Alcune donne palestinesi che manifestavano contro la violenza domestica sono state aggredite dalla polizia israeliana

Shatha Hammad

26 settembre 2019– Middle East Eye

Il gruppo ‘Free Homeland, Free Women’ ha tenuto proteste contro la violenza domestica in tutta la Cisgiordania occupata, a Gaza e in Israele

Giovedì, davanti alle mura del castello turrito che per secoli ha difeso la Città Vecchia di Gerusalemme, centinaia di donne si sono riunite per protestare e chiedere la fine della violenza domestica per poi essere affrontate e, nel caso di alcune di loro, aggredite dalle forze di sicurezza israeliane.

Il gruppo “Free Homeland, Free Women” [Patria Libera, Donne Libere] si è radunato per denunciare che, secondo i dati stilati dal Women’s Centre for Legal Aid and Counselling [Centro per il Sostegno Legale e di Ascolto delle Donne] (WCLAC), lo scorso anno almeno 23 donne palestinesi sono state uccise durante liti domestiche.

Le manifestanti sono state anche motivate dalla recente morte in un ospedale di Betlemme di Israa Ghrayeb, una ‘makeup artist’ diciannovenne, in seguito a quello che i suoi amici e sostenitori hanno descritto come un “delitto d’onore”. Eppure le forze israeliane avevano in mente qualcos’altro. Hanno represso con violenza la protesta pacifica attaccando alcune delle donne mentre marciavano verso il centro della Città Vecchia.

Immagini postate su Facebook mostrano una fila di poliziotti che spingono le dimostranti su per la scalinata e lontano dall’entrata della Porta di Damasco verso la Città Vecchia.

Poi si possono vedere parecchi poliziotti che urtano violentemente le manifestanti gettando a terra alcune di loro.

Nimir al-Mughrabi, un’attivista del gruppo di donne, racconta a Middle East Eye che le forze israeliane hanno colpito molte manifestanti, ferendo una donna a un occhio e un’altra a una mano.

Forze israeliane a cavallo hanno anche inseguito le dimostranti, cercando di procedere ad arresti, dice al-Mughrabi. Uno degli arrestati è un tredicenne identificato come Majdi Abu al-Arabi.

Al-Mughrabi ha raccontato a MEE che le forze israeliane hanno iniziato a usare tattiche intimidatorie quando le donne hanno cominciato a riunirsi in strada dalla Città Vecchia, aggiungendo che le bandiere palestinesi sono state confiscate, mentre le forze israeliane cercavano di sbarrare la strada alla manifestazione.

Un portavoce della polizia israeliana ha detto a MEE che la protesta è stata consentita a patto che non disturbasse l’ordine pubblico.

Ma, ha affermato, alcune manifestanti hanno sventolato bandiere palestinesi, il che rappresenta una violazione dell’ordine pubblico.

Le dimostranti hanno iniziato ad affrontare la polizia ed hanno anche lanciato lattine contro di essa. Ciò ha obbligato la polizia a disperdere il raduno per mantenere l’ordine pubblico,” ha detto il portavoce.

Proteste simili, organizzate da gruppi per i diritti delle donne, si sono tenute durante il giorno nelle città palestinesi di Ramallah, Gaza, Arrabeh,Taybeh, al-Jish, Nazaret, Giaffa e Haifa le ultime 4 località si trovano in Israele, ndtr.], ed anche a Berlino e a Beirut.

https://twitter.com/i/status/1177269621109534720

Il gruppo si definisce un collettivo di donne palestinesi indipendenti che chiedono la fine di ogni forma di violenza contro le donne palestinesi ovunque.

Si è formato dopo che lo scorso mese Israa Ghrayeb è stata uccisa da membri della sua famiglia, scatenando una piccola ondata di proteste nelle comunità palestinesi.

Alcune componenti del gruppo hanno detto di essere particolarmente preoccupate per il “temporeggiamento” da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese nel denunciare il crimine e nel farne pagare le conseguenze ai responsabili.

“Noi (donne) rifiutiamo il fatto di essere una priorità che è rinviata a dopo la liberazione nazionale,” dice a MEE Razan Hazim, un’aderente a “Free Homeland, Free Women” che ha partecipato alla protesta di Ramallah. “Rifiutiamo la parola ‘dopo’,” afferma. “Intendiamo ridefinire la liberazione nazionale sulla base della libertà, della giustizia e della dignità sociale.”

Sottolinea che il gruppo intende espandersi progressivamente e continuare il movimento finché la violenza contro le donne palestinesi verrà bloccata.

A Ramallah le manifestanti hanno terminato il corteo davanti al Complesso Medico Palestinese, il principale ospedale pubblico della città, in cui una donna di 39 anni di Jenin viene curata per le percosse che ha subito.

La donna sarebbe stata picchiata dalla sua famiglia ed ha sofferto fratture alle gambe talmente gravi che, secondo i media locali, i medici potrebbero doverle amputare.

Ma, pur dicendo che la protesta del gruppo è concentrata sulle donne uccise durante litigi domestici, Hazim sottolinea anche che l’occupazione israeliana ha solo reso più grave questa violenza.

Le donne che vivono nelle zone controllate da Israele sono più vulnerabili di quelle della Cisgiordania e di Gaza, dice Hazim, dato che sanno di non poter ricorrere all’applicazione della leggi israeliane.

Le manifestazioni oggi rappresentano una garanzia per noi come palestinesi che possiamo sconfiggere la situazione imposta dal colonialismo, la divisione della Palestina e la nostra espulsione,” dice Hazim a MEE.

Le dimostranti hanno sollevato anche un’altra questione nazionale, includendo le pretese da parte di Israele di una Gerusalemme indivisa come sua capitale e i continui arresti di migliaia di prigionieri politici palestinesi.

La marcia di oggi è parte del tentativo di recuperare spazi pubblici confiscati dall’occupazione a Gerusalemme,” dice Hazim, aggiungendo che il suo gruppo appoggia la liberazione di “tutta la Palestina occupata, dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo].”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Figlia mia, queste sono lacrime di lotta

Bassem Tamimi

29 dicembre 2017 Haaretz

Il padre di Ahed Tamimi: “Sono fiero di mia figlia. Lei è una combattente per la libertà e guiderà la resistenza al dominio di Israele nei prossimi anni”

Anche questa notte, come sempre da quando dozzine di soldati hanno fatto irruzione a casa nostra nel mezzo della notte, mia moglie Nariman, mia figlia sedicenne Ahed e Nur, la cugina di Ahed, la passeranno dietro le sbarre. Anche se è al suo primo arresto, Ahed conosce bene le vostre prigioni. Mia figlia ha vissuto tutta la sua vita alla tetra ombra delle prigioni israeliane – dalla mia lunga detenzione durante la sua infanzia ai ripetuti arresti di sua madre, suo fratello e degli amici, alla nascosta ed evidente minaccia implicita nella continua presenza dei vostri soldati nelle nostre vite. Dunque il suo arresto era solo una questione di tempo. Una tragedia inevitabile pronta ad accadere.

Diversi mesi fa, durante un viaggio in Sud Africa, abbiamo proiettato al pubblico in sala un video sulla lotta del nostro villaggio, Nabi Saleh, contro il controllo forzato di Israele. Quando si sono riaccese le luci, Ahed si è alzata per ringraziare le persone del loro sostegno.

Notando che qualcuno fra il pubblico aveva gli occhi pieni di lacrime, Ahed disse: “ Anche se siamo vittime del regime israeliano, siamo molto fieri di aver scelto di combattere per la nostra causa, nonostante i costi che sappiamo. Sapevamo dove ci avrebbe condotto questa strada, ma la nostra identità, come popolo e come individui, è radicata in questa lotta, e ne trae ispirazione. Al di là della sofferenza e della quotidiana oppressione dei prigionieri, dei feriti e assassinati, conosciamo anche l’enorme forza che ci deriva dall’appartenere a un movimento di resistenza; la dedizione, l’amore, i piccoli momenti sublimi che ci dà la scelta di mandare in frantumi l’invisibile muro della passività.

Non voglio che mi si veda come vittima, non voglio dare alle loro azioni il potere di definire chi sono e cosa sarò. Scelgo di decidere da me come mi vedrete. Non vogliamo il vostro sostegno a causa di qualche lacrima fotogenica, ma perché abbiamo scelto la lotta e la nostra lotta è giusta. Questo è l’unico modo per cui un giorno potremo smettere di piangere.”

Mesi dopo quei fatti in Sud Africa, quando ha sfidato i soldati armati dalla testa ai piedi, non è stata un’improvvisa rabbia per il ferimento mortale del quindicenne Mohammed Tamimi, poco tempo prima, a pochi metri di distanza, a motivarla. Nemmeno è stata la provocazione di quei soldati che entravano a casa nostra. No. Quei soldati, o altri identici come ruolo e azioni, sono entrati in casa nostra, indesiderati e mai invitati ospiti, da quando Ahed è nata. No. Lei li ha fronteggiati perché questo è ciò che abbiamo scelto, perché la libertà non è data come carità, perché nonostante il prezzo sia altissimo siamo disposti a pagarlo.

Mia figlia ha appena 16 anni. In un altro mondo, nel vostro mondo, la sua vita sarebbe del tutto diversa. Nel nostro mondo, per il nostro popolo, Ahed rappresenta una nuova generazione di giovani combattenti per la libertà. Questa generazione dovrà impegnarsi su due fronti di lotta. Da una parte hanno ovviamente il compito di continuare a sfidare e combattere il colonialismo israeliano in cui sono nati sino a quando esso crollerà. Dall’altra, devono affrontare con coraggio la stagnazione politica e il degrado che ci circonda. Devono diventare l’arteria viva che farà rivivere la nostra rivoluzione e la risusciterà dalla morte implicita in una crescente cultura della passività affermatasi in decenni di inattività politica.

Ahed è una delle tante giovani donne che nei prossimi anni condurrà la resistenza al dominio israeliano. A lei non importa di avere i riflettori puntati su di sé a causa del suo arresto, ma è interessata ad un autentico cambiamento. Lei non è il prodotto di uno dei vecchi partiti o movimenti, e con le sue azioni sta inviando un messaggio: per sopravvivere, dobbiamo affrontare onestamente le nostre debolezze e vincere le nostre paure.

In questa situazione, la responsabilità più grande per me e per la mia generazione è di sostenerla e farle spazio; di trattenerci e non cercare di corrompere e imprigionare questa giovane generazione nella vecchia cultura e nelle ideologie in cui siamo cresciuti noi.

Ahed, nessun genitore al mondo desidera vedere la propria figlia passare i suoi giorni in cella. Tuttavia, non c’è nessuno più fiero di quanto io sia di te, Ahed. Tu e la tua generazione siete abbastanza coraggiosi da vincere, alla fine. I tuoi atti e il tuo coraggio mi riempiono di rispetto, e mi vengono le lacrime agli occhi. Ma, come tu chiedi, queste non sono lacrime di tristezza o rimpianto, sono lacrime di lotta.

Bassem Tamimi è un attivista palestinese

(Traduzione di Luciana Galliano)