Una settimana prima delle elezioni Netanyahu autorizza nuove unità abitative delle colonie nella E1

Yumna Patel

26 febbraio 2020 – Mondoweiss

Solo una settimana prima delle elezioni il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato l’autorizzazione a 3.500 nuove abitazioni illegali per i coloni nella contestatissima zona “E1”, nella parte centrale della Cisgiordania occupata.

Ho dato istruzioni di rendere immediatamente pubblica la presentazione del piano per la costruzione di 3.500 unità abitative nella E-1,” ha detto martedì Netanyahu in un discorso, aggiungendo che i progetti “sono stati ritardati per sei o sette anni.”

I piani di Israele per il corridoio E1, a cui si sta lavorando dal 1995, sono stati considerevolmente ritardati a causa delle pressioni da parte della comunità internazionale, comprese l’UE e l’ex-amministrazione USA.

Il progetto per la E1 intende creare un blocco di colonie che unisca il grande insediamento di Ma’ale Adumim a Gerusalemme, tagliando di fatto la Cisgiordania in due, separando il nord dal sud.

Le conseguenze del piano sono apparse evidenti negli ultimi anni attraverso la lotta per salvare dall’espulsione forzata la comunità beduina di Khan al-Ahmar, che si trova proprio in mezzo al corridoio E1.

La comunità sarebbe una delle decine di enclave beduine del corridoio che, se i progetti venissero portati a termine, verrebbero espulse a forza dalle proprie case.

L’annuncio è arrivato appena una settimana prima che gli israeliani si rechino ai seggi per la terza volta in un anno per eleggere il primo ministro, dopo due falliti tentativi da parte di Netanyahu e del suo rivale Benny Gantz di formare una coalizione di governo.

Nelle ultime due elezioni il governo di destra di Netanyahu si è basato sull’appoggio dei coloni e ha utilizzato promesse politiche simili per garantirsi il loro sostegno.

Nel primo turno delle elezioni nell’aprile dello scorso anno egli si impegnò ad annettere centinaia di colonie nella Cisgiordania occupata e prima delle elezioni di settembre è andato oltre quella promessa giurando che avrebbe esteso la sovranità israeliana alla valle del Giordano, che comprende un terzo di tutta la Cisgiordania.

I leader palestinesi hanno duramente attaccato Netanyahu per il suo annuncio e hanno chiesto agli Stati membri dell’UE di intervenire e di impedire l’attività edilizia israeliana nella zona.

Criticando il piano come un “progetto colonialista”, il capo negoziatore dell’OLP Saeb Erekat ha emanato un comunicato di condanna degli USA per il loro consenso perché Israele vada avanti con tali piani.

In accordo con i progetti concordati tra le delegazioni di USA e Israele, – ha detto Erekat – Israele ora continua a imporre sul terreno nuovi fatti illegali che violano sistematicamente le leggi internazionali e i diritti umani, annullano i diritti inalienabili del popolo palestinese, e minacciano la stessa pace e sicurezza dell’intera regione”.

Ora è chiaro alla comunità internazionale che questo quadro di annessione intende solo seppellire le prospettive di una soluzione negoziata,” ha continuato, chiedendo che la comunità internazionale imponga sanzioni contro Israele per le sue violazioni delle leggi internazionali nei territori occupati.

L’associazione [israeliana] di monitoraggio delle colonie Peace Now ha criticato duramente la decisione, affermando che “costruire nella E1 interromperebbe questa continuità territoriale, silurando la possibilità di uno Stato palestinese praticabile nel caso in cui Israele continui a conservare per sé la terra.”

L’organizzazione ha affermato: “Israele sta ufficialmente scegliendo di rischiare un conflitto permanente invece di risolverlo. Non è niente di meno di un disastro nazionale che deve essere fermato prima che sia troppo tardi.”

Yumna Patel è la corrispondente dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Per Angela Merkel, «Israele uber alles !»

Iqbal Jassat

19 febbraio 2020Palestine Chronicle

Poco tempo dopo la sua visita in Sudafrica, il governo della Cancelliera tedesca Angela Merkel ha fatto un nuovo annuncio scioccante difendendo l’insieme delle azioni criminali di Israele e le sue gravi violazioni dei diritti umani.

La Germania ha preso la decisione vergognosa di minare il diritto internazionale contestando la competenza dell’Aja, affermando che la Corte Penale Internazionale (CPI) non ha il potere di indagare sui crimini di guerra di Israele contro i palestinesi.

In un’istanza depositata presso la CPI il governo Merkel ha chiesto di essere considerato « amicus curiae » (collaboratore non coinvolto nella causa giudiziaria) per impedire all’Aja di perseguire il regime di Netanyahu.

Dopo lunghi periodi di rinvii, a dicembre la procuratrice della CPI Fatou Bensouda ha finalmente annunciato che sussistono ragionevoli presupposti per indagare sulle azioni di Israele.

Ha tuttavia lasciato aperta una voragine che viene sfruttata da Israele e dai suoi alleati come la Germania. Bensouda ha chiesto all’Aja di pronunciarsi sulla questione della sua competenza, cosa che potrebbe inficiare e compromettere ogni possibilità di perseguire e punire i criminali di guerra del regime colonialista.

E questo nonostante che l’Ufficio della Procura abbia insistito sul fatto che Israele ha distrutto proprietà palestinesi, espulso con la forza palestinesi dalla Cisgiordania occupata e da Gerusalemme est. Bensouda ha anche incluso nel suo atto d’accusa crimini di guerra commessi nella Striscia di Gaza occupata durante l’operazione ‘Margine protettivo’ del 2014, oltre all’operazione israeliana di espulsione degli abitanti palestinesi del villaggio beduino di Khan al-Ahmar e alla costruzione di colonie in Cisgiordania.

La decisione poco accorta di Merkel di prendere le parti di Israele rafforza l’attacco di Netanyahu contro la CPI. In una recente intervista rilasciata ad una catena televisiva cristiana, il dirigente israeliano, che è stato incriminato per frode e corruzione [in Israele], ha falsamente affermato che la CPI sta conducendo un “attacco frontale” contro gli ebrei ed ha sfacciatamente invocato sanzioni contro l’Aja.

L’argomentazione della Germania nella sua istanza sembra un «copia e incolla» delle dichiarazioni di Israele, che sostiene che la competenza della CPI non si estende ai territori palestinesi occupati perché la Palestina non è uno Stato. Incredibilmente, in questo modo la Germania ignora il fatto che la Palestina è firmataria dello Statuto di Roma della CPI.

Non solo è disonesto da parte tedesca non rispettare i diritti della Palestina, ma, tentando di indurre in errore la CPI, il governo Merkel legittima settant’anni di disumanizzazione dei palestinesi da parte di Israele.

Mentre la vergognosa collusione di Merkel con Netanyahu da alcuni può essere vista come un colpo di fortuna per lui in un momento in cui rischia il carcere, per i palestinesi è chiaro che la Germania ha tradito la loro giusta e legittima causa per la giustizia. Come possono le famiglie dei martiri interpretare in altro modo l’istanza scioccante e ingiusta di Merkel, che sostiene che la CPI non ha nemmeno il potere di discutere se Israele ha commesso dei crimini di guerra?

Essendo la Germania uno dei principali membri del Tribunale dell’Aja, ha l’ingiustificato vantaggio di poter influenzare un risultato che nuocerà alle rivendicazioni di giustizia dei palestinesi. La decisione così spudorata di Merkel di schierarsi al fianco di Netanyahu è quindi un abuso di potere a causa della sua posizione privilegiata al momento delle udienze.

Gli ultimi rapporti indicano che, oltre alla Germania, Israele è attivamente impegnato nel reclutamento di diversi Paesi che appoggino la sua causa in quanto “rappresentanti non ufficiali”, poiché esso stesso ha deciso di non partecipare in modo da “evitare di dare legittimità” alla CPI.

L’Ungheria e la Repubblica Ceca, come anche l’Austria, l’Australia e il Canada si sono uniti per sostenere l’impunità di Israele.

Benché la Procuratrice Bensouda ritenga che la Palestina sia «sufficientemente uno Stato » perché all’Aja venga trasferita la giurisdizione penale sul suo territorio, la sua richiesta di verifica di questo punto di vista può far fallire l’inchiesta, essendoci una battaglia giuridica riguardo alla definizione di ciò che costituisca uno “Stato”. 

L’attacco contro la CPI – con gli appelli di Netanyahu a sottoscriverlo – arriva proprio dopo la pubblicazione da parte dell’ONU di un elenco di 112 imprese legate alle colonie illegali di Israele. E, nello stesso spirito contrario all’etica, il regime di apartheid ha attaccato il commissario delle Nazioni Unite definendolo partigiano e strumento del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).

Schierarsi dalla parte di Netanyahu per mascherare i suoi terribili crimini contro i palestinesi può consentire alla Merkel di evitare la collera di Israele, ma questo pone la Germania dalla parte sbagliata della storia – ancora una volta !

Anche se appare incongruo che la Germania ed una manciata di Paesi vogliano impedire l’esercizio della giustizia da parte dell’Aja – cosa che peraltro si sforzano di fare – è vero che, per quanto riguarda i palestinesi, il fatto di schierarsi a fianco di Israele permette a questo Stato delinquente di continuare a commettere crimini di guerra e violazioni del diritto umanitario internazionale.

Alcuni commentatori hanno sostenuto a giusto titolo che questa assurda difesa della sistematica condotta criminale di Israele possa rappresentare un colpo mortale per la CPI.

Il timore che viene espresso è che l’azione della Cancelliera Merkel sia miope, creando un buco nero legale nei territori palestinesi occupati che potrebbe comportare la distruzione di una CPI già fortemente screditata.

Israele spera che, distorcendo i fatti e sviando gli obbiettivi della CPI, ne uscirà indenne. Le sue speranze poggiano sulla Cancelliera Merkel in quanto principale dirigente europeo che può distogliere l’Aja dalle sue responsabilità impegnandola in una battaglia giuridica semantica priva di senso, come è la questione della “giurisdizione”, e contestando la ratifica da parte della Palestina dello Statuto di Roma.

Mentre i giuristi internazionali saranno impegnati (si fa per dire) nella discussione sui concetti giuridici, spetta a Paesi come il Sudafrica alzare la voce contro i diversivi giuridici.

Il silenzio a fronte di questo ostacolo giuridico inventato di sana pianta sarà interpretato come una rinuncia a far rispettare e a difendere i diritti umani dei palestinesi.

Iqbal Jassat è membro esecutivo di Media Rewiew Network, con sede in Sudafrica.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Israele. Il “centrismo” della lista Bianco Blu:”la cultura araba è la giungla”

 Jonathan Ofir

17 febbraio 2020 – Mondoweiss

E’ ciò che pensa e ha affermato senza esitazioni in una intervista il deputato Yoaz Hendel, un alto dirigente del partito, presunto centrista, guidato dall’ex capo di stato maggiore Benny Gantz che il 2 marzo potrebbe superare il Likud di Netanyahu e vincere le elezioni israeliane

 Nena News – “Penso che la cultura araba intorno a noi sia la giungla.” Questo è ciò che sostiene Yoaz Hendel in un’intervista rilasciata venerdì al giornalista di Haaretz Ravit Hecht. Hendel è tra i primi dieci leader del partito Blu-Bianco di Benny Gantz, che ha 33 seggi nel parlamento israeliano. Il partito dovrebbe fungere da opposizione di centro al Likud di Netanyahu, e secondo molti sondaggi potrebbe superare il Likud di un paio di seggi alle prossime elezioni di marzo.

L’intervista è sconvolgente. Hendel commenta generalmente in modo derisorio la cultura araba:“C’è gente venuta qui da Paesi di ogni tipo: alcuni arrivano con la mentalità da concerto a Vienna, altri con la mentalità da darbuka”, ha dichiarato a Hecht, facendo riferimento a un tipo di tamburo molto popolare in Medio Oriente.

Non è la prima volta che Hendel fa propaganda razzista. Nel 2017, la sua rubrica settimanale su Yediot Aharonot ha descritto un immaginario di vendetta in cui i Palestinesi avevano il ruolo dei nazisti. In una “manifestazione per la democrazia” orientalista, organizzata dal partito Blu-Bianco l’anno scorso, Hendel ha boicottato l’evento perché, all’ultimo momento, era stato annunciato un intervento di Ayman Odeh, leader della Lista unita dei partiti palestinesi in Israele.

Hendel è passato al partito Blu-Bianco dal Likud, come membro della fazione Telem, insieme a Moshe Ya’alon, che è il numero tre nella lista Blu-Bianca. Anche Ya’alon è un ex membro del Likud, è stato Ministro della Difesa e ha anche lui precedenti di razzismo anti-palestinese, avendo paragonato la “minaccia palestinese” a un “cancro”, contro il quale applica la “chemioterapia” (era il 2002, e lui era Capo di Stato Maggiore dell’esercito). Hendel era il Responsabile della Comunicazione e dell’Hasbara (‘diplomazia pubblica’) di Netanyahu nel 2011-2012.

La dichiarazione secondo cui “la cultura araba intorno a noi è la giungla” non nasce dal nulla. L’idea di Israele come “villa in mezzo alla giungla” viene, infatti, attribuita al leader “di sinistra” Ehud Barak, che la pronunciò in un discorso ufficiale nel 1996. Barak si è anche congratulato con Trump per il suo monito razzista secondo cui “Mohammed” potrebbe diventare Primo Ministro, e reputa che “loro (i palestinesi, e soprattutto Arafat) sono il prodotto di una cultura in cui mentire… non crea dissenso… Per loro dire bugie non è un problema, come invece è nella cultura giudaico-cristiana”.

Ecco qualche altro passo dell’intervista:

Hecht: “Lei ha detto in passato che Israele è una villa nella giungla. Oggi, qui, ribadisce che il nostro vantaggio sui palestinesi è la moralità. Pensa che la cultura araba sia la giungla?”

Hendel: “Sì, certo, penso che la cultura araba che ci circonda sia la giungla. C‘è una palese violazione di ogni singolo diritto umano che noi, nel mondo occidentale, riconosciamo. Lì questi diritti devono ancora vedere la luce del sole. Loro non hanno raggiunto lo stadio evolutivo in cui si hanno dei diritti umani. Non esistono i diritti delle donne, né i diritti LGBT, né quelli delle minoranze, e non c’è educazione. Molti Stati arabi sono dittature mancate, il che spiega perché i trattati di pace che sigliamo qui sono limitati alla leadership. Non esiste la pace tra popoli perché non esiste educazione alla pace e alla tolleranza.”

Hecht contesta Hendel:

Hecht: “Anche in Israele l’odio verso gli arabi è la norma.”

Hendel: “C’è il razzismo e bisogna occuparsene, ma ogni volta che vedo, in ‘A Star is Born’ o a ‘Masterchef’, che gli israeliani votano per un concorrente arabo, o quando giro per gli ospedali per via di mia moglie (è una ginecologa, ndr), ho l’impressione che, finalmente, la vita qui sia priva di razzismo.”

Questa è un’osservazione veramente terribile e paradossale. Hendel cerca di applicare la classica Hasbara quando fa riferimento agli “arabi israeliani” come prova della presunta fiorente democrazia. Ma l’osservazione sugli ospedali! Hendel forse non ha seguito la questione della dilagante e sistematica segregazione razziale delle madri nei reparti maternità israeliani? Non ricorda le parole del parlamentare di estrema destra Bezalel Smotrich, che ha twittato “Subito dopo il parto, mia moglie voleva riposare e non fare una festa come fanno le donne arabe”, e che “È naturale che mia moglie non voglia stendersi vicino a qualcuno che ha appena partorito un bambino che, tra 20 anni, potrebbe voler uccidere il suo”?

Hecht contesta di nuovo le espressioni razziste di Hendel: “Potrai anche votare per un concorrente arabo a ‘Masterchef’, ma dichiari senza esitazione che ‘La mia cultura è superiore e non voglio assomigliare a un arabo’. Anche questa è una forma di razzismo.”

Hendel: “Per come la vedo io, non ho nulla di razzista (sic). Da un punto di vista cognitivo, prima di tutto mi prendo cura della mia gente, delle mie tradizioni e della mia storia. E questo è quanto. Non provo odio verso nessuno e ho legami personali con palestinesi, perché vivo vicino a Gush Etzion (blocco di insediamenti coloniali, ndr).”

Queste espressioni del “colonialista illuminato” che dice “alcuni dei miei amici sono palestinesi” hanno indotto il presidente di B’tselem Hagai El-Ad a paragonare Hendel al Primo Ministro dell’Apartheid sudafricana Hendrik Verwoerd, che dichiarò: “La nostra politica è quella che viene chiamata…‘apartheid’, e io temo che venga spesso fraintesa. Potrebbe essere più semplicemente, e forse meglio, descritta come una politica di buon vicinato.”

Anche Ahmed Tibi, parlamentare della Lista unita araba, è stato particolarmente drastico nel criticare il razzismo di Hendel, sottolineando come gli accenni alla musica araba colpiscano anche gli ebrei arabi: “Un razzista bianco contro arabi e Mizrahim allo stesso modo. Hendel non è Tarzan: Hendel è la giungla. Io amo [il cantante libanese] Fairuz e la darbuka nelle canzoni di Umm Kulthum [compianta cantante egiziana], e quasi sicuramente Hendel ascolta Wagner ogni volta che lo stivale dell’occupazione calpesta i palestinesi privi di diritti umani a causa di quella cultura occidentale che incoraggia gli insediamenti, l‘espropriazione e l’annessione. Detesto la sua visione del mondo e quella di alcuni amici suoi che credono nella supremazia ebraica.”

Il leader della Lista unita araba Ayman Odeh ha detto che “la teoria di Hendel sulla supremazia europea” è stata smentita dall’ “ignoranza e dalla mancanza di cultura che ha dimostrato nella sua intervista a Haaretz”.

Il palese razzismo di Hendel è troppo anche per molti membri del partito Blu-Bianco. Ofer Shelah (anche lui tra i primi 10 leader del Blu-Bianco, più in alto di Hendel), ha dichiarato che “le affermazioni di Yoaz Hendel sono esternazioni infelici che sarebbe stato meglio evitare, e che non rispecchiano lo spirito del partito Blu-Bianco”. La parlamentare Orna Barbivai (posizionata appena dopo Hendel) è stata più leggera nella sua critica: “Penso che tutti nasciamo uguali e non siamo qui per giudicare”. Definendo “superflui” i commenti di Hendel, ha detto “Io sono favorevole alle darbukas. Ma dedurre da questo che Hendel è un razzista sarebbe esagerato”.

Il fatto che Hendel abbia, in un certo senso, equiparato i Mizrahim ad una presunta degenerazione araba l’ha portato ad essere criticato anche dall’estrema destra. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha ritwittato una dichiarazione del Likud secondo cui Hendel dovrebbe vergognarsi di se stesso. Dimenticatevi tutte le dichiarazioni razziste di Netanyahu sugli arabi, adesso ci sono facili consensi da raccogliere contro il suo rivale.

 Perfino il Ministro dell’Educazione Rafi Peretz, del partito di estrema destra Yamina, ha detto di essere “orgoglioso di far parte della cultura delle dabukas”. Il parlamentare di Shas (partito ultraortodosso Mizrahi) Ya’akov Margi ha condannato la “boria” di Hendel e ha detto che gli ebrei Mizrahi vengono da una grande tradizione che include ‘Maimonide, scienza e medicina’. I sionisti cercano, per lo più, di barcamenarsi per non inimicarsi i Mizrahim. Quando però il razzismo è così plateale e disgustoso come nel caso di Hendel, si scivola.

H/t Ronit Lentin, Edith Breslauer

Jonathan Ofir è un musicista israeliano, direttore d’orchestra e blogger/giornalista. Vive in Danimarca.

(Traduzione di Elena Bellini)
Nena news




Amazon costringe i palestinesi a registrarsi come israeliani per la spedizione gratuita

Middle East Monitor

14 febbraio 2020 Middle East Monitor

I clienti che inseriscono il proprio indirizzo come “Territori palestinesi” sono costretti a pagare le spese di spedizione e gestione a partire da [un ordine di] 24 dollari

L’azienda internazionale di commercio on line Amazon è stata accusata di discriminare i palestinesi in quanto offre spedizioni gratuite verso le colonie della Cisgiordania occupata ma non ai palestinesi che vivono nella stessa area.

Nei risultati pubblicati in un’indagine del Financial Times, il giornale ha scoperto che, prendendo tutti gli indirizzi corrispondenti alle colonie illegali e inserendoli nel portale di consegna di Amazon, l’azienda applica l’offerta di spedizione gratuita prevista nel proprio sito web “se il tuo indirizzo di spedizione è in Israele, gli articoli scelti sono ammessi e il tuo ordine totale soddisfa la soglia di spedizione gratuita minima di 49 dollari [45,36 euro, ndtr.]”.

Invece i clienti che inseriscono il proprio indirizzo come “Territori Palestinesi” sono costretti a pagare le spese di spedizione e gestione a partire da [un ordine di] 24 dollari [22,22 euro,ndtr.]. Il portavoce di Amazon Nick Caplin ha dichiarato al giornale che i palestinesi possono solo aggirare il problema: “Se un cliente all’interno dei territori palestinesi inserisce il proprio indirizzo e seleziona Israele come Paese, può ricevere la spedizione gratuita usufruendo della stessa promozione”.

Tutte le consegne dell’azienda devono passare attraverso Israele per raggiungere la Cisgiordania occupata e ciò determina lunghi ritardi.

L’avvocato internazionale per i diritti umani Michael Sfard, tuttavia, ha ritenuto tale motivazione non sufficiente e ha definito la politica di Amazon “una palese discriminazione tra potenziali clienti sulla base della loro nazionalità” all’interno della stessa area operativa. Anche l’organizzazione di attivisti Peace Now [O.N.G. pacifista israeliana, ndtr.] ha commentato la situazione, affermando che la politica discriminatoria di Amazon “si aggiunge al quadro generale di un gruppo di persone che godono dei privilegi di cittadinanza, al contrario di altre che vivono nello stesso territorio”.

Negli ultimi anni le colonie ebraiche nei territori palestinesi occupati della Cisgiordania e di Gerusalemme est sono notevolmente aumentate, con un numero di coloni di oltre 463.000 in Cisgiordania e altri 300.000 a Gerusalemme est alla fine del 2019.

Nonostante il fatto che le colonie siano illegali ai sensi del diritto internazionale, numerose grandi e fiorenti aziende hanno continuato a trattare con loro e ad operare nel territorio che questi hanno occupato illegalmente. Questa settimana le Nazioni Unite hanno pubblicato una lista nera di 112 aziende che continuano a operare nei territori occupati, tra cui i giganti mondiali Airbnb, Expedia, Opodo e Motorola.

Dopo la pubblicazione del documento gli Stati Uniti hanno bocciato l’iniziativa, mentre Israele ha sospeso i rapporti con il Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




In che modo i coloni si prendono la terra palestinese? La risposta è: con una strada

Dror Etkes 

12 febbraio 2020 – + 972

Per collegare le enclavi che compongono Kedumim, i coloni hanno assunto il controllo di una importante strada che serviva ai palestinesi e gliene hanno bloccato l’accesso.

Il 28 gennaio, il giorno in cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha reso pubblico l’ “accordo del secolo”, nella colonia di Kedumim una donna seduta in un’auto a noleggio digitava sul cellulare mentre gli spari risuonavano dalla vicina Kufr Qaddum. Si potevano sentire rumori di veicoli militari arrivare dal villaggio palestinese a poche centinaia di metri a ovest della colonia.

La donna continuava a guidare verso sud, verso l’uscita principale di Kedumim, e io proseguivo verso ovest lungo Nahlah Street. Dall’altra parte della strada, ho visto un allievo della scuola elementare tornare a casa mentre passava l’auto di servizio del consiglio dei coloni. Routine quotidiana della colonia.

Dopo un po’ sono arrivata alla casa più a ovest di Kedumim, accanto agli uliveti di Kufr Qaddum. È probabile che questo punto diventerà presto un altro segnale dei confini internazionali di Israele, se il piano di Trump verrà attuato e Israele annetterà gli insediamenti.

Kedumim fu fondata nel 1975 in seguito al famigerato “compromesso di Sebastia”, quando i coloni di Gush Emunim raggiunsero un accordo con l’allora Primo Ministro Yitzhak Rabin e il Ministro della Difesa Shimon Peres per fondare un nuovo insediamento come risarcimento dell’essere stati allontanati dalla terra che avevano occupato alla stazione ferroviaria di Sebastia, adiacente all’omonimo villaggio palestinese nella Cisgiordania settentrionale. Da molti anni, però, Nahlah Street era la strada utilizzata dagli abitanti palestinesi di Kufr Qaddum per accedere a Nablus, la grande città a loro più vicina.

Ma un tratto di 2 chilometri di quella strada si snoda tra gli ulivi e i campi di Kufr Qaddum orientale, su cui Kedumim è stata fondata 45 anni fa. E negli ultimi vent’anni, quella strada è stata chiusa agli abitanti palestinesi di Kufr Qaddum. Mentre la lotta popolare si è in gran parte attenuata in tutta la Cisgiordania occupata, il villaggio è uno degli ultimi posti in cui è possibile assistere a manifestazioni quasi settimanali del venerdì che protestano contro la chiusura della strada.

Kufr Qaddum non è affatto l’unica comunità palestinese in Cisgiordania ad avere uno dei propri punti di accesso chiuso dall’espansione delle colonie. La colonia di Kiryat Sefer, per esempio, ha inglobato la strada Bil’in-Safa. La colonia di Maale Adumim controlla il tragitto Abu Dis-Old Jericho. E la colonia di Neve Daniel ha inglobato una strada locale che collegava diversi villaggi palestinesi a Maqam Nabi Daniel.

Per di più, la maggior parte delle aree che l’esercito ha assegnato alle colonie è composta da enclavi e territori non contigui, e comprende campi agricoli che le autorità israeliane riconoscono come terra privata palestinese. In quanto tali, fin dall’inizio queste aree non potevano essere ufficialmente sotto la giurisdizione delle colonie.

La cosa può suonare strana a chiunque pensi in modo tradizionale ai progetti di una comunità – dove le persone normali desiderano condurre una vita in base alle regole che non implichi il furto di proprietà. Ma la Cisgiordania non è un posto normale, e il sistema di assegnazione e pianificazione del territorio che Israele vi ha imposto obbedisce ad un principio organizzativo supremo: rubare e saccheggiare a piacimento e poi pensare a come fare col bottino.

Oltretutto, esiste solo una connessione statisticamente casuale tra le aree giurisdizionali ufficiali e quelle effettive delle colonie. Il motivo è che i coloni essenzialmente fanno ciò che vogliono e le autorità responsabili dell’applicazione della legge non la applicano. È ciò che è successo a Kedumim: l’area totale delle sette enclavi assegnate in aree non contigue è di 3.300 dunam [330 ettari], mentre i coloni sostengono che la comunità occupa circa 6.000 dunam [600 ettari]. Da dove vengono i 2.700 dunam [270 ettari] in più?

Oggi Kedumim occupa tutta la terra di Kufr Qaddum, che l’esercito ha “donato” ai coloni a spese degli abitanti palestinesi. Tra il 1970 e il 1978 l’esercito israeliano ha cominciato ad emanare una serie di “ordini di sequestro militare temporaneo per esigenze di sicurezza”, espropriando oltre 450 dunam [45 ettari] di terra, di cui oltre la metà è stata data ai coloni.

Le fotografie aeree scattate nel 1970 mostrano l’area acquisita quell’anno. Nella parte meridionale si trova la base militare di Kadum dell’esercito israeliano, nello stesso punto in cui prima del 1967 si trovava una base militare giordana. L’area settentrionale divenne, nel corso degli anni, il punto di partenza della colonia di Kedumim e della piccola zona industriale adiacente. A nord della colonia si vede chiaramente la strada che collega Kufr Qaddum a Nablus.

Nel 1979, con l’istanza Alon Moreh, l’Alta Corte di Israele decretò che era illegale assegnare per la costruzione di colonie i terreni palestinesi espropriati dall’esercito israeliano per un preteso scopo militare. Ma poco dopo, per espandere le colonie, Israele cominciò a dichiarare “terreni di stato” ampie fasce di terreno attorno a quello sotto ordine di sequestro, appartenenti agli abitanti di Kufr Qaddum,.

Le immagini aeree del 1983 mostrano chiaramente che i “terreni statali” consegnati ai coloni non erano adiacenti al nucleo della colonia, perché in quei luoghi c’erano – e ci sono ancora – uliveti di proprietà degli abitanti di Kufr Qaddum. I residenti palestinesi possono accedere ad alcuni dei loro uliveti solo un certo numero di giorni fissati ogni anno, e gran parte di quei terreni rimane loro del tutto inaccessibile. Già nei primi anni ’80, Kedumim si espanse al punto che i confini della colonia erano 2 chilometri più a nord del suo originale centro.

Le foto aeree del 2019 mostrano il punto più a nord a cui è arrivata Kedumim, a quarant’anni dalla sua fondazione. Gli edifici costruiti da allora si trovano prevalentemente all’interno dei confini meridionale e settentrionale della colonia.

Dunque, come hanno fatto queste zone separate a formare un unico, continuo insediamento in Cisgiordania? Secondo Daniella Weiss, leader dei coloni ed ex sindaco di Kedumim, basta costruire una strada che attraversa gli uliveti di Kufr Qaddum. Lo studio ravvicinato di una foto aerea del 1983 mostra che, nell’area sotto ordine di sequestro, una strada dalla zona meridionale sbuca nella parte settentrionale lungo la strada Kufr Qaddum-Nablus.

L’espansione della colonia verso nord è stata il colpo finale alla strada Kufr Qaddum-Nablus. Nel corso degli anni, mentre Kedumim si espandeva ed estendeva su più di 10 colline, la strada è diventata determinante per la crescita della colonia e tutto ciò che i coloni hanno dovuto fare è stato aspettare un’opportunità per bloccarvi il traffico palestinese.

L’opportunità è arrivata nei primi anni della Seconda Intifada, che vedevano i coloni di Kedumim nel pieno di una aggressiva campagna di occupazione iniziata alcuni anni prima. Questa campagna per il controllo su più terra intorno alla colonia includeva le solite mosse di questo tipo di colonie: creare nuove strade, bloccare violentemente l’accesso alle aree intorno alla colonia e costruire avamposti.

È così che, alla fine degli anni ’90, il monte Mohammad di Kufr Qaddum è diventato l’avamposto “Har Hemed”. Ed è così che nel 2004 è stato costruito il quartiere in cui vive attualmente il parlamentare di estrema destra e Ministro dei Trasporti Betzalel Smotrich.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il “campo pacifista” di Israele rischia di scomparire

Jonathan Cook

7 Febbraio 2020 –The Electronic Intifada

Per il cosiddetto “campo pacifista” di Israele gli scorsi 12 mesi di elezioni generali – la terza è prevista il 2 marzo – sono stati vissuti come una continua roulette russa, con sempre minori opportunità di sopravvivenza.

Ogni volta che la canna della pistola elettorale è stata ruotata, i due partiti parlamentari collegati al sionismo liberale, Labour e Meretz, si sono preparati alla loro imminente scomparsa.

Ed ora che la destra israeliana ultranazionalista celebra la presentazione del cosiddetto “piano” per la pace di Donald Trump, sperando che porterà ancora più dalla sua parte l’opinione pubblica israeliana, la sinistra teme ancor di più l’estinzione elettorale.

Di fronte a questa minaccia Labour e Meretz – insieme ad una terza fazione di centro-destra ancor più minuscola, Gesher – a gennaio hanno annunciato l’unificazione in una lista unica in tempo per il voto di marzo.

Amir Peretz, capo del Labour, ha ammesso francamente che i partiti sono stati costretti ad un’alleanza.

“Non c’è scelta, anche se lo facciamo contro la nostra volontà”, ha detto ai dirigenti del partito.

Alle elezioni di settembre i partiti Labour e Meretz, presentatisi separatamente, hanno a malapena superato la soglia di sbarramento.

Il partito Labour, un tempo egemone, i cui leader hanno fondato Israele, ha ottenuto solo cinque dei 120 seggi in parlamento – il risultato più basso di sempre.

Il partito sionista più di sinistra, il Meretz,, ha ottenuto solo 3 seggi. È stato salvato solo dall’alleanza con due partiti minori, teoricamente di centro.

Sempre fragile

Anche al culmine del processo di Oslo alla fine degli anni ’90, il “campo pacifista” israeliano era una costruzione fragile, senza sostanza. Al tempo vi era un dibattito scarsamente rilevante tra gli ebrei israeliani riguardo a quali concessioni fossero necessarie per raggiungere la pace, e sicuramente riguardo a come potesse configurarsi uno Stato palestinese.

Le recenti elezioni, che hanno fatto del leader del Likud Benjamin Netanyahu il Primo Ministro israeliano più a lungo in carica, e la generale euforia riguardo al piano “di pace” di Trump, hanno indicato che l’elettorato ebraico israeliano favorevole ad un processo di pace – anche del tipo più blando – è del tutto scomparso.

Da quando Trump è diventato presidente, la principale opposizione a Netanyahu è passata dal Labour al partito Blu e Bianco, guidato da Benny Gantz, un ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano che è stato il responsabile della distruzione di Gaza nel 2014.

Il suo partito è nato un anno fa, in tempo per l’ultimo voto di aprile e nelle due elezioni generali dello scorso anno i partiti di Gantz e Netanyahu hanno praticamente pareggiato.

I commentatori, soprattutto in nord America e in Europa, hanno accomunato Blu e Bianco con Labour e Meretz come il “centro sinistra” israeliano. Ma il partito di Gantz non si è mai presentato come tale.

Si pone stabilmente a destra, attraendo gli elettori stanchi dei guai molto discussi sulla corruzione di Netanyahu –deve affrontare tre diverse imputazioni per frode e corruzione – o del suo continuo accondiscendere ai settori più religiosi della società israeliana, come i seguaci del rabbinato ortodosso e il movimento dei coloni.

Gantz e il suo partito si sono rivolti agli elettori che vogliono un ritorno ad un sionismo di destra più tradizionale e laico, che un tempo era rappresentato dal Likud – capeggiato da figure come Ariel Sharon, Yitzhak Shamir e Menachem Begin.

Non è stata quindi una sorpresa che Gantz abbia fatto a gara con Netanyahu nell’appoggiare il piano di Trump che sancisce l’annessione delle colonie illegali della Cisgiordania e della Valle del Giordano.

Ma le difficoltà della destra israeliana sono iniziate molto prima della nascita di Blu e Bianco. E per un po’ di tempo sia il Labour che il Meretz hanno cercato di reagire ostentando una linea più intransigente.

Abbandonare Oslo

Sotto la guida di diversi leader il Labour si è progressivamente allontanato dai principi degli accordi di Oslo che ha firmato nel 1993. Il discredito di quel processo è avvenuto in larga misura perché lo stesso Labour all’epoca ha rifiutato di impegnarsi in buona fede nei colloqui di pace con la leadership palestinese.

Nel 2011, dando un segnale generalmente interpretato come il riposizionamento del partito Laburista, la candidata alla sua guida ed ex capo del partito, Shelly Yachimovich, ha puntualizzato che le colonie, che violano il diritto internazionale, non erano un “peccato” o un “crimine”.

In un momento di sincerità ha attribuito direttamente al Labour la loro creazione: “È stato il partito Laburista che ha dato inizio all’impresa coloniale nei territori. Questo è un fatto. Un fatto storico.”

Questo graduale allontanamento dal sostegno anche solo a parole il processo di pace è culminato nell’elezione del ricco uomo d’affari Avi Gabbay come leader del partito Laburista nel 2017.

Nel 2014 Gabbay aveva contribuito a finanziare, insieme a Moshe Kahlon, un ex Ministro delle Finanze del Likud, il partito di destra Kulanu. Lo stesso Gabbay, benché non eletto, ha ricoperto brevemente un ruolo ministeriale nella coalizione di estrema destra di Netanyahu dopo le elezioni del 2015.

Una volta diventato leader del Labour, Gabbay ha fatto eco alla destra stralciando in gran parte il processo di pace dal programma del partito. Ha dichiarato che qualunque concessione ai palestinesi non doveva includere l’“evacuazione” delle colonie.

Ha anche suggerito che fosse più importante per Israele mantenere per sé l’intera Gerusalemme, compresa la parte est occupata, piuttosto che raggiungere un accordo di pace.

Il suo successore (e due volte predecessore) Amir Peretz potrebbe sembrare teoricamente più moderato. Ma ha mantenuto legami con il partito Gesher, fondato da Orly Levi-Abekasis alla fine del 2018.

Levi-Abekasis è un ex deputato di Yisrael Beitenu [Israele è casa nostra], il partito di estrema destra che è ripetutamente entrato nei governi di Netanyahu ed è guidato da Avigdor Lieberman, ex Ministro della Difesa e colono.

Abbandonare la minoranza palestinese di Israele.

Il Meretz ha intrapreso un percorso ancor più drastico di allontanamento dalle proprie origini di partito pacifista, lo scopo per il quale è stato espressamente creato nel 1992.

Fino a poco tempo fa il partito aveva l’unico gruppo parlamentare apertamente impegnato per la fine dell’occupazione e posto i colloqui di pace al centro del proprio programma. Tuttavia, a partire dall’indebolimento (degli accordi) di Oslo alla fine degli anni ’90, non ha mai conquistato più di una mezza dozzina di seggi.

Di fatto dal 2014 il Meretz si è pericolosamente avvicinato alla scomparsa elettorale. In quell’anno il governo Netanyahu ha alzato la soglia elettorale a quattro seggi per poter entrare in parlamento, nel tentativo di eliminare quattro partiti che rappresentavano l’ampia minoranza di 1,8 milioni di cittadini palestinesi di Israele.

I partiti palestinesi hanno reagito creando una Lista Unita per superare la soglia. Ed in un chiaro esempio di conseguenze impreviste, la Lista Unita è attualmente il terzo più grande partito della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.].

Da parte sua, il Meretz è stato lacerato dalle divisioni su come procedere.

Dopo le elezioni di aprile dello scorso anno, in cui a fatica ha superato la soglia, nel Meretz ci sono state voci che chiedevano di prendere una nuova direzione, promuovendo la partnership ebraico-araba. I suoi molto votati rappresentanti “arabi”, Issawi Freij e Ali Salalah, si dice abbiano salvato il partito raccogliendo in aprile un quarto dei voti dai cittadini palestinesi di Israele, quelli che rimasero di quanti vennero espulsi dalle proprie terre nel 1948 durante la Nakba.

La minoranza palestinese è diventata sempre più politicamente polarizzata, esasperata dall’incapacità dei partiti ebraici di affrontare le sue preoccupazioni riguardo alla sistematica discriminazione che subisce.

I più votano per la Lista Unita. Ma una piccola parte della minoranza palestinese sembra stanca di gettare via quello che finisce per essere un voto di protesta.

Di fronte ad una sempre più forte istigazione anti-araba da parte della destra, guidata dallo stesso Netanyahu, alcuni erano sembrati pronti ad andare verso la società ebraica israeliana attraverso il Merertz.

Alcuni dirigenti del Meretz, guidati da Freij, hanno anche proposto di scindere la Lista Unita e creare un’alleanza con alcuni dei suoi partiti, soprattutto Hadash-Jebha, un’alleanza socialista che già include un gruppo ebraico minoritario.

Ma nella corsa al voto di settembre i dirigenti del Meretz hanno di fatto cassato qualunque ulteriore intenzione di promuovere questi tentativi di collegamento con la minoranza palestinese. In luglio il partito ha istituito un nuovo gruppo, chiamato Unione Democratica, con due nuovi partiti guidati da ex politici del Labour – il Movimento Verde di Stav Shaffir e il partito Democratico di Ehud Barak.

Improbabili alleati

Shaffir si era inimicata molti cittadini palestinesi durante le brevi proteste per la giustizia sociale nel 2011 in cui si è messa in risalto. I leader della protesta hanno lavorato sodo per mantenere a distanza i cittadini palestinesi e hanno ignorato le questioni relative all’occupazione, in modo da creare un’ampia coalizione ebraica sionista.

I precedenti di Barak – l’ex Primo Ministro è stato colui che ha messo il campo pacifista sulla sua strada di autodistruzione dichiarando che i palestinesi non erano “partner per la pace” –erano ancor più problematici.

Ha descritto il suo partito Democratico come “a destra del partito Laburista”. Il suo programma non faceva menzione di una soluzione di due Stati e della necessità di porre fine all’occupazione.

Nitzan Horowitz, il leader del Meretz, in quel momento ha giustificato l’alleanza in base al fatto che “abbiamo bisogno di aumentare la nostra forza (elettorale)”.

E, a parte il ruolo di Barak nell’ostacolare il processo di Oslo, nel 2000 come Primo Ministro all’inizio della seconda intifada diresse anche una violenta repressione poliziesca delle proteste civili dei cittadini palestinesi, in cui furono uccise 13 persone.

L’anno seguente Barak perse le elezioni a Primo Ministro dopo che i cittadini palestinesi infuriati boicottarono in massa il voto, di fatto spianando la strada alla vittoria del suo sfidante del Likud, Ariel Sharon.

Solo l’anno scorso, vent’anni dopo, Barak ha espresso le scuse per il suo ruolo in quelle 13 morti, come verosimile prezzo per entrare nell’alleanza con Meretz.

Ora il Meretz ha rotto l’alleanza con Barak e Shaffir. Ma facendolo, si è spostato ancor più a destra. Il suo accordo elettorale di gennaio con Labour e Gesher per le elezioni del 2 marzo sembra chiudere la porta ad ogni futura alleanza arabo-ebraica.

Il Meretz ha relegato Freij, il suo candidato palestinese di punta, in una irrealistica undicesima posizione [nella lista dei candidati].

Recenti sondaggi indicano che la nuova coalizione si aggiudicherà solo nove seggi.

Un improbabile scenario

Né il Meretz né il Labour hanno mai veramente rappresentato un significativo campo pacifista. Entrambi hanno una storia precedente di entusiastico appoggio a ogni recente guerra che Israele ha lanciato, benché parti del Meretz abbiano avuto abitualmente dei ripensamenti quando le operazioni si prolungavano e aumentavano le vittime.

Pochi, anche nel Meretz, hanno chiarito che cosa significhi il campo pacifista o come considerino uno Stato palestinese.

La “prospettiva” di Trump ha risposto a queste domande in modo del tutto negativo per i palestinesi. Ma il suo piano si allinea ai sondaggi che indicano che molto meno della metà degli ebrei israeliani sostiene alcun tipo di Stato palestinese, praticabile o no.

Ugualmente problematico per i sionisti liberali del Meretz e del partito Laburista è come contrastare la sistematica discriminazione nei confronti dei cittadini palestinesi di Israele senza compromettere lo status ebraico dello Stato imposto per legge.

I fondamenti sionisti di Israele implicano privilegi per i cittadini ebrei rispetto a quelli palestinesi, dall’immigrazione ai diritti sulla terra e la separazione tra le due popolazioni negli ambiti sociali, dalla residenza all’istruzione.

Ma senza qualche forma di accordo con la minoranza palestinese è impossibile immaginare come il cosiddetto campo pacifista possa ottenere qualche successo elettorale, come previsto l’anno scorso dall’ex leader del Meretz Tamar Zandberg.

L’enigma è che sottrarre potere alla destra estremista e religiosa guidata da Netanyahu dipende da una quasi impossibile alleanza sia con la destra laica e militarista guidata da Gantz, sia con la Lista Unita.

Dato il razzismo anti-arabo dilagante nella società israeliana, nessuno crede davvero che una tale configurazione politica sia realizzabile. Questo è in parte il motivo per cui Netanyahu, gli estremisti religiosi e i coloni continuano a dettare l’agenda politica, mentre il “centro-sinistra” israeliano rimane a mani vuote.

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale per il Giornalismo ‘Martha Gellhorn’.

I suoi ultimi libri sono: ‘Israel and the clash of civilization: Iraq, Iran and the plan to remake the Middle East’ [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ridefinire il Medio Oriente] (Pluto Press) e ‘Disappearing Palestine: Israel’s experiments in human despair’ [Palestina che scompare: esperimenti israeliani di disperazione umana] (Zed Books).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’ONU ha reso nota una lista di imprese che hanno rapporti con le illegali colonie israeliane

Areeb Ullah

12 febbraio 2020 – Middle East Eye

Airbnb, Booking.com, Expedia, JCB, Opodo, TripAdvisor e Motorola sono tra le 112 imprese citate dal Consiglio per i Diritti Umani

Il Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU (OHCHR) ha pubblicato una lista a lungo attesa di imprese che operano nelle illegali colonie israeliane.

Nel documento sono elencate più di 100 aziende, comprese 18 imprese internazionali, che stanno lavorando nelle colonie della Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate.

Le imprese internazionali inserite nel documento includono Airbnb, Booking.com, Expedia, JCB, Opodo, TripAdvisor e Motorola Solutions. 

Michelle Bachelet, alta commissaria ONU per i diritti umani, ha affermato che la lista è stata stilata “dopo un approfondito e accurato processo di controllo”.

Sono consapevole che questo problema è stato e continuerà ad essere molto controverso,” ha affermato Bachelet in un comunicato.

Tuttavia, dopo un approfondito e accurato processo di controllo siamo convinti che questo rapporto basato su dati di fatto rifletta la seria attenzione che è stata dedicata a questo incarico senza precedenti e molto complesso, e che risponda in modo adeguato alla richiesta del Consiglio per i Diritti Umani contenuta nella risoluzione 31/36.”

Imprese che l’ONU mette in relazione con le illegali colonie israeliane

Impresa

Paese coinvolto

1

Afikim Public Transportation Ltd.

Israele

2

Airbnb Inc.

Stati Uniti

3

American Israeli Gas Corporation Ltd.

Israele

4

Amir Marketing and Investments in Agriculture Ltd.

Israele

5

Amos Hadar Properties and Investments Ltd.

Israele

6

Angel Bakeries

Israele

7

Archivists Ltd.

Israele

8

Ariel Properties Group

Israele

9

Ashtrom Industries Ltd.

Israele

10

Ashtrom Properties Ltd.

Israele

11

Avgol Industries 1953 Ltd.

Israele

12

Bank Hapoalim B.M.

Israele

13

Bank Leumi Le-Israel B.M.

Israele

14

Bank of Jerusalem Ltd.

Israele

15

Beit Haarchiv Ltd.

Israele

16

Bezeq, the Israel Telecommunication

Corp Ltd.

Israele

17

Booking.com B.V.

Olanda

18

C Mer Industries Ltd.

Israele

19

Café Café Israel Ltd.

Israele

20

Caliber 3

Israele

21

Cellcom Israel Ltd.

Israele

22

Cherriessa Ltd.

Israele

23

Chish Nofei Israel Ltd.

Israele

24

Citadis Israel Ltd.

Israele

25

Comasco Ltd.

Israele

26

Darban Investments Ltd.

Israele

27

Delek Group Ltd.

Israele

28

Delta Israel

Israele

29

Dor Alon Energy in Israel 1988 Ltd.

Israele

30

Egis Rail

Francia

31

Egged, Israel Transportation Cooperative Society Ltd.

Israele

32

Energix Renewable Energies Ltd.

Israele

33

EPR Systems Ltd.

Israele

34

Extal Ltd.

Israele

35

Expedia Group Inc.

Stati Uniti

36

Field Produce Ltd.

Israele

37

Field Produce Marketing Ltd.

Israele

38

First International Bank of Israel Ltd.

Israele

39

Galshan Shvakim Ltd.

Israele

40

General Mills Israel Ltd.

Israele

41

Hadiklaim Israel Date Growers Cooperative Ltd.

Israele

42

Hot Mobile Ltd.

Israele

43

Hot Telecommunications Systems Ltd.

Israele

44

Industrial Buildings Corporation Ltd.

Israele

45

Israel Discount Bank Ltd.

Israele

46

Israel Railways Corporation Ltd.

Israele

47

Italek Ltd.

Israele

48

JC Bamford Excavators Ltd.

Regno Unito

49

Jerusalem Economy Ltd.

Israele

50

Kavim Public Transportation Ltd.

Israele

51

Lipski Installation and Sanitation Ltd.

Israele

52

Matrix IT Ltd.

Israele

53

Mayer Davidov Garages Ltd.

Israele

54

Mekorot Water Company Ltd.

Israele

55

Mercantile Discount Bank Ltd.

Israele

56

Merkavim Transportation Technologies Ltd.

Israele

57

Mizrahi Tefahot Bank Ltd.

Israele

58

Modi’in Ezrachi Group Ltd.

Israele

59

Mordechai Aviv Taasiot Beniyah 1973 Ltd.

Israele

60

Motorola Solutions Israel Ltd.

Israele

61

Municipal Bank Ltd.

Israele

62

Naaman Group Ltd.

Israele

63

Nof Yam Security Ltd.

Israele

64

Ofertex Industries 1997 Ltd.

Israele

65

Opodo Ltd.

Regno Unito

66

Bank Otsar Ha-Hayal Ltd.       

Israele

67

Partner Communications Company Ltd.

Israele

68

Paz Oil Company Ltd.

Israele

69

Pelegas Ltd.

Israele

70

Pelephone Communications Ltd.

Israele

71

Proffimat S.R. Ltd.

Israele

72

Rami Levy Chain Stores Hashikma Marketing 2006 Ltd.

Israele

73

Rami Levy Hashikma Marketing Communication Ltd.

Israele

74

Re/Max Israel

Israele

75

Shalgal Food Ltd.

Israele

76

Shapir Engineering and Industry Ltd.

Israele

77

Shufersal Ltd.

Israele

78

Sonol Israel Ltd.

Israele

79

Superbus Ltd.

Israele

80

Supergum Industries 1969 Ltd.

Israele

81

Tahal Group International B.V.

Olanda

82

TripAdvisor Inc.

Stati Uniti

83

Twitoplast Ltd.

Israele

84

Unikowsky Maoz Ltd.

Israele

85

YES

Israele

86

Zakai Agricultural Know-how and inputs Ltd.

Israele

87

ZF Development and Construction

Israele

88

ZMH Hammermand Ltd.

Israele

89

Zorganika Ltd.

Israele

90

Zriha Hlavin Industries Ltd.

Israele

91

Alon Blue Square Israel Ltd.

Israele

92

Alstom S.A.

Francia

93

Altice Europe N.V.

Olanda

94

Amnon Mesilot Ltd.

Israele

95

Ashtrom Group Ltd.

Israele

96

Booking Holdings Inc.

Stati Uniti

97

Brand Industries Ltd.

Israele

98

Delta Galil Industries Ltd.

Israele

99

eDreams ODIGEO S.A.

Lussemburgo

100

Egis S.A.

Francia

101

Electra Ltd.

Israele

102

Export Investment Company Ltd.

Israele

103

General Mills Inc.

Stati Uniti

104

Hadar Group

Israele

105

Hamat Group Ltd.

Israele

106

Indorama Ventures P.C.L.

Thailandia

107

Kardan N.V.

Olanda

108

Mayer’s Cars and Trucks Co. Ltd.

Israele

109

Motorola Solutions Inc.

Stati Uniti

110

Natoon Group

Israele

111

Villar International Ltd.

Israele

112

Greenkote P.L.C.

Regno Unito

Il rapporto evidenzia anche che 60 imprese sono state tolte da un precedente elenco compilato dall’OHCHR.

La lista è stata pubblicata dopo che nel 2016 il Consiglio per i Diritti Umani ha approvato la risoluzione 31/36 ed ha richiesto informazioni su imprese “coinvolte in alcune specifiche attività legate alle colonie israeliane nei Territori Palestinesi Occupati.”

Anche l’ex alto commissario ONU Zeid Raad al-Hussein ha confermato che la lista delle imprese è stata ricavata da informazioni di dominio pubblico e da una serie di fonti. Secondo il Consiglio per i Diritti Umani, le imprese elencate hanno agevolato la costruzione di colonie, fornito loro apparecchiature per la sorveglianza o servizi per la sicurezza alle imprese che vi lavorano.

In base alle leggi internazionali le colonie israeliane su terre conquistato da Israele nella guerra del 1967 in Medio Oriente sono considerate illegali.

Altre categorie citate nel rapporto includono la fornitura di macchinari per la demolizione di edifici e la partecipazione ad attività che “danneggiano” le attività economiche palestinesi attraverso l’applicazione di restrizioni agli spostamenti.

Commentando la pubblicazione della lista, il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni guidato dai palestinesi ha affermato che l’ONU è stata “significativa” ma “incompleta”.

La banca dati è incompleta. Deve essere aggiunta qualunque impresa che sia complice del regime di apartheid israeliano e delle sue gravi violazioni dei diritti dei palestinesi in base al diritto internazionale, per assicurare il fatto che ne paghi le conseguenze,” ha affermato il BDS in un comunicato. 

Bruno Stagno, vice direttore esecutivo di Human Rights Watch per la difesa ha affermato che l’elenco dovrebbe “mettere in guardia” tutte le imprese che intendano lavorare con le colonie israeliane. “La pubblicazione a lungo attesa dei dati dell’ONU sulle attività economiche con le colonie dovrebbe mettere in guardia le imprese: avere rapporti economici con colonie illegali significa collaborare con la perpetrazione di crimini di guerra,” ha sostenuto Stagno in un comunicato.

La banca dati segna un notevole progresso negli sforzi internazionali per fare in modo che le attività economiche interrompano ogni complicità con le violazioni dei diritti e rispettino le leggi internazionali. La principale istituzione per i diritti dell’ONU dovrebbe garantire che la banca dati sia regolarmente aggiornata per agevolare le imprese nel rispetto dei loro obblighi in base al diritto internazionale.”

Lo scorso anno molti gruppi per i diritti avevano criticato il ritardo “inspiegabile” e “a tempo indefinito” nella pubblicazione della banca dati dell’ONU. Tuttavia il Consiglio per i Diritti Umani non aveva fornito nessuna ragione che determinava il continuo rinvio della pubblicazione della lista nera.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il piano di pace in Medio Oriente di Trump rivela la dura verità.

Nathan Thrall

29 gennaio 2020 – New York Times

Questa non è una rottura dello status quo. È il culmine naturale di decenni di politica americana.

Martedì scorso il presidente Trump ha reso pubblico dopo una lunga gestazione il suo piano per la pace in Medio Oriente, il cosiddetto “accordo del secolo”. Questo prevede che vi sia uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza; che Gerusalemme, compresa la Città Vecchia, sia la capitale indivisa di Israele; che Israele annetta tutte le colonie, nonché la Valle del Giordano, che costituisce quasi un quarto della Cisgiordania, compreso il confine orientale con la Giordania, con la creazione di uno Stato-arcipelago palestinese a macchia di leopardo, circondato come da un mare dal territorio israeliano. Trump ha annunciato che gli Stati Uniti riconosceranno la sovranità israeliana su tutto il territorio che il piano assegna a Israele, e poco dopo, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è impegnato ad annettere tutte le colonie e la Valle del Giordano a partire da domenica.

I membri della destra israeliana e altri oppositori della soluzione dei due Stati hanno celebrato l’accordo come la fine definitiva della possibilità di uno Stato palestinese indipendente. La sinistra israeliana, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e altri sostenitori della soluzione dei due Stati hanno condannato il piano per le stesse ragioni, definendolo il colpo di grazia per la soluzione dei due Stati.

Quindi c’è stato accordo tra sostenitori e detrattori sul fatto che la proposta abbia segnato una svolta importante dopo decenni nella politica americana e internazionale. Ma il piano è davvero l’antitesi del tradizionale approccio al conflitto da parte della comunità internazionale? O è in realtà la logica realizzazione finale di questo approccio?

Per oltre un secolo, l’Occidente ha sostenuto gli obiettivi sionisti in Palestina a spese della popolazione palestinese originaria. Nel 1917 il governo britannico promise di stabilire una casa nazionale per il popolo ebraico in Palestina, dove gli ebrei costituivano meno dell’8% della popolazione [la dichiarazione Balfour del 2 novembre1917, scritta dall’allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour a Lord Rothschild, referente del movimento sionista, affermava di guardare con favore alla creazione di una “dimora nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, allora parte dell’Impero Ottomano, ndtr.]. Trenta anni dopo, le Nazioni Unite proposero un piano per dividere la Palestina: gli ebrei, che costituivano meno di un terzo della popolazione e possedevano meno del 7% della terra, ricevettero la maggior parte del territorio. Durante la guerra che seguì, Israele conquistò più di metà del territorio assegnato allo stato arabo; ai quattro quinti dei palestinesi , che avevano vissuto in quelli che divennero i nuovi confini di Israele, fu impedito di tornare nelle loro case. La comunità internazionale non costrinse Israele a restituire i territori che aveva sottratto, né a consentire il ritorno dei rifugiati.

Dopo la guerra del 1967, quando sottrasse il restante 22% della Palestina, oltre alla penisola del Sinai all’Egitto e alle alture del Golan alla Siria, Israele insediò illegalmente delle colonie nei territori occupati e creò un regime con leggi separate per i diversi gruppi di persone , israeliani e palestinesi, che vivevano nello stesso territorio. Nel 1980 Israele annesse formalmente Gerusalemme est. Come per il processo di colonizzazione da parte di Israele, vi furono delle ammonizioni e condanne internazionali, ma il sostegno finanziario e militare americano rafforzò ulteriormente Israele.

Nel 1993, gli Accordi di Oslo concessero un’autonomia limitata ai palestinesi, [sparsi] in una manciata di isolotti senza collegamenti. Gli accordi non richiedevano lo smantellamento delle colonie israeliane né la sospensione della loro crescita. Il primo piano americano per lo Stato palestinese fu presentato dal presidente Bill Clinton nel 2000. Dichiarava che le estese colonie israeliane sarebbero stati annesse ad Israele, così come tutti gli insediamenti coloniali ebraici nella Gerusalemme est occupata. Lo Stato palestinese sarebbe stato smilitarizzato e avrebbe ospitato installazioni militari israeliane e forze internazionali nella Valle del Giordano che avrebbero potuto essere ritirate solo con il consenso di Israele. Come nel “patto del secolo”, questo piano, che costituiva la base di tutti i successivi, dava ai palestinesi una maggiore autonomia e definiva la Palestina uno Stato.

Ora secondo l’esercito israeliano ci sono più palestinesi che ebrei che abitano nei territori sotto il controllo di Israele. Sia nella visione di Trump che di Clinton, i piani americani hanno confinato la maggior parte del gruppo etnico predominante in meno di un quarto del territorio, con restrizioni alla sovranità palestinese di così vasta portata che il risultato dovrebbe essere più propriamente chiamato soluzione a favore di uno Stato e mezzo.

Il piano di Trump ha molti gravi difetti: dà la priorità agli interessi ebraici rispetto a quelli palestinesi. Premia e persino incoraggia le colonizzazioni e l’ulteriore espropriazione dei palestinesi. Ma nessuno di questi aspetti rappresenta una rottura fondamentale col passato. Il piano Trump si limita a dare gli ultimi ritocchi a una casa che i parlamentari americani, repubblicani e democratici, nel corso di decine di anni hanno aiutato a costruire. Negli ultimi decenni, quando Israele ha lentamente annesso la Cisgiordania, insediando più di 600.000 coloni nei territori occupati, gli Stati Uniti hanno fornito a Israele sostegno diplomatico, veti nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, pressioni su tribunali internazionali e organi investigativi per non perseguire Israele e miliardi di dollari in aiuti annuali.

Alcuni dei democratici che ora si candidano alla presidenza [USA] hanno parlato della loro disapprovazione per le annessioni da parte di Israele, anche se non propongono nulla per fermarle. Così una democratica popolare come la senatrice Amy Klobuchar può dichiarare la sua opposizione all’annessione e firmare una lettera che critica il piano Trump per il suo “disprezzo [del] diritto internazionale”, dopo aver sponsorizzato una risoluzione del Senato che “esprime profonda contrarietà” verso una Risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 2016 che ha richiesto a Israele di interrompere gli interventi di colonizzazione illegale. Altri democratici, come la senatrice Elizabeth Warren e Pete Buttigieg, affermano che non sarebbero disposti a fornire il sostegno finanziario dell’America al processo di annessione da parte israeliana. Ma questo è poco più di una formula elegante che permette loro di apparire duri senza minacciare nulla, dal momento che l’assistenza americana a Israele non riguarderebbe, in ogni caso, direttamente i compiti burocratici, come il trasferimento del registro fondiario della Cisgiordania dai militari al governo israeliano.

A parte vaghi riferimenti all’utilizzo di aiuti come incentivo, nessun candidato presidenziale, tranne il senatore Bernie Sanders, ha avanzato proposte riguardo l’inizio di una riduzione della complicità americana nella violazione dei diritti dei palestinesi da parte di Israele. Le dichiarazioni di opposizione all’annessione suonano vuote quando non sono accompagnate da piani per prevenirla o annullarla: vietare i prodotti delle colonie; ridurre l’assistenza finanziaria a Israele dell’importo che spende nei territori occupati; disinvestimento di fondi pensione statali e federali in società operanti negli insediamenti illegali; e la sospensione degli aiuti militari fino a quando Israele non ponga fine alla punizione collettiva di due milioni di persone confinate a Gaza e non fornisca ai palestinesi in Cisgiordania gli stessi diritti civili concessi agli ebrei che vivono al loro fianco.

Il piano Trump, proprio come il processo di pace decennale che porta a compimento, offre a Israele la copertura per perpetuare quello che è noto come lo status quo: Israele come unico sovrano che controlla il territorio tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, privando milioni di persone senza Stato dei diritti civili di base, limitando il loro movimento, criminalizzandone i discorsi che potrebbero danneggiare l ‘ “ordine pubblico”, incarcerandoli sulla base dell’indefinita e illimitata “detenzione amministrativa”, senza processo o accusa, e spodestandoli della loro terra, il tutto mentre i leader del Congresso, l’Unione Europea e una buona parte del resto del mondo applaudono e incoraggiano questa farsa, esprimendo solennemente il loro impegno per la ripresa di “trattative significative”.

Ai difensori di Israele piace dire che Israele viene preso di mira e hanno ragione. Israele è l’unico stato che perpetua un’occupazione militare permanente, con leggi discriminatorie per gruppi separati che vivono nello stesso territorio, che in tutto il mondo [persone] autoproclamatesi democratiche fanno di tutto per giustificare, difendere e persino finanziare. In assenza di politiche di impegno che contrastino l’attuale oppressione, i critici democratici del piano Trump non sono molto meglio del presidente. Sono, non a parole ma nei fatti, anch‘essi sostenitori dell’annessione e della sottomissione.

Nathan Thrall (@nathanthrall) è autore di The Only Language They Understand: Forcing Compromise in Israel and Palestine (L’unico linguaggio che conoscono: imporre un accordo in Israele e Palestina, Metropolitan Books 2017) e direttore del Progetto arabo-israeliano dell’International Crisis Group.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Lo scrittore ospite: Testimonianza al Tribunale Russell sulla Palestina: Apartheid nei Territori palestinesi occupati

John Dugard

29 gennaio 2014 – Middle East Monitor

Nel novembre 2011 il Tribunale Russell sulla Palestina [fondato nel 1966 da Bertrand Russell per indagare sui crimini commessi in Vietnam; il Tribunale Russell sulla Palestina è stato istituito nel marzo del 2009 per promuovere e sostenere iniziative per i diritti del popolo palestinese, ndtr.] terrà una sessione a Città del Capo [Sudafrica, ndtr.] sulla questione se Israele sia o meno colpevole di aver commesso il crimine internazionale di apartheid nel trattamento dei palestinesi. Ho accettato di testimoniare davanti al Tribunale. In questo articolo spiegherò perché credo che il Tribunale Russell abbia un ruolo da svolgere nel promuovere l’attribuzione di responsabilità in Medio Oriente. Descriverò anche la natura della mia testimonianza.

Israele ha violato molte regole fondamentali del diritto internazionale. Si è impadronito della terra palestinese costruendo colonie nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est e costruendo un muro di sicurezza all’interno del territorio palestinese. Ha violato i diritti umani fondamentali dei palestinesi attraverso un regime repressivo di occupazione che ignora le regole contenute nei trattati internazionali in materia di diritti umani e gli strumenti del diritto internazionale umanitario. Si è rifiutato di riconoscere la sua responsabilità nei confronti di diversi milioni di rifugiati palestinesi in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e nella diaspora.

Tuttavia non esiste un tribunale internazionale in grado di valutare la responsabilità di Israele e di perseguirlo penalmente per i suoi crimini. La Corte internazionale di Giustizia ha espresso un eccellente parere consultivo sull’argomento, ma le Nazioni Unite non possono attuarlo a causa dell’opposizione degli Stati Uniti. Alla Corte Penale Internazionale è stato chiesto di indagare sulla condotta di Israele nel corso dell’operazione Piombo Fuso, ma per quasi tre anni il pubblico ministero della CPI ha rifiutato di rispondere a questa richiesta, probabilmente a causa dell’opposizione degli Stati Uniti e della UE [solo nel dicembre 2020 la procuratrice della CPI ha chiesto di aprire un’indagine contro Israele per presunti crimini di guerra nei territori palestinesi, ndtr.] Ai tribunali nazionali nell’esercizio della loro giurisdizione a livello internazionale è stato impedito dall’intervento dei loro governi di procedere penalmente verso politici e soldati israeliani per i loro crimini. Pertanto non esiste un tribunale competente in grado di pronunciarsi sulla condotta di Israele o di procedere penalmente.

L’opinione pubblica internazionale, indignata per l’assenza di un intervento penale nei confronti di Israele per i suoi crimini, non ha quindi a disposizione una soluzione giudiziaria. È qui che entra in gioco il Tribunale Russell per la Palestina. Esso cerca di dare spazio all’opinione pubblica internazionale esaminando le azioni di Israele attraverso un processo simile a quello di un tribunale. Testimoni depongono sull’illegalità della condotta di Israele davanti a una giuria di personalità illustri che rappresentano l’opinione pubblica di molti Paesi.

La sessione del Tribunale Russell di Città del Capo si concentrerà sulla domanda se le politiche e le pratiche di Israele nei territori palestinesi occupati possano o meno rappresentare un crimine di apartheid ai sensi della Convenzione internazionale del 1973 sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid [testo adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 3068 (XXVIII) del 30 novembre 1973 ed entrato in vigore il 18 luglio 1976, ndtr.]. Gli avvocati presenteranno argomentazioni sul campo di applicazione della suddetta Convenzione e i testimoni deporranno sull’apartheid in Sudafrica e sui comportamenti di Israele nei territori occupati. Verranno effettuati dei confronti e saranno prese in esame le somiglianze.

La mia testimonianza si concentrerà sulle somiglianze tra i sistemi sudafricano e israeliano in base alla mia conoscenza personale e la mia esperienza dell’apartheid e alla condotta di Israele nella Palestina occupata. Non tenterò di confrontare l’apartheid con il trattamento degli israeliani arabi all’interno di Israele. Non rivendico alcuna competenza in materia.

Nella mia testimonianza esporrò prima la mia esperienza e poi passerò al mio pensiero sulle affinità o somiglianze nei due sistemi.

La mia vita in Sudafrica

Ho trascorso gran parte della mia vita adulta in Sudafrica come testimone dell’apartheid. Mi sono opposto all’apartheid, come comune cittadino, avvocato, studioso e responsabile di ONG. Ho avuto una vasta esperienza e conoscenza dei tre pilastri della condizione dell’apartheid: discriminazione razziale, repressione e frammentazione territoriale.

Scrivendo proficuamente sull’apartheid, ho pubblicato un importante lavoro sull’argomento, Human Rights and the South African Legal Order [Diritti umani e ordinamento giuridico sudafricano] (1978), che fornisce il resoconto più completo pubblicato finora sulla struttura giuridica dell’apartheid. Nel libro prendo in esame le ingiustizie dell’apartheid e metto a confronto l’apartheid con le norme internazionali sui diritti umani.

Ho partecipato attivamente al lavoro di ONG contrarie all’apartheid, come il South African Institute of Race Relations [Istituto sudafricano per le relazioni razziali] e Lawyers for Human Rights [Avvocati per i diritti umani]. Dal 1978 al 1990 sono stato direttore del Center for Applied Legal Studies [Centro per gli studi legali applicati, ndtr.] (CALS) presso l’Università del Witwatersrand, che si occupava di patrocini e contenziosi nel campo dei diritti umani. Come avvocato ho rappresentato famosi oppositori dell’apartheid, come Robert Sobukwe e l’arcivescovo Desmond Tutu, e vittime non note del sistema; ho portato avanti campagne legali contro lo sfratto di persone di colore dai quartieri riservati esclusivamente ai bianchi in seguito alla Group Areas Act [insieme di tre provvedimenti del parlamento del Sudafrica emanati sotto il governo dell’apartheid. I provvedimenti assegnavano gruppi razziali a diverse zone residenziali e commerciali nelle aree urbane sulla base di un sistema di apartheid urbano, ndtr.] e contro le famigerate “pass laws” [leggi che hanno istituito una specie di passaporto interno progettato per separare la popolazione, gestire l’urbanizzazione e allocare il lavoro migrante con logiche segreganti, ndtr.] che hanno fatto diventare un reato la presenza di neri nelle cosiddette “aree bianche” senza un documento che lo consentisse. Queste campagne hanno assunto la forma di una difesa legale gratuita per tutti gli arrestati, il che ha reso i sistemi ingovernabili. Attraverso il Center for Applied Legal Studies mi sono impegnato in sfide legali contro l’attuazione delle leggi sulla sicurezza e sull’emergenza, che hanno reso possibili le detenzioni senza processo, gli arresti domiciliari e, in pratica, le torture. Ho anche combattuto l’istituzione dei Bantustan, nei miei scritti, nei tribunali e attraverso interventi pubblici. Se ero esperto di qualcosa, questo erano le leggi dell’ apartheid.

Il mio incontro con Israele e Palestina

Ho visitato Israele e la Palestina ripetutamente dopo il 1982. Nel 1984 ho fatto uno studio comparato sulla posizione israeliana e sudafricana nei confronti del diritto internazionale e nel 1988 ho partecipato a una conferenza organizzata da Al Haq [organizzazione palestinese indipendente per i diritti umani che monitora e documenta le violazioni dei diritti umani di tutte le parti del conflitto israelo-palestinese, ndtr.] a Gerusalemme est durante la Prima Intifada. I quaccheri mi hanno chiesto nel 1992 di revisionare un progetto di assistenza legale a Gerusalemme est durante il quale ho viaggiato molto in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Nel 2001 sono stato nominato presidente di una commissione d’inchiesta istituita dalla Commissione per i diritti umani [organo dell’ONU istituito nel 1946, ndtr.] per indagare sulle violazioni dei diritti umani durante la seconda Intifada. Nel 2001 sono stato nominato relatore speciale della Commissione per i diritti umani (in seguito Consiglio dei diritti umani) sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO). In tale veste visitavo i TPO due volte all’anno e presentavo un rapporto alla Commissione e al terzo comitato dell’Assemblea generale sia per iscritto che verbalmente. Il mio rapporto del 2003, che ha messo in guardia la comunità internazionale sull’annessione di fatto da parte di Israele della terra palestinese con il pretesto del “Muro”, ha portato alla richiesta di un parere consultivo alla Corte Internazionale di Giustizia ed è stato ampiamente citato dalla Corte nel suo Parere consultivo del 2004. Il mio mandato è scaduto nel 2008. Nel febbraio 2009, tuttavia, ho guidato una missione conoscitiva istituita dalla Lega degli Stati Arabi per indagare e riferire sulle violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario nel corso dell’operazione israeliana “Piombo fuso” contro Gaza.

Dalla mia prima visita in Israele / Palestina sono stato colpito dalle somiglianze tra l’apartheid in Sudafrica e le pratiche e le politiche di Israele nei territori palestinesi occupati. Queste somiglianze sono apparse più evidenti man mano che mi sono informato meglio sulla situazione. Come relatore speciale, mi sono deliberatamente astenuto dal fare simili confronti fino al 2005, poiché temevo che avrebbero impedito a molti governi occidentali di prendere sul serio le mie relazioni. Tuttavia, dopo il 2005, ho deciso che non potevo in buona coscienza astenermi dal fare tali confronti.

Osservazioni personali

Naturalmente i regimi di apartheid e di occupazione sono molto diversi, in quanto il Sud Africa dell’apartheid praticava discriminazioni contro la propria gente; ha cercato di frammentare il Paese in un Sudafrica bianco e bantustan neri per evitare di estendere il diritto di voto ai sudafricani neri. Le sue leggi sulla sicurezza sono state usate per reprimere brutalmente l’opposizione all’apartheid. Israele, invece, è una potenza occupante che controlla un territorio straniero e il suo popolo sotto un regime la cui natura è riconosciuta dal diritto umanitario internazionale come una forma di occupazione bellica. In pratica, tuttavia, c’è poca differenza. Entrambi i regimi erano e sono caratterizzati da discriminazione, repressione e frammentazione territoriale. La differenza principale è che il regime dell’apartheid era più onesto: le leggi sull’apartheid sono state legalmente approvate in Parlamento ed erano chiare a tutti, mentre le leggi che governano i palestinesi nei TPO sono contenute in oscuri decreti militari e hanno perpetuato regolamenti di emergenza praticamente inaccessibili. Nel Sudafrica dell’apartheid cartelli rozzi e razzisti indicavano quali servizi fossero riservati ad uso esclusivo dei bianchi. Nell’OPT non esistono tali cartelli, ma le Forze di Difesa israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] (IDF) assicurano in molte aree ai coloni i loro diritti esclusivi. In nessun settore ciò è evidente quanto nel caso dell'”apartheid stradale”. In Cisgiordania le strade in buone condizioni sono riservate all’uso esclusivo dei coloni senza che alcun segnale indichi tale prerogativa, ma l’IDF assicura che i palestinesi non utilizzino queste autostrade. (Per inciso, va sottolineato che l’apartheid in Sudafrica non si è mai esteso alle strade!)

Nel mio lavoro di commissario (2001) e relatore speciale (2001-2008) ho assistito ad ogni aspetto dell’occupazione dei TPO; la mia posizione era molto privilegiata. Accompagnato e sotto la guida di un autista palestinese e in compagnia di leader della comunità palestinese ed esperti delle Nazioni Unite, ho viaggiato molto in Cisgiordania e Gaza, visitando ogni città, molti villaggi, fattorie, scuole, ospedali, università e fabbriche. Nel corso degli anni ho anche visitato colonie come Ariel, Ma’ale Adummim, Betar Illit e Kirya Arba, che assomigliano ai sobborghi di lusso sudafricani di Sandton e Constantia con le loro belle case, supermercati, scuole e ospedali.

Ho visto gli umilianti posti di controllo, con lunghe file di palestinesi che aspettavano pazientemente sotto il sole e la pioggia che i soldati dell’IDF esaminassero i loro documenti di viaggio. Inevitabilmente ciò ha riportato alla memoria le lunghe file negli “uffici per il pass” dell’apartheid e il trattamento dei sudafricani neri da parte di agenti di polizia e burocrati. Ho visitato case che erano state distrutte dall’IDF per “ragioni amministrative” (cioè, erano state costruite senza un permesso della potenza occupante israeliana, quando i permessi di costruzione non sono praticamente mai concessi). Mi sono tornati alla mente i ricordi delle case demolite nel Sud Africa dell’apartheid nelle “aree nere” di un tempo, [perché] riservate all’esclusiva presenza abitativa da parte di bianchi. Ho visitato la maggior parte del muro che si estende lungo il lato ovest della Palestina, ho visitato fattorie che erano state confiscate per la costruzione del muro e ho parlato con gli agricoltori che avevano perso i loro mezzi di sostentamento. Ho anche parlato con i proprietari di fabbriche i cui locali erano stati distrutti dalle IDF come “danno collaterale” nel corso delle loro incursioni e con i pescatori di Gaza a cui non era permesso pescare per ragioni di “sicurezza”.

Nel 2003 ho visitato Jenin poco dopo la devastazione da parte dell’IDF e ho visto le case rase al suolo dai bulldozer. Ho visto i danni causati alle infrastrutture di Rafah dai bulldozer Caterpillar costruiti appositamente allo scopo di distruggere strade e case; ho parlato con le famiglie in un campo profughi vicino a Nablus le cui case erano state saccheggiate e vandalizzate dai soldati israeliani con la compagnia di cani aggressivi; ho parlato con gli adulti e i più giovani che erano stati torturati dalle IDF; e ho visitato gli ospedali per incontrare coloro che erano stati feriti dall’IDF. Ho visitato scuole che erano state distrutte dalle IDF, con squallidi graffiti anti-palestinesi scritti sui muri; ho parlato con bambini traumatizzati i cui amici erano stati uccisi dal fuoco a casaccio dalle IDF e che venivano curati da psicologi; sono stato esposto agli assalti dei coloni a Hebron e ho visitato le comunità a sud di Hebron, che vivevano nella paura degli stessi coloni illegali. Ho visto ulivi distrutti dai coloni e ho viaggiato attraverso la Valle del Giordano osservando campi beduini distrutti (che mi hanno ricordato ancora la distruzione dei “settori neri” nel Sudafrica dell’apartheid) e posti di controllo progettati per servire gli interessi dei coloni. Ho incontrato membri delle IDF nei posti di controllo e nei valichi di frontiera e ho avuto un forte senso di déjà vu: avevo già visto quel genere di individui in una vita precedente.

Durante la visita in Palestina, ho soggiornato a Gerusalemme est occupata. Lì ho visto insediamenti coloniali israeliani nel cuore della Città Vecchia e ho visitato case che erano state distrutte da Israele o individuate per la distruzione (ad esempio a Silwan). Ho parlato con famiglie che erano state separate dai misteri amministrativi dell’occupazione israeliana che permetteva ad alcuni palestinesi di vivere a Gerusalemme, ma confinava altri in Cisgiordania. Ho ricordato le leggi dell’apartheid che separavano le famiglie in questo modo.

Ho avuto un’esperienza di prima mano della “frammentazione territoriale” della Palestina, ovvero il sequestro, la confisca e l’appropriazione della terra palestinese da parte di Israele. Ho esplorato la terra annessa de facto da Israele tra la Linea Verde (il confine generalmente accettato del 1948/49 tra Israele e Palestina) e il Muro; ho visto e visitato gli insediamenti tentacolari che hanno sottratto ampi tratti di terra palestinese in Cisgiordania e Gerusalemme est; ho visto le vaste aree di terra dichiarate zone militari israeliane nella Valle del Giordano e altrove.

Tutto ciò che dirò delle mie indagini a Gaza nel febbraio 2009, poco dopo l’Operazione Piombo Fuso, è che credo che la Striscia di Gaza si trova ancora sotto occupazione e l’operazione Piombo Fuso sia stata un’operazione di polizia progettata per punire collettivamente una popolazione sotto occupazione che si ribella, visione condivisa dal cosiddetto rapporto Goldstone commissionato dal Consiglio dei diritti umani. Sono rimasto sconvolto e rattristato da ciò che ho visto. Non ho dubbi sul fatto che sia stato un atto di punizione collettiva in cui le IDF hanno attaccato intenzionalmente civili e obiettivi civili. Le prove non hanno fornito spiegazioni diverse.

Un commento finale basato sulla mia esperienza personale. C’era un elemento positivo nel regime dell’apartheid, sebbene motivato dall’ideologia dello sviluppo separato, che mirava a rendere i Bantustan degli Stati vivibili. Sebbene non legalmente obbligato a farlo, il regime dell’apartheid ha costruito scuole, ospedali e buone strade per i neri sudafricani. Ha costruito industrie nei Bantustan per fornire lavoro ai neri. Israele non arriva minimamente a farlo per i palestinesi. Sebbene per legge, ai sensi delle Convenzioni di Ginevra del 1949, sia tenuto a soddisfare i bisogni materiali delle persone sotto occupazione, lascia questa responsabilità ai donatori stranieri e alle agenzie internazionali. Israele pratica nei TPO il peggior tipo di colonialismo. La terra e l’acqua sono sfruttate da una comunità di coloni aggressivi che non si preoccupano del benessere del popolo palestinese, tutto ciò con la benedizione del governo dello Stato di Israele.

I comportamenti di Israele nei TPO assomigliano a quelli dell’apartheid. Sebbene ci siano differenze, queste sono compensate dalle somiglianze. Qual è, ed era, peggio, l’apartheid o l’occupazione israeliana della Palestina? Sarebbe un errore, da parte mia, dare un giudizio. Come bianco sudafricano non potevo condividere il dolore intenso e l’umiliazione dell’apartheid con i miei compagni sudafricani neri. Ho capito la loro rabbia e frustrazione e ho cercato di identificarmi con loro e di oppormi al sistema che li ha relegati allo status di sub-umani. Allo stesso modo, non riesco a sentire pienamente il dolore e l’umiliazione che i palestinesi provano sotto l’occupazione di Israele. Ma osservo il sistema al quale sono sottoposti e provo lo stesso senso di rabbia che ho provato nel Sudafrica dell’apartheid.

Al Tribunale Russell gli avvocati e i giurati esamineranno, discuteranno e terranno delle conclusioni riguardo la questione se il comportamento di Israele nei TPO rientri o meno nei comportamenti penalmente perseguibili in base alla Convenzione internazionale del 1973 sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid. Questo è importante per determinare la responsabilità di Israele. Ma per me c’è una domanda più grande che si pone dinnanzi al giudizio morale della gente nel mondo, e in particolare degli occidentali. Come possono coloro, sia ebrei che gentili, che si sono opposti così energicamente all’apartheid per motivi morali rifiutarsi di opporsi a un sistema simile imposto da Israele alla popolazione palestinese?

John Duggard è presidente del comitato indipendente di accertamento dei fatti di Gaza; ed ex relatore speciale del Consiglio per diritti umani sui diritti umani in Palestina.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dal’inglese di Aldo Lotta)




Perché di fronte al piano di Trump gli Stati arabi si sono “divisi”?

Farah Najjar

31 gennaio 2020 – Al Jazeera

Diversi Paesi che attraversano sconvolgimenti sociali ed economici e percepiscono l’Iran come minaccia non riescono a contestare il piano di Trump.

Le reazioni divergenti tra gli Stati arabi al cosiddetto piano per il Medio Oriente del presidente degli Stati Uniti Donald Trump non sono state una sorpresa, affermano gli analisti, osservando che il motivo principale del sostegno – forte o discreto che sia – è quello di garantire il sostegno a Washington contro un comune nemico nella regione, l’Iran.

Dicono che ciò è indicativo anche delle divergenze tra Paesi arabi e dell’impossibilità per alcuni, nelle loro relazioni con l’amministrazione Trump, di dare la priorità alla situazione del popolo palestinese rispetto alle agende economiche nazionali e ai calcoli politici.

Che non ci sia stato un ripudio compatto e deciso del piano di Trump presentato martedì segnala la volontà di alcuni Stati arabi di normalizzare i propri rapporti con Israele, per garantire un “fronte unito” contro le presunte minacce dell’Iran.

“Il breve conflitto militare USA-Iran a gennaio [a seguito dell’assassinio del generale Qassem Soleiman. ndtr.] ha convinto alcuni Paesi del Golfo che Washington è il loro unico protettore”, ha detto ad Al Jazeera Ramzy Baroud, scrittore e giornalista palestinese.

“Alcuni fra gli arabi hanno completamente abbandonato la Palestina e stanno abbracciando Israele per difendersi da una immaginaria minaccia iraniana”, ha detto Baroud.

Negli ultimi anni alcuni Paesi del Golfo come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, che tradizionalmente sostenevano la causa palestinese, hanno cercato di ingraziarsi Israele perché vedono l’Iran come la maggiore minaccia nella regione.

Penso che ciò che è successo sia che queste persone abbiano adottato l’approccio secondo cui il nemico del mio nemico è mio amico”, ha detto ad Al Jazeera Diana Buttu, analista ed ex consulente legale dei negoziatori di pace palestinesi.

“E non dovrebbe essere necessario neutralizzare l’Iran, o occuparsi dell’Iran … finirebbe per essere a spese dei palestinesi”, ha detto.

Stato di decadenza morale”

Trump, insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha presentato la sua proposta alla Casa Bianca ad un pubblico filoisraeliano. Tra i presenti alla riunione inaugurale c’erano gli ambasciatori del Bahrain, degli Emirati Arabi Uniti e dell’Oman.

Muscat [capitale dell’Oman, ndtr.], che ha tradizionalmente condotto una politica estera neutrale, nel 2018 con una mossa a sorpresa ha ricevuto Netanyahu, prima visita in Oman di un leader israeliano in oltre due decenni.

Mentre l’Arabia Saudita ha affermato di apprezzare gli sforzi di Trump e ha auspicato colloqui diretti israelo-palestinesi, l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, Yousef al-Otaiba, ha dichiarato che il piano “offre un importante punto di partenza per un ritorno ai negoziati all’interno di un quadro internazionale guidato dagli Stati Uniti.”

L’Egitto ha seguito l’esempio, sollecitando “un attento e approfondito esame del progetto statunitense”, mentre la Giordania ha messo in guardia contro “l’annessione delle terre palestinesi”. Amman custodisce il complesso della moschea Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata, considerato il terzo sito santo dell’Islam.

Nonostante alcuni di questi Paesi si siano sempre opposti alla crescente influenza dell’Iran nella regione, in passato avevano preso posizioni più forti contro la politica israeliana in Palestina.

Da quando ha assunto la carica il 20 gennaio 2017, Trump è apparso sostenitore dichiarato di Israele e Netanyahu e delle loro politiche anti-palestinesi, che includono una serie di misure criticate come “razziste” e “discriminatorie”.

In particolare, il controverso riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele e il trasferimento dell’ambasciata nel 2018 hanno suscitato una condanna unanime da parte dei leader arabi, mentre i leader palestinesi, che vedono Gerusalemme Est come capitale del loro futuro Stato, hanno affermato che gli Stati Uniti non sono più un mediatore onesto nei negoziati.

L’amministrazione Trump ha anche dichiarato che non considera più illegali gli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est, invertendo decenni di politica americana – una mossa contrastata con forza da palestinesi e associazioni per i diritti.

Washington ha anche chiuso gli uffici della missione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) a Washington per il rifiuto dell’autorità palestinese di avviare colloqui con Israele guidati dagli Stati Uniti.

A queste mosse contro il popolo palestinese e la sua leadership, le Nazioni arabe hanno reagito condannando apertamente le politiche USA-israeliane come violazioni del diritto internazionale, specialmente in merito allo status di Gerusalemme e al trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv.

“Penso che il valore simbolico di Gerusalemme renda più difficile per gli Stati legati agli USA andare contro l’opinione pubblica”, ha affermato Sam Husseini, direttore dell’Institute of Public Accuracy [Istituto per il contrasto alla falsa informazione, ndtr] con sede a Washington.

“È più facile abbandonare i palestinesi come popolo”, ha detto.

Analogamente, Baroud ha affermato che il sostegno al piano di Trump con il conseguente abbandono del popolo palestinese riflette lo “stato di decadenza morale e la disunione del mondo politico arabo”.

“Da un lato, cercano timidamente di mostrare il loro sostegno ai palestinesi, ma dall’altro non vogliono trovarsi in uno scontro politico con Washington e i suoi alleati”, ha detto.

Alaa Tartir, consulente politico di Al-Shabaka: Palestinian Policy Network [rete politica palestinese, ndtr.] afferma che i Paesi arabi non vogliono sfidare gli Stati Uniti.

“In assenza di una potente Lega di Stati arabi … i singoli Stati arabi danno priorità al proprio programma, ai propri bisogni e alle aspirazioni e ambizioni nella regione “, ha detto Tartir ad Al Jazeera.

“Dire un ‘no’ diretto all’amministrazione americana avrebbe conseguenze che molti Stati arabi non sono disposti a sostenere”, ha osservato.

Dipendenza dagli Stati Uniti”

La proposta di Trump ha tolto di mezzo i palestinesi e viola la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che invitava Israele a ritirare le sue forze dai territori occupati nella guerra dei Sei Giorni, e auspicava anche il ritorno dei rifugiati

Prevede l’annessione israeliana di vaste aree della Cisgiordania occupata, compresi gli insediamenti illegali e la Valle del Giordano, offrendo a Israele un confine orientale definitivo lungo il fiume Giordano.

Per contrastare il piano, gli Stati arabi dovrebbero elaborare un “piano e una visione operativa parallela e dettagliata”, ha affermato Tartir.

“Potrebbero iniziare un processo di riforma delle istituzioni di governance globale; e investire in procedure e norme internazionali per rafforzare quella governance di fronte alle continue violazioni americane-israeliane”.

Ma la maggior parte degli Stati arabi è intrappolata in una sequenza di “frammentazione, polarizzazione, debolezza” e, soprattutto, “dipendenza dall’amministrazione americana”, ha affermato Tartir, riferendosi agli sconvolgimenti sociali ed economici in diversi Paesi della regione.

Alcuni dipendono dagli Stati Uniti per mantenere il potere politico; altri, come la Giordania e l’Egitto, dipendono anche dai finanziamenti statunitensi – entrambi i Paesi sono tra i principali beneficiari degli aiuti statunitensi.

Dal 1979, l’Egitto ha ricevuto aiuti per una media di 1,6 miliardi di dollari l’anno, la maggior parte dei quali è stata destinata all’esercito. Il finanziamento statunitense è stato brevemente sospeso durante l’amministrazione del presidente Barack Obama in seguito al colpo di stato militare del 2012.

Amman e il Cairo, stretti alleati degli Stati Uniti e uniche Nazioni arabe ad avere legami diplomatici con Israele, sembrano essere economicamente troppo fragili per contrastare le politiche di USA e Israele nella regione.

“Parlare di potere politico arabo e di una eventuale unità a difesa dei diritti dei palestinesi sembra del tutto incompatibile con l’attuale natura della realtà politica”, ha osservato Baroud.

“I diritti del popolo palestinese e, diciamolo, i diritti dei popoli arabi al momento non incidono minimamente sull’agenda politica araba”, ha affermato.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)