bloccavano il suo veicolo, dopo di che i palestinesi lanciano pietre contro il veicolo e il colono apre il fuoco. La polizia israeliana ha annunciato che su questo caso non sarà aperta alcuna inchiesta. Un giorno prima, sulla strada 60 nei pressi del villaggio di Silwad (Ramallah), in circostanze simili, un altro giovane palestinese era stato colpito e ferito da un colono israeliano.

Dopo l’episodio verificatosi a Huwwara [vedi sopra], coloni dell’insediamento di Yitzhar hanno incendiato 250 ulivi e un bulldozer, hanno fisicamente aggredito un pastore palestinese e hanno lanciato pietre contro veicoli palestinesi, danneggiandone almeno quattro. Negli ultimi anni, le fonti di sostentamento e la sicurezza di circa 20.000 palestinesi che vivono in sei villaggi circostanti l’insediamento di Yitzhar (Burin, Urif, Huwwara, Madama, Asira al Qibliye e Ein Abus) sono stati resi precari a causa della violenza e delle intimidazioni dei coloni.

Secondo i resoconti dei media israeliani, sei coloni israeliani sono stati feriti e almeno 16 veicoli sono stati danneggiati in diversi casi di lancio di pietre ad opera di palestinesi: vicino a Gerusalemme, Ramallah, Hebron e Betlemme.

293 palestinesi, di cui 54 minori, sono stati feriti nei territori palestinesi occupati durante scontri con le forze israeliane, in prevalenza durante le dimostrazioni in solidarietà con i detenuti palestinesi in sciopero della fame. Lo sciopero, condotto per richiedere migliorie delle condizioni di carcerazione e delle modalità delle visite dei familiari, è terminato il 27 maggio, dopo 40 giorni. Almeno 33 delle lesioni (11%) sono state causate da arma da fuoco, mentre la maggior parte delle rimanenti è stata causata da inalazione di gas lacrimogeno (quasi il 50%) e da proiettili di gomma (quasi il 30%).

Nei pressi della recinzione perimetrale di Gaza, palestinesi e forze israeliane si sono scontrati con conseguente ferimento di 16 palestinesi. Altri due palestinesi, presenti nell’Area ad Accesso Riservato (ARA) che costeggia la recinzione, sono stati colpiti e feriti. Durante il periodo di riferimento, nelle Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in 27 casi.

In occasione del mese musulmano del Ramadan, iniziato il 27 maggio, le autorità israeliane hanno annunciato l’attenuazione delle restrizioni di accesso. Il provvedimento prevede il rilascio, per i palestinesi, di circa 200.000 permessi per visite familiari in Gerusalemme Est ed in Israele, senza limiti di età e senza bisogno di una carta magnetica. Nei venerdì e nel Laylat al-Qadr [la “Notte del Destino”, una notte fra le ultime dieci del Ramadan, nella quale Allah decide il destino di tutti per l’anno nuovo] uomini di età superiore a 40 anni, bambini di età inferiore a 12 anni e donne di ogni età saranno autorizzati ad entrare in Gerusalemme Est senza permesso. Ai principali checkpoint che controllano l’accesso a Gerusalemme Est verranno adottati orari di apertura più ampi e restrizioni attenuate; ai titolari di documenti di identificazione della Cisgiordania saranno rilasciati 500 permessi per l’aeroporto “Ben Gurion”. Per quanto riguarda i residenti di Gaza, durante il Ramadan, per le preghiere del venerdì, saranno rilasciati fino a 100 permessi di ingresso in Gerusalemme Est a persone di età superiore a 55 anni, e fino a 300 permessi a “gruppi speciali”.

Continua il calo delle demolizioni e delle confische nell’Area C ed in Gerusalemme Est. Registrato un solo caso nella zona di Beit Hanina, a Gerusalemme Est: per mancanza del permesso di costruzione rilasciato da Israele, una famiglia palestinese è stata costretta a demolire un ampliamento della propria casa; sono stati sfollati tre minori e sono stati colpiti i mezzi di sussistenza di altre tre.

Il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è rimasto chiuso in entrambe le direzioni durante l’intero periodo di riferimento. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah. Il valico è stato ultimamente aperto eccezionalmente il 9 maggio, portando a 16 il numero di giorni di apertura nel 2017.

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Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Testo integrale della risoluzione dell’Unesco del 1 maggio 2017 sui “Territori occupati”.

testo inglese:

1 maggio 2017

Nota redazionale: il primo maggio 2017 il comitato esecutivo dell’UNESCO ha approvato una risoluzione, di cui riportiamo di seguito la traduzione, in cui si condannano le politiche israeliane riguardo al patrimonio culturale e religioso nei territori palestinesi occupati, comprese Gerusalemme est e Gaza.

In questo caso il testo acquista una particolare rilevanza perché, nonostante sia stato modificato e moderato rispetto a quello votato nel 2016, il rappresentante dell’Italia, interrompendo la tradizionale astensione su questi argomenti, ha votato contro il testo. Il ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Angelino Alfano ha motivato così questa decisione: “La nostra opinione e’ molto chiara: l’Unesco non può diventare la sede di uno scontro ideologico permanente in cui affrontare questioni per le cui soluzioni sono deputate altre sedi. Coerentemente con quanto dichiarato a ottobre noi, dunque, voteremo contro la risoluzione, sperando che questo segnale molto chiaro venga ben compreso dall’Unesco”. Ad ottobre infatti l’Italia si era astenuta. Il testo della risoluzione evidenzia quanto le affermazioni di Alfano siano pretestuose ed ignorino la funzione eminentemente politica che Israele attribuisce ai beni artistici e culturali, ed in particolare all’archeologia, nei territori palestinesi occupati. Come più volte affermato prima dal governo Renzi e poi da quello Gentiloni, il nostro Paese si dimostra sempre più prono alle posizioni politiche del governo israeliano.

Oltre all’Italia, hanno votato “no” altri nove Paesi: Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda, Lituania, Grecia, Paraguay, Ucraina, Togo e Germania.

Ventidue Paesi hanno votato a favore: Russia, Cina, Brasile, Svezia, Sud Africa, Iran, Malaysia, Mauritius, Nigeria, Senegal, Bangladesh, Pakistan, Vietnam, Nicaragua, Chad e sette Paesi arabi.

Ventitré Paesi si sono astenuti: Francia, Spagna, Slovenia, Estonia, India, Argentina, Messico, Giappone, Haiti, Repubblica Dominicana, Saint Kitts, Kenya, Trinidad, Albania, Camerun, Costa d’Avorio, Ghana, Mozambico, Uganda, El Salvador, Corea del sud e Sri Lanka.

Tre Paesi non hanno partecipato al voto: Nepal, Serbia e Turkmenistan.

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Presentata da: Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan

Il comitato esecutivo

,1. Avendo esaminato il documento 201 EX/30

2. Richiamandosi alle disposizioni della Quarta Convenzione di Ginevra (1949) ed ai suoi protocolli aggiuntivi (1977), alle Convenzioni dell’Aja del 1907 su leggi ed usi della guerra terrestre e per la protezione del patrimonio culturale in caso di conflitto armato (1954) ed i suoi protocolli addizionali, alla Convenzione sui mezzi per proibire e impedire l’importazione, l’esportazione e il trasferimento illeciti di proprietà di beni del patrimonio culturale (1970) e alla Convenzione per la protezione del Patrimonio mondiale culturale e naturale (1972), all’inserimento della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura nell’elenco del Patrimonio dell’Umanità su richiesta della Giordania (1981) e nella lista del Patrimonio Mondiale in Pericolo (1982) e alle raccomandazioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO riguardo alla protezione del patrimonio culturale, così come a risoluzioni e decisioni dell’UNESCO riguardo a Gerusalemme, richiamando anche precedenti decisioni dell’UNESCO riguardo alla ricostruzione ed allo sviluppo di Gaza come anche a decisioni dell’UNESCO sui due siti palestinesi ad Al-Khalil/Hebron e a Betlemme,

3. Affermando che niente nella presente decisione, che intende, tra l’altro, salvaguardare il patrimonio culturale della Palestina e il carattere particolare di Gerusalemme est, può in alcun modo incidere sulle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e delle Nazioni Unite e su decisioni riguardo allo status legale della Palestina e di Gerusalemme in materia, compresa la risoluzione 2334 (2016) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite,

30.I Gerusalemme

4. Riaffermando l’importanza della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura per le tre religioni monoteiste,

5. Ricordando che ogni misura ed azione legislativa ed amministrativa presa da Israele, la potenza occupante, che abbia alterato o abbia la pretesa di alterare il carattere e lo status della Città Santa di Gerusalemme, e in particolare la “legge fondamentale” su Gerusalemme, non ha alcuna validità e deve essere immediatamente revocata,

6. Ricordando ancora una volta le 11 decisioni del comitato esecutivo: 185 EX/Decision 14, 187 EX/Decision 11, 189 EX/Decision 8, 190 EX/Decision 13, 192 EX/Decision 11, 194 EX/Decision 5.D, 195 EX/Decision 9, 196 EX/Decision 26, 197 EX/Decision 32, 199 EX/Dec.19.1, 200 EX/Decision 25 e le sette decisioni del Comitato per il Patrimonio dell’Umanità: 34 COM/7A.20, 35 COM/7A.22, 36 COM/7A.23, 37 COM/7A.26, 38 COM/7A.4, 39 COM/7A.27, 40 COM/7A.13,

7. Lamenta che le autorità israeliane occupanti non abbiano interrotto i lavori ed i progetti di scavo, anche di tunnel, a Gerusalemme est, soprattutto all’interno ed attorno alla Città Vecchia di Gerusalemme, che sono illegali dal punto di vista delle leggi internazionali, e rinnova la propria richiesta ad Israele, la potenza occupante, di proibire tutte le violazioni che non sono conformi a quanto previsto dalle convenzioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO a questo proposito;

8. Lamenta inoltre il rifiuto israeliano di mettere in pratica la richiesta dell’UNESCO al Direttore generale perché nomini un rappresentante permanente che risieda stabilmente a Gerusalemme est per informare regolarmente su ogni aspetto riguardante il campo di pertinenza dell’UNESCO a Gerusalemme est, e rinnova la propria richiesta al Direttore generale perché nomini il prima possibile il summenzionato rappresentante;

9. Sottolinea di nuovo la necessità urgente di realizzare la missione di monitoraggio reattivo dell’UNESCO della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura, e invita il Direttore generale ed il Centro per il Patrimonio dell’Umanità ad esercitare ogni possibile azione, in linea con il loro mandato e in conformità con le indicazioni delle convenzioni, decisioni e risoluzioni dell’UNESCO in merito, per garantire l’immediata realizzazione della missione e, nel caso di una sua mancata attuazione, per proporre possibili misure efficaci per garantirla;

30.II Ricostruzione di Gaza

10. Deplora gli scontri militari all’interno ed attorno alla Striscia di Gaza e le vittime civili provocate, così come il costante impatto negativo nei campi di competenza dell’UNESCO, gli attacchi contro scuole ed altre strutture educative e culturali, comprese le violazioni dell’intangibilità delle scuole dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e gli interventi per i profughi palestinesi in Medio Oriente (UNRWA);

11. Deplora inoltre il continuo blocco israeliano della Striscia di Gaza, che danneggia il libero e sostenibile movimento di personale, studenti e beni per il soccorso umanitario e chiede ad Israele di attenuare immediatamente questo blocco;

12. Ringrazia il Direttore generale per le iniziative già messe in atto a Gaza nel campo dell’educazione, della cultura e della gioventù e per l’incolumità degli operatori dell’informazione, gli chiede di proseguire nel suo attivo coinvolgimento nella ricostruzione delle strutture educative e culturali di Gaza danneggiate e ripete, a questo proposito, la sua richiesta di rafforzare l’Antenna UNESCO a Gaza e di organizzare al più presto un incontro informativo sull’attuale situazione a Gaza nei settori di competenza dell’UNESCO e sui risultati dei progetti svolti dall’UNESCO;

30.III I due siti palestinesi di Al-Haram Al-Ibrahimi/Tomba dei Patriarchi ad Al-Khalil/Hebron e della moschea Bilal Ibn Rabah/Tomba di Rachele a Betlemme

13. Riafferma che i due siti in questione, che si trovano ad Al-Khalil/Hebron e a Betlemme, sono parte integrante dei Territori Palestinesi Occupati e condivide la convinzione affermata dalla comunità internazionale che i due siti sono di importanza religiosa per l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam;

14. Deplora i continui scavi, lavori e costruzione di strade private per i coloni e di un muro all’interno della città vecchia di Al-Khalil/Hebron da parte israeliana, che sono illegali in base alle leggi internazionali e danneggiano l’autenticità e l’integrità del sito, e la conseguente negazione della libertà di accesso ai luoghi di preghiera, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di porre fine a tutte le violazioni che non sono in conformità con le disposizioni delle convenzioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO a questo proposito;

15. Lamenta l’impatto visivo del muro sul sito della moschea Bilal Ibn Rabah/Tomba di Rachele a Betlemme, così come il rigido divieto di accesso per i fedeli cristiani e musulmani palestinesi al sito, e chiede che le autorità israeliane ristabiliscano le caratteristiche originali del paesaggio attorno al sito e tolgano il divieto di accesso ad esso;

30. IV

16. Decide di includere questi argomenti sotto la voce denominata “Palestina Occupata” nell’ordine del giorno della sua 202esima sessione, e invita il Direttore generale a sottoporle un rapporto sui progressi compiuti in merito.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA 18 aprile – 1 Maggio 2017 (due settimane)

Alla data di chiusura del presente rapporto [1° maggio], la Centrale elettrica di Gaza non era ancora operativa; era ferma dal 17 aprile per esaurimento delle scorte di carburante.

Inoltre, dal 24 aprile, è stato sospeso l’approvvigionamento elettrico dall’Egitto, a causa di un guasto (ancora da riparare) alle linee. Con l’energia elettrica che arriva solo da Israele, i tagli di elettricità continuano ad essere di 20-22 ore al giorno; tali da sconvolgere gravemente le già precarie condizioni di vita della popolazione. Il 27 aprile, per evitare ulteriori peggioramenti, il Fondo Umanitario per i territori palestinesi occupati ha stanziato 500.000 dollari per l’acquisto di combustibile d’emergenza, in modo da garantire l’erogazione dei servizi essenziali negli ospedali ed in altri presìdi medici di emergenza.

Un aggressore palestinese è stato ucciso, mentre sei israeliani e tre sospetti aggressori palestinesi sono stati feriti durante uno speronamento con auto e quattro aggressioni e presunte aggressioni con coltello. Il 19 aprile, al raccordo stradale di Gush Etzion (Hebron), un palestinese di 21 anni ha guidato il suo veicolo contro un colono israeliano, ferendolo; è stato poi colpito ed ucciso dalle forze israeliane. Il 23 aprile, un giovane palestinese di Nablus, che aveva raggiunto la città di Tel Aviv con un regolare permesso di visita, ha pugnalato e ferito quattro israeliani; successivamente anch’egli è stato colpito e ferito con armi da fuoco. Secondo quanto riportato dai media israeliani, dopo l’episodio le autorità israeliane hanno bloccato un certo numero di permessi dello stesso tipo. Il 24 aprile, al checkpoint di Qalandia (Gerusalemme), una donna palestinese ha pugnalato e ferito una soldatessa israeliana ed è stata successivamente arrestata. In due episodi distinti, verificatisi il 25 e il 26 aprile nei pressi del checkpoint di Huwwara (Nablus), due cugini palestinesi, uno dei quali 17enne, hanno tentato di accoltellare soldati israeliani e sono stati colpiti e feriti; non sono stati segnalati feriti israeliani.

In Cisgiordania 191 palestinesi, di cui 45 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane; la stragrande maggioranza degli scontri si sono avuti durante le manifestazioni in solidarietà con i prigionieri palestinesi in sciopero della fame (vedi più avanti). Dall’inizio del 2017, questo è il numero più elevato di feriti registrati nell’arco di due settimane. Almeno il dieci per cento di questi feriti sono stati causati da armi da fuoco, mentre la maggior parte dei rimanenti sono da attribuire a proiettili di gomma o ad inalazione di gas lacrimogeno. Il maggior numero di feriti palestinesi è stato segnalato durante le manifestazioni a Sabastiya, Beita (entrambi a Nablus) e presso il checkpoint di Beit El / DCO (Ramallah). Nel corso di nove operazioni di ricerca-arresto sono stati registrati venticinque feriti.

Il 17 aprile, più di 1.000 prigionieri palestinesi, detenuti nelle carceri israeliane, hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le loro condizioni di detenzione. Alla data di chiusura di questo rapporto lo sciopero era ancora in corso. Le loro richieste includono la fine delle pratiche di isolamento e di detenzione amministrativa (detenzione senza imputazione o processo), l’incremento della frequenza e della durata delle visite dei familiari, un miglioramento delle cure mediche.

Nella Striscia di Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 23 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento; non sono stati segnalati feriti, ma, secondo quanto riferito, il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto. Nel contesto dell’applicazione delle restrizioni di accesso al mare imposte da Israele, due pescatori sono stati arrestati dalle forze navali israeliane e la loro barca è stata sequestrata.

È stato riferito che il 27 aprile, ad est di Deir al Balah, un gruppo armato palestinese ha aperto il fuoco contro forze israeliane in pattugliamento lungo la recinzione; non sono stati segnalati feriti. Dopo di ciò, le forze israeliane hanno lanciato una serie di granate verso un sito militare di Hamas; sono stati riferiti danni al sito, ma non feriti.

Nove palestinesi, tra cui una donna, sono stati feriti e oltre 100 alberi sono stati dati alle fiamme in separati episodi che coinvolgono coloni israeliani. Otto dei suddetti palestinesi sono stati feriti in quattro diversi episodi di lancio di pietre vicino ai villaggi di Huwwara e Urif (Nablus). Sempre a Nablus, un contadino palestinese è stato fisicamente aggredito e ferito da coloni israeliani nei pressi del villaggio di Deir Sharaf. Coloni israeliani hanno inoltre incendiato più di 100 alberi in Al Fureidis (Betlemme) e un ricovero per animali a Deir Dibwan (Ramallah).

Secondo i resoconti di media israeliani, nei pressi di Ramallah, Betlemme e Gerusalemme, tre coloni israeliani sono stati feriti e almeno otto veicoli sono stati danneggiati in diversi episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie ad opera di palestinesi.

In Cisgiordania, per la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito nove strutture palestinesi. Otto di queste strutture, tra cui una abitazione, erano a Gerusalemme Est (Al Isawiya e Jabal al Mukabbir), la rimanente struttura si trovava presso la Comunità di Jabal al Baba, nell’Area C del governatorato di Gerusalemme; si trattava di un rifugio fornito come aiuto umanitario conseguente ad una precedente demolizione. Nel complesso, 14 palestinesi sono stati sfollati ed altri 19 hanno subito danni.

In due occasioni, per consentire esercitazioni militari, le forze israeliane hanno sfollato, per diverse ore ciascuna volta, 12 famiglie della Comunità pastorale di Khirbet ar Ras al Ahmar, nella Valle del Giordano settentrionale. Tuttavia, secondo i rappresentanti della Comunità, in realtà non si è tenuta alcuna esercitazione. Le autorità israeliane hanno inoltre sequestrato un trattore, con la motivazione che lo stesso era stato utilizzato per una costruzione non autorizzata. Negli ultimi anni, la Comunità ha dovuto far fronte a periodiche demolizioni e restrizioni negli spostamenti; fatti che hanno dato origine a preoccupazioni legate al rischio di trasferimento forzato.

Le autorità israeliane, contestando la violazione di norme ambientali, hanno sequestrato 45 tonnellate di legname presso due laboratori che producono carbone, localizzati in una zona dell’Area B di pertinenza del villaggio di Ya’bad (Jenin) [Area B è la parte della Cisgiordania (circa il 23%) nella quale, in base agli Accordi di Oslo (1993), la gestione degli affari civili spetta all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), mentre la gestione della sicurezza spetta ad Israele]. Di conseguenza, è stata colpita la fonte di sostentamento di tre famiglie e di sei lavoratori. Inoltre, accanto al villaggio di Bardala, nella valle del Giordano settentrionale, le autorità israeliane hanno chiuso e danneggiato otto distinti allacciamenti alla rete idrica, motivando il provvedimento con il fatto che gli stessi non erano stati autorizzati. Di conseguenza, è stata impedita l’irrigazione di oltre 250 ettari di terreno agricolo.

Dal 30 aprile al 2 maggio, durante le festività israeliane, le autorità israeliane hanno rafforzato la chiusura della Cisgiordania e di Gaza, impedendo anche ai possessori di permessi l’entrata in Israele ed in Gerusalemme Est; fanno eccezione i lavoratori umanitari, gli organismi internazionali e i titolari di permessi di ricongiungimenti familiari. È stato chiuso anche il valico per le merci di Kerem Shalom tra Israele e Gaza.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, durante le due settimane di riferimento è rimasto chiuso in entrambe le direzioni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah. Nel 2017 il valico di Rafah è stato aperto eccezionalmente solo per 12 giorni; l’ultima volta il 9 marzo.

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Ultimi sviluppi

Il 3 maggio Israele ha ampliato, da sei a nove miglia marine, la zona di pesca lungo la costa meridionale di Gaza; provvedimento valido fino al 7 giugno.

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Ecco come Israele gonfia [i dati] della propria maggioranza ebraica

Editoriale Haaretz| 30 Aprile, 2017

Il rapporto annuale dell’Ufficio di statistica riguardo alla popolazione è un ridicolo esempio di propaganda che comprende i coloni ma non tutti i palestinesi sotto il controllo di Israele

Ogni anno prima del giorno dell’indipendenza, l’Ufficio centrale di Statistica pubblica a ridosso della festa un rapporto che inizia con i dati della popolazione israeliana per poi affrontare diversi parametri demografici ed economici come esempio dello sviluppo dello Stato e dei suoi risultati. Quest’anno l’ufficio ha registrato 8.68 milioni di persone residenti in Israele, dei quali il 74,7% sono ebrei, il 20,8% sono arabi e i rimanenti sono “altri” (principalmente cristiani non arabi). Questa è la dimostrazione numerica del successo sionista nella costruzione di uno Stato a forte maggioranza ebraica, che è presente in una pubblicazione ufficiale di un’agenzia professionale autorizzata.

Ma la pubblicazione dell’Ufficio centrale di Statistica è ingannevole e comprende molte imprecisioni e manipolazioni che la trasformano da un arido rapporto statistico a un ridicolo atto di propaganda.

Cominciamo con il numero degli abitanti israeliani.

L’Ufficio registra gli ebrei [presenti] in tutti i territori dal fiume Giordano al Mediterraneo sotto il proprio controllo. Ma prende in considerazione solamente gli arabi presenti nei territori prima dei confini del ’67, a Gerusalemme Est e sulle Alture del Golan. Milioni di palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sono lasciati fuori. Così i coloni di Hebron sono residenti in Israele e sono compresi nella statistica , mentre i loro vicini palestinesi non lo sono.

La questione non consiste nel fatto che l’Ufficio ignori quanti siano i palestinesi che abitano nei territori. Israele controlla il registro dell’anagrafe della Autorità Nazionale Palestinese della Cisgiordania e perfino quello della Striscia di Gaza. Ogni nascita, viaggio, matrimonio, divorzio o decesso dei palestinesi dei territori vengono registrati dalle autorità israeliane. Si possono pubblicare dati completi della popolazione sotto il controllo diretto e indiretto di Israele, una popolazione che paga con gli stessi shekel ed è legata alle medesime infrastrutture. Ma allora la maggioranza ebraica si ridurrebbe in modo sorprendente, rovinando la festa della Giornata dell’Indipendenza.

L’espediente si accentua quando l’Ufficio centrale di Statistica rappresenta il territorio dello Stato 69enne. La mappa della pubblicazione ufficiale mostra Israele con le Alture del Golan, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, senza i confini interni come i confini precedenti al ’67, le linee di separazione degli Accordi di Oslo o quelle del disimpegno da Gaza – tutta l’Eretz Israel. Invece nel rapporto la superficie dello Stato, 22,072 kmq , non comprende la Cisgiordania e Gaza.

Allora queste aree fanno parte o no di Israele? I coloni sono compresi nelle statistiche nazionali mentre il territorio delle colonie non lo è? I coloni vivono in cielo?

La manipolazione dei dati non è un trucco nuovo. L’Ufficio centrale di statistica ha incluso i coloni quali residenti di Israele fin dal 1972, quando Golda Meir era primo ministro. Fino a oggi tutti gli esperti governativi di statistica si sono prestati all’ingannevole conteggio differenziato degli ebrei e degli arabi, anche se la legge esige loro di agire “in base a considerazioni scientifiche”.

L’attuale capo dell’ufficio, Prof. Danny Pfeffermann, ha ricevuto l’anno scorso un’onorificenza: il suo titolo è stato elevato a “ Statistico nazionale”. È un peccato che egli abbia prestato il suo prestigio professionale a un tentativo di propaganda governativa volto a mostrare una larga maggioranza ebraica e a cancellare i palestinesi dalla nostra coscienza, apparentemente in nome della scienza.

L’articolo di cui sopra è l’editoriale principale di Haaretz come è stato pubblicato nelle edizioni in lingua ebraica e inglese in Israele.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




E’ stato ricordato ai contadini palestinesi che vincere in un tribunale israeliano non è sufficiente per avere giustizia

Amira Hass – 30 aprile 2017 Haaretz

In Cisgiordania sono esclusi dalla loro stessa terra mentre l’esercito israeliano non fa rispettare gli ordini del tribunale.

A Moshe Ben-Zion Moskowitz, della colonia di Shiloh in Cisgiordania, è stato chiesto in tribunale se, quando nel 1980 ha iniziato a coltivare un terreno nella giurisdizione del villaggio palestinese di Qaryut, egli ne era proprietario. Per due volte ha risposto che il proprietario del terreno era Dio. Ma l’avvocato Jiat Nasser ha continuato a insistere sul fatto se egli personalmente fosse proprietario della terra, e alla fine Moskowitz ha risposto: “Non io personalmente, ma il popolo ebraico.”

Allora Nasser ha chiesto una spiegazione: “E’ vero che lei non ha comprato la terra?” Moskowitz ha risposto: “E’ la terra del popolo ebraico.”

Ma né Dio né il popolo ebraico hanno aiutato Moskowitz nella causa che ha intentato nel 2010 contro l’amministrazione locale di Qaryut e contro alcuni dei suoi abitanti. La corte non ha accettato la Bibbia come contratto di acquisto.

Moskowitz aveva chiesto alla corte di impedire ai convenuti palestinesi di molestarlo, secondo lui, attraverso denunce alla polizia in merito a sconfinamenti e ai tentativi di coltivare quella stessa terra. Per 30 anni, si è lamentato, egli aveva lavorato la terra senza alcun problema, finché a metà 2007 è arrivato il rabbino Arik Ascherman (allora di “Rabbini per i Diritti Umani”, ora di “Haqel – Ebrei e Arabi in Difesa dei Diritti Umani”) e ha chiesto le prove del suo diritto di proprietà.

Gli ho fatto vedere la Bibbia. Siamo tornati alla nostra terra,” ha detto Moskowitz alla corte nel dicembre 2010.

Ma dopo un’estenuante battaglia legale il giudice Miriam Lifshits nell’aprile 2016 ha deciso che Moskowitz non aveva dimostrato di aver lavorato la terra continuativamente dal 1980, e neppure nei 10 anni precedenti la presentazione della causa. Al contrario, i convenuti hanno provato i propri legami con la terra e che la stavano utilizzando; Lifshits non ha trovato alcuna prova che la terra fosse lasciata incolta quando Moskowitz se ne è impossessato. Non ha mai consegnato alla corte i documenti che aveva promesso; quello che ha detto alla polizia era in contraddizione con quello che ha detto alla corte, e i suoi testimoni lo hanno contraddetto.

Ma anche se la Bibbia e il popolo ebraico lo hanno tradito, le istituzioni che devono far rispettare la legge – la polizia, l’esercito e l’amministrazione civile di Israele in Cisgiordania – non lo hanno fatto. Un anno dopo la sentenza del giudice, non hanno mosso un dito per togliere di mezzo le serre che Moskowitz ha costruito sulla terra mentre la causa era in tribunale. E questa settimana il colonnello Yuval Gez, comandante della brigata “Binyamin”, ha vietato ai proprietari legali della terra di entrarvi per la prima volta dal 2007.

Il loro avvocato, Kamer Mashraqi-Assad, ha chiesto per un anno all’esercito di scortare i proprietari alla loro terra. E’ vero, non si trova in un’area in cui l’esercito richiede una scorta militare per paura dei coloni, ma, come hanno testimoniato i contadini in tribunale, in passato sono stati oggetto di minacce e violenze.

I coloni “arrivano là con i loro fucili e i loro cani e noi non abbiamo il potere di affrontarli,” ha detto Tareq Odeh di Qaryut alla corte nel dicembre 2010. “Ho due terreni a cui non posso accedere per paura dei coloni.”

Moskowitz, ha continuato, “è armato. Se dovesse sparare a cinque di noi, nessuno gliene chiederebbe conto. Ma se uno di noi lanciasse una pietra contro di lui, nessuno di noi avrebbe scampo.” Odeh è morto un anno fa, per cui non è arrivato ad ascoltare il verdetto della corte.

La scorsa settimana l’ufficio di collegamento dell’esercito ha detto a Mashraqi-Assad che per martedì era stata predisposta una scorta per i contadini. E’ vero, era solo per un giorno, ma hanno atteso eccitati di tornare alla loro terra.

Ma lunedì notte Mashraqi-Assad ha detto loro che l’esercito si era rimangiato la parola. Gez, il comandante di brigata, non aveva intenzione di fornire la scorta, perché c’erano in giro dei coloni.

Martedì mattina Haaretz ha chiesto al portavoce dell’unità dell’esercito israeliano se Gez ha paura della violenza dei coloni o se si identifica con il loro obiettivo di impossessarsi della terra e di cacciare la popolazione che ha la proprietà della terra da prima della fondazione di Israele nel 1948. Mercoledì sera l’unità ha risposto che la scorta era stata inizialmente approvata, “anche se la zona non richiede questo tipo di procedura. Ma durante l’ispezione preliminare dell’area il giorno precedente la data concessa per entrare nel terreno, abbiamo scoperto che l’appezzamento contiene serre agricole che non sono di proprietà di chi ha fatto la richiesta, e quindi di fatto non può essere coltivato. Abbiamo deciso di rimandare la data convenuta per lavorare il terreno in modo che questo problema possa essere esaminato dai professionisti competenti. Una risposta a questa questione verrà fornita rapidamente.”

Pascolare il bestiame

Le autorità hanno anche consentito ai coloni di invadere terra di proprietà privata palestinese nel nordest della Cisgiordania, nei pressi di Tubas e Bardala, vietando al contempo l’ingresso ai pastori palestinesi, in spregio a sentenze giudiziarie.

Qualche decennio fa la parte della valle del Giordano settentrionale tra il muro di confine e il fiume Giordano era preclusa da una recinzione militare ai palestinesi che la possedevano e la lavoravano. I coloni hanno sfruttato questa situazione per impossessarsi di oltre 5.000 dunam (500 ettari) di terra di proprietà privata, con l’avallo delle autorità.

Una petizione dell’avvocato Tawfiq Jabareen all’Alta Corte di Giustizia ha portato alla cancellazione dell’ordine all’inizio del 2016. Anche se i coloni stanno ancora coltivando parte di questa terra, la cancellazione dell’ordine ha consentito almeno ai pastori palestinesi di riprendere ad abbeverare il loro bestiame alla sorgente Ein Saqut.

Tuttavia lunedì personale della polizia e dell’amministrazione civile ha vietato ai pastori palestinesi di abbeverarvi le loro mucche. E’ risultato che qualche giorno prima mandrie di mucche “ebraiche” avevano occupato il luogo.

Erano state portate lì da un avamposto illegale costruito all’inizio di gennaio al confine della riserva naturale di Umm Zuqa, non lontano dalla base militare dove si trova il battaglione di soldati ultra-ortodossi. Nonostante gli ordini emanati contro l’avamposto di interrompere i lavori, questo continua ad espandersi e i suoi residenti stanno cercando di cacciare i pastori palestinesi dai loro pascoli.

Due settimane fa l’organizzazione “Machsom Watch” [associazione di donne israeliane che si oppongono all’occupazione, ndt.] ha scoperto che l’avamposto si rifornisce d’acqua grazie a un collegamento illegale alla vicina base. Dopo una verifica, il portavoce dell’unità dell’esercito lo ha confermato, aggiungendo che i comandanti non avevano la minima idea che ciò stesse accadendo, e che le istituzioni che devono far applicare la legge stanno indagando. Che si sia trattato di una coincidenza o meno, la mandria di vacche si è spostata allora a Ein Saqut.

Mercoledì quattro soldati hanno ordinato ai pastori palestinesi di andarsene e di non avvicinarsi alle mucche dei coloni. Ma quando le attiviste di “Machsom Watch” sono arrivate “i soldati hanno cambiato tono e hanno lasciato che i pastori rimanessero lì con il loro bestiame, ma non che si avvicinassero alla sorgente,” ha detto una di loro, Daphne Banai. “Hanno sostenuto che era una riserva naturale ed alle mucche era proibito entrarvi.

Ma quando i soldati se ne sono andati ho visto i coloni condurre le loro vacche alla sorgente.”

Haaretz ha chiesto al coordinatore delle Attività del Governo nei Territori, al distretto di polizia di Shai (Cisgiordania) e al portavoce dell’unità dell’esercito se sapessero del bestiame che si trovava su un terreno di proprietà privata palestinese, e se vietare la sorgente ai pastori palestinesi e alle loro mandrie fosse un incidente isolato o una politica deliberata. Al momento della stesura di questo articolo non è arrivata nessuna risposta.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA 4-18 aprile 2017 (due settimane)

Un soldato israeliano e una donna britannica sono stati uccisi in due distinte aggressioni attuate da palestinesi.

Il 6 aprile, un palestinese di 22 anni ha guidato la sua auto contro soldati israeliani che stazionavano alla fermata del bus presso l’insediamento colonico di Ofra (Ramallah): un soldato è rimasto ucciso ed un secondo ferito. L’autore dell’aggressione è stato arrestato dalle forze israeliane. Questi episodi portano a cinque, dall’inizio del 2017, il numero di israeliani (tutti soldati) uccisi da palestinesi. Sempre il 14 aprile, vicino alla città vecchia di Gerusalemme, un palestinese di 57 anni, a quanto riferito affetto da problemi psichiatrici, ha accoltellato e ucciso una studentessa britannica di 21 anni che viaggiava sulla metropolitana. L’uomo è stato arrestato.

Il 10 aprile, un ragazzo palestinese di 17 anni è morto per le ferite riportate il 23 marzo presso il Campo profughi di Al Jalazun (Ramallah), dove fu colpito dal fuoco delle forze israeliane, aperto a seguito del lancio di bottiglie incendiarie contro l’insediamento colonico di Beit El. In quello stesso contesto un minore palestinese fu ucciso e altri due palestinesi furono feriti.

In Cisgiordania, in diversi scontri, le forze israeliane hanno ferito complessivamente 46 palestinesi, di cui undici minori. La maggior parte dei ferimenti sono avvenuti in Kafr Qaddum (Qalqiliya) durante le manifestazioni settimanali contro il divieto, per i residenti, di utilizzare la strada principale che collega il villaggio alla città di Nablus; il divieto è dovuto al fatto che la strada attraversa l’insediamento colonico di Qedumim. Sono stati segnalati altri scontri avvenuti nel corso di cinque operazioni di ricerca-arresto e del funerale del ragazzo ferito nel Campo profughi di Al Jalazun e successivamente deceduto [vedi sopra].

Il 17 aprile, l’unica Centrale elettrica di Gaza, avendo esaurito le riserve di carburante, è stata costretta al fermo completo. Questo è avvenuto nel contesto di una controversia in corso tra le autorità palestinesi di Gaza e le autorità di Ramallah sulle questioni relative ai pagamenti e alla tassazione dei carburanti. Il fermo della Centrale elettrica ha aumentato, fino a 20 ore al giorno, le sospensioni giornaliere di energia elettrica in tutta la Striscia di Gaza. Ciò pregiudica ulteriormente la fornitura dei servizi di base, inclusa l’attività delle strutture sanitarie; infatti è ridotto al minimo il livello delle dotazioni di combustibile di emergenza, necessario a gestire i generatori di riserva.

Sempre nella Striscia di Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 26 casi le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento; non è stato segnalato alcun ferito, ma è stato riferito che il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto. In quattro occasioni le forze israeliane sono penetrate all’interno della Striscia ed hanno svolto operazioni di spianatura e scavo a ridosso della recinzione perimetrale. Inoltre, sei civili palestinesi sono stati arrestati dalle forze israeliane e altri tre dalla polizia locale di Gaza; presumibilmente mentre tentavano di entrare illegalmente in Israele.

In Cisgiordania, a causa della mancanza di permessi di costruzione (per i palestinesi quasi impossibili da ottenere), le autorità israeliane hanno demolito 20 strutture di proprietà palestinese. Dodici di queste strutture erano in Gerusalemme Est, le altre otto in due comunità dell’area C (Rantis e Furush Beit Dajan). Nel complesso, 56 palestinesi sono stati sfollati e altri 33 hanno subìto danni.

Due palestinesi sono stati feriti e oltre 200 alberi sono stati vandalizzati nel corso di diversi episodi che coinvolgono coloni israeliani. Nella città di Hebron, nella zona H2, controllata da Israele, una ragazza palestinese di 14 anni è stata fisicamente aggredita e ferita da coloni mentre si recava a scuola. Vicino a Salfit, una donna palestinese è stata ferita dalle pietre lanciate da coloni israeliani contro il suo veicolo. Gli agricoltori del villaggio Mikhmas (Gerusalemme) hanno riferito che 215 dei loro ulivi sono stati sradicati; essi attribuiscono l’azione vandalica a coloni israeliani del confinante insediamento avamposto di Migron.

Durante il periodo di riferimento, in varie circostanze, in concomitanza con le celebrazioni della Pasqua, coloni israeliani e altri gruppi israeliani sono entrati in vari luoghi religiosi provocando alterchi e scontri con palestinesi, senza tuttavia causare feriti. I siti interessati includevano il Complesso Al Haram Ash Sharif / Monte del Tempio a Gerusalemme Est, un santuario nel villaggio Kifl Haris (Salfit) e la Tomba di Giuseppe nella città di Nablus.

Secondo i mezzi di informazione israeliani, diversi episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie, ad opera di palestinesi contro veicoli israeliani, hanno causato il ferimento di tre coloni israeliani e danni ad almeno dieci veicoli. Sulla Strada n°1, vicino a Gerico, un altro veicolo israeliano ha subito danni da arma da fuoco.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, durante le due settimane di riferimento è rimasto chiuso in entrambe le direzioni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah. Nel 2017 il valico di Rafah è stato aperto eccezionalmente solo per 12 giorni [a tutt’oggi].

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Ultimi sviluppi

Secondo quanto riportato da mezzi di informazione israeliani, il 19 aprile, al raccordo stradale Gush Etzion (Hebron), un palestinese ha guidato il suo veicolo contro un colono israeliano, ferendolo. L’investitore è stato colpito con arma da fuoco e ucciso dalle forze israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Rapporto OCHA 21 marzo – 3 aprile 2017 ( due settimane)

Tre aggressioni con coltello hanno provocato l’uccisione di due palestinesi e il ferimento di quattro israeliani.

Il 29 marzo, nella Città Vecchia di Gerusalemme è stata colpita con arma da fuoco ed uccisa una donna palestinese di 49 anni che avrebbe tentato di accoltellare un poliziotto israeliano di frontiera: non sono stati segnalati feriti israeliani e sull’episodio le autorità israeliane hanno avviato un’indagine. Sempre nella Città Vecchia, il 1° aprile, un 17enne palestinese ha accoltellato e ferito un poliziotto israeliano e due giovani israeliani ed è stato successivamente colpito ed ucciso. Secondo fonti israeliane, il 27 marzo, nella città israeliana di Lod, un giovane palestinese della città di Halhul (Hebron) ha accoltellato e ferito una donna israeliana ed è stato successivamente arrestato. Questi episodi portano a 12, dall’inizio del 2017, il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane nel corso di attacchi e presunti attacchi.

Altri due ragazzi palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane in due distinti episodi verificatisi vicino a Ramallah e ad est di Rafah (Gaza). Il primo si è verificato il 17 marzo, nei pressi di una torre di guardia militare vicina al Campo profughi di Al Jalazun; le forze israeliane hanno colpito con arma da fuoco ed ucciso un 17enne palestinese e ferito altri tre ragazzi: secondo fonti militari israeliane, la sparatoria ha avuto luogo in risposta al lancio di bottiglie incendiarie contro l’insediamento colonico di Beit El, nel quale non erano stati segnalati danni né feriti. Nel secondo caso, il 21 marzo, le forze israeliane hanno sparato proiettili di carro armato in direzione di uno spazio aperto ad est della città di Rafah, a circa 300 metri dalla recinzione perimetrale: un civile palestinese di 16 anni è stato ucciso ed un secondo è stato ferito; le circostanze dell’episodio non sono ancora chiare.

In Cisgiordania, in numerosi scontri le forze israeliane hanno ferito complessivamente 124 palestinesi, 14 dei quali minori, con un incremento significativo rispetto ai dati registrati dall’inizio del 2017. La maggior parte dei ferimenti si sono avuti durante scontri contestuali alle manifestazioni che commemoravano il 41° anniversario della “Giornata della Terra” che, per i cittadini palestinesi di Israele, rievoca un esproprio di massa di terra palestinese. Altri scontri sono stati segnalati nel corso di molteplici operazioni di ricerca-arresto; al funerale del ragazzo ucciso nel Campo profughi di Al Jalazun [vedi sopra] e durante scontri in varie località dei governatorati di Gerusalemme e Ramallah. A quanto riferito, quattro soldati israeliani sono stati feriti da pietre.

Dopo l’uccisione di un membro di Hamas avvenuta ad opera di ignoti il 24 marzo a Gaza City, le autorità palestinesi de facto di Gaza hanno imposto severe restrizioni di accesso, adducendo motivi di sicurezza. Le uscite attraverso il checkpoint ‘Arba-‘Arba – che controlla l’accesso al valico di Erez tra Gaza e Israele – è stato particolarmente colpito; in tal modo si è ridotto ulteriormente il numero di persone, già esiguo a causa di preesistenti restrizioni imposte da Israele, alle quali è consentita l’uscita. A partire dal 4 aprile, più di 100 pazienti che avevano prenotazioni per cure mediche da effettuare fuori Gaza hanno perso i loro appuntamenti e le relative prestazioni sanitarie e dovranno richiedere nuovamente un permesso di uscita, senza alcuna garanzia di accoglimento e con il possibile rischio di un peggioramento delle loro condizioni di salute. Alla maggior parte del personale delle Organizzazioni umanitarie è stata vietata l’uscita da Gaza attraverso Erez; tuttavia, dal 1° aprile, è stato consentito l’attraversamento al personale internazionale impiegato presso le Nazioni Unite e l’ICRC [Comitato Internazionale della Croce Rossa].

Nello stesso contesto, dal 26 marzo, le autorità de facto impediscono l’accesso dei pescatori palestinesi al mare lungo la costa di Gaza. Il Sindacato dei Pescatori di Gaza ha stimato perdite di due o tre tonnellate di pesce al giorno, con conseguenti aumenti di prezzo del pesce importato. Queste restrizioni, giunte all’inizio della stagione della pesca delle sardine, compromettono ulteriormente i proventi della pesca, già precari per le restrizioni di accesso imposte da lunga data da Israele.

Prima dell’imposizione delle restrizioni da parte delle Autorità de facto, il valico di Erez sotto controllo israeliano era normalmente operativo, mentre il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, era chiuso. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

Sempre nella Striscia di Gaza, oltre all’episodio avvenuto ad est di Rafah [vedi sopra], nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 28 occasioni le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento o diretto, interrompendo il lavoro di agricoltori e pescatori. In due occasioni, le forze israeliane sono penetrate all’interno della Striscia ed hanno svolto operazioni di spianatura e scavo nei pressi della recinzione perimetrale ed hanno arrestato un civile palestinese che, presumibilmente, aveva tentato di entrare illegalmente in Israele.

In Cisgiordania, a causa della mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 17 strutture di proprietà palestinese, sfollando 22 palestinesi e colpendo i mezzi di sostentamento di oltre 90 persone. Cinque di queste strutture si trovavano a Gerusalemme Est e le restanti in cinque comunità dell’Area C. Inoltre, nella zona di Jabal al Mukabber di Gerusalemme Est, è stata sigillata punitivamente la casa di famiglia dell’aggressore che, nel mese di gennaio 2017, uccise quattro soldati israeliani: una donna ed i suoi quattro figli sono stati sfollati.

Nel governatorato di Nablus, per la creazione di un nuovo insediamento israeliano e la “legalizzazione” retroattiva di tre avamposti già esistenti, le autorità israeliane hanno dichiarato “terra di stato” vari appezzamenti di terreno non contigui, per un totale di quasi 100 ettari. Questa decisione può avere un impatto sull’accesso alla terra da parte degli agricoltori di quattro villaggi adiacenti (Sinjil, Qaryut, As Sawiya e Al Lubban Ash Sharqiya), compromettendo ulteriormente la loro capacità di sostentamento con il lavoro agricolo. Secondo la decisione del Governo israeliano, il nuovo insediamento servirà alla rilocalizzazione dei coloni recentemente evacuati dall’insediamento avamposto di Amona; la decisione prevede anche limitazioni alla futura espansione dell’insediamento.

In quattro distinti episodi, coloni israeliani armati hanno attaccato o minacciato contadini palestinesi, costringendoli ad uscire dai loro terreni posti in prossimità di insediamenti colonici. In uno di questi episodi, verificatosi vicino al villaggio di Beit Furik (Nablus), un contadino palestinese è stato aggredito fisicamente e ferito. Gli altri tre episodi comprendono minacce e intimidazioni nei confronti di agricoltori palestinesi che, a Nablus e Qalqiliya, possono accedere alla propria terra previo coordinamento ed autorizzazione delle autorità israeliane. Questo meccanismo ha lo scopo di garantire agli agricoltori, due volte l’anno, durante la stagione dell’aratura e durante il raccolto, l’accesso sicuro a zone soggette alla violenza dei coloni. Inoltre, tre veicoli palestinesi sono stati danneggiati da lanci di pietre da parte di coloni.

Secondo i media israeliani, quattro coloni israeliani, tra cui una donna, sono stati feriti e diversi veicoli sono stati danneggiati in almeno 13 episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: vicino a Gerusalemme, Ramallah, Hebron e Betlemme.

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Ultimi sviluppi (dal 6 aprile)

Mezzi di informazione riferiscono che le autorità de facto della Striscia di Gaza hanno giustiziato tre uomini palestinesi accusati di “collaborazione con Israele”.

Il Ministero degli Interni della Striscia di Gaza ha annunciato la revoca di tutte le restrizioni di accesso in vigore dal 26 marzo.

Mezzi di informazione riferiscono che un uomo palestinese ha guidato il suo veicolo contro una fermata del bus nei pressi dell’insediamento di Ofra (Ramallah), casando la morte di un soldato israeliano ed il ferimento di un altro; l’uomo è stato arrestato.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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“Pulizia etnica” di chi?: l’appropriazione israeliana della narrazione palestinese

Dina Matar, Al-Shabaka– 26 marzo 2017

Sintesi

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha recentemente sostenuto in un video postato sulla sua pagina Facebook che la richiesta palestinese di smantellare le colonie israeliane illegali nei Territori Palestinesi Occupati costituisce un atto di “pulizia etnica” contro i coloni ebrei israeliani. L’attribuzione di questo termine ai coloni da parte di Netanyahu ha colpito molti analisti ed ha creato un intenso dibattito sui media internazionali. Eppure questo discorso non è che l’esempio più recente di una strategia israeliana di appropriazione di una narrazione di vittimizzazione per sollecitare l’appoggio dell’opinione pubblica.

II primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha recentemente sostenuto in un video postato sulla sua pagina Facebook che la richiesta palestinese di smantellare le colonie israeliane illegali nei Territori Palestinesi Occupati (TPO) costituisce un atto di “pulizia etnica” contro i coloni ebrei israeliani (1). Il termine, che è stato originariamente utilizzato come un eufemismo durante la campagna serba contro i bosniaci, è rapidamente passato a descrivere pratiche estremamente violente, uccisioni di massa ed espulsioni forzate durante conflitti e guerre. E’ stato usato anche da molti studiosi, così come nel dibattito pubblico, in riferimento alle pratiche sioniste contro la popolazione palestinese immediatamente prima e durante la Nakba del 1948. Queste pratiche comprendono la distruzione di oltre 500 villaggi palestinesi e l’espulsione di circa 730.000 palestinesi dalle loro case.

L’attribuzione di questo termine ai coloni israeliani da parte di Netanyahu ha raccolto più di un milione di visualizzazioni sulla sua pagina Facebook, e ne ha portati altri milioni attraverso la ridiffusione del video su altre piattaforme dei social media. Ciò ha colpito molti analisti, ha creato un intenso dibattito nei media internazionali e ha portato ad una condanna di una personalità come l’allora segretario generale dell’ONU Ban ki-moon, che lo ha definito “inaccettabile e oltraggioso.” Eppure questo discorso, benché più provocatorio del solito, non è che l’ultimo esempio di una strategia israeliana di appropriazione di una narrazione della vittimizzazione per sollecitare l’appoggio dell’opinione pubblica.

Questo commento delinea la storia delle pretese israeliane di questa narrazione dalle prime campagne del movimento sionista all’inizio del XX secolo fino ad oggi. Puntualizza i modi in cui questa strategia retorica è stata utilizzata per giustificare le azioni dello Stato di Israele a danno dei palestinesi. Si conclude con suggerimenti su come dirigenti, intellettuali, giornalisti e attivisti palestinesi possono opporsi alla strategia israeliana di appropriazione per sostenere le loro richieste per l’autodeterminazione ed i diritti umani dei palestinesi.

Narrazioni della vittimizzazione nel loro contesto

In ogni conflitto gli attori fanno ricorso alle narrazioni di vittimizzazione per giustificare le aggressioni, le invasioni e persino l’uccisione di civili. Una tale retorica intende stabilire il dualismo tra bene e male, tra vittima e carnefice. Ciò mobilita sostenitori contro “il nemico”. Come vediamo con Israele e in altri conflitti, le narrazioni di vittimizzazione servono a legittimare azioni violente e spesso preventive contro “il nemico”, perpetuando indefinitamente il ciclo di violenza e vittimizzazione.

I politici israeliani utilizzano narrazioni che privilegiano la vittimizzazione ebraica rispetto alle vite ed i diritti dei palestinesi.

Al contrario, le narrazioni palestinesi di vittimizzazione si basano sull’ingiustizia insita nella dichiarazione Balfour del 1917 [in cui la Gran Bretagna si impegnava ad appoggiare la creazione di un “focolare ebraico” in Palestina. Ndt.], che iniziò ad essere messa in atto prima e durante il Mandato britannico del 1923 e fino al piano di partizione ONU del 1947. Queste opinioni continuano fino ad oggi, e sono esacerbate dalla mancanza di volontà della comunità internazionale, e del mondo arabo, di imporre le leggi internazionali e i diritti umani fondamentali. Quindi la narrazione di vittimizzazione dei palestinesi non può essere discussa al di fuori di questo contesto e delle continue azioni politiche e militari israeliane contro i palestinesi nei TPO. La situazione include una diseguale dinamica di potere dovuta al fatto che Israele è la potenza più forte e l’occupante; un gran numero di vittime palestinesi, compresi bambini, in conseguenza di azioni ed attacchi israeliani; il controllo israeliano di spazio e territorio, così come di risorse e mobilità.

Di conseguenza, mentre un’analisi di come la storia delle persecuzioni contro gli ebrei e la loro vittimizzazione è stata, ed è tuttora, utilizzata per giustificare le azioni dello Stato di Israele non dovrebbe mai perdere di vista i fatti e il contesto di quella persecuzione molto concreta, allo stesso tempo è necessario esaminare attentamente l’utilizzo di questa narrazione per comprendere come un gruppo, gli ebrei israeliani, ha ottenuto la condizione di vittima, mentre un altro, i palestinesi, non l’ha avuta, rafforzando uno squilibrio di potere in cui i diritti degli ebrei israeliani sono favoriti a spese dei diritti dei palestinesi.

Dalla vittimizzazione alla pulizia etnica

La persecuzione degli ebrei in Europa è radicata nell’antisemitismo e nei molti modi in cui ha colpito le comunità ebraiche in luoghi e tempi diversi. Quanto alla narrazione della persecuzione, essa si può far risalire alla fine del XIX° secolo, quando Theodor Herzl, uno dei padri del sionismo, ha attinto alla storia delle persecuzioni contro gli ebrei in Europa per legittimare il progetto nazionalista dello Stato israeliano e le sue pratiche di colonialismo di popolamento. Dopo la Seconda guerra mondiale, questa storia di persecuzioni è stata di nuovo invocata per giustificare la fondazione dello Stato di Israele. Infatti, la Dichiarazione di Indipendenza di Israele afferma che

l’Olocausto … in cui milioni di ebrei in Europa sono stati spinti al macello dimostra ancora una volta oltre ogni dubbio l’esigenza impellente di risolvere il problema della mancanza di una patria e della dipendenza ebraiche attraverso la rinascita dello Stato ebraico sulla terra di Israele, che spalancherà le porte della patria ad ogni ebreo” (2).

Dalla creazione di Israele, le narrazioni storiche che danno valore alla vittimizzazione ebraica rispetto alle vite ed ai diritti palestinesi sono state utilizzate ripetutamente dai politici israeliani. Il primo ministro Golda Meir, ad esempio, ha affermato che gli ebrei hanno un “complesso di Masada”, un “complesso del pogrom” e un “complesso di Hitler”, e l’ex primo ministro Menachem Begin ha tracciato un parallelo tra i palestinesi ed i nazisti (3).

Alcuni studiosi hanno suggerito che i dirigenti israeliani e sionisti hanno manipolato la memoria delle persecuzioni contro gli ebrei, soprattutto in rapporto all’Olocausto, come strumento diplomatico nel loro rapporto con i palestinesi. Per esempio, lo storico israeliano Ilan Pappe, nel suo libro “L’idea di Israele”, sostiene che questi dirigenti hanno costruito un’idea degli israeliani come vittime, un’auto-rappresentazione che impedisce loro di vedere la situazione dei palestinesi. Questo, afferma, ha impedito una soluzione politica al conflitto arabo-israeliano (4).

In anni recenti nuove prove e studi hanno iniziato a mettere in dubbio le principali rivendicazioni del movimento sionista. Al contempo il movimento internazionale di solidarietà in appoggio dei palestinesi è andato crescendo, in parte grazie alle piattaforme digitali che permettono all’opinione pubblica internazionale un accesso diretto alla storia ed alla situazione vissuta dai palestinesi. Ciò ha spinto i dirigenti, i manager, i portavoce israeliani ed i loro mezzi di comunicazione a concentrarsi su differenti strategie per mantenere il controllo sull’opinione pubblica occidentale (5).

Queste includono l’uso di un discorso – come l’utilizzo da parte di Netanyahu della pulizia etnica – per fare riferimento a cittadini ebreo-israeliani come vittime di continue persecuzioni da parte dei palestinesi, con la consapevolezza che questi termini hanno specifici significati giuridici e, secondo le leggi internazionali, sono considerati crimini contro l’umanità. Ma sono i significati emotivi associati ai termini, soprattutto se sono intesi per agire come ricordi della lunga storia di persecuzione degli ebrei, che servono a promuovere la vittimizzazione degli ebrei israeliani a spese delle esperienze di oppressione dei palestinesi. Il termine “pulizia etnica” deve ancora essere utilizzato ufficialmente in Occidente riguardo alla Nakba, esponendolo così all’appropriazione da parte di Israele.

Più o meno in contemporanea con l’affermazione di Netanyahu sulla pulizia etnica, il ministro degli Affari Esteri israeliano ha ri-postato un video a questo proposito sulla sua pagina Facebook, che era stato originariamente reso pubblico nel 2013. Il video, intitolato “Benvenuti nella patria del popolo ebraico”, è stato pubblicizzato come una breve storia degli ebrei. Segue le vicende di una coppia di ebrei, chiamati Giacobbe e Rachele, quando la loro patria (la “Terra di Israele”) viene invasa da vari gruppi, compresi gli assiri, i babilonesi, i greci, gli arabi, i crociati, l’impero britannico e, alla fine, i palestinesi. Ciò quindi suggerisce che gli ebrei sono sopravvissuti ad una serie di brutali invasioni, con i palestinesi come unici invasori rimasti. Il video ha provocato una dura reazione da parte degli attivisti palestinesi e di quelli che lavorano per i loro diritti, a causa del chiaro tentativo di riscrivere la storia del conflitto, inquadrando gli ebrei israeliani come vittime al posto dei palestinesi e con l’utilizzo di un linguaggio razzista e violento nella raffigurazione dei palestinesi.

Il video di Netanyahu sulla pulizia etnica è l’ultimo di una serie di video ideati e prodotti da David Keyes, il portavoce di Netanyahu per i media esteri, che è stato nominato nel marzo 2016. Keyes è stato uno degli uomini chiave dell’incremento delle campagne di propaganda a favore di Israele sui social media. Dalla sua nomina, sono stati postati otto video con Netanyahu che affronta una vasta gamma di problemi. Tutti sono stati apprezzati dai suoi sostenitori in Israele e negli USA.

Con una simile attenzione verso l’Occidente, quindi non è forse sorprendente che nel video sulla pulizia etnica e in altri Netanyahu comunichi in inglese, con versioni disponibili sottotitolate in ebraico e in arabo.

Contrastare la strategia retorica di Israele

La storia delle persecuzioni contro gli ebrei è un problema che colpisce in profondità gli israeliani e, più in generale, la comunità internazionale, soprattutto in Europa. Tuttavia l’uso di termini come pulizia etnica per mano dei palestinesi da parte di Israele lo rappresenta falsamente come vittima ed i palestinesi come aggressori. Questa retorica può essere utilizzata nella prassi pericolosa di vedere qualunque critica delle azioni israeliane come antisemitismo o come ostile nei confronti di Israele. Ciò aiuta ad ostacolare i tentativi da parte dei palestinesi e dei movimenti di solidarietà con i palestinesi di rendere Israele responsabile delle sue azioni, come le uccisioni extragiudiziali e la costruzione illegale di colonie nei TPO.

Dato che le dispute sulla narrazione sono diventate più frequenti e più visibili nell’era digitale, e dati i modi in cui un particolare linguaggio può essere utilizzato per distogliere l’attenzione dagli sviluppi sul terreno, l’uso evidente del discorso della vittimizzazione da parte di Netanyahu non può essere ignorato. L’attenzione su questo sviluppo è particolarmente fondamentale in questo frangente, in cui Israele progetta di espandere le colonie e possibilmente di annettersi altro territorio occupato, e la determinazione e la capacità internazionali di risolvere il conflitto sono più che mai deboli. E’ anche necessario, e strategico, prestare una particolare attenzione in un anno che segna il centenario dalla dichiarazione Balfour, il cinquantennale della guerra del 1967 e i trent’anni dalla prima Intifada palestinese.

L’appropriazione del discorso sulla vittimizzazione da parte di Israele richiede un impegno più efficace da parte dei portavoce, delle élite politiche e degli attivisti palestinesi nella sfera pubblica per esporre la realtà delle azioni di Israele e sollecitare l’appoggio internazionale per la Palestina e per i palestinesi. Ciò non significa partecipare ad una futile battaglia su chi meriti di essere chiamato la vera vittima nel conflitto, ma costruire una campagna coordinata per confutare attraverso delle prove le pretese israeliane.

Una simile campagna dovrebbe contestare la narrazione israeliana utilizzando immagini ed il linguaggio dei diritti umani internazionali che facciano appello all’opinione pubblica ed ai dirigenti occidentali. Dovrebbe sempre basarsi su prove, fatti e contesti, per respingere i tentativi di disinformazione ed iniziative di travisamento. La campagna dovrebbe anche addestrare la dirigenza politica e il personale diplomatico palestinesi nell’uso di un discorso politico rivolto ai palestinesi, su scala regionale ed internazionale, per garantire che il dibattito non legittimi il discorso sionista, per esempio, con l’uso involontario di metafore antisemite. I palestinesi che guidano la campagna e i gruppi della solidarietà internazionale devono utilizzare Twitter e altre reti sociali per confutare i media principali con la situazione reale sul terreno nei TPO, rivolgendosi al contempo ai cittadini palestinesi di Israele e a quelli rifugiati ed esiliati, utilizzando il linguaggio dei diritti e delle leggi internazionali.

Infine, la campagna dovrebbe impegnare professionisti dei media per formare palestinesi e gruppi di sostegno su come controbattere alle narrazioni e affermazioni propagandistiche, nonché su come utilizzare i mezzi di comunicazione digitale per raggiungere un pubblico globale.

Solo con questi sforzi congiunti la strategia israeliana di appropriazione della narrazione palestinese può essere contestualizzata e quindi svelata come un discorso che intende mascherare la violenza del colonialismo di insediamento israeliano.

Note:

(1) Il numero dei coloni è stimato in 600.000. Vedi Ilan Pappe, “La pulizia etnica della Palestina”, Fazi, 2008. Vedi anche Isabel Kershner, “Benjamin Netanyahu Draws Fire After Saying Palestinians Support ‘Ethnic Cleansing’” [Benjamin Netanyahu provoca un incendio dopo aver detto che i palestinesi sostengono ‘una pulizia etnica’], New York Times, September 12, 2016.

(2) Dov Waxman, “The Pursuit of Peace and the Crisis of Israeli Identity: Defending/Defining the Nation” [Il perseguimento della pace e la crisi dell’identità israeliana: difendere/definire la Nazione), (London: Palgrave Macmillan, 2006).

(3) Waxman, 49-56.

(4) Ilan Pappe, “The Idea of Israel: A History of Power and Knowledge” [L’idea di Israele: una storia di potere e di conoscenza], (London: Verso, 2014)

(5) Come ha sostenuto Edward Said, è “il senso sionista del ‘mondo come sostegno e pubblico’ che ha fatto della lotta sionista per la Palestina una lotta che è stata lanciata, comunicata e alimentata nelle grandi capitali dell’Occidente,” con tanto successo – e che ha garantito, fino a un certo punto, la condiscendenza e la complicità dell’Occidente. Edward Said, “Permission to Narrate”(Permesso di Raccontare), Journal of Palestine Studies 13, 3 (Spring 1984): 27-48.

(6) Frank Luntz, “The Israel Project’s Global Language Dictionary” (Il dizionario linguistico del progetto globale di Israele), 2009.

Dina Matar

Membro di Al-Shabaka, Dina Matar è docente in comunicazione politica del Centro per gli Studi sui Film e i Media alla Scuola di Studi Orientali e Africani. Lavora sui rapporti tra cultura, comunicazione e politiche, con una particolare attenzione alla Palestina, al Libano e alla Siria. E’ autrice di “What it Means to be Palestinian: Stories of Palestinian Peoplehood”[Cosa significa essere palestinese: storie di gente palestinese] (Tauris, 2010); co-curatrice di “Narrating Conflict in the Middle East: Discourse, Image and Communication Practices in Palestine and Lebanon” [Raccontare il conflitto in Medio Oriente: discorso, immagine e pratiche comunicative in Palestina e in Libano), (Tauris, 2013) e co-autrice di “The Hizbullah Phenomenon: Politics and Communication” [Il fenomeno Hezbollah: politiche e comunicazione], (Hurst, 2014). Matar è anche co-fondatrice e redattrice del “The Middle East Journal of Culture and Communication” [Giornale del Medio oriente di Cultura e Comunicazione].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA 7 – 20 marzo 2017 (due settimane)

Il 13 marzo, nella Città Vecchia di Gerusalemme Est, un 25enne palestinese ha accoltellato e ferito due poliziotti israeliani ed è stato poi colpito ed ucciso dalle forze israeliane.

Dopo l’accaduto, le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa di famiglia dell’attentatore, nel quartiere di Jabal al Mukabbir di Gerusalemme Est, hanno arrestato quattro membri della famiglia ed hanno distrutto la tenda eretta per il lutto. Il 15 marzo, una ragazza palestinese 16enne ha schiantato l’auto che stava guidando contro i pilastri metallici che, al raccordo di Gush Etzion (Hebron), proteggono la fermata dell’autobus dei coloni; la ragazza è stata gravemente ferita con arma da fuoco dai soldati israeliani; non sono stati segnalati altri feriti.

Il 17 marzo, durante scontri scoppiati nei pressi del Campo profughi Al ‘Arrub (Hebron), le forze israeliane hanno ucciso, con arma da fuoco, un palestinese 16enne; secondo fonti militari israeliane, l’uso delle armi da fuoco è stato attuato in risposta al lancio di bottiglie incendiarie [da parte palestinese]. Inoltre, 43 palestinesi, 11 dei quali minori, sono stati feriti dalle forze israeliane in diversi scontri verificatisi in Cisgiordania (41 feriti) e nella Striscia di Gaza (2 feriti). La maggior parte dei feriti si sono avuti nel corso di scontri scoppiati a Ni’lin (Ramallah), durante le proteste settimanali contro la Barriera; a Kafr Qaddum (Qalqiliya), contro le limitazioni di accesso; nel corso di moltepici operazioni di ricerca-arresto; durante una manifestazione nei pressi del checkpoint di Beituniya; e al funerale del palestinese ucciso nel Campo profughi Al ‘Arrub [di cui sopra]. In quest’ultima località, secondo quanto riferito, un soldato israeliano è stato ferito da una pietra.

Il 20 marzo, un’operazione di ricerca-arresto effettuata dalle forze di sicurezza palestinesi nel Campo profughi di Balata (Nablus) ha innescato violenti scontri con un gruppo di residenti armati: un membro delle forze di sicurezza è rimasto ucciso mentre altre quattro persone hanno riportato ferite. In questo Campo, negli ultimi mesi, nel contesto delle attività di polizia operate dalle Autorità palestinesi, si sono vissuti momenti di tensione e violenza fra palestinesi. Ad Al Bireh (Ramallah), il 12 marzo, durante scontri scoppiati nel corso di una protesta, 11 palestinesi, tra cui una donna, sono stati feriti dalle forze di sicurezza palestinesi.

Il 16 e il 18 marzo, nella Striscia di Gaza, le forze israeliane hanno attaccato e danneggiato una serie di presunte strutture militari ed aree aperte. Gli attacchi erano conseguenti al lancio di due razzi, operato da un gruppo armato palestinese: i razzi erano caduti in uno spazio aperto nel sud di Israele, senza causare vittime o danni. Secondo quanto riferito, un altro razzo lanciato verso Israele è ricaduto dentro la Striscia.

Sempre a Gaza, in almeno 34 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco – di avvertimento o diretto – in Aree ad Accesso Riservato, di terra e di mare. Non sono stati segnalati feriti, tuttavia, a quanto riferito, il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto. In altri due casi, le forze israeliane hanno arrestato quattro civili palestinesi, tra cui tre minori; presumibilmente dopo che questi avevano tentato di entrare illegalmente in Israele attraverso la recinzione (a controllo israeliano) che circonda la Striscia di Gaza. Inoltre, in due diverse occasioni, le forze israeliane sono penetrate all’interno della Striscia ed hanno svolto operazioni di spianatura e scavo nei pressi della recinzione perimetrale.

Per mancanza dei permessi di costruzione – per i palestinesi quasi impossibili da ottenere – le autorità israeliane hanno demolito nove strutture palestinesi. Sette di queste (disabitate) si trovavano a Gerusalemme Est; le altre due, tra cui un’abitazione, si trovavano in una comunità dell’Area C (Furush Beit Dajan, in Nablus). Nel complesso, tre palestinesi sono stati sfollati ed altri 43 risultano coinvolti.

In Area C, sempre adducendo la mancanza dei permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno notificato ordini di demolizione e blocco lavori nei confronti di 11 strutture abitative di pertinenza di quattro villaggi (Kafr ad Dik, in Salfit; Al Baqa’a e Deir Samit, in Hebron; Al Khadr in Bethlehem). Inoltre, le autorità israeliane hanno rinnovato gli ordini di requisizione per più di 30 ettari di terreno, già requisito a suo tempo per la costruzione della Barriera nel governatorato di Tulkarem; hanno inoltre emesso ordine di sgombero nei confronti di un appezzamento di terra coltivata con oltre 50 giovani ulivi nel villaggio di Immatin (Qalqiliya), in quanto terra designata [da Israele] come “terra di stato”.

Due palestinesi sono stati feriti e danni materiali significativi sono stati registrati in vari episodi in cui risultano coinvolti coloni israeliani. Tali episodi includono l’aggressione fisica ed il ferimento di un ragazzo palestinese di 13 anni nell’insediamento colonico French Hill a Gerusalemme Est e di una donna palestinese di 29 anni vicino al villaggio di Beitin (Ramallah). Vandalizzazioni di proprietà palestinesi sono state riportate in sette episodi distinti: più di 240 alberi e alberelli di proprietà palestinese danneggiati nelle località di As Sawiya (Nablus), At-Tuwani (Hebron) e Al-Khader (Betlemme); due veicoli palestinese danneggiati per lancio di pietre in episodi verificatisi vicino al raccordo di Mikhmas e nella città di Hebron; una struttura agricola danneggiata nel villaggio di Qusra (Nablus).

Secondo quanto riferito dai media israeliani, un colono israeliano è stato ferito e diversi veicoli sono stati danneggiati in almeno 13 episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: nei pressi di Gerusalemme, Ramallah, Hebron e Betlemme.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto per due giorni in entrambe le direzioni: è stata consentita l’uscita dalla Striscia di Gaza a 1.473 persone e il rientro a 1.370. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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