Il lavoratore Abdulfatah Obayat torturato e picchiato a morte da coloni di Gilo

StoptheWall

17 gennaio 2021 – Chronicle de Palestine

NB. L’articolo di Stop the Wall è del 18 dicembre 2020

I coloni israeliani hanno torturato e picchiato a morte un operaio palestinese sul luogo di lavoro nell’illegale colonia israeliana di Gilo. Il corpo di Abdulfatah Obayat è stato ritrovato mercoledì scorso, 16 dicembre 2020, in un edificio della colonia.

La Nuova Federazione Sindacale Palestinese considera questo efferato omicidio una delle forme di brutalità più flagranti a cui sono sottoposti i lavoratori palestinesi nelle imprese israeliane. Facciamo appello all’Organizzazione Internazionale del Lavoro, alla Confederazione Sindacale Internazionale e ai sindacati perché considerino Israele e le sue imprese responsabili dei loro crimini contro i lavoratori palestinesi.

Appello all’azione

Abdulfatah Obayat, un padre trentasettenne originario di Betlemme, è stato trovato morto mercoledì in un edificio della colonia illegale di Gilo. Prima di venire ucciso, Obayat è stato crudelmente torturato da una banda di coloni israeliani fanatici.

Quando ha appreso la notizia della morte di Obayat, la sua famiglia ha pubblicato la dichiarazione che segue:

Abdulfatah è stato martirizzato dopo essere stato brutalmente aggredito da un gruppo di coloni mentre lavorava nella colonia di Gilo. Il corpo di Abdulfatah è stato ritrovato in un edificio: presentava tracce di colpi e aveva una corda attorno al collo.

Quando i coloni l’hanno ucciso, Abdulfatah non faceva altro che guadagnarsi da vivere.”

Mohammed al-Blaidi, segretario generale della Nuova Federazione Sindacale Palestinese, ha commentato in questo modo l’inumana uccisione di Obayat:

L’uccisione di Obayat si iscrive nel contesto della sistematica discriminazione eretta a sistema contro i lavoratori palestinesi nelle imprese israeliane. I nostri lavoratori subiscono regolarmente atti violenti di pestaggio e uccisione, sia da parte delle forze di occupazione israeliane che dei coloni. I maltrattamenti dei lavoratori palestinesi da parte di datori di lavoro israeliani sono un’altra forma di brutalità nei loro confronti, soprattutto in quanto non beneficiano di alcuna protezione con condizioni di lavoro disastrose e pericolose.

Dopo lo scoppio della pandemia COVID-19 gli imprenditori israeliani hanno arbitrariamente licenziato migliaia di lavoratori palestinesi negando in modo totale i loro diritti. Sfortunatamente, nel contesto di queste gravi violazioni dei loro diritti umani, non c’è un reale e concreto sostegno ai diritti dei nostri lavoratori. Facciamo appello ai sindacati di tutto il mondo perché considerino Israele responsabile di ciò boicottandolo e sanzionandolo.”

I coloni israeliani e le forze di occupazione torturano e assassinano impunemente i palestinesi. Il regime di apartheid di Israele, che sottomette i palestinesi al proprio sistema giudiziario discriminatorio, non punisce i crimini commessi dai coloni e dai soldati contro i lavoratori palestinesi.

In questa situazione di apartheid e di colonizzazione, considerare Israele responsabile delle sue continue violazioni dei diritti dei nostri lavoratori nelle imprese israeliane è un obbligo delle organizzazioni che difendono i diritti dei lavoratori in tutto il mondo.

Chiediamo immediatamente all’Organizzazione Internazionale del Lavoro, alla Conferenza Sindacale Internazionale e ai sindacati di tutto il mondo di considerare Israele responsabile, unendosi al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), guidato dai palestinesi, e facendo una pressione efficace e urgente sui propri governi perché agiscano:

(1) dichiarando Israele Stato che pratica l’apartheid in base alla definizione della Convenzione delle Nazioni Unite sull’apartheid (1973) e chiedendo la riattivazione della Commissione Speciale delle Nazioni Unite contro l’apartheid.

(2) mettendo al bando i beni e servizi delle colonie israeliane e interrompendo ogni attività con le imprese israeliane e internazionali che operano nelle colonie israeliane e ne ricavano profitto.

(3) garantendo che la banca dati delle Nazioni Unite sulle imprese che svolgono attività legate alle colonie israeliane, pubblicata il 12 febbraio 2020, venga aggiornata e resa pubblica ogni anno in modo trasparente.

Il sistema israeliano di oppressione a tre livelli – apartheid, colonialismo di insediamento e occupazione – è un’impresa economica che si è sviluppata grazie allo sfruttamento di centinaia di migliaia di lavoratori palestinesi.

La decisione di Obayat e di molti altri di lavorare nelle colonie israeliane non è affatto il risultato di una libera scelta. Lo strangolamento dell’economia palestinese e le politiche israeliane che minano ogni sviluppo dell’economia palestinese creano gli alti tassi di disoccupazione e di povertà che obbligano i lavoratori come Obayat a cercare lavoro nelle colonie.

Il fatto di spogliare i palestinesi delle risorse economiche chiave, principalmente le loro terre e le loro risorse idriche, è una delle principali ragioni che li spingono a cercare lavoro nelle colonie israeliane. Senza terra né acqua, non è possibile alcuno sviluppo economico palestinese, né oggi né in futuro.

Per guadagnare da vivere a sé e alla propria famiglia, Obayat ha dovuto lavorare nella colonia di Gilo, edificata sulla terra rubata al suo popolo. Gilo, costruita sulle terre di Beit Jala, Beit Safafa e Sharafat, si trova a sud-ovest di Gerusalemme est.

Creata nel 1971 e attualmente abitata da circa 30.000 coloni illegali, Gilo gioca un ruolo nell’isolamento e nella ghettizzazione di Gerusalemme, in quanto la isola da Betlemme, da Hebron e dal resto della Cisgiordania occupata.

La colonia è stata costruita principalmente su una cava da cui provengono le pietre che i palestinesi hanno utilizzato per costruire numerose strutture a Betlemme e a Gerusalemme. Questa cava rappresentava la principale fonte di reddito per gli abitanti palestinesi della regione.

La colonia di Gilo ha anche ridotto di molto le attività agricole dei contadini di Al Walajeh. Come ogni colonia di questa regione, Gilo ha anche limitato l’accesso dei palestinesi alle risorse naturali, soprattutto all’acqua.

Nel contesto della diffusione della pandemia da COVID-19, Israele ne approfitta per preservare la propria economia sfruttando centinaia di migliaia di lavoratori palestinesi, riducendoli in condizioni di lavoro inumane e gravose.

Lo sfruttamento e i sistematici maltrattamenti dei lavoratori palestinesi prima e dopo la propagazione della pandemia sono un elemento fondamentale dell’apartheid e delle pratiche colonialiste di Israele, che non fanno che prosperare.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




I palestinesi che vivono in Israele sono dimenticati dall’“accordo del secolo” di Trump

Awad Abdelfattah

11 giugno 2019 – Middle East Eye

I palestinesi all’interno dei confini israeliani devono unirsi ai rifugiati fuori da Israele per contrastare questo piano di liquidazione dei loro diritti nazionali

I palestinesi all’interno di Israele non sono mai stati considerati dalla comunità internazionale come parte del conflitto arabo-sionista, ma piuttosto come un gruppo etnico non ebraico nello Stato di Israele e che subisce discriminazioni.

L’“accordo del secolo”, che va avanti da quando il presidente USA Donald Trump ha assunto il potere, è stato preceduto da un duro colpo contro milioni di rifugiati palestinesi come il taglio agli aiuti finanziari all’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite che fornisce loro servizi fondamentali.

Lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme è stato un ulteriore passo inteso a eliminare il più elementare principio della causa palestinese: il diritto dei rifugiati palestinesi alle proprie case nella Palestina storica.  

Pochi hanno dedicato attenzione al fatto che i rifugiati palestinesi, sparsi nei campi di Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria e altri luoghi, sono parenti di primo grado dei palestinesi all’interno di Israele. Io ho parenti in campi profughi di Libano, Giordania e Siria. Nel 1992 incontrai per la prima volta un’allora settantanovenne zia che, insieme a una serie di altri familiari, era stata obbligata a scappare dal nostro villaggio nel 1948. Arrivò dal Libano dopo aver ottenuto un permesso israeliano per visitare i parenti. La sua visita ci provocò grande tristezza e pena, dopo che ci sorprese chiedendoci di cercare di sapere dalle autorità israeliane il luogo in cui si trovava il corpo di uno dei suoi tre figli, ucciso durante la brutale invasione israeliana del Libano nel 1982.

Quello che ci angosciò ulteriormente fu il suo desiderio di passare il resto della sua vita con noi, nel luogo in cui era nata e cresciuta – ma l’apartheid israeliana non l’avrebbe mai permesso, perché non era ebrea. Questa storia straziante non è che un simbolo delle sofferenze di milioni di rifugiati che stanno languendo in condizioni spaventose – comprese guerre – in attesa di tornare a casa da più di settant’anni.

La “Legge del Ritorno” israeliana concede il diritto solo agli ebrei, di qualunque parte del mondo, di immigrare, e in molti casi di vivere in case da cui questi rifugiati sono stati espulsi. Ogni conferenza o iniziativa internazionale di pace intesa a trovare una soluzione al problema palestinese ha ignorato questi diritti nazionali dei rifugiati, e persino la loro stessa esistenza.

La più deludente e frustrante tra queste furono gli accordi di Oslo del 1993, che li presero di sorpresa, insieme al resto del popolo palestinese – soprattutto i rifugiati.

Questa frustrazione derivava dall’approvazione da parte della dirigenza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) di escludere dall’accordo la comunità di 1.5 milioni di palestinesi sopravvissuti alla pulizia etnica del 1948 condotta dalle bande sioniste, e che da allora hanno vissuto sotto un sistema di discriminazioni, furto di terre, de-nazionalizzazione e altre forme di oppressione.

Aggiungere la beffa al danno

L’imminente “accordo del secolo” USA ha solo aggiunto la beffa al danno. Ma, contrariamente ad Oslo – che all’epoca sembrò a molti come una svolta fondamentale e un promettente percorso verso una vera pace – l’accordo di Trump è visto da molti palestinesi come un piano israelo-americano per liquidare definitivamente i diritti nazionali e politici di tutti i palestinesi, anche di quelli che vivono all’interno dei confini israeliani del 1948.

La cosa più umiliante riguardo a questo accordo è il modo in cui affronta come una questione economica la tragedia pluridecennale dei diritti umani dei palestinesi.

L’Arabia Saudita ha annunciato che agli uomini d’affari palestinesi con passaporto israeliano potrebbe essere concesso un permesso di residenza permanente nel regno: “Come parte di una tendenza al disgelo dei rapporti tra Israele e l’Arabia Saudita, il nuovo piano consentirà anche agli arabo-israeliani di lavorare in Arabia Saudita,” ha sottolineato un articolo sulla rivista economica israeliana “Globes”.

Questo annuncio ha sollevato tra i dirigenti politici e intellettuali palestinesi seri sospetti che si tratti di un passo nel costante processo di normalizzazione con il nemico e un mezzo per la promozione dell’“accordo del secolo” – un accordo già rifiutato ovunque dai palestinesi.

Questo approccio è in consonanza con la politica ufficiale israeliana, perseguita dal 1948, di domare e cooptare i palestinesi all’interno di Israele. Il recente cambiamento di atteggiamento dei media sauditi, degli Emirati e del Bahrain nei confronti di Israele mostra chiaramente una spinta per preparare l’opinione pubblica saudita alla normalizzazione con Israele.

Lotta contro l’apartheid        

Negli ultimi anni, dato che Israele ha virato ulteriormente verso l’estrema destra, il panorama geografico e politico della Palestina è diventato un’entità unica sottoposto a un unico sistema di separazione e colonialismo d’insediamento. Questa deriva di fatto del progetto colonialista contrasta con la soluzione dei due Stati sostenuta a livello internazionale.

Ora l’amministrazione Trump, attraverso l’imminente “accordo del secolo”, ha inflitto un colpo definitivo all’illusione dei due Stati. Sta legittimando la continua colonizzazione sionista di tutta la Palestina, aprendo la porta a ulteriori guerre e spargimenti di sangue.

Poiché una delle cause più serie al mondo dal punto di vista politico e umanitario viene ridotta dalla più grande potenza imperialista al mondo a un piano economico, ovunque i palestinesi – compresi quelli con la cittadinanza israeliana – si troveranno a dover affrontare una sfida enorme.

Devono cercare l’unità per ingaggiare una prolungata lotta per smantellare non solo l’assedio di Gaza, ma tutto il sistema dell’apartheid israeliana e sostituirlo con un’entità democratica ed egualitaria per tutti.

Voci che invocano l’unificazione della politica palestinese e movimenti di base su questa opzione stanno crescendo. Li ispira la lotta contro l’apartheid del Sud Africa.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Awad Abdelfattah

Awad Abdelfattah è un giornalista politico ed ex-segretario generale del partito Balad [partito arabo-israeliano antisionista e di sinistra, ndtr.]. È coordinatore della “Campagna per lo Stato unico democratico”, con sede ad Haifa, fondata alla fine del 2017.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Trovare la verità in mezzo alle menzogne di Israele

Ilan Pappe

30 maggio 2018, The Electronic Intifada,

Una tristezza e una sofferenza immense hanno riempito le strade – un convoglio dopo l’altro di profughi che si fanno strada [verso il confine libanese]. Lasciano i villaggi della loro terra e la terra dei loro antenati e si spostano in una terra straniera, sconosciuta, piena di problemi. Donne, bambini, neonati, asini – tutti in cammino, in silenzio e tristemente, verso nord, senza guardare né a destra né a sinistra.

Una donna non riesce a trovare suo marito, un bambino non riesce a trovare suo padre… Tutto ciò che può camminare si muove, fuggendo via senza sapere che fare, senza sapere dove sta andando. Molti dei loro effetti personali sono sparpagliati lungo i lati della strada; più camminano e più sono esausti, quasi non riescono più a camminare – sbarazzandosi di tutto quello che avevano provato a salvare mentre sono sulla via dell’esilio…

Ho incontrato un bambino di 8 anni che si dirigeva a Nord e conduceva davanti a sé due asini. Suo padre e suo fratello sono morti nella battaglia, e ha perso la madre… Sono passato sulla via tra Sasa e Tarbiha, e ho visto un alto uomo, piegato, che strofinava qualcosa con le mani sul terreno roccioso e duro. Mi sono fermato. Mi sono accorto di una piccola incavatura nel terreno che era stata scavata a mani nude, con le unghie, sotto un ulivo. L’uomo vi ha riposto il corpo di un bambino che era morto nelle braccia di sua madre, e lo ha seppellito con della terra e [coprendolo] con piccole pietre. Poi è tornato indietro sulla strada e ha continuato a dirigersi verso nord, sua moglie camminava curva pochi passi dietro di lui, senza guardare indietro. Mi sono imbattuto in un uomo anziano, che era svenuto su una roccia sul lato della strada, e nessuno dei profughi osava aiutarlo… Quando siamo entrati a Birim, tutti sono corsi, spaventati, nella direzione della valle che guardava a nord, portando i loro bambini piccoli e quanti più abiti potevano. Il giorno dopo sono tornati indietro, perché i libanesi non avevano permesso loro di entrare. Sette bambini sono morti di ipotermia.

Questa commovente descrizione non è stata scritta da un attivista dei diritti umani, un osservatore ONU o un giornalista interessato. E’ stata scritta da Moshe Carmel (militare e politico israeliano, membro del parlamento, ndtr.) e compare nel suo libro Northern Campaigns – pubblicato per la prima volta nel 1949.

[Carmel, ndt] viaggiò per la Galilea a fine ottobre del 1948, dopo aver comandato l’operazione Hiram, in cui le forze israeliane commisero alcune delle atrocità peggiori nella Nakba, la pulizia etnica della Palestina. I crimini furono così gravi che alcuni dirigenti sionisti le descrissero come azioni naziste.

Il libro di Carmel, e decine come esso – libri di brigata, diari, e storie militari – si potevano trovare sugli scaffali delle librerie nelle case di ebrei israeliani dal 1948 in poi. Riesaminarli, a 70 anni di distanza, rivela una verità elementare: sarebbe stato possibile scrivere la “nuova storia” del 1948 senza un solo nuovo documento declassificato, ma semplicemente se si fossero lette queste fonti aperte, come le chiamo io, con una lente non sionista.

L’espressione famosa – e ormai abusata – secondo cui la storia è scritta dai vincitori può essere confutata in molti modi. Un modo è quello di smontare le pubblicazioni dei vincitori in modo da rivelare le menzogne, le falsificazioni e le interpretazioni errate, nonché le loro azioni meno consapevoli.

Una rilettura di queste fonti aperte sulla Nakba, scritte per lo più dagli israeliani stessi, sblocca delle nuove prospettive storiografiche sul quadro generale di quel periodo – mentre i documenti declassificati ci permettono di vedere tale quadro in una più alta risoluzione.

Questo recupero si sarebbe potuto svolgere in qualsiasi momento tra il 1948 e oggi – se gli storici avessero utilizzato la lente critica necessaria per una tale analisi.

Rileggere le fonti aperte, specialmente accostandole alle numerose storie orali della Nakba, rivela la barbarie e la disumanizzazione che hanno accompagnato la catastrofe. La barbarie è comune alle comunità di coloni negli anni della formazione del loro progetto di colonizzazione e può, talvolta, essere oscurata dal linguaggio secco ed evasivo dei documenti militari e politici.

Non intendo con questo sminuire l’importanza dei documenti di archivio. Sono importanti nel dirci cosa è successo. Tuttavia, le fonti aperte e le storie orali sono cruciali per capire il significato di ciò che è accaduto.

Una tale rilettura mette in luce il DNA di colonialismo d’insediamento del progetto sionista e il ruolo della pulizia etnica del 1948 insito in esso.

Disumanizzazione su scala di massa

Prendete ad esempio il passaggio citato da Carmel. Come poteva qualcuno che stava sovrintendendo a tali atrocità scrivere con tale compassione?

L’indizio sta in un’altra frase all’interno della stessa citazione che sembra quasi una digressione: “E poi, mi accorsi di un ragazzo di 16 anni, totalmente nudo, che ci sorrideva mentre gli passavamo accanto (strano, quando l’ho sorpassato non ho saputo dire, a causa della sua nudità, a che popolo appartenesse, e l’ho visto solamente come un essere umano).”

Per un momento totalmente eccezionale, quel ragazzo palestinese è stato umanizzato (all’interno delle parentesi del testo). Tuttavia la disumanizzazione avveniva su una scala che si osserva solo in crimini di massa come la pulizia etnica e il genocidio.

La regola era che i bambini venivano considerati come parte del nemico, che dovevano essere eliminati in nome dello Stato ebraico, o, come la metteva Carmel – un giorno dopo aver terminato il suo tour nella Galilea – in nome della liberazione.

Mandò questo messaggio alle sue truppe: “L’intera Galilea, l’antica Galilea israeliana, è stata liberata tramite la potente e devastante forza dell’IDF [l’esercito israeliano] … Abbiamo eliminato il nemico, lo abbiamo distrutto e lo abbiamo costretto alla fuga … Abbiamo [conquistato] Meiron [Mayrun], Gush Halav [Jish], Sasa e Malkiya … Abbiamo distrutto i nidi del nemico a Tarshiha, Eilabun, Mghar e Rami … I castelli del nemico sono crollati uno dopo l’altro.

Settant’anni dopo la Nakba, la lingua ebraica è uno strumento importante quanto lo è l’accesso agli archivi israeliani chiusi. Il testo ebraico ci dice chiaramente chi era il nemico – il nemico che era fuggito, era stato eliminato ed espulso dai suoi “castelli”.

Queste erano le persone che Carmel aveva incontrato. E per un momento, egli si era commosso per la loro sofferenza.

Redenzione?

Gli elementi discorsivi più importanti in questo tipo di relazioni sono i concetti di liberazione ed eliminazione (shihrur e hisul). Il significato di ciò, in realtà, era un tentativo di indigenizzare gli occupanti della Palestina tramite la de-indigenizzazione dei palestinesi.

Questa è l’essenza di un progetto di colonialismo di insediamento, e il libro di Carmel – e quelli di altri – lo rivelano in pieno. Carmel vedeva l’occupazione del 1948 come una redenzione della Galilea romana.

Questi atti violenti contro i palestinesi avevano molto poco a che fare con il trovare un rifugio dall’antisemitismo.

Il progetto sionista era, ed è ancora, un progetto di de-indigenizzazione della popolazione palestinese e di sua sostituzione con un’altra composta da coloni ebrei. Costituiva, in molti modi, l’implementazione di un’ideologia nazionalista romantica, simile a quella che aveva nutrito i nazionalismi fanatici di Italia e Germania alla fine del XIX secolo e oltre.

Questo collegamento è chiaro in libri che trattano le brigate nell’esercito israeliano. Uno di questi libri, The Alexandroni Brigade and The War of Independence, è un caso esemplare.

La brigata Alexandroni fu incaricata di occupare la maggior parte della costa palestinese, a Nord di Jaffa, per un totale di quasi 60 villaggi. Prima dell’occupazione dei villaggi, le truppe furono istruite sul contesto storico delle loro operazioni. La narrazione fornita dagli ufficiali è ripetuta nel libro in due capitoli. Il primo è intitolato “The Military Past of the Alexandroni Space” (Il passato militare del fronte Alexandroni, ndtr.), e comincia dicendo: “il fronte in cui la brigata Alexandroni combatté nella guerra di indipendenza è unico nella storia militare della regione e di Eretz Israel [il Grande Israele] in particolare.”

Si trattava del Sharon – la costa della Palestina nella narrazione sionista – che è un termine inventato senza radici nella storia. Lo Sharon, come ci dice il libro sulla brigata Alexandroni, era “una terra ricca e alquanto fertile” che “attraeva” gli eserciti durante i loro “viaggi di occupazione” all’interno della terra di Israele. Questo capitolo storico è pieno di racconti di eroismo, dove si sostiene, per esempio, [che, ndt] “quì è dove [il popolo di] Israele, sotto [la guida, ndt] [del profeta] Shmuel aveva affrontato i Filistei”.

Gli ebrei erano sempre svantaggiati nella battaglia contro i loro nemici, ma “allora come oggi, fu lo spirito superiore a far spostare l’equilibrio a favore di Israele.”

Sotto Baibars, il sultano mamelucco, sostiene il libro, lo Sharon fu distrutto come terra agricola e “da allora in poi [lo Sharon] non avrebbe recuperato la sua vitalità economica fino al suo riassestamento con l’immigrazione sionista [aliya]”. Baibars, tra l’altro, era stato là nel 1260. Quindi il libro sulla brigata Alexandroni dice ai suoi lettori che lo Sharon era rimasto senza popolazione per più di 600 anni, che è l’interpretazione sionista della storia al suo meglio.

Durante il periodo ottomano, lo Sharon “era in totale devastazione, pieno di discariche e di malaria”, aggiunge il libro. “Solo con la aliya e l’insediamento ebraico alla fine del XIX secolo, cominciò un nuovo periodo di prosperità [nella storia dello Sharon].”

I sionisti “restituirono” lo Sharon alla sua precedente gloria, e esso divenne una delle aree più ebraiche nell’ “Eretz Israele Mandatario” – come il libro chiama la Palestina quando era amministrata dal mandato britannico.

I villaggi devono essere distrutti”

La pulizia etnica della costa ebraica cominciò mentre la Palestina era sotto il controllo britannico. La Gran Bretagna era, sotto molto aspetti, un alleato cruciale del movimento sionista. Tuttavia non facilitò la colonizzazione della Palestina rapidamente quanto i sionisti avrebbero voluto. Il libro sulla brigata Alexandroni dipinge perciò la Gran Bretagna come un ostacolo a volte disumano per la “redenzione” ebraica.

Lo Sharon aveva ancora [abitanti, ndt] arabi al suo interno. Il libro rappresenta la regione come un’ancora di salvezza per la comunità ebraica, e tuttavia suggerisce allo stesso tempo che la vita ebraica era disturbata dai molti villaggi arabi circostanti.

Era soprattutto la parte orientale dello Sharon ad essere “puramente araba e a costituire il principale pericolo per gli insediamenti ebraici; un pericolo che doveva essere preso in considerazione in qualsiasi pianificazione militare.”

Il “pericolo” fu “preso in considerazione” prima tramite attacchi isolati ai villaggi. Il libro dice che fino al 29 novembre del 1947 il rapporto tra ebrei e palestinesi era buono e che continuò ad essere tale dopo quella data. Tuttavia, una frase successiva nel libro ci dice che “all’inizio del 1948, il processo di abbandono dei villaggi arabi cominciò. Si possono vedere i primi segni di questo nell’abbandono di Sidan Ali (al-Haram) da parte dei suoi 220 abitanti arabi e di Qaisriya da parte dei suoi 1100 abitanti arabi a metà febbraio del 1948.” Ci furono due espulsioni di massa che ebbero luogo mentre le forze britanniche, che avevano la responsabilità di mantenere l’ordine e la legalità, guardavano e non interferivano. Poi “a marzo, con l’inasprirsi dei combattimenti, il processo di abbandono si intensificò.”

L’“escalation” iniziò con l’ attuazione del piano Dalet – un progetto per la distruzione dei villaggi palestinesi. Il libro sulla brigata Alexandroni riporta un riassunto degli ordini emanati dal piano. Gli ordini includevano il compito di “individuare i villaggi arabi di cui ci si doveva impadronire o che dovevano essere distrutti”.

C’erano 55 villaggi, secondo il testo, nell’area occupata in base al Piano Dalet. Lo Sharon ebraico fu quasi completamente “liberato” nel marzo 1948 quando la costa “fu ripulita” dei villaggi arabi, tranne quattro. Nelle parole del libro: “La maggior parte delle zone vicino alla costa furono ripulite dai villaggi arabi, tranne… un ‘piccolo triangolo’ in cui c’erano i villaggi arabi di Jaba, Ein Ghazal e Ijzim – che spiccavano come un pollice dolente, sovrastando la strada Tel Aviv-Haifa; c’erano arabi anche a Tantura sulla costa.”

Un’analisi più profonda di questi testi e di altre fonti aperte getterebbe luce sulla natura strutturale del progetto di colonialismo d’insediamento in corso in Palestina, la Nakba in corso.

La storia della Nakba perciò non è solo una cronaca del passato, ma un’analisi di un momento storico che continua nel tempo dello studioso di storia. Gli scienziati sociali sono lontani dall’avere gli strumenti per occuparsi di “obbiettivi in movimento” – cioè per analizzare fenomeni contemporanei – ma gli storici, così ci viene detto, hanno bisogno di distanza per riflettere e per vedere il quadro completo.

Si potrebbe sostenere che 70 anni dovrebbero offrire una distanza sufficiente, ma d’altro canto, sarebbe simile al tentativo di comprendere l’Unione Sovietica, oppure le Crociate, da parte di contemporanei, e non di storici.

I luoghi della memoria, per usare il concetto di Pierre Nora, così come i passi avanti accademici degli anni recenti, sono stati suscitati non dalla declassificazione in sé, ma dalla loro rilevanza per le lotte contemporanee.

I progetti di storia orale, così come i libri di brigata, sono tutti risorse cruciali e accessibili che penetrano gli autentici e cinici scudi di inganno sionisti, e più tardi israeliani. Aiutano a capire perché il concetto di uno stato coloniale democratico o illuminato è un ossimoro.

La storia approvata di Israele

Una decostruzione della storia approvata di Israele è il miglior modo per sfidare un processo che trasforma le parole: da pulizia etnica a auto-difesa, da furto di terra a redenzione, e da pratiche di apartheid a preoccupazioni per la “sicurezza”.

C’è una percezione, da un lato, che dopo anni di negazione il quadro storiografico sia stato rivelato in giro per il mondo con chiari contorni e colori. La narrativa israeliana è stata messa in discussione con successo sia nel mondo accademico che nello spazio pubblico.

Tuttavia, rimane un sentimento di frustrazione, dovuto all’accesso limitato per gli studiosi, anche israeliani, ai documenti declassificati in Israele, mentre gli studiosi palestinesi non possono nemmeno sperare, nel clima politico contemporaneo, di avervi alcun accesso.

Andare oltre i documenti di archivio sulla Nakba è, perciò, necessario non solo per una migliore comprensione dell’evento. Potrebbe anche essere una soluzione per i ricercatori nel futuro, date le nuove politiche israeliane di declassificazione.

Israle ha chiuso la maggior parte della documentazione del 1948.

Le risorse alternative e gli approcci suggeriti in questo articolo sottolineano diversi punti. Una conoscenza dell’ebraico può essere di aiuto, e la necessità di continuare con i progetti di storia orale è essenziale.

Il paradigma del colonialismo di insediamento rimane anche rilevante per analizzare da capo sia il progetto sionista che la resistenza ad esso. Tuttavia ci sono ancora problemi con l’adattabilità del paradigma – come, per esempio, se possa essere applicato agli ebrei provenienti da paesi arabi che si sono spostati in Palestina – e questi dovrebbero essere ulteriormente esplorati.

Ma più di qualsiasi cosa dobbiamo insistere che l’impegno per la Palestina non sia un ostacolo per buoni studi, ma un elemento di potenziamento per essi. Come scrisse Edward Said: “Dove sono i fatti, tuttavia, se non radicati nella storia, e poi ricostituiti e recuperati da attori umani mossi da qualche narrativa storica percepita o desiderata o sperata, il cui scopo futuro è quello di ristabilire la giustizia per gli oppressi?”

La giustizia e i fatti, le posizioni morali, l’acume professionale e l’accuratezza accademica non dovrebbero essere messi l’uno davanti all’altra ma intesi, piuttosto, come tutti elementi che contribuiscono ad un’attività storiografica integra. Pochi progetti storiografici hanno bisogno di un tale approccio integrativo come la ricerca sulla Nakba in corso.

Autore di numerosi libri, Ilan Pappe è professore di Storia e direttore del ‘European Centre for Palestine Studies’ all’Università di Exeter.

(Trad. di Tamara Taher)

 




Le controverse vicende di un’ideologia e della sua storia

Arturo Marzano, Storia dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl a oggi, Carocci editore, Roma, 2017, pp. 254, 24 €.

 Amedeo Rossi

Nell’introduzione l’autore sembra definire un punto di vista nettamente schierato dalla parte di Israele.

Arrivato il 30 aprile 1998 a Tel Aviv per i suoi studi di storico, ricorda: “Festeggiavo anche io la nascita di Israele, che aveva finalmente dato uno Stato al popolo ebraico, dopo secoli di discriminazioni e persecuzioni e dopo la tragedia della Shoa.” Ma subito dopo racconta del suo ritorno nel 2001, durante la Seconda Intifada, e di essersi trovato in una situazione completamente diversa, tanto da aver manifestato insieme a “Mustafa Barghouti e Hanan Ashrawi, due leader palestinesi che sino ad allora avevo visto solo in foto.”

Dalla dissonanza tra questi due ricordi si intuisce una delle ragioni della stesura di questo libro: la dolorosa consapevolezza di una realtà lontana dalla narrazione della lotta gloriosa di un popolo oppresso che rivendica i propri diritti ad avere uno Stato. La riflessione sul conflitto israelo-palestinese fa parte del campo di studi dell’autore, che ha pubblicato altri libri sull’argomento, ma in questo saggio Marzano sembra cercare nelle vicende dell’ideologia sionista la radice del contrasto tra quello che si presentava come un movimento di liberazione e i suoi drammatici esiti storici. Per fare questo l’autore ripercorre le tracce di un pensiero spesso contraddittorio al suo interno, tanto da giustificare il plurale del titolo: “sionismi”.

Marzano ricorda quanto, fino allo sterminio nazista, il movimento sionista fosse minoritario all’interno delle comunità ebraiche europee, osteggiato sia dagli ebrei socialisti e comunisti che dall’ortodossia religiosa, che lo riteneva un movimento blasfemo. Al contempo fin dalle sue origini uno dei nodi principali del sionismo è stato il rapporto con i palestinesi. I suoi ideologi erano ben consci del fatto che la Palestina fosse una terra abitata da una popolazione che rappresentava uno dei principali ostacoli per la realizzazione del loro progetto, benché alcuni, come Magnes e Buber, ritenessero che fosse possibile vivere in armonia con i nativi.

Il libro ripercorre la storia delle varie tendenze del sionismo non in modo sincronico, ma in base al loro ruolo preponderante nel corso del tempo. Nei primi capitoli, pur citando anche le posizioni critiche, Marzano presenta l’evoluzione del pensiero e dell’azione della corrente maggioritaria, il “sionismo politico”, che si identificava principalmente con le figure di Chaim Weizman e di David Ben Gurion, il principale stratega della costruzione del consenso internazionale per il progetto sionista e l’edificatore dello Stato. Il complesso rapporto tra socialismo sionista e colonialismo di insediamento viene analizzato con attenzione, sostenendo la tesi che il primo fosse stato scelto da Ben Gurion per ragioni eminentemente pragmatiche: “Il socialismo era sostanzialmente diventato uno strumento, non un «collante di obiettivi universali, bensì […] un mezzo per la realizzazione del sionismo»”, scrive Marzano, citando lo storico israeliano Zeev Sternhell.

Come puntualmente documentato nel libro, pur avversato da destra e da sinistra questo modello di sionismo ha dominato il movimento sionista e la vita politica del nuovo Stato fino all’evento cruciale rappresentato dalla guerra dei Sei Giorni. Il fatto di aver triplicato in un brevissimo lasso di tempo e di evidente eco biblica le dimensioni dello Stato rappresentò un evento che molti, non solo in Israele, considerarono “miracoloso”. Le sfide al sionismo “socialista” vennero principalmente da tre direzioni. La prima, sorta a partire soprattutto dai primi decenni del ‘900, ad opera del rabbino Abraham Isaac Kook e di suo figlio Zvi Yehuda. In opposizione con il tradizionale quietismo dei rabbini ortodossi, che ritenevano che sarebbe stato dio a riportare gli ebrei nella Terra promessa, questa corrente teologica sosteneva che la conquista della terra avrebbe accelerato l’avvento del messia e la fine del mondo. Questo pensiero millenarista è stato la base ideologica del movimento dei coloni nazional-religiosi, i primi a costruire insediamenti nei territori occupati. Pur rappresentando una sfida aperta allo Stato basato su principi laici, questo movimento ha avuto un rapporto molto stretto con il potere politico, anche laburista, che ne ha consentito l’espansione. Marzano sembra privilegiare l’idea secondo cui i nazional-religiosi si siano serviti e si servano tuttora del potere politico-militare dello Stato per perseguire i propri scopi. Altri autori, sempre israeliani, sostengono invece che sia stata la dirigenza laburista, compresi Rabin e Peres, ad utilizzarli per la progressiva colonizzazione della Cisgiordania. L’avvio della colonizzazione israeliana in Cisgiordania è stata funzionale alla progressiva erosione della terra palestinese, come ammette lo stesso Marzano.

L’occupazione e la colonizzazione risvegliarono anche quelle correnti di pensiero che, pur riconoscendosi almeno in parte nel progetto sionista, ne mettevano in dubbio i metodi e la legittimità riguardo al trattamento riservato ai palestinesi. Ma non furono i movimenti pacifisti a capitalizzare la crisi del gruppo di potere laburista, bensì gli eredi del sionismo revisionista e dei gruppi armati degli anni ’30, che avevano praticato il terrorismo sia contro gli inglesi che contro la popolazione civile palestinese. Il libro torna a questo punto alle origini del revisionismo, così chiamato perché intendeva “revisionare il sionismo per farlo tornare ai principi che si erano nel frattempo persi.” Marzano sintetizza l’opposizione tra le due principali correnti del sionismo con i concetti di “Medinat Israel”, caro ai laburisti e che privilegiava la costruzione dello Stato con caratteristiche liberal-democratiche (quanto meno per i cittadini ebrei) e quello di “Eretz Israel”, la Terra di Israele. Quest’ultimo principio, che, insieme al liberismo in economia ed al comunitarismo etnico-religioso, avrebbe segnato i governi del Likud, ha prevalso nella vita politica israeliana, salvo nel periodo di governo di Rabin e degli accordi di Oslo. Marzano sembra ritenere che Oslo potesse rappresentare una soluzione del conflitto, ponendo di fatto fine all’occupazione della Cisgiordania, e che sia stata l’uccisione di Rabin a farli fallire. Tuttavia egli stesso ricorda che lo stesso primo ministro laburista si dichiarò contrario alla nascita di uno Stato palestinese, e d’altra parte in più occasioni favorì la prosecuzione della colonizzazione.

La seconda parte del libro ripercorre la deriva reazionaria e razzista che ha caratterizzato gli ultimi 20 anni della politica israeliana, i cui protagonisti sono stati prima Sharon e poi Netanyahu, e il progressivo espandersi della colonizzazione e del peso dei coloni ultranazionalisti e nazional-religiosi nei governi di quest’ultimo. Al contempo, individua la crisi dell’ideologia sionista, messa in discussione sia dai sionisti contrari all’occupazione che da post-sionisti (tra cui si colloca l’autore) ed anti-sionisti.

In conclusione Marzano si pone due domande: questa deriva era insita nell’ideologia sionista? Secondo l’autore sarebbe stata la prevalenza nel movimento del nazionalismo organico, sostenuto da Gordon ed accolto da Ben Gurion, rispetto al socialismo democratico propugnato da Borokov, a segnare la realizzazione pratica del sionismo e a determinare l’espulsione dei palestinesi. La colonizzazione della Cisgiordania ha portato all’alternativa tra uno Stato democratico per tutti i suoi cittadini, che rappresenterebbe la fine del sionismo, e uno Stato di apartheid, quale già di fatto esiste. La seconda domanda conclude il libro: “Se si crede in uno Stato pienamente democratico, non è forse giunto il momento – come afferma il post-sionismo – di passare da uno «Stato ebraico e democratico» a uno «Stato per tutti i cittadini»?”

Per quanto complesso ed articolato, il libro non affronta la ragione per la quale il sionismo, al di là dei dibattiti ideologici, non poteva essere diverso e per la quale sionisti “socialisti” e revisionisti, nonostante le differenze tattiche, hanno da sempre condiviso l’obiettivo strategico. Era possibile costruire uno Stato in cui gli ebrei fossero la schiacciante maggioranza e che avrebbe dovuto ospitare, in base al progetto sionista, tutti gli ebrei del mondo senza espellere i palestinesi che, alla vigilia della nascita di Israele, rappresentavano i 2/3 della popolazione? E in generale, non avevano ragione gli ebrei antisionisti, da Rosa Luxemburg a Trotzki ai bundisti, a considerare il sionismo un movimento reazionario, in quanto nazionalista e colonialista?




Riflessioni pessottimistiche* da Gaza assediata.

Haidar Eid

20 Ottobre 2017, Mondoweiss

Non si può capire il mortale, medievale blocco imposto a Gaza avulso dal colonialismo di insediamento israeliano in Palestina. L’orrore inflitto a Gaza infatti è radicato nella frammentazione politica causata dall’apartheid israeliano, consolidato dagli accordi di Oslo e innescato dalle lotte delle fazioni per la conquista del potere di un bantustan trasformato in un campo di concentramento.

La ragione che sta dietro a questo blocco genocida, imposto dall’apartheid israeliano e sostenuto da un Quartetto del Medio Oriente [composto da Russia, Stati Uniti, Ue e Onu, ndt.] complice, è che ci si aspetta che noi, 2 milioni di gazawi, riconosciamo il diritto di Israele a esistere sui nostri villaggi, che hanno subito la pulizia etnica e da cui siamo stati espulsi nel 1948, e che rinunciamo alla nostra resistenza in quanto sarebbe una forma di violenza. E’ così che questo “crimine di punizione collettiva” viene giustificato. La comunità internazionale ci sta praticamente dicendo che dobbiamo collaborare con gli occupanti per essere accettati, che dobbiamo considerare normale l’apartheid e il colonialismo di insediamento. Se non lo facciamo allora siamo condannati e dobbiamo pagare un pesante prezzo riguardo alla vita dei nostri bambini.

Allora la domanda è se si sia chiesto alla popolazione nativa del Sud Africa di riconoscere il diritto all’esistenza dell’apartheid? O, per dirla più brutalmente, se ci si aspettava che le vittime ebree del nazismo collaborassero con il mostro nazista perché venissero accettate come esseri umani?!

Quanto i sionisti odiano la popolazione di Gaza si concretizza nel tentativo di Israele di affogare letteralmente Gaza nella merda! I bianchi suprematisti del Sud Africa, o i nazisti del Terzo Reich, o il Ku Klux Klan nel sud degli USA hanno mai pensato di costruire per quello scopo un cavolo di fogna che si è rotta ed ha versato il suo contenuto sulle loro vittime?

Ultimamente ci siamo ridotti a una vita vegetativa dentro a un campo di concentramento, la più grande prigione all’aria aperta del mondo.

Ma, a differenza delle vittime del nazismo, continuiamo a ricordare a noi stessi di stare abbastanza attenti da non cadere nella trappola di credere che la nostra causa sia un’eccezione, per quanto estrema.

Io appartengo alla generazione che non ha vissuto la Nakba, una generazione di cui si pensava che si sarebbe rassegnata a 50 anni di occupazione militare e a 69 anni di espropriazione e apartheid. Ma abbiamo deciso di sollevarci e resistere. Da qui il nostro appello per il BDS, in riferimento al movimento antiapartheid e ad altre lotte contro il colonialismo di insediamento.

Come lo vedo io, è che, permettendo a Israele di imporre un blocco senza precedenti su 2 milioni di civili e di intraprendere tre guerre di grandi proporzioni contro di loro nel 2008, 2012 e nel 2014, con il risultato di 4000 morti e il ferimento di decine di migliaia, oltre alla distruzione delle infrastrutture, la comunità post seconda guerra mondiale ha fallito nel salvaguardare i principi di giustizia e di pace. Tocca pertanto alla società civile prendere l’iniziativa. Da qui la speranza che è stata creata tra i palestinesi dall’enorme successo del movimento del BDS. Come continuo a ripetere, è l’unico barlume di speranza che noi, vittime dell’occupazione, dell’apartheid e del colonialismo d’insediamento, abbiamo nell’era di Donald Trump e di Benjamin Netanyahu.

*Il termine “pessottimista” è tratto dal capolavoro di Emile Habibi “La vita segreta di Saeed, il pessottimista”. È il risultato della fusione delle parole arabe pessimista (al-mutasha’em) e ottimista (al-mutafa’el)

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)