Basta seminare il panico: in Palestina e Israele un unico Stato democratico è possibile

di Ramzy Baroud, 10 gennaio 2017, Middle East Monitor

Già molto prima del 28 dicembre scorso -quando il Segretario di Stato John Kerry è salito sul palco del Dean Acheson Auditorium di Washington DC per pontificare sull’incerto futuro della soluzione a due Stati e sulla necessità di salvare Israele da se stesso -Il tema della creazione di uno Stato Palestinese è stato di primaria importanza.

Infatti, nonostante ciò che si crede comunemente, lo sforzo per costituire uno Stato palestinese accanto ad uno ebraico risale a molto prima della Risoluzione Onu 181 del novembre 1947. Quella famigerata risoluzione chiedeva la partizione della Palestina in tre entità: uno Stato ebraico, uno palestinese e un controllo internazionale su Gerusalemme.

Una lettura più accurata della storia può mettere in evidenza molti riferimenti allo Stato palestinese (o arabo) tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo.

L’idea dei due Stati è eminentemente occidentale. Nessun partito o leader palestinese ha mai pensato che la divisione della Terra Santa fosse davvero un’opzione. Allora una simile idea è sembrata assurda, in parte perché, come evidenziato da Ilan Pappe nel suo “La Pulizia Etnica della Palestina”, “quasi tutte le terre coltivate in Palestina appartenevano alla popolazione indigena (araba), (mentre) solo il 5.8 % era di proprietà di ebrei nel 1947”.

Un precedente, ma altrettanto importante, rimando ad uno Stato Palestinese fu fatto dalla commissione Peel, una commissione britannica d’inchiesta presieduta da Lord Peel, che venne inviato in Palestina per indagare sulle motivazioni alla base di uno sciopero generale, una rivolta e più tardi di una ribellione armata che iniziò nel 1936 e si protrasse per circa 3 anni.

La commissione stabilì che le “cause sottostanti ai disordini” fossero sostanzialmente due: il desiderio di indipendenza dei palestinesi e l’astio e il timore per la costituzione della patria nazionale per gli ebrei”. Quest’ultima fu promessa dal governo britannico alla Federazione Sionista della Gran Bretagna e dell’Irlanda nel 1917, nota in seguito come la dichiarazione Balfour.

La commissione Peel consigliò la spartizione della Palestina storica in uno Stato ebraico e in uno palestinese, che sarebbe stato incorporato nella Transgiordania [l’attuale Regno di GIordania. Ndtr.], con enclavi riservate al governo mandatario britannico.

Nel lasso di tempo di 80 anni tra quella raccomandazione e l’avvertimento di Kerry secondo cui la soluzione a due Stati sarebbe “seriamente in pericolo”, davvero poco è stato fatto in termini di passi concreti verso la costituzione di uno Stato palestinese. Ancor peggio, gli Stati Uniti hanno fatto uso ripetutamente del loro potere di veto all’ONU per impedire la costituzione dello Stato palestinese, nonché utilizzato il loro potere politico ed economico di intimidazione nei confronti di chi avesse (anche solo simbolicamente) riconosciuto uno Stato palestinese. Hanno giocato inoltre un ruolo chiave nel finanziare gli insediamenti ebraici illegali in Cisgiordania e a Gerusalemme, rendendo l’esistenza di uno Stato palestinese virtualmente impossibile.

Il punto ora è: perché l’Occidente continua ad utilizzare la “soluzione a due Stati” come parametro politico per giungere ad una risoluzione del conflitto israelo-palestinese mentre, allo stesso tempo, assicura che la sua stessa richiesta di risoluzione non diventi mai una realtà?

La risposta sta, parzialmente, nel fatto che fin dall’inizio la “soluzione a due Stati” non è mai stata concepita fin dall’inizio per essere realizzata. Come il “processo di pace” ed altre finzioni, ha avuto lo scopo di promuovere tra i palestinesi e il mondo arabo l’idea che esista un importante obiettivo per cui battersi, nonostante esso sia inattuabile.

Ma anche quell’obiettivo è stato condizionato da una serie di richieste risultate fin dall’inizio irrealistiche. Storicamente, i palestinesi hanno dovuto rinunciare alla violenza (la loro resistenza armata all’occupazione militare israeliana), acconsentire a varie risoluzioni dell’ONU, (benché Israele ancora rifiuti di riconoscerle), accettare il “diritto” di Israele ad esistere in quanto Stato ebraico, e così via. Lo Stato palestinese, prima ancora di essere costituito, avrebbe dovuto essere demilitarizzato, diviso tra Cisgiordania e Gaza ed escludere buona parte di Gerusalemme Est occupata.

Furono offerte numerose soluzioni “creative”, per ridurre ogni timore israeliano che l’inesistente Stato palestinese, nel caso fosse stato creato, potesse costituire una minaccia per Israele. Talvolta, la discussione in corso riguardava l’idea di una confederazione tra Palestina e Giordania, altre volte, come nelle proposte più recenti del capo del Jewish Home Party [La Casa Ebraica, partito di estrema destra dei coloni. Ndtr], il ministro israeliano Naftali Bennett, quella di trasformare Gaza in uno Stato indipendente e di annettere a Israele il 60% della Cisgiordania.

E quando gli alleati di Israele, delusi dall’ascesa della destra ebraica e dall’ostinazione del primo ministro Benjamin Netanyahu, insistono nell’affermare che è giunto il momento della soluzione a due Stati, esprimono i loro timori sotto forma di un amore estremo. L’attività delle colonie israeliane sta infatti “consolidando enormemente l’irreversibile realtà dello Stato unico” ha detto Kerry la settimana scorsa nel suo discorso politico.

Tale realtà dovrebbe costringere Israele o ad un compromesso circa l’identità ebraica dello Stato (come se avere una identità etnico/religiosa in un moderno Stato democratico fosse una precondizione normale) oppure a lottare contro il fatto di diventare uno Stato di apartheid (come se ciò non fosse già una realtà).

Kerry ha messo in guardia Israele circa il fatto che sarebbe rimasta solo l’opzione di porre i palestinesi “sotto occupazione militare permanente” privandoli della maggior parte delle libertà fondamentali”, aprendo così la strada ad uno scenario di “separazione e disuguaglianza”.

Mentre ci si preoccupava della disintegrazione della possibilità della “soluzione a due Stati”, pochi in realtà hanno cercato di comprendere la realtà dal punto di vista palestinese.

Per i palestinesi, il dibattito sulla necessità di Israele di scegliere tra essere uno Stato democratico o confessionale è risibile. Infatti per loro la democrazia israeliana si applica integralmente solo ai cittadini di origine ebraica e a nessun altro, mentre i palestinesi sono sopravvissuti per decenni dietro muri, recinti, prigioni ed enclave assediate, come nella Striscia di Gaza.

E lo scenario di apartheid fatto di “separazione e diseguaglianza” evocato da Kerry, con due ordinamenti giuridici, due diverse normative e due realtà applicate a due diversi gruppi sullo stesso territorio, si è realizzato nel momento stesso in cui lo Stato di Israele è stato fondato nel 1948.

Secondo un recente sondaggio, due terzi dei palestinesi, stanchi delle illusioni della loro stessa leadership fallimentare, concordano oggi sul fatto che la soluzione a due Stati non sia realizzabile. E questo numero tende ad aumentare tanto velocemente quanto le massicce iniziative di colonizzazione illegale che costellano Gerusalemme e la Cisgiordania occupate.

Questo non è un argomento contro la soluzione a due Stati; quest’ultima è esistita semplicemente come espediente per tranquillizzare i palestinesi, prendere tempo e delimitare il conflitto ad un orizzonte politico illusorio. Se gli Stati Uniti fossero stati davvero interessati alla soluzione a due Stati, avrebbero tenacemente combattuto per realizzarla decenni fa.

Dire oggi che la soluzione a due Stati è superata, significa accettare l’illusione che sia mai stata possibile.

Ciò detto, conviene a tutti capire che la coesistenza, in uno Stato democratico, non è uno scenario oscuro che determinerebbe la fine per la regione.

E’ tempo di abbandonare illusioni irrealizzabili e concentrare tutte le energie per promuovere la coesistenza, basata sull’eguaglianza e la giustizia per tutti.

Infatti, ci può essere tra il fiume [Giordano] e il mare [mediterraneo], un unico Stato,che sia uno Stato democratico per tutta la sua popolazione, indipendentemente dall’etnia o dal credo religioso.

Ramzy Baroud è un editorialista internazionalmente riconosciuto, autore e il fondatore di Palestine Chronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre è stato un combattente per la libertà: la storia non detta di Gaza”(My FatherWas a Freedom Fighter: Gaza’sUntold Story)

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore stesso e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Ma’an News Agency.

(traduzione di Viviana Codemo)




Centinaia di persone in Israele e nei territori palestinesi occupati denunciano l’incursione mortale a Umm al-Hiran

19 gennaio 2017 Ma’an News

Betlemme (Ma’an) – Mercoledì cittadini palestinesi con cittadinanza israeliana e loro sostenitori sono scesi in strada in Israele e nei territori palestinesi occupati per protestare contro un attacco per espellere una comunità beduina nel Negev, che si è trasformato in omicida ieri nelle prime ore del giorno, con la morte in circostanze controverse di un cittadino palestinese con cittadinanza israeliana e di un ufficiale di polizia israeliano.

Centinaia di dimostranti si sono riuniti a Umm al-Hiran, dove il residente beduino Yaqoub Moussa Abu al-Qian, di 47 anni, è stato colpito a morte da un poliziotto israeliano, che ha sostenuto che l’insegnante di matematica stava perpetrando un attacco con l’auto che ha ucciso l’ufficiale di polizia Erez Levi, di 34 anni.

Tuttavia numerosi testimoni e dirigenti palestinesi con cittadinanza israeliana hanno messo in dubbio la versione dei fatti delle forze di sicurezza israeliane, sostenendo che i poliziotti hanno aperto il fuoco su Abu al-Qian benché non rappresentasse un pericolo, causando il fatto che abbia perso il controllo del veicolo e abbia disgraziatamente investito Levi. Il parlamentare della Knesset Ayman Odeh, capo della Lista Unitaria, che rappresenta partiti guidati da palestinesi con cittadinanza israeliana, è stato ferito alla testa e alla schiena durante l’incursione, benché ci siano versioni contrastanti tra testimoni e poliziotti su come sia rimasto ferito e da chi.

In seguito all’attacco mortale l’Alto Comitato di Controllo per i cittadini arabi di Israele, una commissione del parlamento israeliano, la Knesset, ha dichiarato tre giorni di lutto nelle cittadine e nei villaggi israeliani a maggioranza palestinese.

Il comitato ha anche fatto appello ai cittadini palestinesi di Israele per lanciare uno sciopero generale giovedì [19 gennaio], ed agli insegnanti per discutere dei recenti fatti di Umm al-Hiran con gli studenti.

Si sono tenute manifestazioni in altre città israeliane a maggioranza di popolazione palestinese, come Yaffa, Qalanswane, Shifa Amr, Baqa al-Gharbiya, Sakhnin e Umm al-Fahm, in cui i dimostranti sventolavano bandiere palestinesi e gridavano slogan contro quelle che denunciavano come politiche ‘razziste’ israeliane.

Il gruppo israeliano per i diritti umani Gush Shalom ha informato che ci sono state manifestazioni anche a Gerusalemme, Haifa e Acre, in cui risiedono folte comunità palestinesi, così come in numerose università.

Secondo Gush Shalom, durante un raduno a Tel Aviv il membro della Knesset e cittadino palestinese di Israele Issawi Freij ha condannato l’incremento di demolizioni di case e la violenza della polizia che prende di mira i cittadini palestinesi di Israele.

Freij ha sostenuto che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha incrementato queste politiche nel tentativo di distrarre l’opinione pubblica israeliana dalle continue indagini a suo carico per corruzione.

“Il primo ministro vuole individuare un nemico su cui i suoi elettori possano sfogare la loro rabbia,” ha detto Freij a centinaia di dimostranti. “Questo nemico che il primo ministro ha preso di mira e stigmatizzato sono io, un cittadino arabo dello Stato di Israele e membro del parlamento israeliano, insieme a tutti i miei concittadini arabi, un totale del 20% dei cittadini di Israele. Dobbiamo essere i capri espiatori!”

Gush Shalom ha riferito che a Tel Aviv i manifestanti hanno gridato slogan come “Ebrei e arabi rifiutano di essere nemici” e “Netanyahu è pericoloso, corrotto e razzista.”

La deputata della Knesset Aida Touma-Sleiman, citata dal “Times of Israel” [giornale israeliano senza indipendente online. Ndtr.], avrebbe detto che una protesta più ampia è stata organizzata davanti alla Knesset a Gerusalemme per lunedì [23 gennaio] mattina.

Nel contempo nella Striscia di Gaza assediata, il movimento Hamas ha organizzato un corteo nel campo di rifugiati di Jabaliya per condannare l’evacuazione forzata di Umm al-Hiran.

Il dirigente di Hamas Muhammad Abu Askar ha detto che il movimento solidarizza con tutto il popolo palestinese, compresi gli abitanti di Umm al-Hiran, nonostante tutti i problemi che attualmente sta affrontando la Striscia di Gaza. L’ agenzia di stampa Quds ha riferito che anche a Ramallah, nella Cisgiordania occupata, i palestinesi sono scesi in strada per appoggiare Umm al-Hiran e per denunciare l’uccisione di Abu al-Qian.

Intanto giovedì i deputati della Lista Unitaria Ahmad Tibi e Usama Saadi hanno presentato alla Knesset un nuovo disegno di legge che propone il congelamento per dieci anni della demolizione di case costruite da palestinesi in Israele senza permessi rilasciati dal governo per organizzare un piano regolatore e di sviluppo complessivo.

“Non è un caso che ci siano decine di migliaia di case colpite da ordini di demolizione ” nelle comunità palestinesi di Israele, ha detto Tibi a Radio Israel. “Non è un fatto genetico. Non ci sono piani di sviluppo, né piani regolatori, nessuna crescita.”

Gruppi per i diritti hanno da lungo tempo sostenuto che le demolizioni nei villaggi beduini non riconosciuti da Israele sono una politica fondamentalmente tesa a togliere di mezzo la popolazione indigena palestinese dal Negev e a trasferirla in township [nome delle città per neri nel Sudafrica dell’apartheid. Ndtr.] definite dal governo per fare spazio all’espansione delle comunità di ebrei israeliani.

All’inizio del corrente mese, le forze israeliane hanno anche demolito 11 case di proprietà di cittadini palestinesi di Israele nella città di Qalansawe, nel centro di Israele, provocando scontri tra i palestinesi e la polizia israeliana, mentre Amnesty International Israele ha condannato possibili violazioni dei diritti umani ed ha accusato le forze israeliane di agire per “motivazioni politiche”.

Intanto mercoledì Netanyahu ha emesso un comunicato piangendo la morte del poliziotto israeliano, definendo l’incidente un “attacco con un veicolo” premeditato e parte di una “minaccia omicida”, in quanto la polizia israeliana ha affermato che Abu al-Qian era un sostenitore del cosiddetto Stato Islamico.

Il primo ministro ha scartato la possibilità di congelare le demolizioni nelle comunità palestinesi in Israele. “Lo Stato di Israele è, soprattutto, uno Stato di diritto, in cui ci sarà un’applicazione equa. Questo incidente non solo non ci fermerà, ma ci rafforzerà. Consoliderà la nostra determinazione ad applicare la legge ovunque,” ha affermato.

Con un’allusione appena velata ai parlamentari della Lista Unitaria, Netanyahu ha continuato esortando “chiunque, soprattutto se membro della Knesset, ad essere responsabile, a smetterla di alimentare l’animosità e di incitare alla violenza.”

Secondo il Jerusalem Post, mercoledì anche il ministro della Giustizia Ayelet Shaked [del partito di estrema destra “Casa Ebraica”. Ndtr.] ha accusato i deputati della Lista Unitaria di incitare alla violenza.

Tuttavia, gruppi per i diritti umani come “Coesistenza del Negev”, il “Forum per l’Uguaglianza Civile” e la “Coalizione delle Donne per la Pace”, che hanno contribuito ad organizzare le proteste di mercoledì in Israele, attribuiscono la responsabilità della violenza mortale direttamente al governo israeliano.

“La responsabilità diretta per l’odierna escalation pericolosa e per lo spargimento di sangue nel villaggio di Umm al-Hiran nel Negev ricade su coloro che hanno preso la decisione di distruggere un villaggio beduino esistito per decenni, raderlo totalmente al suolo e cancellarlo dalla faccia della terra, di espellere gli abitanti e creare una “comunità” ebraica al suo posto,” hanno affermato i gruppi, citati da Gush Shalom.

Sarah Leah Whitson, direttrice esecutiva del ramo per il Medio Oriente dell’ong Human Rights Watch (HRW) ha detto che gli avvenimenti di Umm al-Hiran hanno seguito “una modalità d’azione che prevede l’uso eccessivo della forza da parte della polizia israeliana.”

“Come in Cisgiordania, Israele discrimina i beduini e i palestinesi in generale all’interno dei propri confini nelle sue politiche di pianificazione, che intendono massimizzare il controllo della terra per le comunità ebraiche. Israele dovrebbe fare un’inchiesta sulle uccisioni, obbligare i responsabili a risponderne e rinunciare al progetto discriminatorio di radere al suolo Umm al-Hiran.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA 27 dicembre- 9 gennaio 2017

L’8 gennaio, un 28enne palestinese ha guidato un camion contro un gruppo di soldati israeliani radunati sulla passeggiata panoramica vicina all’insediamento colonico di Talpiot Est, in Gerusalemme Est, uccidendo tre soldatesse e un soldato e ferendone altri 15.

L’autore, proveniente dalla vicina zona di Jabal al Mukabber, è stato ucciso sul posto e il suo corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane. Il Coordinatore Speciale delle Nazioni Unite per il Processo di Pace in Medio Oriente, Nickolay Mladenov, ha fortemente condannato l’attacco. Ancora in Gerusalemme Est (al checkpoint di Qalandiya), il 30 dicembre, le forze israeliane hanno sparato e ferito una 35enne palestinese che, secondo fonti israeliane, si era diretta verso di loro con un coltello e non si era fermata all’alt. Nel 2016, in attacchi e presunti attacchi da parte di palestinesi della Cisgiordania, sono stati uccisi 13 israeliani e 80 palestinesi aggressori e presunti aggressori.

In zona C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 86 strutture, sfollando 160 palestinesi, tra cui 91 minori, e coinvolgendone altri 370. L’episodio più grave ha avuto luogo nella comunità pastorizia di Khirbet Tana (Nablus), dove sono state demolite 49 strutture abitative e di sussistenza, 30 delle quali fornite precedentemente come assistenza umanitaria. La comunità si trova in una zona designata dalle autorità israeliane come “zona per esercitazioni militari a fuoco”. Tali aree costituiscono quasi il 30% dell’Area C e sono abitate da più di 6.200 palestinesi. Nella prima settimana del 2017, il numero di strutture prese di mira è oltre tre volte la media settimanale del 2016, anno che ha visto il numero più alto di demolizioni da quando, nel 2009, OCHA ha iniziato il monitoraggio sistematico.

In Cisgiordania, durante molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 34 palestinesi, tra cui otto minori. I ferimento sono avvenuti durante quattro distinte operazioni di ricerca-arresto; nel corso della manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya), Ni’lin e Bil’in (Ramallah); all’ingresso della città di Ar Ram (Gerusalemme) e nel villaggio di Tuqu’ (Betlemme); nella città di Hebron, durante due cortei funebri seguiti alla restituzione dei corpi di due palestinesi sospettati di attacchi contro israeliani. I corpi erano stati trattenuti per più di 100 giorni.

Complessivamente, in questo periodo, sono stati consegnati alle famiglie i corpi di quattro palestinesi sospettati di attacchi contro israeliani; i corpi di altri otto presunti autori sono ancora trattenuti dalle autorità israeliane; alcuni da più di otto mesi.

Il 4 gennaio, lungo la costa di Gaza, sono stati trovati i resti del corpo di un pescatore palestinese. Tre giorni dopo le forze navali israeliane hanno riferito di essersi scontrati con la sua barca e di averla danneggiata, causandone il rovesciamento. Nel complesso, durante il periodo di riferimento, in almeno 22 occasioni le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro palestinesi presenti o in avvicinamento ad Are ad Accesso Riservato (ARA), di terra o di mare. In un altro caso, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ed hanno compiuto operazioni di spianatura del terreno.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 161 operazioni di ricerca e/o arresto ed hanno arrestato 212 palestinesi; 12 di questi sono stati arrestati presso checkpoints “volanti” e durante manifestazioni. Le quote più alte di operazioni (44) e di arresti (71, di cui 19 minori) si sono avute nel governatorato di Gerusalemme.

Coloni israeliani si sono trasferiti in due edifici vuoti nella zona di Silwan di Gerusalemme Est: secondo quanto riferito, dopo averli acquistati dai proprietari palestinesi. Silwan è stato il bersaglio di intensa attività di insediamento e di iniziative che comprendono un piano per la realizzazione di un complesso turistico nel quartiere di Al Bustan che, se venisse portato a compimento, comporterebbe lo sfollamento di più di 1.000 residenti palestinesi; nella stessa area altre centinaia di residenti rischiano lo sfollamento a causa di procedure di sfratto promosse da organizzazioni di coloni.

In Cisgiordania, in più occasioni durante il periodo di riferimento, coloni ed altri gruppi israeliani si sono introdotti in vari siti religiosi, innescando alterchi e scontri con palestinesi; non ci sono stati feriti. I siti interessati comprendono il Complesso di Al Haram Ash Sharif / Monte del Tempio, a Gerusalemme Est, un santuario nel villaggio di Kifl Haris (Salfit) e la Tomba di Giuseppe nella città di Nablus.

I media israeliani hanno riferito nove episodi di attacchi, con lancio di pietre e bottiglie incendiarie, da parte di palestinesi contro veicoli o abitazioni di coloni israeliani; non vi sono state vittime, ma sono stati segnalati danni a diversi veicoli.

Durante il periodo relativo al presente Rapporto, il lato egiziano del valico di Rafah è rimasto chiuso in entrambe le direzioni. Nel corso del 2016 il valico è stato parzialmente aperto per soli 44 giorni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, inclusi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

In seguito all’aggressione verificatasi l’8 gennaio (vedi sopra), le Autorità israeliane hanno demolito quattro strutture nella zona di Jabal al Mukabber di Gerusalemme Est ed inoltre, adducendo la mancanza di permessi di costruzione, hanno emesso avvisi contro decine di case appartenenti alla famiglia allargata dell’aggressore. Il Ministero degli Interni israeliano ha anche espresso la sua intenzione di revocare i permessi di ricongiunzione familiare ad almeno 14 membri della famiglia allargata. È stato riferito che la casa di famiglia del responsabile dell’aggressione, prima della sua demolizione punitiva, era stata oggetto di misure da parte delle autorità. I provvedimenti di cui sopra hanno esposto decine di palestinesi al rischio di sfollamento.

Il 10 gennaio, nel corso di una operazione di ricerca nel Campo profughi di Al Far’a (Tubas), le forze israeliane hanno ucciso un palestinese; le circostanze dell’episodio rimangono controverse.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Adeguarsi alla perniciosa occupazione israeliana

 Amira Hass – 1 gennaio 2017, Haaretz

A.B. Yehoshua si mette in riga dividendo i palestinesi in varie categorie e quindi ignora le loro difficoltà complessive.

Lo scrittore A.B. Yehoshua (“Alleviare la perniciosità dell’occupazione”, Haaretz, 31 dicembre) ha ragione quando collega la parola “perniciosità” a occupazione. Ma sotto le mentite spoglie dell’innovazione, dell’audacia e di considerazioni umanitarie, la sua proposta per un temporaneo e parziale allentamento della perniciosità si adegua alla tradizionale politica israeliana: dividere il popolo palestinese in varie categorie burocratiche, in enclaves separate e distanti, e naturalmente senza chiedere la loro opinione.

Per sembrare audace, ma per proporre qualcosa che è proprio quello che il governo del ministro dell’Educazione Naftali Bennett e la ministra della Giustizia Ayelet Shaked (entrambi di Habayit Hayehudi [estrema destra dei coloni. Ndtr.]) vogliono, alcuni dei fatti citati da Yehoshua vengono stravolti. Qui di seguito alcuni di questi stravolgimenti:

* “Uno spazio binazionale”. Non c’è bisogno di andare fino ai miseri quartieri congegnati da Israele a Gerusalemme est per giocare con l’idea di un “laboratorio” di vita binazionale. E’ vero che il popolo palestinese è stato disperso da quando è stato espulso dalla propria terra d’origine nel 1948. Ma non ha mai smesso di essere una nazione per questa ragione, compreso il milione e mezzo di palestinesi che sono attualmente cittadini israeliani. Israele nei suoi confini riconosciuti è uno spazio binazionale, indipendentemente della sue definizioni e dalle discriminazioni che opera a danno dei suoi cittadini palestinesi.

* “La Striscia di Gaza è del tutto separata da Israele.” Non è vero. I due milioni di residenti della Striscia di Gaza sono registrati nell’anagrafe controllata da Israele. Come i palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Come Yehoshua e come me. La carta d’identità rilasciata ad ogni sedicenne di Gaza necessita dell’approvazione israeliana. E’ Israele che decide se, quanti e quali palestinesi che tornano dall’estero otterranno la residenza in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. La moneta corrente in uso nella Striscia è lo shekel.

Circa un quarto dei gazawi ha familiari in Cisgiordania, nella Gerusalemme est occupata e nello stesso Israele. Tutti i residenti di Gaza hanno proprietà immobiliari del passato, di famiglia, e legami affettivi all’interno di Israele, indipendentemente da quello che noi decidiamo per loro.

* “L’Area A è soggetta alla legislazione civile e militare palestinese.” Non è esatto. Nell’Area A i palestinesi hanno poteri civili e di polizia, ma non militari. Quando ogni settimana i nostri soldati fanno incursioni nei quartieri e nelle case in questa zona, le forze di sicurezza palestinesi si devono nascondere nelle loro basi. Se si oppongono all’invasione dell’esercito israeliano – le uccidiamo o le condanniamo per terrorismo.

* “(Sono) i palestinesi che vivono nell’Area C che si confrontano con l’occupazione israeliana, affrontando sia i coloni che l’esercito.” Di cosa stai parlando? I coloni non discriminano e vessano chiunque, e sono impazienti di mettere le mani nella “C” sulla terra di palestinesi che vivono ovunque in Cisgiordania

* “Il numero di palestinesi che abitano nell’Area C è solo di circa 100.000.” Da dove esce questo numero? Bimkom [associazione di urbanisti e architetti israeliani che opera per una gestione collettiva del territorio. Ndtr.], “Pianificatori per diritti di progettazione”, nel 2008stimava che nell’Area C vivessero 150.000 palestinesi. Un mini-censimento condotto dall’ufficio Onu per il coordinamento degli Affari Umanitari nei territori palestinesi occupati ha trovato che alla fine del 2013 il numero era raddoppiato -300.000. Alcuni vivono in comunità che si trovano totalmente nell’Area C, altri in comunità divise tra C, A e B, che sono in ogni caso categorie artificiose, in contraddizione con qualunque logica di pianificazione. Quello che è certo è che circa 30.000 beduini nell’Area C sarebbero contenti di tornare nella loro terra nel Negev, da cui sono stati espulsi nel 1948. Accanto alle comunità di Al-Arakib e di Ummal-Hiran, che, come sappiamo, sono prospere e godono dei molti diritti che Israele ha concesso loro… [riferimento polemico al modo in cui sono trattati i beduini con cittadinanza israeliana. Ndtr.]

* “Residenza con diritti (sociali) di base.” Naturalmente il modello è quello dello status di residenti dei palestinesi di Gerusalemme est, o, per essere più precisi, i deliri israeliani su quanto sia bella lì la vita dei palestinesi. Se fosse così bella, come mai abbiamo trasformato circa l’80% di loro in poveri a carico dell’assistenza sociale? Oltre alla situazione di inferiorità socio-economica in cui abbiamo gettato i palestinesi di Gerusalemme, il loro stesso status di residenti è molto precario. Dipende dalle norme di ingresso in Israele, in altre parole, si riferisce a questi cittadini come se avessero scelto di spostarsi e vivere in Israele, piuttosto che essere stati invasi da Israele.

Pertanto è uno status sottoposto a condizioni, che Israele può revocare a suo piacimento, secondo criteri che esso stesso ha stabilito (provare di avere lì il “centro della propria vita” o “lealtà allo Stato”). Prima del 1994 (quando le autorità civili sono state trasferite all’Autorità Nazionale Palestinese), Israele poteva espellere residenti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza come voleva, e revocare il loro status. Gli accordi di Oslo hanno abolito questa prerogativa dell’occupante (una delle poche clausole positive). A Gerusalemme i palestinesi rimangono più che mai esposti al pericolo di espulsione e di revoca della residenza. Ora Yehoshua vuole aggiungervi altre 100.000 persone?

* “Questo permesso di residenza impedirebbe l’espropriazione delle loro terre (o renderla molto più difficile).” Di cosa sta parlando Yehoshua? La residenza – proprio come la cittadinanza – non protegge i palestinesi dal furto della loro terra e dall’espulsione dalle loro case. Silwan. Isawiyah. Jabal Mukkaber. Sakhnin. Jaffa. Al-Arakib. Sono esempi sufficienti?

La deformazione rende più facile creare una separazione emotiva ed intellettuale dal siginificato dei fatti. La separazione è comprensibile. E’ difficile ammettere che l’ideologia sionista e la sua creazione – Israele – abbiano dato vita a un mostro ladro, razzista, arrogante che ruba acqua, terra e storia, che ha le mani insanguinate con la scusa della sicurezza, che per decenni ha deliberatamente pianificato l’attuale pericolosa situazione di bantustan, da entrambi i lati della Linea Verde [che divide Israele dai territori occupati. Ndtr.]. Tutto ciò che Yehoshua sta facendo è mettersi in riga e suggerire un’altra sotto-definizione che aiuti la burocrazia israeliana a dividere in categorie il popolo palestinese e separarlo dai suoi luoghi e dalla sua terra.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Alleviare la malvagità dell’occupazione israeliana

di A.B. Yehoshua | 31 dicembre, 2016 |Haaretz

Dobbiamo dare [il permesso di] residenza israeliano ai centomila palestinesi che vivono nella parte della Cisgiordania controllata da Israele, al fine di ridurre la sofferenza di coloro che vivono sulla prima linea dell’occupazione

Le osservazioni che ho fatto alla conferenza dell'”Istituto per la Ricerca Politica di Gerusalemme” agli inizi di questo mese hanno creato molto scalpore. Alla conferenza i relatori hanno presentato le attività nelle aree comuni a favore di differenti comunità dell’area della grande Gerusalemme, in particolare degli ebrei e dei palestinesi. Io ho parlato dell’importanza di questi territori anche come una sorta di laboratorio per una convivenza binazionale nell’intero territorio della Terra di Israele- considerando la deprimente e difficile eventualità che la soluzione dei due Stati non si possa realizzare e che israeliani e palestinesi verranno lentamente trascinati, lo vogliano o no, verso una qualche forma di Stato binazionale o federale.

Sono passati quasi 50 anni dalla guerra dei Sei Giorni nel 1967. Durante questo periodo sono rimasto attaccato con entusiasmo e determinazione all’idea della soluzione dei due Stati – Israele e Palestina, che vivano l’uno accanto all’altro in pace e riconoscendosi a vicenda – e ho agito coerentemente con tale convincimento.

Ritengo ancora che questa sia la soluzione giusta ed etica al conflitto. E benché alcuni in entrambi gli schieramenti, israeliani e palestinesi, hanno rifiutato per anni di riconoscere la legittimità di questa soluzione, lentamente è diventata la soluzione accettabile all’intera comunità internazionale, compresa larga parte del mondo arabo, fino a essere finalmente codificata negli accordi di Oslo del 1993.

Perfino l’attuale governo di estrema destra in Israele ha adottato ufficialmente la soluzione a due Stati; tuttavia sul terreno nell’ultimo decennio non si è visto alcun serio tentativo israeliano di fare un passo per la sua realizzazione. Parallelamente è chiaro che l’Autorità palestinese, che a sua volta ha ufficialmente adottato la soluzione a due Stati, sta sta evitando seri negoziati con il governo israeliano per realizzare concretamente questa soluzione.

La stessa Gerusalemme la cui parte orientale, secondo quanto prevede la soluzione a due Stati, avrebbe dovuto essere la capitale dello Stato palestinese, è diventata fisicamente sempre di più una città unica. La possibilità di istituire un confine internazionale che la attraversi sembra piuttosto irrealistica.

Gli Stati Uniti e i Paesi europei hanno fallito nell’imporre ad entrambi i contendenti la soluzione a due Stati non solo a parole ma anche di fatto. Questo è particolarmente vero per la parte israeliana, che continua a espropriare terra palestinese per la crescita e l’espansione delle colonie nella Cisgiordania.

I trattati di pace con la Giordania e l’Egitto possono ancora essere conservati, ma quei due Paesi sono costretti a fare i conti con i loro seri problemi, e le loro preoccupazioni a favore dei palestinesi sono solo belle parole. Il mondo arabo sta andando a pezzi e si sta disintegrando in guerre civili sanguinose e ha perso ogni influenza e interesse nei confronti del conflitto israelo-palestinese. Di conseguenza, l’idea dei due Stati sta diventando sempre più problematica.

E cosa sta succedendo nei territori palestinesi? La Striscia di Gaza è ora del tutto separata da Israele senza la presenza di israeliani, siano civili o militari. Per Israele Gaza è una sorta di piccolo Stato nemico, un posto dove scoppiano occasionalmente brevi guerre con Israele. Ma la Striscia di Gaza non è sotto totale assedio, dal momento che ha un confine indipendente con l’Egitto e vi è anche un varco per il cibo e le merci tra Gaza e Israele.

La Cisgiordania in base agli accordi di Oslo è divisa in tre aree: l’area A, B e C. Le aree A e B comprendono il 40% circa della Cisgiordania, mentre l’area C costituisce il rimanente 60% del territorio. Le aree A e B, dove si trovano le maggiori città e paesi palestinesi, sono sotto il governo dell’Autorità palestinese.

L’area A è soggetta alla legislazione civile e militare palestinese. L’area B è soggetta solamente dall’amministrazione civile palestinese, mentre quella militare è sotto il controllo di Israele. Questo significa che la maggior parte dei palestinesi in queste aree vivono sotto una forma di parziale e limitata autonomia e hanno una polizia semi-militarizzata al loro servizio che, in qualche misura, collabora con le forze di sicurezza israeliane per prevenire il terrorismo.

Tutte le colonie si trovano nell’area C. Secondo stime prudenti, il numero dei coloni [si aggira attorno ai] 450.000, circa la metà dei quali vive nelle città. Il numero dei palestinesi che abitano

nell’area C è solamente di circa 100.000 e sono persone che sono in continuo conflitto con i coloni, specialmente quelli estremisti, riguardo all’esproprio delle terre, alle minacce sulle strade, allo sradicamento degli olivi e al vergognoso sfruttamento come lavoratori sottopagati. Questi palestinesi sono sotto la continua sorveglianza dell’esercito israeliano, della polizia e dei servizi di sicurezza.

Data la situazione generale del mondo, che tende verso nazionalismi di destra estrema, data la deplorevole situazione del mondo arabo, lo scarso interesse nei confronti del conflitto israelo-palestinese in atto per più di 140 anni, e dati il governo di estrema destra d’Israele e la passività dell’Autorità palestinese- sembra chiaro che la soluzione dei due Stati per due popoli sta divenendo sempre più impossibile. Così dobbiamo cominciare a pensare ad altre soluzioni parziali, di natura federale , che aggirino l’attuale impossibilità di stabilire un confine internazionale definito tra i due popoli nella terra di Israele.

Nella prima fase, per alleggerire il peso dell’occupazione ( le cui propaggini avvelenano la democrazia anche all’interno dei confini israeliani), è necessario concedere il permesso di residenza ai 100.000 palestinesi che vivono nell’area C e che si confrontano con l’occupazione israeliana, affrontando sia i coloni che l’esercito.

Questi permessi di residenza ai palestinesi prima di tutto gli garantiranno i diritti fondamentali che hanno i coloni che abitano intorno e vicino a loro. In altre parole, i benefici del sistema di sicurezza sociale, l’accesso alle cure sanitarie, i sussidi di disoccupazione, il minimo salariale, la libertà di movimento e un migliore status legale nei confronti delle autorità giudiziarie e della legge israeliane. Tale permesso di residenza potrebbe prevenire l’esproprio delle loro terre ( o renderlo molto più difficile) per mezzo delle varie ignobili proposte di legge per legalizzare la costruzione su terra privata palestinese, oppure per mezzo di ordinanze militari arbitrarie, abusando di loro in quanto soggetti senza diritti.

Contrariamente a quello che è stato insinuato nelle reazioni al mio discorso, concedere il permesso di residenza non significherà l’annessione dell’area C ad Israele. Lo status di questo territorio rimarrebbe lo stesso di oggi: un territorio conteso il cui status sarà deciso in un futuro negoziato tra palestinesi e israeliani, analogamente a quello di Gerusalemme est. Se nel contesto di una soluzione a due Stati Gerusalemme sarà parte dello Stato palestinese, allora il permesso di residenza israeliano, che i 250.000 palestinesi che vivono lì già posseggono, non sarà di ostacolo ad un accordo.

Ho più volte detto che continuerò a sostenere la soluzione a due Stati, proprio come l’ho sostenuta nei 50 anni precedenti. Ma è impossibile non provare a migliorare , anche di poco, la situazione delle migliaia di palestinesi che vivono nell’area C, dove un’occupazione perniciosa avvelena la loro esistenza giorno e notte.

Il nostro urgente dovere umanitario di ridurre la sofferenza umana– nella misura in cui non confligga con il raggiungimento di un giusto accordo nel futuro – viene prima di principi semplicistici. Un palestinese cinquantenne che è nato durante l’occupazione e la affronta di continuo in prima linea, merita di ricevere da subito diritti sostanziali e immediati, anche se solo parziali, al fine di migliorare la sua situazione.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Gli Stati Uniti sono finalmente usciti allo scoperto

di Gideon Levy – 18 dicembre 2016,  Haaretz

In seguito alla designazione di un rappresentante favorevole alle colonie, l’inganno è finito: gli Stati Uniti non saranno più in grado di sostenere di essere un mediatore imparziale nel conflitto israelo-palestinese | Opinione

Il presidente eletto Donald Trump ha deciso di nominare ambasciatore in Israele un avvocato anti-israeliano e razzista. Che è, naturalmente, una sua prerogativa. Lo scorso giovedì, con la nomina di David Friedman, gli Stati Uniti sono usciti allo scoperto. D’ora in poi appoggiano ufficialmente la costituzione di uno Stato israeliano dell’apartheid tra il mare Mediterraneo e il fiume Giordano.

Friedman non è il primo ambasciatore ebreo in Israele – una questione che ha sempre sollevato domande sulla doppia lealtà – ma è il primo sostenitore dichiarato delle colonie a ricoprire questo incarico. Il suo predecessore, Dan Shapiro, era anche lui favorevole alle colonie, come tutti gli ambasciatori prima di lui – rappresentanti di governi che avrebbero potuto bloccare il progetto di colonizzazione ma non hanno mosso un dito per farlo, ed anzi lo hanno finanziato.

Ma ora abbiamo un ambasciatore che ha anche contribuito di tasca propria alla spoliazione.

Questo cambiamento rappresenta la fine delle ridicole denunce da parte del Dipartimento di Stato USA, che Israele ha sempre ignorato. Non più auto diplomatiche nere dopo la costruzione di ogni nuovo balcone nei territori occupati. D’ora in poi abbiamo un ambasciatore che sarà addolorato per l’evacuazione dell’avamposto di Amona [illegale anche in base alle leggi israeliane e di cui la Corte Suprema israeliana ha deciso l’evacuazione. Ndtr.] e che parteciperà alle cerimonie per la posa della prima pietra in ogni nuova colonia.

Ciò implica il fatto che gli Stati Uniti non potranno più sostenere di essere un mediatore imparziale. Non lo sono mai stati, ma ora la maschera è caduta. Da questo punto di vista, la nomina di Friedman è buona e giusta. I palestinesi, gli europei ed il resto del mondo lo sappiano: l’America è favorevole all’occupazione. Basta inganni.

Friedman è un anti-israeliano, come chiunque altro incoraggi Israele a intensificare l’occupazione. Friedman è un razzista, come chiunque altro spinga per uno Stato dell’apartheid. E’ anche antidemocratico e maccartista (avendo detto che i sostenitori di J Street [organizzazione di ebrei USA moderatamente critici con Israele. Ndtr.] sono “molto peggio dei kapo” [internati nei lager che collaboravano con i nazisti. Ndtr.]) – e già ne abbiamo abbastanza tra noi. Friedman li incoraggerà, ed anche in questo egli è palesemente anti-israeliano.

Ma Friedman non è un iscritto al partito di estrema destra Tekuma [partito dei coloni fondamentalisti. Ndtr.], né, per quanto ne sappiamo, del movimento anti-assimilazionista Lehava. Friedman sta per diventare il rappresentante del governo USA in Israele. Ci deve risposte ad una serie di domande – analogamente al Senato, che deve approvare la sua nomina.

Il governo USA ed il Senato sono consci della portata delle opinioni del nuovo ambasciatore? Comprendono che è favorevole all’istituzione di uno Stato dell’apartheid sostenuto e finanziato dal Paese leader del mondo libero? Perché chiunque, come Friedman, si opponga alla soluzione dei due Stati sostiene l’unica alternativa, che è uno Stato unico e, nel caso di Friedman, uno Stato dell’apartheid. E’ così che vogliono apparire gli Stati Uniti, persino gli Stati Uniti di Trump?

Gli israeliani di destra che sostengono l’annessione – e ce ne sono molti – possono velare il loro progetto dietro una fitta nebbia che nasconde il suo reale significato. Ma non è il caso del rappresentante del Paese più potente al mondo.

L’ambasciatore designato ci deve delle spiegazioni. Quando dici annessione, cosa intendi? Quando contribuisci economicamente alla colonia di Beit El, sai che per la maggior parte è costruita su terre private rubate ai palestinesi? Cosa dirà il Senato della tua complicità in un crimine? Quale sarà il destino degli abitanti autoctoni dei territori occupati, che sono ciò che rimane della loro terra rubata? Se tu parli di democrazia e uguaglianza per tutti, nello spirito della costituzione americana, allora avremo uno Stato binazionale, ugualitario e giusto – a cui, purtroppo, quasi ogni israeliano si oppone.

Tuttavia non è quello a cui ti riferisci. La tua annessione significa la perpetuazione dello status di padroni della terra ed espropriati, un regime di separazione che il mondo progressista chiama apartheid.

Sua eccellenza, presumibile ambasciatore, lei ci deve delle risposte. Anche quelli a Washington che la mandano qui ci devono delle risposte. Considerate i palestinesi come esseri umani con gli stessi diritti di cui godono gli ebrei in Terra di Israele? Vi pare che lo Stato vostro alleato agisca in modo giusto? Lo vedete come uno Stato che rispetta le leggi internazionali? Pensate che spingendolo avanti in una direzione nazionalista gli fate un favore? L’appoggio ad uno Stato dell’apartheid è utile agli interessi americani? Ciò riflette i valori dichiarati dall’America? In breve, state con noi o con i nostri avversari?

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il consulente di Trump su Israele sostiene (di nuovo) l’annessione della Cisgiordania con calcoli sbagliati

di Allison Deger 28 settembre 2016, Mondoweiss

nota redazionale: questo articolo è di fine settembre e già allora si mettevano in luce le pessime credenziali del Signor Friedman  recentemente nominato ambasciatore USA in Israele.

Secondo un reportage del Canale 2 di Israele, che ha ottenuto un video dell’incontro, durante una cena con i rappresentanti di un’organizzazione dei coloni a New York il consulente di Donald Trump per Israele ha di nuovo evocato la possibilità che il suo candidato sostenga l’annessione della Cisgiordania occupata da parte di Israele.

Un video della discussione mostra David Friedman, assistente di Trump, mentre parla, presumibilmente due settimane fa, con il dirigente dei coloni Yossi Dagan.

Le riprese colgono Friedman mentre sostiene un’argomentazione matematica per l’espansione territoriale israeliana in tutta la Cisgiordania. Il nocciolo di questa posizione è che l’annessione può essere “ebraica e democratica”, perché ci sarebbe una maggioranza di ebrei se la popolazione dei territori fosse unita a Israele.

“Il concetto che abbiamo, secondo cui ci si debba disfare della Giudea e della Samaria (la Cisgiordania) per conservare il carattere ebraico di Israele, è sbagliato,” ha detto Friedman. “Secondo la maggior parte dei calcoli, se prendi tutto lo Stato di Israele dal Giordano al Mediterraneo, nel senso di annettere tutta la Giudea e Samaria a Israele, la popolazione ebraica sarebbe ancora attorno al 65%. Questa è la più…l’opinione diffusa attualmente.”

“Nessuno si è preoccupato di fare il calcolo,” ha aggiunto Friedman tra un boccone e l’altro, prima di sfoderare le sue statistiche.

“Ci sono 400.000 ebrei che vivono in Giudea e Samaria, altri 400.000 che vivono a Gerusalemme est. Si stanno moltiplicando proprio adesso,” ha detto.

I calcoli di Friedman sono basati su cifre confutabili. Colloca 800.000 coloni ebrei in Cisgiordania e a Gerusalemme est, un forte aumento rispetto ai 500-650.000 coloni secondo i dati del governo e delle Nazioni unite. Anche la maggioranza ebraica del 65% è smentita. La maggioranza dei demografi sostiene che il numero è all’incirca di 50% ebrei e 50% palestinesi tra il Giordano e il Mediterraneo.

Friedman ha anche affermato che la popolazione ebraica sta aumentando con un tasso superiore a quello dei palestinesi. “Per cui la verità è che se tu chiedi a dieci esperti di statistica quanti arabi stanno vivendo in Cisgiordania non ti potrebbero dare una risposta perché nessuno lo sa davvero,” ha sostenuto.

La popolazione palestinese in Cisgiordania è costantemente aumentata dal 1967, l’anno del primo censimento israeliano del territorio, secondo i dati sia dell’Amministrazione Civile israeliana [l’autorità militare che governa nei territori occupati. Ndtr.] che dell’Ufficio Centrale di Statistica palestinese. Entrambi concordano sul fatto che circa 2.5 milioni di palestinesi vivono in Cisgiordania.

Su Gaza, Friedman ha lasciato intendere che i palestinesi di lì sarebbero esclusi dal piano di pace per il Medio Oriente del presidente Trump. Ha detto: “L’evacuazione [israeliana] da Gaza (nel 2005) ha avuto un effetto positivo, ha escluso due milioni di arabi dal calcolo.”

Prima di schierarsi con Trump in aprile, Friedman era relativamente sconosciuto, un avvocato della zona di New York apparentemente senza nessuna competenza in Medio Oriente se non la direzione di un settore per la raccolta di finanziamenti per una colonia della Cisgiordania, Beit El. (Il gruppo si chiama “Amici Americani della Yeshiva di Beit El” ed invia circa 2 milioni di dollari all’anno per finanziare una scuola religiosa fuori Ramallah).

Fiedman una volta ha lavorato anche come curatore fallimentare di un casinò del candidato presidenziale ad Atlantic City.

Dagan è un portavoce del Consiglio Regionale della Samaria, un gruppo noto per accompagnare delegazioni ufficiali USA nella Cisgiordania occupata.

I dati demografici a cui ha fatto riferimento Friedman, che superano di più di un milione i calcoli ufficiali, sono stati forniti dal “Gruppo di Ricerca Demografica Israelo-Americano”, una congrega di studiosi israeliani e americani che hanno pubblicato i loro risultati su due blog invocando “un unico Stato ebraico” sotto controllo israeliano.

Il gruppo non ha un sito web indipendente, i risultati della loro ricerca sono postati su portali in rete poco frequentati, con titoli come il “Progetto per uno Stato unico: uno Stato democratico ebraico” e “Demografia israeliana”.

I loro dati statistici sono rifiutati dai demografi ufficiali come uno strumento lobbistico molto poco attendibile e con lo scopo di indebolire l’appoggio ad uno Stato palestinese.

Il demografo Della Pergola dell’Università Ebraica ha detto a “Times of Israel” [giornale online israeliano. Ndtr.] che il ricercatore che sta dietro questo studio, l’ex-diplomatico israeliano Yoram Ettinger, è “delirante”.

“Sta spacciando un qualche futuro immaginario in un modo assolutamente non professionale, perché non ha mai studiato demografia. Non è altro che un ciarlatano,” ha affermato Della Pergola.

La registrazione video non è la prima occasione in cui Friedman ha sollevato la questione dell’annessione israeliana. In un’ intervista ad “Haaretz” in giugno ha detto al giornale israeliano che Trump potrebbe abbandonare il piano per i due Stati in favore dell’annessione. Facendo questa ipotesi, ha anche citato i dati forniti dal gruppo di Ettinger.

Negli scorsi mesi le considerazioni di Friedman hanno agitato le acque tra le istituzioni degli ebrei americani. Dopo che in luglio ha parlato alla CNN contro i colloqui di pace a favore di un unico Stato ebraico, il presidente dell’Unione per l’Ebraismo Riformato, il rabbino Rick Jacobs, ha scritto in una lettera aperta a Friedman che il progetto di Trump per uno Stato unico “sarebbe uno Stato ebraico che smetterebbe di essere una democrazia e priverebbe del diritto di voto milioni di palestinesi, oppure sarebbe una democrazia e smetterebbe di essere ebraico.”

Friedman ha risposto: “Devo rifiutare categoricamente la sua affermazione secondo cui Israele deve essere o uno Stato democratico o uno Stato ebraico.” In questo scambio epistolare ha fatto di nuovo riferimento agli stessi calcoli errati che si ritrovano nel video del suo pranzo a New York.

Allison Deger è vice caporedattore di Mondoweiss.net.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La legge che mette in evidenza la vera natura colonialista di Israele

di Oren Yiftachel

14 dicembre 2016, Haaretz

Sia che si tratti di terra coltivata (Negev) che incolta (Cisgiordania), si troverà uno stratagemma legale per trasferirla da mani arabe a  ebraiche|Opinione

Durante il periodo coloniale il concetto giuridico di terra nullius è stato utilizzato per definire terre senza diritti di sovranità o proprietà come terre di nessuno. Ciò per centinaia di anni ha fornito agli europei una giustificazione legale per strappare il controllo di territori e persone ai quattro angoli della terra. Questo concetto, reso ora nullo, affermava tra le altre cose, che le terre dei popoli nativi di America, Africa, Asia ed Australia, che non erano formalmente accatastate o gestite in modo “moderno”, erano da considerarsi “prive” di diritti legali.

Questo approccio ha avuto varie versioni, a seconda di chi comandava, ma la sostanza era la stessa: tutto ciò che aveva preceduto l’invasione europea -storia, cultura, agricoltura e leggi tradizionali – era cancellato. Il principale strumento che permetteva agli europei di esercitare il controllo, oltre alla violenza, era la legge. L’invasore, che era anche il legislatore, garantiva che l’accaparramento delle terre a danno dei nativi sarebbe sempre rimasto coperto da un ingannevole e mistificatorio velo di “legalità”.

[Il concetto di] terra nullius, come un modo di pensare e una “categoria” di sistemi legali, ha operato nel mondo fino a XX° secolo inoltrato, quando è emersa una legislazione opposta, che sostiene i diritti umani e riconosce quelli dei popoli indigeni. La nuova tendenza ha gradualmente ammesso che anche le culture e i popoli colonizzati hanno i propri legittimi sistemi di leggi, di proprietà e di governo.

Nel caso “Mabo” del 1992, la Corte Suprema australiana ha formalmente ribaltato il concetto giuridico di terra nullius, e molti altri Paesi hanno fatto altrettanto. La dichiarazione ONU sui diritti dei popoli indigeni del 2007 delinea le nuove norme internazionali, che rispettano le leggi consuetudinarie e proibiscono l’appropriazione di terre e risorse dei nativi o il trasferimento forzato di comunità autoctone.

La scorsa settimana il controverso disegno di legge israeliano noto come “Legge per la Regolarizzazione”, che intende legalizzare insediamenti ebraici (“avamposti”) non autorizzati in Cisgiordania ha superato la prima lettura. Questo disegno di legge può a buon diritto far parte della legislazione globale sulla terra nullius. Può darsi che sia in ritardo di un secolo, ma, in nome dell’occupazione e dell’insediamento coloniale -in questo caso, ebraico -, questa legge cancellerà la validità dei precedenti sistemi di proprietà in vigore da secoli. Come hanno ribadito i dirigenti dei coloni (“Smettiamola di chiedere scusa!”), nessuno gli impedirà di violare le leggi internazionali e ignorare etica e giustizia.

E’ una classica posizione colonialista. Proprio come i colonizzatori che hanno importato le loro leggi dalle capitali europee, gli abitanti di Amona (tutti coloni ebrei, naturalmente) mirano a importare le loro leggi dallo Stato occupante. Bisogna sottolineare che, secondo le norme internazionali, nessuno Stato ha l’autorità di emanare leggi riguardanti territori al di fuori dei propri confini nazionali o dichiarare proprietà di quello Stato terreni di questi territori.

Naturalmente ciò non significa che non ci siano milioni di ettari di terre ebraiche e israeliane che sono stati acquisiti o registrati in modo corretto, o che il diritto degli ebrei all’autodeterminazione sia minacciato. Per niente. Questa consapevolezza mette in una luce più chiara l’ingiustizia dell’appropriazione di terre attraverso inganni legali, mentre un tale furto non è per niente necessario allo Stato ebraico.

Comunque è altresì importante non esagerare l’importanza della legge attualmente in discussione, in quanto aggiunge solo un ulteriore, ancora più brutale livello al sistema che è iniziato 70 anni fa, attraverso il quale le terre palestinesi sono state trasferite agli ebrei con mezzi che “legalizzano” l’esproprio da parte dello Stato.

La messa in pratica dell’approccio della terra nullius è iniziata nel 1948 e si è aggravata dopo il 1967 – quando l’esproprio a danno di singoli individui ha riguardato le collettività, impedendo la realizzazione di uno Stato palestinese. E’ importante ricordare nell’attuale polemica che lo Stato per 70 anni ha cancellato, attraverso iniziative legali contorte e riguardanti la sicurezza, la maggior parte dei precedenti diritti legittimi dei palestinesi.

Stando così le cose, il cosiddetto “forte dissenso”, di cui si parla, tra persone che sarebbero a favore della “certezza del diritto”- Isaac Herzog [del partito Laburista. Ndtr.], Benny Begin [del Likud. Ndtr.] e Avichai Mendelblit [capo della procura militare. Ndtr.]– e “trasgressori della legge”, come Naftali Bennett e Uri Ariel [ministri e dirigenti del partito di estrema destra dei coloni. Ndtr.], può essere visto come una mossa di facciata. La nuova legislazione nella sua essenza non è nuova. Cambierà semplicemente i tempi: invece di dichiarare che le terre in apparenza erano di proprietà dello Stato ebraico fin da prima dell’insediamento dei coloni, la legge permetterà di dichiarare che lo sono dopo anni di insediamento delle colonie.

Ogni arabo che vive nelle Galilee, nel Triangolo [zona centro-settentrionale di Israele a maggioranza palestinese. Ndtr.] e soprattutto nel Negev può testimoniare che metodi simili sono stati utilizzati anche là per svuotare il sistema autoctono dei diritti di proprietà. In quelle regioni lo Stato ha spesso dichiarato terre arabe “vuote” o “abbandonate”, “morte” o “necessarie per finalità pubbliche (ebraiche)”, ed ha trasferito la proprietà a ebrei.

I metodi per trasformare in ebraiche terre palestinesi in Cisgiordania sono dettagliati in un nuovo rapporto di B’tselem, sotto il titolo “Espellere e sfruttare”. Questo rapporto documenta nei particolari la recente storia di terreni attorno a tre località palestinesi nei pressi di Nablus: Azmut, Deir al-Khatab e Salem. Il quadro generale è noto e inquietante: vasti appezzamenti di terre dei villaggi sono stati progressivamente trasferiti a ebrei attraverso varie misure che hanno incluso la creazione di aree di sicurezza, strade asfaltate ad accesso limitato, costituzione di avamposti illegali, registrazione come proprietà abbandonate e destinazione di territori a riserve naturali.

Il rapporto completa un ampio studio di B’tselem del 2012 intitolato “Sotto le mentite spoglie della legalità”, che ha documentato i modi in cui Israele ha manipolato le leggi ottomane ed inglesi per trasferire terre private palestinesi in mani israeliane ed ebraiche. Il rapporto ha dimostrato per la prima volta che Israele non solo ha gravemente violato le leggi internazionali, ma anche quelle nazionali, stravolgendo le norme fondiarie ottomane e britanniche. Ciò nonostante l’obbligo per lo Stato di conservare ogni norma legale già esistente nelle regioni occupate.

Il processo distorto in Cisgiordania si basa sul fatto di dichiarare che terre incolte nelle zone agricole dei villaggi possono essere dichiarate terre statali – benché, secondo il diritto ottomano, ognuna di tali terre non coltivate debba essere prima offerta ai precedenti proprietari, poi al villaggio di appartenenza o essere venduta con un’asta pubblica.

Israele ha ignorato le clausole più scomode del diritto ottomano e le ha sostituite con ordinanze del Mandato [inglese sugli ex territori dell’impero ottomano. Ndtr.], che erano concepite per delimitare le terre pubbliche in un contesto completamente diverso. Questa distorsione ha fornito le basi di una massiccia ed illegale “israelificazione” delle terre palestinesi. Inutile dire che i governanti ottomani e inglesi che hanno emanato queste leggi non hanno mai espropriato terre palestinesi (o ebraiche) in questo modo.

Fin dal 1970 Israele ha utilizzato una simile manipolazione della legge nel Negev, dichiarando terre non formalmente registrate in due momenti storici diversi – nel 1858 e nel 1921 – come “mewat”, ossia “terre morte”. Queste sono presumibilmente terre incolte, non occupate, abbandonate e periferiche, senza proprietario e pertanto terre statali. Israele ha fatto tutto ciò nonostante l’appartenenza storica delle terre ai beduini, molte delle quali erano coltivate e occupate, secondo le leggi tradizionali e riconosciute dagli ottomani e dagli inglesi.

Tutti lo sapevano, comprese le istituzioni sioniste che pagarono a caro prezzo vasti terreni dei beduini, con l’approvazione delle autorità britanniche. Tuttavia anche qui lo Stato ignora le parti scomode della storia e della legge, classificando in seguito queste terre come “morte”. In casi giudiziari recenti lo Stato sta fondamentalmente dicendo ai beduini: “I vostri padri e nonni non lo sapevano, ma vi stiamo dicendo che erano occupanti abusivi, e le terre che avete ereditato o comprato sono dello Stato.”

I tribunali hanno approvato questa interpretazione soprattutto in base alla precedente cultura giuridica in vigore in Israele, che si basa su vecchie sentenze. Queste vennero emesse in un periodo in cui i proprietari di terre arabi erano privi di potere e non avevano le risorse per sfidare l’espropriazione mascherata di legalità.

Il confronto tra la Cisgiordania e il Negev pone in evidenza il persistente e continuo processo di giudeizzazione sotto il regime israeliano. Che la terra sia coltivata (Negev) o incolta (Cisgiordania), sarà trovato un escamotage legale per trasferirla da mani arabe a ebraiche, rendendola quindi “terra nullius” – terra svuotata dei diritti originari.

Alla luce di questa lunga e distorta storia giuridica, è forse preferibile per chi desidera pace e giustizia che la legge per la legalizzazione sia totalmente accolta, e non respinta dalla Knesset o dall’Alta Corte di Giustizia. Ciò ci risparmierà le false distinzioni tra l’attuale legislazione e le precedenti discutibili leggi per l’espropriazione, e spazzerà via le differenze tra Amona e Ofra [colonia israeliana legittima secondo le leggi israeliane. Ndtr.] o tra Salem e ‘Araqib [rispettivamente un villaggio palestinese della Cisgiordania e uno beduino nel Negev israeliano. Ndtr.]. La legge metterà chiaramente in evidenza quello che Israele ha fatto per anni di nascosto: prendere il controllo colonialista delle terre palestinesi mettendo in atto la propria versione della dottrina della terra nullius, annullata e invalidata dalle leggi internazionali.

Se approvata, la nuova legislazione metterà l’approccio israeliano nel posto che gli compete, come parte di un oscuro periodo coloniale i cui tempi sono passati. Forse ciò scatenerà un processo di trasformazione e decolonizzazione ad ampio raggio, così urgentemente necessario nella nostra terra lacerata.

L’autore insegna geografia politica e giuridica nel Negev ed è un ex copresidente di B’tselem.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Espellere e sfruttare: la pratica israeliana di impossessarsi dei terreni agricoli palestinesi

La sintesi del Rapporto di B’Tselem,

B’Tselem

Dic 2016

Questo rapporto racconta la storia del processo di frammentazione imposto ai terreni agricoli palestinesi in Cisgiordania attraverso lo studio del caso di tre villaggi nel distretto di Nablus – ‘Azmut, Deir al-Hatab e Salem.

Quello che queste comunità hanno subito dal 1980, quando Israele ha fondato nelle vicinanze Elon Moreh [colonia israeliana di circa 1700 abitanti. Ndtr.], non è altro che uno degli esempi di dinamiche più estese che hanno avuto luogo in tutta la Cisgiordania. La loro storia è simile a quella di centinaia di comunità palestinesi sulle cui terre sono stati costruiti insediamenti israeliani.

Come molti altri villaggi palestinesi, Azmut, Deir al-Hatab e Salem si sono sviluppati in sintonia con le caratteristiche geografiche della zona. Terreni coltivati, pascoli e fonti idriche naturali sono serviti come fondamento dell’economia locale e come base per la formazione di un’intera cultura che lega profondamente gli abitanti al loro ambiente. I contadini utilizzavano per lo più coltivazioni tradizionali delle zone aride, coltivando ulivi e alberi da frutto, legumi e cereali. Allevavano anche bestiame, basandosi su pascoli naturali che si estendono lungo le distese collinose del al-Jabal al-Kbir (letteralmente: la Grande Montagna) e le vallate circostanti. Per centinaia di anni i contadini hanno vissuto di agricoltura e pastorizia.

Dall’occupazione del 1967 Israele ha utilizzato varie misure – ufficiali e non – per tagliare fuori i contadini dalla loro terra e assegnarla ai coloni. Il primo passo fu la fondazione nel 1980 della colonia di Elon Moreh su 127,8 ettari (1.278 dunam) delle terre del villaggio già registrate come proprietà statale sotto il governo giordano precedente il 1967. Solo due anni dopo il Comando della Giudea e Samaria stabilì una riserva naturale su una parte delle terre rimanenti a ovest della colonia. Ciò determinò la creazione di una zona, molto più ampia della giurisdizione dell’insediamento, in cui i palestinesi devono ottenere un permesso israeliano per intraprendere qualunque tipo di attività, costruzione, nuove coltivazioni o allevamento di bestiame. Nel 1987 170 ettari della riserva naturale furono dichiarati “terra dello Stato” e nel 1998 vi venne costruito un avamposto illegale dei coloni.

“Circa cinque coloni vivono nella fattoria Skali, ed hanno più pecore di tutti quanti gli abitanti del nostro villaggio messi insieme. Hanno grandi greggi – da 500 a 1.000 pecore a testa – mentre noi, gli abitanti di Salem che siamo i proprietari della terra, non abbiamo il permesso di attraversare la strada e allontanarci dalle nostre case, e le nostre pecore rimangono tutto il tempo nei recinti. Non escono mai a pascolare e non abbiamo nessun posto in cui portarle.”

La fase successiva del processo di espropriazione ebbe luogo alla fine di settembre 1995, dopo che Israele e i palestinesi firmarono gli accordi di Oslo II. Le terre di Azmut, Deir al-Hatab e Salem furono divise tra le aree B e C: la maggior parte dei terreni su cui si era costruito all’epoca fu definita area B, mentre la maggior parte delle riserve di terra, coltivazioni e pascoli dei villaggi furono attribuiti all’area C, sotto totale controllo israeliano. Da allora l’uso delle terre definite come area C, praticamente per ogni uso – soprattutto per la costruzione e lo sviluppo – è soggetto all’approvazione israeliana, che quasi sempre è negata ai contadini. Così facendo Israele ha messo le basi amministrative per separare i centri abitati dei villaggi dalla maggior parte dei loro terreni coltivati e pascoli.

Nel 1996 Israele costruì una strada per unire le colonie di Elon Moreh e Itamar, in modo che gli israeliani non dovessero più attraversare la zona abitata di Salem. Così, seguendo le basi amministrative stabilite un anno prima, Israele mise in piedi l’infrastruttura concreta per separare fisicamente le zone abitate dei tre villaggi dalle loro coltivazioni e pascoli. Nel 2000, quattro anni dopo che la strada era stata asfaltata, è scoppiata la seconda Intifada. Da allora, Israele ha vietato ai palestinesi di utilizzare la strada e persino di attraversarla. Benché questa proibizione sia priva di base legale, la tangenziale di Elon Moreh ha costituito la misura più radicale e significativa per bloccare l’accesso dei contadini alle terre coltivate, ai pascoli e alle fonti idriche naturali.

In pratica ogni restrizione che Israele ha imposto agli abitanti di Azmut, Deir al-Hatab e Salem ha permesso ai coloni di invadere quelle terre ed estendere il territorio sotto il loro controllo. La separazione determinata da Israele tra gli abitanti palestinesi e le loro terre coltivate ed i loro pascoli consente ai coloni di costruire case, stabilire avamposti, tracciare sentieri, piantare coltivazioni e uliveti, allevare greggi e appropriarsi di sorgenti di acqua di quella terra. Nel contempo i contadini sono anche regolarmente sottoposti a violenti attacchi.

Israele ha sempre tentato di dare una sorta di legalità alle sue azioni in Cisgiordania, sostenendo che queste azioni sono legali (in base alle leggi internazionali o a quelle applicabili alla Cisgiordania) oppure che sono iniziative private intraprese dai coloni. Tuttavia tutte queste attività rappresentano violazioni delle leggi internazionali e sono basate su un’interpretazione distorta e manipolatoria delle leggi che Israele stesso applica in Cisgiordania.

La separazione forzata dei contadini palestinesi dalle loro terre, pascoli e risorse idriche naturali ha violato gravemente i loro diritti, devastato l’economia locale e li ha proiettati nella povertà e nella dipendenza da istituzioni esterne. I contadini sono stati lasciati in uno stato di insicurezza a più livelli: finanziario, alimentare e sociale.

Questa è la storia di tre villaggi, una sola area rurale. Ma è una storia che si ripete spesso. Questo rapporto illustra una radicale politica di lungo periodo che Israele ha messo in atto in Cisgiordania per quasi cinquant’anni. Sotto l’apparenza di un’ “occupazione militare temporanea”, Israele tratta i territori occupati a suo piacere: portando via la terra, sfruttando le risorse naturali e creando colonie permanenti. Gli abitanti palestinesi sono stati progressivamente spogliati delle loro terre, delle loro radici e dei mezzi di sussistenza, per essere sostituiti dal controllo israeliano attraverso azioni ufficiali dirette o da attività dei coloni come suoi rappresentanti.

Nel corso degli anni Israele ha spogliato i palestinesi di circa duecentomila ettari di terra, compresi coltivazioni e pascoli, che poi ha destinato generosamente alle colonie. Alcune aree sono state dichiarate “aree militari chiuse” ed ai palestinesi è stato vietato di entrarvi senza un permesso; altri appezzamenti sono stati occupati creando fatti sul terreno e con l’uso della forza. Circa 580.000 israeliani attualmente vivono in Cisgiordania (compresa Gerusalemme est) in oltre 200 colonie, e godono di quasi tutti i diritti e privilegi attribuiti ai cittadini israeliani che vivono in Israele, all’interno della Linea Verde.

L’impatto che le colonie della Cisgiordania hanno sulla vita degli abitanti palestinesi è molto più ampio rispetto alle terre destinate alla semplice costruzione delle colonie: altre terre sono state espropriate per creare centinaia di chilometri di strade di collegamento asfaltate; posti di blocco e altre misure che limitano i movimenti solo per i palestinesi sono stati messi in atto in base alla collocazione degli insediamenti; l’accesso dei proprietari palestinesi a molte delle loro terre agricole – all’interno o all’esterno delle aree delle colonie – è stato nei fatti bloccato; il tortuoso tracciato della Barriera di Separazione – che viola gravemente i diritti dei palestinesi che vivono nei dintorni – è stato situato in profondità all’interno della Cisgiordania, soprattutto per inserire quante più colonie possibile sul suo lato occidentale (israeliano), insieme ad estesi appezzamenti che Israele ha destinato alla futura espansione di quelle comunità.

Intanto Israele ignora totalmente le necessità di milioni di palestinesi che vivono sotto il rigido regime militare della Cisgiordania, che nega a questi abitanti la possibilità di partecipare alla definizione del loro futuro, li priva dei loro diritti e delle loro risorse e impedisce loro qualunque possibilità di assicurarsi una vita quotidiana normale.

La politica di Israele dimostra chiaramente che lo Stato non vede l’occupazione, che si sta rapidamente avvicinando al mezzo secolo, come temporanea. Nel corso degli anni, gli insediamenti sono effettivamente diventati parte del territorio sovrano di Israele. Benché Israele abbia finora evitato un’annessione formale (tranne che a Gerusalemme est), ha lavorato in molti modi per eliminare la Linea Verde per i suoi cittadini, mentre ha concentrato la popolazione palestinese in 165 “isole” (le aree A e B) – enclaves non contigue che non possono prosperare. Questo movimento parallelo, dei coloni israeliani che si trasferiscono e occupano sempre più terra della Cisgiordania e i palestinesi che vengono espulsi, è stato una costante della politica israeliana in Cisgiordania fin dal giugno del 1967, con gli organi legislativo, giuridico, della pianificazione, finanziari e della difesa israeliani che hanno lavorato per questo obiettivo.

( Traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto Ocha del periodo 29 novembre- 12 dicembre ( due settimane)

L’8 dicembre, al checkpoint di Za’tara (Salfit), le forze israeliane hanno ucciso un 18enne   palestinese;secondo quanto riferito, avrebbe tentato un’aggressione con il coltello.

Dall’inizio del 2016, questo è il secondo episodio del genere accaduto presso questo checkpoint, collocato in un nodo strategico che consente il controllo della principale arteria di traffico verso il nord della Cisgiordania (Road 60) e verso la Valle del Giordano. Un episodio simile, accaduto il 10 dicembre al posto di blocco di Qalqiliya Nord, si è concluso con l’arresto di una ragazza palestinese di 15 anni, sospettata di aver tentato di accoltellare un soldato israeliano; non sono stati segnalati feriti israeliani.

Le autorità israeliane hanno trattenuto il cadavere del giovane palestinese ucciso nell’episodio di cui sopra. Al momento risultano trattenuti 27 cadaveri di palestinesi, alcuni dei quali da più di otto mesi.

Il 4 dicembre la Protezione Civile Palestinese di Gaza ha recuperato i corpi di quattro persone da un tunnel utilizzato per il contrabbando nel tratto lungo il confine con l’Egitto; il tunnel era crollato il 27 novembre scorso. In quest’area l’attività di contrabbando è in gran parte ferma dalla metà del 2013, dopo la distruzione o il blocco della stragrande maggioranza delle gallerie ad opera delle autorità egiziane. Inoltre, in seguito al crollo di un tunnel militare ad est di Gaza City, il 7 dicembre due membri palestinesi di un gruppo armato sono morti ed un altro è rimasto ferito.

In Cisgiordania, nel corso di molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 39 palestinesi, tra cui 11 minori. Cinque dei feriti si sono avuti nella Striscia di Gaza, vicino al valico di Nahal Oz (chiuso da tempo), durante scontri scoppiati nel corso di proteste in prossimità della recinzione perimetrale. I restanti ferimenti (34) si sono verificati in Cisgiordania: nel corso di operazioni di ricerca-arresto (la maggior parte), durante la manifestazione settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya), e durante scontri con le forze israeliane presenti all’ingresso del Campo profughi di Shu’fat (Gerusalemme Est). Inoltre, secondo i media israeliani, in due distinti episodi verificatisi vicino all’incrocio di Jaba’ (Gerusalemme) e nel villaggio di Deir Nidham (Ramallah), quattro soldati israeliani sono stati feriti dal lancio di pietre ad opera di palestinesi.

A Gaza, in almeno 24 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti o in avvicinamento ad Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare. In un’altra occasione, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza ed hanno effettuato un’operazione di spianatura del terreno. Non sono stati segnalati feriti, ma il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto.

In Cisgiordania, forze israeliane hanno condotto quasi 100 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato circa 120 palestinesi, tra cui 29 minori; tre di questi sono sospettati di aver partecipato al lancio di pietre contro le forze israeliane presenti all’ingresso della Scuola Maschile di As Sawiya (Nablus). Una delle operazioni di ricerca, per la quarta volta nel corso del 2016, ha avuto come obiettivo l’Università Al Quds di Gerusalemme. A Gaza, sei palestinesi, tra cui quattro pescatori, un uomo che tentava di entrare illegalmente in Israele ed un mercante che rientrava in Gaza, sono stati arrestati dalle forze israeliane. Inoltre, una barca da pesca è stata sequestrata.

In zona C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 17 strutture, sfollando 17 persone e diversamente coinvolgendone altre 356. La metà delle strutture colpite si trovavano in Area C, presso quattro comunità beduine e pastorali palestinesi; tra esse quella di Susiya (Hebron), dove sono state sequestrate parti di un impianto fotovoltaico utilizzato dalla Comunità. Sulla maggior parte delle strutture di Susiya incombono ordini di demolizione e la Comunità è esposta ad un elevato rischio di trasferimento forzato.

In quattro occasioni, per consentire l’addestramento militare, le forze israeliane hanno temporaneamente sfollato, per diverse ore ogni volta, 85 persone appartenenti a due comunità di pastori nel nord della Valle del Giordano (Khirbet ar Ras al Ahmar e Humsa al Bqai’a). Nella prima Comunità, le autorità israeliane hanno anche sequestrato un trattore e consegnato un ordine di arresto lavori per una rete elettrica. Entrambe le comunità si trovano in un’area designata come “zona per esercitazioni a fuoco”; tali zone costituiscono quasi il 30% dell’Area C. Finora, nel 2016, ci sono stati 27 episodi di sfollamento temporaneo per consentire esercitazioni militari; tali episodi sono parte del contesto coercitivo che spinge i residenti ad andarsene.

Sempre in Area C, nel governatorato di Hebron, le autorità israeliane hanno emesso ordini di demolizione e di stop-lavori contro due abitazioni in costruzione ed un muro di contenimento ad Al Baqa’a e Beit Ummar, e contro quattro strutture abitative e di sussistenza nella zona di Masafer Yatta. Inoltre, le autorità israeliane hanno sequestrato quattro veicoli di proprietà palestinese: un bulldozer utilizzato per un progetto di ristrutturazione/risanamento (finanziato da un donatore), nel villaggio di As Sawiya (Nablus); una autocisterna per le acque reflue in Einun (Tubas); due veicoli privati nel villaggio di Azzun Atma (Qalqiliya). Per questi ultimi c’era il sospetto che fossero coinvolti nel trasporto di lavoratori illegali in Israele.

A Gerusalemme Est, per mancanza dei permessi di costruzione rilasciati da Israele, il Comune ha consegnato ordini di demolizione contro 13 edifici in Al Bustan, zona di Silwan, minacciando di sfollare circa 100 palestinesi. Negli ultimi anni, Silwan è stato soggetto ad intense attività di insediamento, incluso un progetto per la realizzazione di un complesso turistico in Al Bustan che, se fosse realizzato, comporterebbe lo sfollamento di più di 1.000 residenti palestinesi; altre centinaia di residenti sono a rischio di sfollamento a motivo delle procedure di sfratto avviate da organizzazioni di coloni.

Nel periodo di riferimento sono stati registrati cinque attacchi di coloni israeliani con conseguenti ferimenti di palestinesi o danni alle proprietà; tra questi la vandalizzazione di almeno 200 alberelli di ulivo di proprietà palestinese nel villaggio di Turmus’ayya (Ramallah). Altri due episodi si sono verificati nella zona di Nablus: l’aggressione fisica di un anziano palestinese vicino al villaggio di As Sawiya e il danneggiamento del raccolto dovuto a bestiame lasciato pascolare su un terreno coltivato presso il villaggio di Salim. Altri due episodi collegati a coloni si riferiscono a lancio di pietre contro veicoli palestinesi, presso il villaggio di Nahhalin (Betlemme) e il villaggio di Deir Istiya (Salfit), con relativo danneggiamento di due veicoli.

Coloni israeliani hanno collegato una rete idrica alla sorgente naturale di “Ein al Sha’ra” nel villaggio di Madama (Nablus), per pompare l’acqua verso l’insediamento colonico Yitzhar. Una indagine effettuata da OCHA nel 2011* aveva rilevato che, in Cisgiordania, trenta sorgenti erano sotto il pieno controllo di coloni ed inaccessibili ai palestinesi, mentre altre 26 sorgenti erano a rischio di acquisizione / impossessamento da parte di coloni.

* nota: in calce al presente report sono riportate le prime righe di tale indagine

I media israeliani hanno riferito che, durante il periodo di due settimane, si sono verificati quattro episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: non sono state provocate vittime, ma sono stati segnalati danni a parecchi veicoli.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto per tre giorni (10, 11 e 12 dicembre) per i casi umanitari: è stata consentita l’uscita dalla Striscia di Gaza a 2.021 persone ed il rientro a 1.510. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, dall’inizio del 2016, circa 20.000 persone sono registrate ed in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

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* Quanto segue è tratto dall’indagine OCHAoPt: “Come avviene l’espropriazione – impatto umanitario dell’impossessamento delle sorgenti da parte dei coloni”

“Negli ultimi anni, in Cisgiordania, un numero crescente di sorgenti d’acqua locate nei dintorni di insediamenti israeliani sono diventate bersaglio di azioni di coloni che hanno eliminato, o mettono a rischio, l’accesso a queste sorgenti ed il loro utilizzo da parte dei palestinesi. Un’indagine effettuata da OCHA nel corso del 2011 ha individuato un totale di 56 di tali sorgenti che, in grande maggioranza, si trovano in Area C (93%), su appezzamenti di terreno registrati dall’Amministrazione Civile Israeliana (ICA) come proprietà privata di palestinesi (almeno 84%).

Trenta (30) di queste sorgenti sono risultate essere sotto il pieno controllo dei coloni ed i palestinesi non hanno possibilità di accedere ad esse. In tre quarti di questi casi (22 sorgenti), i palestinesi sono stati dissuasi dall’accesso alle sorgenti tramite atti di intimidazione, minacce e violenze perpetrate da coloni israeliani. Nei restanti 8 casi di sorgenti sotto il pieno controllo dei coloni, l’accesso dei palestinesi è stato impedito da ostacoli fisici, tra cui la recinzione delle aree in cui si trovano le sorgenti e la loro annessione de facto agli insediamenti colonici (quattro casi) o l’isolamento, causato dalla Barriera, delle aree sorgive dal resto della Cisgiordania e la loro successiva designazione come “zona militare chiusa” (quattro casi).

Le altre 26 sorgenti sono a rischio di impossessamento da parte di coloni. Questa categoria comprende le sorgenti che sono diventate l’obiettivo di sistematici “tour” da parte di coloni, e/o di pattugliamento da parte degli incaricati della sicurezza degli insediamenti colonici. Mentre, al momento del sondaggio, i palestinesi potevano comunque accedere ed utilizzare queste sorgenti, agricoltori e residenti palestinesi hanno riferito che la presenza costante di gruppi di coloni armati nella zona ha un effetto intimidatorio che ne scoraggia l’accesso e l’uso.

Contemporaneamente all’eliminazione o alla riduzione degli accessi dei palestinesi, in 40 delle 56 sorgenti individuate nell’indagine, coloni israeliani hanno cominciato a modificare le aree circostanti come “aree di attrazione turistica”. Lavori realizzati per questo scopo comprendono, tra gli altri, la costruzione o la ristrutturazione di piscine; la messa in opera di tavoli da picnic e di ripari per l’ombreggiatura; la pavimentazione di strade che conducono alla sorgente; l’installazione di cartelli che riportano il nome ebraico della sorgente … ”

Indagine completa (in lingua inglese):

https://www.ochaopt.org/documents/ocha_opt_springs_report_march_2012_english.pdf

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it