Fare tanto clamore per avere l’approvazione di Israele: le promesse elettorali di Trump lo perseguiteranno

Maan News Agency 31 gennaio 2017

 Ramzy Baroud

Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump promette che sarà favorevole ad Israele sotto ogni aspetto.

Io sono la cosa migliore che potrebbe mai accadere ad Israele”, si era vantato al Forum Presidenziale della Coalizione Ebraica Repubblicana a Washington DC, nel dicembre 2015.

Quando nel maggio 2016 il candidato repubblicano alla presidenza si è impegnato alla ‘neutralità’ tra palestinesi ed israeliani,

per un momento è sembrato che Trump rivedesse il suo appoggio incondizionato ad Israele.

Vorrei essere un uomo un po’ neutrale”, ha detto durante un incontro nella sala municipale della MSNBC (canale televisivo statunitense, ndtr.).

Da allora, questa posizione è stata superata dalla retorica più reazionaria, a cominciare, il mese seguente, dal discorso tenuto alla conferenza della lobby israeliana (AIPAC).

Quanto a Israele, le sue aspettative riguardo al Presidente USA sono molto chiare: sostegno incondizionato sul piano finanziario e militare, carta bianca all’espansione delle colonie illegali a Gerusalemme est occupata e in Cisgiordania e la fine di ogni forma di ‘pressione’ politica intesa a risuscitare il cosiddetto ‘processo di pace’.

Non che Trump avesse alcun dubbio circa queste aspettative. La vera sfida era che la sua principale rivale, Hillary Clinton, era un’ardente sostenitrice di Israele come nessun altro prima.

Era assolutamente sfrontata nell’adulare la lobby filoisraeliana. Riflettendo sulla morte dell’ex Presidente di Israele Shimon Peres, ha detto ai leader ebrei: “Quando lui parlava, per me era come ascoltare un salmo e adoravo sedermi ad ascoltarlo, sia che parlasse di Israele, la nazione che amava ed aveva fatto tanto per difendere, o che parlasse della pace o semplicemente della vita stessa.”

Ha promesso loro di “proteggere Israele dalla delegittimazione”, come scrive il quotidiano israeliano Haaretz – intendendo con ‘delegittimazione’ i tentativi dei gruppi della società civile in tutto il mondo di boicottare Israele a causa del suo mancato rispetto delle leggi internazionali e dei diritti dei palestinesi sotto occupazione.

Questo era il panorama politico in cui Trump, fondamentalmente un uomo d’affari e non un politico, doveva muoversi. In un impeto di mosse affrettate ha accettato di concedere ad Israele ciò che voleva, ma è andato anche al di là di quanto avesse fatto nessun altro presidente USA nella storia contemporanea, promettendo di trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.

In quel momento è stata una mossa intelligente, sufficiente a contrastare le profferte d’amore della Clinton a Israele ed a fare di Trump il beniamino della destra politica israeliana, che attualmente controlla il governo.

Le conseguenze di quella promessa, se realizzata, comunque si dimostreranno molto costose.

Se Trump proseguirà su questa strada, è probabile che scatenerà il caos in una regione già instabile.

La mossa, che ora a quanto pare è “allo stadio iniziale”, non è semplicemente simbolica, come riferito da qualcuno nei principali media occidentali.

Trump, noto per il suo carattere impulsivo, sta minacciando di eliminare anche il minimo senso comune che storicamente ha governato la politica estera americana in Medio Oriente.

Gerusalemme è stata occupata in due diverse fasi storiche, prima dalle milizie sioniste nel 1948, poi dall’esercito israeliano nel 1967.

Avendo compreso la centralità di Gerusalemme per l’intera regione, i colonialisti britannici, che avevano ricevuto un mandato sulla Palestina dalla Società delle Nazioni nel 1922, erano favorevoli a che Gerusalemme rimanesse sotto protezione internazionale.

Comunque Israele si è impadronito della città con la forza, appellandosi ad un’ interpretazione a proprio vantaggio del testo biblico, che designerebbe Gerusalemme capitale ‘eterna’ del popolo ebreo.

Per lo sgomento della comunità internazionale, che ha sempre rifiutato e condannato l’occupazione israeliana, nel 1980 Israele ha annesso ufficialmente Gerusalemme, in violazione delle leggi internazionali.

Anche i paesi considerati alleati di Israele – compresi gli Stati Uniti – sono contrari alla sovranità israeliana su Gerusalemme e respingono l’invito di Israele a spostare le loro ambasciate da Tel Aviv alla città illegalmente occupata.

Inoltre, dal 1995, la posizione degli Stati Uniti ha oscillato tra quella storicamente filoisraeliana del Congresso e quella egualmente filoisraeliana, ma più pragmatica, della Casa Bianca.

Nell’ottobre 1995 il Congresso statunitense ha approvato il Jerusalem Embassy Act, con maggioranza schiacciante sia alla camera che al senato. Esso definiva Gerusalemme capitale indivisa di Israele e sollecitava il Dipartimento di Stato a spostare l’ambasciata a Gerusalemme.

Le amministrazioni USA dei Presidenti Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama hanno firmato una deroga presidenziale che ha rinviato di volta in volta di sei mesi la decisione del Congresso.

L’ultima volta la deroga è stata firmata dall’ex Presidente Obama il 1° dicembre 2016.

Adesso l’opportunista magnate del settore immobiliare fa il suo ingresso alla Casa Bianca con un allarmante programma che appare identico a quello dell’attuale governo israeliano di destra e ultranazionalista.

Siamo arrivati al punto che i rappresentanti dei due paesi potrebbero quasi scambiarsi il posto”, ha scritto sul New Yorker il professore palestinese Rashid Khalidi.

Questo avviene nel peggior momento possibile, in cui nel parlamento israeliano stanno saltando fuori nuove leggi per annettere anche le colonie ebree considerate illegali dagli stessi criteri israeliani e per eliminare ogni restrizione alla costruzione ed espansione di nuove colonie.

Nel corso di soli pochi giorni dall’insediamento di Trump, il governo israeliano ha ordinato la costruzione di migliaia di nuove unità abitative nella Gerusalemme occupata.

Persino i tradizionali alleati di Stati Uniti ed Israele sono allarmati dalle fosche prospettive aperte dalla nascente alleanza tra Trump ed Israele. Parlando alla conferenza di pace di Parigi il 15 gennaio, il ministro degli esteri francese Jean-Marc Ayrault ha avvertito Trump circa le “conseguenze molto gravi” che si prospettano nel caso che l’ambasciata USA venga effettivamente trasferita a Gerusalemme.

Palestinesi ed arabi capiscono che il trasferimento dell’ambasciata, lungi dall’essere una mossa simbolica, concede carta bianca per completare l’occupazione israeliana della città – inclusi i suoi luoghi santi – e portare a termine la pulizia etnica dei palestinesi musulmani e cristiani.

L’azzardo dell’amministrazione Trump di trasferire l’ambasciata USA probabilmente innescherà un incendio politico in Palestina e nel Medio Oriente con esiti terribili ed irreversibili.

Se si considera il significato che riveste Gerusalemme per i musulmani ed i cristiani palestinesi e per centinaia di milioni di fedeli in tutto il mondo, Trump potrebbe certamente accendere una polveriera che farebbe ulteriormente deragliare la sua presidenza già in difficoltà.

In una recente intervista a Fox News Trump ha ripetuto il frusto ritornello di come è stato trattato “male” Israele e che le relazioni tra Washington e Tel Aviv sono state “risanate”.

Ma poi si è rifiutato di parlare del trasferimento dell’ambasciata perché “è troppo presto”.

Potrebbe essere il suo modo di fare marcia indietro per evitare una crisi. E’ una posizione di profilo più basso rispetto a quella della sua principale consigliera, Kellyanne Conway, che aveva recentemente affermato che il trasferimento dell’ambasciata era “una priorità molto importante”.

Anche se il trasferimento dell’ambasciata venisse rinviato, il danno rimarrà, in quanto le colonie ebree stanno aumentando esponenzialmente, compromettendo in tal modo lo status della città.

Il fatto è che l’assenza di una chiara politica estera da parte di Trump che tenda a creare stabilità – non fatta di decisioni precipitose per ottenere il consenso della lobby – è una strategia politica pericolosa.

Vuole ribaltare l’eredità del suo predecessore, ma non ne ha una sua, il che è proprio la formula necessaria a fomentare nuova violenza ed a precipitare ancor più nel baratro una regione già instabile.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

Ramzy Baroud è un giornalista internazionalmente accreditato, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ‘Mio padre era un combattente per la libertà: storia non raccontata di Gaza’.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Basta seminare il panico: in Palestina e Israele un unico Stato democratico è possibile

di Ramzy Baroud, 10 gennaio 2017, Middle East Monitor

Già molto prima del 28 dicembre scorso -quando il Segretario di Stato John Kerry è salito sul palco del Dean Acheson Auditorium di Washington DC per pontificare sull’incerto futuro della soluzione a due Stati e sulla necessità di salvare Israele da se stesso -Il tema della creazione di uno Stato Palestinese è stato di primaria importanza.

Infatti, nonostante ciò che si crede comunemente, lo sforzo per costituire uno Stato palestinese accanto ad uno ebraico risale a molto prima della Risoluzione Onu 181 del novembre 1947. Quella famigerata risoluzione chiedeva la partizione della Palestina in tre entità: uno Stato ebraico, uno palestinese e un controllo internazionale su Gerusalemme.

Una lettura più accurata della storia può mettere in evidenza molti riferimenti allo Stato palestinese (o arabo) tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo.

L’idea dei due Stati è eminentemente occidentale. Nessun partito o leader palestinese ha mai pensato che la divisione della Terra Santa fosse davvero un’opzione. Allora una simile idea è sembrata assurda, in parte perché, come evidenziato da Ilan Pappe nel suo “La Pulizia Etnica della Palestina”, “quasi tutte le terre coltivate in Palestina appartenevano alla popolazione indigena (araba), (mentre) solo il 5.8 % era di proprietà di ebrei nel 1947”.

Un precedente, ma altrettanto importante, rimando ad uno Stato Palestinese fu fatto dalla commissione Peel, una commissione britannica d’inchiesta presieduta da Lord Peel, che venne inviato in Palestina per indagare sulle motivazioni alla base di uno sciopero generale, una rivolta e più tardi di una ribellione armata che iniziò nel 1936 e si protrasse per circa 3 anni.

La commissione stabilì che le “cause sottostanti ai disordini” fossero sostanzialmente due: il desiderio di indipendenza dei palestinesi e l’astio e il timore per la costituzione della patria nazionale per gli ebrei”. Quest’ultima fu promessa dal governo britannico alla Federazione Sionista della Gran Bretagna e dell’Irlanda nel 1917, nota in seguito come la dichiarazione Balfour.

La commissione Peel consigliò la spartizione della Palestina storica in uno Stato ebraico e in uno palestinese, che sarebbe stato incorporato nella Transgiordania [l’attuale Regno di GIordania. Ndtr.], con enclavi riservate al governo mandatario britannico.

Nel lasso di tempo di 80 anni tra quella raccomandazione e l’avvertimento di Kerry secondo cui la soluzione a due Stati sarebbe “seriamente in pericolo”, davvero poco è stato fatto in termini di passi concreti verso la costituzione di uno Stato palestinese. Ancor peggio, gli Stati Uniti hanno fatto uso ripetutamente del loro potere di veto all’ONU per impedire la costituzione dello Stato palestinese, nonché utilizzato il loro potere politico ed economico di intimidazione nei confronti di chi avesse (anche solo simbolicamente) riconosciuto uno Stato palestinese. Hanno giocato inoltre un ruolo chiave nel finanziare gli insediamenti ebraici illegali in Cisgiordania e a Gerusalemme, rendendo l’esistenza di uno Stato palestinese virtualmente impossibile.

Il punto ora è: perché l’Occidente continua ad utilizzare la “soluzione a due Stati” come parametro politico per giungere ad una risoluzione del conflitto israelo-palestinese mentre, allo stesso tempo, assicura che la sua stessa richiesta di risoluzione non diventi mai una realtà?

La risposta sta, parzialmente, nel fatto che fin dall’inizio la “soluzione a due Stati” non è mai stata concepita fin dall’inizio per essere realizzata. Come il “processo di pace” ed altre finzioni, ha avuto lo scopo di promuovere tra i palestinesi e il mondo arabo l’idea che esista un importante obiettivo per cui battersi, nonostante esso sia inattuabile.

Ma anche quell’obiettivo è stato condizionato da una serie di richieste risultate fin dall’inizio irrealistiche. Storicamente, i palestinesi hanno dovuto rinunciare alla violenza (la loro resistenza armata all’occupazione militare israeliana), acconsentire a varie risoluzioni dell’ONU, (benché Israele ancora rifiuti di riconoscerle), accettare il “diritto” di Israele ad esistere in quanto Stato ebraico, e così via. Lo Stato palestinese, prima ancora di essere costituito, avrebbe dovuto essere demilitarizzato, diviso tra Cisgiordania e Gaza ed escludere buona parte di Gerusalemme Est occupata.

Furono offerte numerose soluzioni “creative”, per ridurre ogni timore israeliano che l’inesistente Stato palestinese, nel caso fosse stato creato, potesse costituire una minaccia per Israele. Talvolta, la discussione in corso riguardava l’idea di una confederazione tra Palestina e Giordania, altre volte, come nelle proposte più recenti del capo del Jewish Home Party [La Casa Ebraica, partito di estrema destra dei coloni. Ndtr], il ministro israeliano Naftali Bennett, quella di trasformare Gaza in uno Stato indipendente e di annettere a Israele il 60% della Cisgiordania.

E quando gli alleati di Israele, delusi dall’ascesa della destra ebraica e dall’ostinazione del primo ministro Benjamin Netanyahu, insistono nell’affermare che è giunto il momento della soluzione a due Stati, esprimono i loro timori sotto forma di un amore estremo. L’attività delle colonie israeliane sta infatti “consolidando enormemente l’irreversibile realtà dello Stato unico” ha detto Kerry la settimana scorsa nel suo discorso politico.

Tale realtà dovrebbe costringere Israele o ad un compromesso circa l’identità ebraica dello Stato (come se avere una identità etnico/religiosa in un moderno Stato democratico fosse una precondizione normale) oppure a lottare contro il fatto di diventare uno Stato di apartheid (come se ciò non fosse già una realtà).

Kerry ha messo in guardia Israele circa il fatto che sarebbe rimasta solo l’opzione di porre i palestinesi “sotto occupazione militare permanente” privandoli della maggior parte delle libertà fondamentali”, aprendo così la strada ad uno scenario di “separazione e disuguaglianza”.

Mentre ci si preoccupava della disintegrazione della possibilità della “soluzione a due Stati”, pochi in realtà hanno cercato di comprendere la realtà dal punto di vista palestinese.

Per i palestinesi, il dibattito sulla necessità di Israele di scegliere tra essere uno Stato democratico o confessionale è risibile. Infatti per loro la democrazia israeliana si applica integralmente solo ai cittadini di origine ebraica e a nessun altro, mentre i palestinesi sono sopravvissuti per decenni dietro muri, recinti, prigioni ed enclave assediate, come nella Striscia di Gaza.

E lo scenario di apartheid fatto di “separazione e diseguaglianza” evocato da Kerry, con due ordinamenti giuridici, due diverse normative e due realtà applicate a due diversi gruppi sullo stesso territorio, si è realizzato nel momento stesso in cui lo Stato di Israele è stato fondato nel 1948.

Secondo un recente sondaggio, due terzi dei palestinesi, stanchi delle illusioni della loro stessa leadership fallimentare, concordano oggi sul fatto che la soluzione a due Stati non sia realizzabile. E questo numero tende ad aumentare tanto velocemente quanto le massicce iniziative di colonizzazione illegale che costellano Gerusalemme e la Cisgiordania occupate.

Questo non è un argomento contro la soluzione a due Stati; quest’ultima è esistita semplicemente come espediente per tranquillizzare i palestinesi, prendere tempo e delimitare il conflitto ad un orizzonte politico illusorio. Se gli Stati Uniti fossero stati davvero interessati alla soluzione a due Stati, avrebbero tenacemente combattuto per realizzarla decenni fa.

Dire oggi che la soluzione a due Stati è superata, significa accettare l’illusione che sia mai stata possibile.

Ciò detto, conviene a tutti capire che la coesistenza, in uno Stato democratico, non è uno scenario oscuro che determinerebbe la fine per la regione.

E’ tempo di abbandonare illusioni irrealizzabili e concentrare tutte le energie per promuovere la coesistenza, basata sull’eguaglianza e la giustizia per tutti.

Infatti, ci può essere tra il fiume [Giordano] e il mare [mediterraneo], un unico Stato,che sia uno Stato democratico per tutta la sua popolazione, indipendentemente dall’etnia o dal credo religioso.

Ramzy Baroud è un editorialista internazionalmente riconosciuto, autore e il fondatore di Palestine Chronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre è stato un combattente per la libertà: la storia non detta di Gaza”(My FatherWas a Freedom Fighter: Gaza’sUntold Story)

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore stesso e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Ma’an News Agency.

(traduzione di Viviana Codemo)




Centinaia di persone in Israele e nei territori palestinesi occupati denunciano l’incursione mortale a Umm al-Hiran

19 gennaio 2017 Ma’an News

Betlemme (Ma’an) – Mercoledì cittadini palestinesi con cittadinanza israeliana e loro sostenitori sono scesi in strada in Israele e nei territori palestinesi occupati per protestare contro un attacco per espellere una comunità beduina nel Negev, che si è trasformato in omicida ieri nelle prime ore del giorno, con la morte in circostanze controverse di un cittadino palestinese con cittadinanza israeliana e di un ufficiale di polizia israeliano.

Centinaia di dimostranti si sono riuniti a Umm al-Hiran, dove il residente beduino Yaqoub Moussa Abu al-Qian, di 47 anni, è stato colpito a morte da un poliziotto israeliano, che ha sostenuto che l’insegnante di matematica stava perpetrando un attacco con l’auto che ha ucciso l’ufficiale di polizia Erez Levi, di 34 anni.

Tuttavia numerosi testimoni e dirigenti palestinesi con cittadinanza israeliana hanno messo in dubbio la versione dei fatti delle forze di sicurezza israeliane, sostenendo che i poliziotti hanno aperto il fuoco su Abu al-Qian benché non rappresentasse un pericolo, causando il fatto che abbia perso il controllo del veicolo e abbia disgraziatamente investito Levi. Il parlamentare della Knesset Ayman Odeh, capo della Lista Unitaria, che rappresenta partiti guidati da palestinesi con cittadinanza israeliana, è stato ferito alla testa e alla schiena durante l’incursione, benché ci siano versioni contrastanti tra testimoni e poliziotti su come sia rimasto ferito e da chi.

In seguito all’attacco mortale l’Alto Comitato di Controllo per i cittadini arabi di Israele, una commissione del parlamento israeliano, la Knesset, ha dichiarato tre giorni di lutto nelle cittadine e nei villaggi israeliani a maggioranza palestinese.

Il comitato ha anche fatto appello ai cittadini palestinesi di Israele per lanciare uno sciopero generale giovedì [19 gennaio], ed agli insegnanti per discutere dei recenti fatti di Umm al-Hiran con gli studenti.

Si sono tenute manifestazioni in altre città israeliane a maggioranza di popolazione palestinese, come Yaffa, Qalanswane, Shifa Amr, Baqa al-Gharbiya, Sakhnin e Umm al-Fahm, in cui i dimostranti sventolavano bandiere palestinesi e gridavano slogan contro quelle che denunciavano come politiche ‘razziste’ israeliane.

Il gruppo israeliano per i diritti umani Gush Shalom ha informato che ci sono state manifestazioni anche a Gerusalemme, Haifa e Acre, in cui risiedono folte comunità palestinesi, così come in numerose università.

Secondo Gush Shalom, durante un raduno a Tel Aviv il membro della Knesset e cittadino palestinese di Israele Issawi Freij ha condannato l’incremento di demolizioni di case e la violenza della polizia che prende di mira i cittadini palestinesi di Israele.

Freij ha sostenuto che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha incrementato queste politiche nel tentativo di distrarre l’opinione pubblica israeliana dalle continue indagini a suo carico per corruzione.

“Il primo ministro vuole individuare un nemico su cui i suoi elettori possano sfogare la loro rabbia,” ha detto Freij a centinaia di dimostranti. “Questo nemico che il primo ministro ha preso di mira e stigmatizzato sono io, un cittadino arabo dello Stato di Israele e membro del parlamento israeliano, insieme a tutti i miei concittadini arabi, un totale del 20% dei cittadini di Israele. Dobbiamo essere i capri espiatori!”

Gush Shalom ha riferito che a Tel Aviv i manifestanti hanno gridato slogan come “Ebrei e arabi rifiutano di essere nemici” e “Netanyahu è pericoloso, corrotto e razzista.”

La deputata della Knesset Aida Touma-Sleiman, citata dal “Times of Israel” [giornale israeliano senza indipendente online. Ndtr.], avrebbe detto che una protesta più ampia è stata organizzata davanti alla Knesset a Gerusalemme per lunedì [23 gennaio] mattina.

Nel contempo nella Striscia di Gaza assediata, il movimento Hamas ha organizzato un corteo nel campo di rifugiati di Jabaliya per condannare l’evacuazione forzata di Umm al-Hiran.

Il dirigente di Hamas Muhammad Abu Askar ha detto che il movimento solidarizza con tutto il popolo palestinese, compresi gli abitanti di Umm al-Hiran, nonostante tutti i problemi che attualmente sta affrontando la Striscia di Gaza. L’ agenzia di stampa Quds ha riferito che anche a Ramallah, nella Cisgiordania occupata, i palestinesi sono scesi in strada per appoggiare Umm al-Hiran e per denunciare l’uccisione di Abu al-Qian.

Intanto giovedì i deputati della Lista Unitaria Ahmad Tibi e Usama Saadi hanno presentato alla Knesset un nuovo disegno di legge che propone il congelamento per dieci anni della demolizione di case costruite da palestinesi in Israele senza permessi rilasciati dal governo per organizzare un piano regolatore e di sviluppo complessivo.

“Non è un caso che ci siano decine di migliaia di case colpite da ordini di demolizione ” nelle comunità palestinesi di Israele, ha detto Tibi a Radio Israel. “Non è un fatto genetico. Non ci sono piani di sviluppo, né piani regolatori, nessuna crescita.”

Gruppi per i diritti hanno da lungo tempo sostenuto che le demolizioni nei villaggi beduini non riconosciuti da Israele sono una politica fondamentalmente tesa a togliere di mezzo la popolazione indigena palestinese dal Negev e a trasferirla in township [nome delle città per neri nel Sudafrica dell’apartheid. Ndtr.] definite dal governo per fare spazio all’espansione delle comunità di ebrei israeliani.

All’inizio del corrente mese, le forze israeliane hanno anche demolito 11 case di proprietà di cittadini palestinesi di Israele nella città di Qalansawe, nel centro di Israele, provocando scontri tra i palestinesi e la polizia israeliana, mentre Amnesty International Israele ha condannato possibili violazioni dei diritti umani ed ha accusato le forze israeliane di agire per “motivazioni politiche”.

Intanto mercoledì Netanyahu ha emesso un comunicato piangendo la morte del poliziotto israeliano, definendo l’incidente un “attacco con un veicolo” premeditato e parte di una “minaccia omicida”, in quanto la polizia israeliana ha affermato che Abu al-Qian era un sostenitore del cosiddetto Stato Islamico.

Il primo ministro ha scartato la possibilità di congelare le demolizioni nelle comunità palestinesi in Israele. “Lo Stato di Israele è, soprattutto, uno Stato di diritto, in cui ci sarà un’applicazione equa. Questo incidente non solo non ci fermerà, ma ci rafforzerà. Consoliderà la nostra determinazione ad applicare la legge ovunque,” ha affermato.

Con un’allusione appena velata ai parlamentari della Lista Unitaria, Netanyahu ha continuato esortando “chiunque, soprattutto se membro della Knesset, ad essere responsabile, a smetterla di alimentare l’animosità e di incitare alla violenza.”

Secondo il Jerusalem Post, mercoledì anche il ministro della Giustizia Ayelet Shaked [del partito di estrema destra “Casa Ebraica”. Ndtr.] ha accusato i deputati della Lista Unitaria di incitare alla violenza.

Tuttavia, gruppi per i diritti umani come “Coesistenza del Negev”, il “Forum per l’Uguaglianza Civile” e la “Coalizione delle Donne per la Pace”, che hanno contribuito ad organizzare le proteste di mercoledì in Israele, attribuiscono la responsabilità della violenza mortale direttamente al governo israeliano.

“La responsabilità diretta per l’odierna escalation pericolosa e per lo spargimento di sangue nel villaggio di Umm al-Hiran nel Negev ricade su coloro che hanno preso la decisione di distruggere un villaggio beduino esistito per decenni, raderlo totalmente al suolo e cancellarlo dalla faccia della terra, di espellere gli abitanti e creare una “comunità” ebraica al suo posto,” hanno affermato i gruppi, citati da Gush Shalom.

Sarah Leah Whitson, direttrice esecutiva del ramo per il Medio Oriente dell’ong Human Rights Watch (HRW) ha detto che gli avvenimenti di Umm al-Hiran hanno seguito “una modalità d’azione che prevede l’uso eccessivo della forza da parte della polizia israeliana.”

“Come in Cisgiordania, Israele discrimina i beduini e i palestinesi in generale all’interno dei propri confini nelle sue politiche di pianificazione, che intendono massimizzare il controllo della terra per le comunità ebraiche. Israele dovrebbe fare un’inchiesta sulle uccisioni, obbligare i responsabili a risponderne e rinunciare al progetto discriminatorio di radere al suolo Umm al-Hiran.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Le ragioni per cui l’attaccante palestinese a Gerusalemme non è stato scoraggiato.

Amira Hass | 9 gennaio, 2017 |Haaretz

Fadi al-Qanbar conosceva tutte le conseguenze della sua azione, le ha viste molte volte prima, ma i palestinesi considerano le ritorsioni israeliane come parte naturale di una politica complessiva nei loro confronti, non come una reazione.

Che Fadi-al-Qanbar abbia programmato l’attacco di domenica con il camion a Gerusalemme oppure che si sia trattato di una decisione presa d’impulso, sapeva benissimo quale punizione collettiva era in serbo per la sua famiglia.

Sapeva che il suo corpo non sarebbe stato restituito alla famiglia per la sepoltura – un atto particolarmente umiliante e doloroso. Sapeva che i suoi parenti sarebbero stati immediatamente arrestati e picchiati durante la detenzione. Che alcuni avrebbero potuto essere cacciati dal lavoro che hanno a Gerusalemme Ovest .Che le parenti prive di una carta d’identità israeliana sposate a residenti di Gerusalemme si sarebbero trovate espulse dalle loro case e separate dai loro figli. La sua famiglia sarebbe stata perseguitata dalla polizia e dalle autorità dello Stato, sapeva queste cose da mesi, e forse da anni, che la casa della famiglia sarebbe stata demolita. Tutte queste cose sono successe ad altri aggressori palestinesi di Gerusalemme Est.

Nel solo quartiere di Jabal Mukkaber, negli ultimi sei mesi del 2015 Israele ha demolito tre case e sigillato altre due. Tutte appartenevano a famiglie di terroristi. “Sigillare” significa versare cemento nell’appartamento fino a pochi centimetri dal soffitto.

Secondo Hamoked – il Centro per la Difesa degli Individui –, tra il luglio del 2014 e la fine di dicembre del 2016 Israele ha demolito 35 case palestinesi e ne ha sigillate altre sette; di queste sei e quattro rispettivamente erano a Gerusalemme Est.

Il fatto che i genitori, i figli, i nonni, i nipoti e le nipoti che hanno perso le loro case e che non avevano niente a che fare con l’attacco è irrilevante. Israele e i giudici della Suprema Corte considerano le demolizioni come una punizione legittima e un efficace strumento di deterrenza nei confronti di coloro che pensano di compiere un attacco terroristico.

Inoltre, Qanbar sicuramente sapeva che i suoi figli non soltanto avrebbero sofferto della perdita del padre ma che sarebbero diventati o violenti o isolati, e che, se in età scolare, i loro risultati scolastici ne avrebbero sofferto come anche la loro salute. Ma non è stato scoraggiato.

Il fallimento della deterrenza

Gli analisti e i politici nel caso di Qanbar hanno trovato ogni genere di ragioni del fallimento della deterrenza: lo Stato islamico; un attacco dovuto all’emulazione; l’essere stato un ex detenuto ( un’ apparentemente falsa rivendicazione fatta da Hamas che Israele si è affrettata a fare propria) e un incitamento dell’Autorità palestinese riguardante il possibile spostamento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme. Come al solito le interpretazioni sono fuorvianti e fuori luogo.

Un gruppo di soldati in divisa non è una visione neutrale per qualsiasi palestinese. Quelli sono l’aspetto e la divisa di chi irrompe a decine ogni notte nelle case dei palestinesi, di chi uccide donne e minori ai checkpoint, di chi viene mandato ad attaccare la Striscia di Gaza e di chi accompagna le forze della Amministrazione Civile per demolire le cisterne d’acqua, i gabinetti chimici, le baracche di lamiera e le tende. Il fatto che gli israeliani abbiano cancellato questi avvenimenti dalla loro agenda non significa che non esistano.

Senza dubbio gli israeliani ritengono che senza queste misure di deterrenza il numero degli aggressori palestinesi sarebbe più alto. O al contrario che vi sarebbe una maggiore repressione. I palestinesi, tuttavia, considerano le ritorsioni israeliane come una parte naturale di una politica complessiva nei loro confronti, non come una reazione. Quando Israele non demolisce come misura punitiva , sta demolendo non consentendo di costruire e di svilupparsi. Quando non arresta la gente per attacchi mortali o per averli presumibilmente progettati, Israele arresta bambini per cercare di reprimere la lotta popolare. Con o senza attacchi mortali espande le colonie, strangola l’economia palestinese e pianifica espulsioni forzate dai villaggi e dalle case di Gerusalemme.

Così il motivo per cui questi episodi non organizzati e individuali non si sono trasformati in una più ampia insurrezione non deve essere attribuito all’ intrinseca abilità israeliana di produrre sofferenze sempre maggiori. Per quanto Hamas cerchi di dare pubblicità a questo attacco quale prova che l’Intifada di Gerusalemme non è morta, è chiaro che la gente più in generale non è interessata a ciò. Nonostante la frammentazione sociale e geografica, una dirigenza debole e litigiosa, nel popolo palestinese c’è una maturità politica che è consapevole della inevitabilità dell’insurrezione, ma che si devono aspettare tempi migliori.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Analisi: un colpo di fortuna insperato? La presidenza Trump potrebbe essere un bene per la Palestina

4 gennaio 2017, Maannews
di Ramzy Baroud
Israele ha le vertigini. Il 20 gennaio ci sarà una specie di secondo natale e Donald Trump è un gioviale vecchio Babbo Natale che porterà doni.

Tutto è già scritto, dal momento che il presidente eletto Trump ha nominato, come prossimo ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, un estremista, David Friedman, che ha intenzione di trasferire l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme e appoggia l’espansione delle colonie illegali che hanno già frantumato l’ipotetico stato di Palestina in bantustan di tipo sudafricano.

Quindi deve suonare strano, se non assolutamente provocatorio, insinuare che una presidenza Trump potrebbe essere il colpo di grazia di cui i palestinesi, e di fatto l’intero Medio Oriente, hanno bisogno per liberarsi del peso di una politica estera americana autoritaria, arrogante e futile che è durata per decenni.

Senza dubbio una presidenza Trump è palesemente terribile per i palestinesi nel breve termine. Il personaggio non prova nemmeno a mostrare la minima imparzialità o un’ombra di equilibrio nel suo approccio al più duraturo e delicato conflitto del Medio Oriente.

Secondo il flusso quasi ininterrotto dei suoi tweets, Trump sta contando i giorni fino a quando potrà mostrare ai leaders israeliani quanto filo-israeliana sarà la sua amministrazione. Poco dopo che gli Stati Uniti il 23 dicembre si sono astenuti dal voto sulla Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che ha condannato le illegali colonie israeliane, il presidente eletto ha twittato: “Per quanto riguarda l’ONU, le cose cambieranno dopo il 20 gennaio.”

Trump è di nuovo ricorso a Twitter, poco dopo che John Kerry ha pronunciato un importante discorso politico sul conflitto israelo-palestinese, in cui il segretario di stato ha rimproverato Israele di compromettere la soluzione dei due stati ed ha definito l’attuale governo di Benjamin Netanyahu il più a destra della storia di Israele.

Nella sua replica Trump ha invitato Israele a “tener duro” fino al suo insediamento il 20 gennaio. Anche i leaders israeliani guardano a quella data, quelli del calibro di Naftali Bennett, capo del partito estremista Casa Ebraica, si attendono una ‘riconfigurazione’ delle relazioni tra Israele e Stati Uniti, una volta che Trump sarà presidente.

Inoltre Bennett, che è anche il ministro dell’educazione di Israele, lo scorso novembre ha dichiarato ai giornalisti: “Abbiamo l’opportunità di reimpostare la struttura di tutto il Medio Oriente, dobbiamo cogliere questa opportunità e sfruttarla.”

Una delle imminenti opportunità offerte dalla presidenza Trump, ha detto Bennett, è che “l’epoca dello stato palestinese è tramontata.”

Certo, Kerry ha ragione; l’attuale governo israeliano è il più di destra ed il più estremista, una prospettiva destinata a non cambiare presto, dato che riflette fedelmente il clima politico e sociale del paese.

Leggete come ha risposto Bennett al discorso di Kerry.

Kerry mi ha citato tre volte nel suo discorso, senza nominarmi, per dimostrare che noi siamo contrari ad uno stato palestinese”, ha detto, “perciò lasciatemelo dire esplicitamente: sì. Se dipendesse da me, non creeremo un altro stato terrorista nel cuore del nostro paese.”

All’insistenza di Kerry sul fatto che Gerusalemme dovrebbe essere la capitale sia di Israele che della Palestina, Bennett ha risposto: “Gerusalemme è stata la capitale degli ebrei per 3.000 anni. Sta scritto nella Bibbia, apritela e leggetela.”

La presa del fanatismo religioso sulla politica di Israele è irreversibile, quanto meno nel futuro prevedibile. Mentre nel passato i politici ebrei laici utilizzavano i precetti religiosi per attrarre i fedeli ebrei in cambio dei loro voti e per popolare le colonie illegali, adesso sono i gruppi religiosi che stabiliscono i criteri delle principali politiche israeliane.

E allora come può tutto questo essere un bene per i palestinesi? In parole povere: la chiarezza.

Da quando funzionari statunitensi di medio livello hanno accettato di incontrare una delegazione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) in Tunisia alla fine degli anni ’80, gli Stati Uniti hanno scelto un cammino piuttosto inverosimile per fare la pace. Subito dopo che gli Stati Uniti hanno “reclutato” con riluttanza l’OLP – una volta che quest’ultima ha dovuto superare mille ostacoli politici per ottenere un cenno di assenso americano – sono rimasti gli unici a definire che cosa comportasse la “pace” tra Israele ed i suoi vicini palestinesi ed arabi.

La Casa Bianca ha stabilito i parametri del “processo di pace”, ha costretto in parecchie occasioni gli arabi ad approvare qualunque “visione” della pace gli Stati Uniti ritenessero conveniente ed hanno diviso gli arabi tra ‘moderati’ e ‘radicali’, basandosi esclusivamente su come un determinato paese avrebbe recepito i dettami di ‘pace’ degli USA nella regione.

Senza alcun mandato, gli Stati Uniti si sono auto-nominati ‘ un onesto intermediario per la pace’, ed hanno fatto di tutto per compromettere il rispetto di quegli stessi parametri che avevano posto per raggiungere la supposta pace. Mentre arrivava a definire la costruzione delle colonie illegali israeliane un ‘ostacolo alla pace’, Washington finanziava le colonie e l’esercito di occupazione incaricato di proteggere quelle entità illegali; faceva appello a ‘costruire la fiducia’ mentre, nello stesso tempo, finanziava l’esercito israeliano e giustificava le guerre di Israele a Gaza e la sua eccessiva violenza nella Cisgiordania e a Gerusalemme occupate.

In altri termini, per decenni, gli Stati Uniti hanno fatto esattamente il contrario di ciò che predicavano pubblicamente.

La schizofrenia politica americana sta toccando il suo massimo in questo momento. Mentre Obama ha osato fare una cosa incredibile a dicembre – quando si è astenuto dal voto su una risoluzione che chiedeva ad Israele di porre fine alle sue colonie illegali in Cisgiordania – solo poche settimane prima ha concesso ad Israele “ il più cospicuo finanziamento militare nella storia.”

Nel corso degli anni il cieco appoggio americano ad Israele ha accresciuto le aspettative di quest’ultimo al punto che adesso prevede che il sostegno continui, anche quando Israele è governato da estremisti che stanno ulteriormente destabilizzando una regione già fragile ed instabile. Nella logica israeliana queste aspettative sono del tutto razionali.

Gli Stati Uniti hanno svolto la funzione di facilitatori dell’aggressività politica e militare israeliana, tenendo buoni i palestinesi e gli arabi con vuote promesse, a volte con minacce, elemosine e semplici parole.

I cosiddetti ‘palestinesi moderati’, del genere di Mahmoud Abbas e della sua Autorità Nazionale Palestinese, sono stati debitamente rabboniti, certo, perché hanno ottenuto i privilegi del ‘potere’, insieme al riconoscimento politico statunitense, permettendo intanto ad Israele di conquistare tutto ciò che rimaneva della Palestina.

Ma quel tempo è certamente finito. Finché gli USA continueranno a permettere l’intransigenza di Israele, una presidenza Trump probabilmente segnerà un totale abbandono del linguaggio ambiguo di Washington.

Il male non sarà più un bene, ciò che è sbagliato non è giusto e il militarismo non è fare la pace. Di fatto, Trump è destinato a mostrare la politica estera americana per quello che veramente è ed è stata per decenni. La sua presidenza probabilmente porrà tutte le parti in causa di fronte ad una difficile scelta su dove collocarsi riguardo alla pace, alla giustizia e ai diritti umani.

Anche i palestinesi dovranno fare una scelta, affrontare la realtà durata decenni con un fronte unito, oppure schierarsi al fianco di coloro che intendono ‘ riconfigurare’ il futuro del Medio Oriente sulla base di una fosca interpretazione delle profezie bibliche.

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato internazionalmente, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ‘Mio padre era un combattente per la libertà: storia non raccontata di Gaza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Adeguarsi alla perniciosa occupazione israeliana

 Amira Hass – 1 gennaio 2017, Haaretz

A.B. Yehoshua si mette in riga dividendo i palestinesi in varie categorie e quindi ignora le loro difficoltà complessive.

Lo scrittore A.B. Yehoshua (“Alleviare la perniciosità dell’occupazione”, Haaretz, 31 dicembre) ha ragione quando collega la parola “perniciosità” a occupazione. Ma sotto le mentite spoglie dell’innovazione, dell’audacia e di considerazioni umanitarie, la sua proposta per un temporaneo e parziale allentamento della perniciosità si adegua alla tradizionale politica israeliana: dividere il popolo palestinese in varie categorie burocratiche, in enclaves separate e distanti, e naturalmente senza chiedere la loro opinione.

Per sembrare audace, ma per proporre qualcosa che è proprio quello che il governo del ministro dell’Educazione Naftali Bennett e la ministra della Giustizia Ayelet Shaked (entrambi di Habayit Hayehudi [estrema destra dei coloni. Ndtr.]) vogliono, alcuni dei fatti citati da Yehoshua vengono stravolti. Qui di seguito alcuni di questi stravolgimenti:

* “Uno spazio binazionale”. Non c’è bisogno di andare fino ai miseri quartieri congegnati da Israele a Gerusalemme est per giocare con l’idea di un “laboratorio” di vita binazionale. E’ vero che il popolo palestinese è stato disperso da quando è stato espulso dalla propria terra d’origine nel 1948. Ma non ha mai smesso di essere una nazione per questa ragione, compreso il milione e mezzo di palestinesi che sono attualmente cittadini israeliani. Israele nei suoi confini riconosciuti è uno spazio binazionale, indipendentemente della sue definizioni e dalle discriminazioni che opera a danno dei suoi cittadini palestinesi.

* “La Striscia di Gaza è del tutto separata da Israele.” Non è vero. I due milioni di residenti della Striscia di Gaza sono registrati nell’anagrafe controllata da Israele. Come i palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Come Yehoshua e come me. La carta d’identità rilasciata ad ogni sedicenne di Gaza necessita dell’approvazione israeliana. E’ Israele che decide se, quanti e quali palestinesi che tornano dall’estero otterranno la residenza in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. La moneta corrente in uso nella Striscia è lo shekel.

Circa un quarto dei gazawi ha familiari in Cisgiordania, nella Gerusalemme est occupata e nello stesso Israele. Tutti i residenti di Gaza hanno proprietà immobiliari del passato, di famiglia, e legami affettivi all’interno di Israele, indipendentemente da quello che noi decidiamo per loro.

* “L’Area A è soggetta alla legislazione civile e militare palestinese.” Non è esatto. Nell’Area A i palestinesi hanno poteri civili e di polizia, ma non militari. Quando ogni settimana i nostri soldati fanno incursioni nei quartieri e nelle case in questa zona, le forze di sicurezza palestinesi si devono nascondere nelle loro basi. Se si oppongono all’invasione dell’esercito israeliano – le uccidiamo o le condanniamo per terrorismo.

* “(Sono) i palestinesi che vivono nell’Area C che si confrontano con l’occupazione israeliana, affrontando sia i coloni che l’esercito.” Di cosa stai parlando? I coloni non discriminano e vessano chiunque, e sono impazienti di mettere le mani nella “C” sulla terra di palestinesi che vivono ovunque in Cisgiordania

* “Il numero di palestinesi che abitano nell’Area C è solo di circa 100.000.” Da dove esce questo numero? Bimkom [associazione di urbanisti e architetti israeliani che opera per una gestione collettiva del territorio. Ndtr.], “Pianificatori per diritti di progettazione”, nel 2008stimava che nell’Area C vivessero 150.000 palestinesi. Un mini-censimento condotto dall’ufficio Onu per il coordinamento degli Affari Umanitari nei territori palestinesi occupati ha trovato che alla fine del 2013 il numero era raddoppiato -300.000. Alcuni vivono in comunità che si trovano totalmente nell’Area C, altri in comunità divise tra C, A e B, che sono in ogni caso categorie artificiose, in contraddizione con qualunque logica di pianificazione. Quello che è certo è che circa 30.000 beduini nell’Area C sarebbero contenti di tornare nella loro terra nel Negev, da cui sono stati espulsi nel 1948. Accanto alle comunità di Al-Arakib e di Ummal-Hiran, che, come sappiamo, sono prospere e godono dei molti diritti che Israele ha concesso loro… [riferimento polemico al modo in cui sono trattati i beduini con cittadinanza israeliana. Ndtr.]

* “Residenza con diritti (sociali) di base.” Naturalmente il modello è quello dello status di residenti dei palestinesi di Gerusalemme est, o, per essere più precisi, i deliri israeliani su quanto sia bella lì la vita dei palestinesi. Se fosse così bella, come mai abbiamo trasformato circa l’80% di loro in poveri a carico dell’assistenza sociale? Oltre alla situazione di inferiorità socio-economica in cui abbiamo gettato i palestinesi di Gerusalemme, il loro stesso status di residenti è molto precario. Dipende dalle norme di ingresso in Israele, in altre parole, si riferisce a questi cittadini come se avessero scelto di spostarsi e vivere in Israele, piuttosto che essere stati invasi da Israele.

Pertanto è uno status sottoposto a condizioni, che Israele può revocare a suo piacimento, secondo criteri che esso stesso ha stabilito (provare di avere lì il “centro della propria vita” o “lealtà allo Stato”). Prima del 1994 (quando le autorità civili sono state trasferite all’Autorità Nazionale Palestinese), Israele poteva espellere residenti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza come voleva, e revocare il loro status. Gli accordi di Oslo hanno abolito questa prerogativa dell’occupante (una delle poche clausole positive). A Gerusalemme i palestinesi rimangono più che mai esposti al pericolo di espulsione e di revoca della residenza. Ora Yehoshua vuole aggiungervi altre 100.000 persone?

* “Questo permesso di residenza impedirebbe l’espropriazione delle loro terre (o renderla molto più difficile).” Di cosa sta parlando Yehoshua? La residenza – proprio come la cittadinanza – non protegge i palestinesi dal furto della loro terra e dall’espulsione dalle loro case. Silwan. Isawiyah. Jabal Mukkaber. Sakhnin. Jaffa. Al-Arakib. Sono esempi sufficienti?

La deformazione rende più facile creare una separazione emotiva ed intellettuale dal siginificato dei fatti. La separazione è comprensibile. E’ difficile ammettere che l’ideologia sionista e la sua creazione – Israele – abbiano dato vita a un mostro ladro, razzista, arrogante che ruba acqua, terra e storia, che ha le mani insanguinate con la scusa della sicurezza, che per decenni ha deliberatamente pianificato l’attuale pericolosa situazione di bantustan, da entrambi i lati della Linea Verde [che divide Israele dai territori occupati. Ndtr.]. Tutto ciò che Yehoshua sta facendo è mettersi in riga e suggerire un’altra sotto-definizione che aiuti la burocrazia israeliana a dividere in categorie il popolo palestinese e separarlo dai suoi luoghi e dalla sua terra.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Alleviare la malvagità dell’occupazione israeliana

di A.B. Yehoshua | 31 dicembre, 2016 |Haaretz

Dobbiamo dare [il permesso di] residenza israeliano ai centomila palestinesi che vivono nella parte della Cisgiordania controllata da Israele, al fine di ridurre la sofferenza di coloro che vivono sulla prima linea dell’occupazione

Le osservazioni che ho fatto alla conferenza dell'”Istituto per la Ricerca Politica di Gerusalemme” agli inizi di questo mese hanno creato molto scalpore. Alla conferenza i relatori hanno presentato le attività nelle aree comuni a favore di differenti comunità dell’area della grande Gerusalemme, in particolare degli ebrei e dei palestinesi. Io ho parlato dell’importanza di questi territori anche come una sorta di laboratorio per una convivenza binazionale nell’intero territorio della Terra di Israele- considerando la deprimente e difficile eventualità che la soluzione dei due Stati non si possa realizzare e che israeliani e palestinesi verranno lentamente trascinati, lo vogliano o no, verso una qualche forma di Stato binazionale o federale.

Sono passati quasi 50 anni dalla guerra dei Sei Giorni nel 1967. Durante questo periodo sono rimasto attaccato con entusiasmo e determinazione all’idea della soluzione dei due Stati – Israele e Palestina, che vivano l’uno accanto all’altro in pace e riconoscendosi a vicenda – e ho agito coerentemente con tale convincimento.

Ritengo ancora che questa sia la soluzione giusta ed etica al conflitto. E benché alcuni in entrambi gli schieramenti, israeliani e palestinesi, hanno rifiutato per anni di riconoscere la legittimità di questa soluzione, lentamente è diventata la soluzione accettabile all’intera comunità internazionale, compresa larga parte del mondo arabo, fino a essere finalmente codificata negli accordi di Oslo del 1993.

Perfino l’attuale governo di estrema destra in Israele ha adottato ufficialmente la soluzione a due Stati; tuttavia sul terreno nell’ultimo decennio non si è visto alcun serio tentativo israeliano di fare un passo per la sua realizzazione. Parallelamente è chiaro che l’Autorità palestinese, che a sua volta ha ufficialmente adottato la soluzione a due Stati, sta sta evitando seri negoziati con il governo israeliano per realizzare concretamente questa soluzione.

La stessa Gerusalemme la cui parte orientale, secondo quanto prevede la soluzione a due Stati, avrebbe dovuto essere la capitale dello Stato palestinese, è diventata fisicamente sempre di più una città unica. La possibilità di istituire un confine internazionale che la attraversi sembra piuttosto irrealistica.

Gli Stati Uniti e i Paesi europei hanno fallito nell’imporre ad entrambi i contendenti la soluzione a due Stati non solo a parole ma anche di fatto. Questo è particolarmente vero per la parte israeliana, che continua a espropriare terra palestinese per la crescita e l’espansione delle colonie nella Cisgiordania.

I trattati di pace con la Giordania e l’Egitto possono ancora essere conservati, ma quei due Paesi sono costretti a fare i conti con i loro seri problemi, e le loro preoccupazioni a favore dei palestinesi sono solo belle parole. Il mondo arabo sta andando a pezzi e si sta disintegrando in guerre civili sanguinose e ha perso ogni influenza e interesse nei confronti del conflitto israelo-palestinese. Di conseguenza, l’idea dei due Stati sta diventando sempre più problematica.

E cosa sta succedendo nei territori palestinesi? La Striscia di Gaza è ora del tutto separata da Israele senza la presenza di israeliani, siano civili o militari. Per Israele Gaza è una sorta di piccolo Stato nemico, un posto dove scoppiano occasionalmente brevi guerre con Israele. Ma la Striscia di Gaza non è sotto totale assedio, dal momento che ha un confine indipendente con l’Egitto e vi è anche un varco per il cibo e le merci tra Gaza e Israele.

La Cisgiordania in base agli accordi di Oslo è divisa in tre aree: l’area A, B e C. Le aree A e B comprendono il 40% circa della Cisgiordania, mentre l’area C costituisce il rimanente 60% del territorio. Le aree A e B, dove si trovano le maggiori città e paesi palestinesi, sono sotto il governo dell’Autorità palestinese.

L’area A è soggetta alla legislazione civile e militare palestinese. L’area B è soggetta solamente dall’amministrazione civile palestinese, mentre quella militare è sotto il controllo di Israele. Questo significa che la maggior parte dei palestinesi in queste aree vivono sotto una forma di parziale e limitata autonomia e hanno una polizia semi-militarizzata al loro servizio che, in qualche misura, collabora con le forze di sicurezza israeliane per prevenire il terrorismo.

Tutte le colonie si trovano nell’area C. Secondo stime prudenti, il numero dei coloni [si aggira attorno ai] 450.000, circa la metà dei quali vive nelle città. Il numero dei palestinesi che abitano

nell’area C è solamente di circa 100.000 e sono persone che sono in continuo conflitto con i coloni, specialmente quelli estremisti, riguardo all’esproprio delle terre, alle minacce sulle strade, allo sradicamento degli olivi e al vergognoso sfruttamento come lavoratori sottopagati. Questi palestinesi sono sotto la continua sorveglianza dell’esercito israeliano, della polizia e dei servizi di sicurezza.

Data la situazione generale del mondo, che tende verso nazionalismi di destra estrema, data la deplorevole situazione del mondo arabo, lo scarso interesse nei confronti del conflitto israelo-palestinese in atto per più di 140 anni, e dati il governo di estrema destra d’Israele e la passività dell’Autorità palestinese- sembra chiaro che la soluzione dei due Stati per due popoli sta divenendo sempre più impossibile. Così dobbiamo cominciare a pensare ad altre soluzioni parziali, di natura federale , che aggirino l’attuale impossibilità di stabilire un confine internazionale definito tra i due popoli nella terra di Israele.

Nella prima fase, per alleggerire il peso dell’occupazione ( le cui propaggini avvelenano la democrazia anche all’interno dei confini israeliani), è necessario concedere il permesso di residenza ai 100.000 palestinesi che vivono nell’area C e che si confrontano con l’occupazione israeliana, affrontando sia i coloni che l’esercito.

Questi permessi di residenza ai palestinesi prima di tutto gli garantiranno i diritti fondamentali che hanno i coloni che abitano intorno e vicino a loro. In altre parole, i benefici del sistema di sicurezza sociale, l’accesso alle cure sanitarie, i sussidi di disoccupazione, il minimo salariale, la libertà di movimento e un migliore status legale nei confronti delle autorità giudiziarie e della legge israeliane. Tale permesso di residenza potrebbe prevenire l’esproprio delle loro terre ( o renderlo molto più difficile) per mezzo delle varie ignobili proposte di legge per legalizzare la costruzione su terra privata palestinese, oppure per mezzo di ordinanze militari arbitrarie, abusando di loro in quanto soggetti senza diritti.

Contrariamente a quello che è stato insinuato nelle reazioni al mio discorso, concedere il permesso di residenza non significherà l’annessione dell’area C ad Israele. Lo status di questo territorio rimarrebbe lo stesso di oggi: un territorio conteso il cui status sarà deciso in un futuro negoziato tra palestinesi e israeliani, analogamente a quello di Gerusalemme est. Se nel contesto di una soluzione a due Stati Gerusalemme sarà parte dello Stato palestinese, allora il permesso di residenza israeliano, che i 250.000 palestinesi che vivono lì già posseggono, non sarà di ostacolo ad un accordo.

Ho più volte detto che continuerò a sostenere la soluzione a due Stati, proprio come l’ho sostenuta nei 50 anni precedenti. Ma è impossibile non provare a migliorare , anche di poco, la situazione delle migliaia di palestinesi che vivono nell’area C, dove un’occupazione perniciosa avvelena la loro esistenza giorno e notte.

Il nostro urgente dovere umanitario di ridurre la sofferenza umana– nella misura in cui non confligga con il raggiungimento di un giusto accordo nel futuro – viene prima di principi semplicistici. Un palestinese cinquantenne che è nato durante l’occupazione e la affronta di continuo in prima linea, merita di ricevere da subito diritti sostanziali e immediati, anche se solo parziali, al fine di migliorare la sua situazione.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La palestina nel 2017: è tempo di dire addio a Washington e di abbracciare il mondo

Ramzy Baroud – 29 dicembre 2016, Ma’an News

Non ci sono dubbi che la condanna del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ad Israele venerdì 23 dicembre sia stato un evento importante e degno di nota.

E’ vero, i principali organi delle Nazioni Unite (il Consiglio di Sicurezza e l’assemblea generale) e le sue

varie istituzioni, dalla Corte Internazionale di Giustizia all’agenzia ONU per la cultura, l’UNESCO, hanno ripetutamente condannato l’occupazione israeliana, le colonie ebraiche illegali e i soprusi contro i palestinesi. Nei fatti, a differenza della risoluzione 2334 del 23 dicembre, le precedenti condanne ONU sono state molto più forti – in quanto alcune risoluzioni non solo hanno chiesto un immediato blocco della costruzione di colonie ebraiche illegali, ma anche la rimozione di quelle esistenti.

Ci sono oltre 196 insediamenti illegali sul territorio palestinese occupato, oltre a centinaia di avamposti dei coloni. Questi insediamenti ospitano oltre 600.000 coloni ebrei, che si sono installati lì in violazione delle leggi internazionali e, in particolare, della Quarta Convenzione di Ginevra.

Ma cosa rende importante questa specifica risoluzione?

In primo luogo, gli USA non hanno posto il veto sulla risoluzione né hanno minacciato di farlo; non hanno neppure fatto seriamente pressioni, come hanno fatto spesso in precedenza per rendere più morbido il testo.

Secondo, è la prima condanna decisa e chiara di Israele da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU in quasi otto anni – circa l’intero periodo del mandato del presidente Barak Obama.

Terzo, il voto ha avuto luogo nonostante le eccezionali pressioni israeliane sull’attuale amministrazione USA, su quella di Donald Trump che sta per iniziare e quelle che hanno avuto successo sul presidente egiziano, Abdul Fatah al-Sisi. Infatti l’Egitto ha rimandato il voto, previsto per il giorno precedente, prima che Nuova Zelanda, Senegal, Malaysia e Venezuela accellerassero e portassero al voto la risoluzione il giorno successivo.

Senza dubbio la risoluzione ONU – come tutte le altre – rimane alquanto simbolica finché non ci sono dei meccanismi concreti per garantire il rispetto delle leggi internazionali.

Non solo Israele non rispetta la volontà delle Nazioni Unite, ma nei fatti sta accelerando le attività di colonizzazione nella zona di Gerusalemme, sfidando questa decisione.

Mentre i membri del Consiglio di Sicurezza stavano preparando per il voto sull’ “invalidità legale” delle colonie ebraiche, il Comune di Gerusalemme ha annunciato che 300 unità abitative saranno costruite nelle colonie illegali di Ramat Shlomo, Ramot e Bit Hanina.

D’altra parte l’Autorità Nazionale Palestinese sta già festeggiando un’altra “vittoria” simbolica, che è stata prontamente venduta ai palestinesi, per niente entusiasti, come un passo fondamentale verso la loro libertà e verso uno Stato indipendente. La risoluzione ONU è stata certo desiderosa di garantire che l’illusione dei due Stati sia ulteriormente perpetuata, che è tutto ciò di cui la leadership di Mahmoud Abbas aveva bisogno per insistere su un miraggio irraggiungibile.

Tenendo conto di tutto ciò, c’è una lezione – e una lezione importante – che si deve trarre a questo punto: senza il sostengo degli USA, Israele, con tutta la sua potenza, è decisamente vulnerabile e isolato nell’arena internazionale. Il risultato della votazione è stato piuttosto eloquente: i 14 membri del Consiglio di Sicurezza hanno votato “sì”, mentre gli USA si sono astenuti. Il voto è stato seguito da un raro spettacolo in simili consessi, un prolungato applauso, in cui Paesi che difficilmente si trovano d’accordo tra loro hanno concordato con convinzione sulla giustezza delle aspirazioni palestinesi e sul rifiuto del modo di agire di Israele.

Pensateci per un momento: i continui sforzi di Israele e degli USA per intimidire, forzare e imbrogliare i membri dell’ONU in modo da tener fuori la comunità internazionale dal conflitto israelo-palestinese, sono completamente falliti. E’ bastata una semplice astensione USA dal voto per mettere in luce l’unanimità internazionale ancora solida riguardo alle azioni illegali di Israele in Palestina.

In un emblematico segnale di speranza, la votazione chiude il 2016, che è stato molto duro per i palestinesi. Centinaia di palestinesi sono stati uccisi durante quest’anno durante scontri a Gerusalemme, in Cisgiordania e a Gaza; centinaia di case sono state parzialmente o totalmente demolite e danneggiate; migliaia di ettari di terra sono stati confiscati da Israele, e innumerevoli alberi di olivo divelti.

Il prossimo anno difficilmente promette di essere migliore, in quanto la nuova amministrazione USA di Trump presenta tutti i requisiti che suggeriscono il fatto che il sostegno USA a Israele rimarrà saldo, se non prenderà una piega ancora più terrificante.

Friedman [nuovo ambasciatore americano in Israele nominato da Trump ed eslicitamente favorevole alle colonie. Ndtr.] e quelli come lui non tengono in alcuna considerazione le leggi internazionali né hanno rispetto per l’attuale politica estera USA riguardo all’occupazione israeliana, all’illegalità delle colonie (considerate un “ostacolo per la pace” da varie amministrazioni) e sono pronti a spostare l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme.

Tutto ciò è inquietante, e la risoluzione appena approvata non deve illudere che le cose stiano cambiando.

Nondimeno c’è una speranza.

La risoluzione è un’ulteriore affermazione che la comunità internazionale è incondizionatamente dalla parte dei palestinesi e, nonostante tutti i fallimenti del passato, invoca ancora il rispetto delle leggi internazionali. Questo monito avviene nel momento in cui il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) si sta rafforzando, galvanizzando la società civile, i campus e i sindacati in tutto il mondo per prendere posizione contro l’occupazione israeliana.

Mentre i diritti dei palestinesi non registrano minimamente l’attenzione degli interessi della politica estera USA (che vede la sua alleanza con un forte Israele come molto più importante delle necessità dei Paesi arabi disuniti), i palestinesi possono ancora forgiare una nuova strategia fondata sul forte sostegno che continuano a raccogliere nel resto del mondo.

Israele può essere incolpato di molte cose, ma anche i palestinesi hanno buona parte della responsabilità per la loro divisione, le lotte intestine e la corruzione.

Non si possono aspettare che i loro sforzi, per quanto sinceri, producano libertà e liberazione quando sono incapaci di formare un fronte unitario.

Ciò dovrebbe essere fatto riorganizzando l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e riunendo tutte le fazioni palestinesi sotto un’unica piattaforma politica che soddisfi le aspirazioni di tutti i palestinesi, in patria e nella “Shattat” (diaspora).

La dirigenza palestinese deve capire che l’epoca dell’inconcludente egemonia USA è finita. Non più vuote promesse di pace ed elemosina per l’ANP, mentre veniva finanziato l’esercito israeliano e sostenuto politicamente Israele. La prossima amministrazione è totalmente filo-israeliana.

Questa deve essere la chiarezza di cui i palestinesi hanno bisogno per comprendere che richieste ed implorazioni per ottenere la compassione degli americani non saranno più sufficienti.

Se una dirigenza palestinese unitaria non approfitta dell’opportunità e non riprende l’iniziativa nel 2017, tutti i palestinesi ne soffriranno.

E’ ora di allontanarsi da Washington e di abbracciare il resto del mondo.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Cosa c’è dietro il discorso di Kerry?

Ben White – 29 dicembre 2016, Middle East Monitor

Un elogio della soluzione dei due Stati? Forse, ma il discorso del segretario di Stato John Kerry di mercoledì è simile in modo sospetto ad un ennesimo disperato tentativo di tenere in piedi il cosiddetto “processo di pace”.

E’ possibile capire la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e il discorso di Kerry, come interpretarli – la loro debolezza e le opportunità che rappresentano -, solo iniziando con guardare in faccia la realtà del processo di pace durato due decenni e guidato dagli USA e dalla comunità internazionale.

Il processo di pace ha imposto una falsa simmetria tra occupante ed occupato, trasformando colonizzatori e colonizzati in “due parti” con obblighi e responsabilità reciproci.

Il processo di pace è anche servito ad rendere ulteriormente immune Israele dal dover rispondere dei sistematici e continui abusi dei diritti umani e delle violazioni delle leggi internazionali. Per esempio, i tentativi di garantire giustizia per le vittime dei crimini di guerra sono stati sacrificati allo per “proteggere” il processo dei negoziazione.

Ed infine l’obiettivo del processo di pace, diventato sempre più esplicito, è di preservare Israele come “Stato ebraico”. I diritti dei palestinesi sono subordinati al “carattere” (etnocratico) di Israele, e la sovranità palestinese ( e la sua autodifesa) è subordinata alle esigenze di sicurezza di Israele.

Ma il processo di pace è fallito, uno sviluppo guidato da una leadership politica israeliana votata alla colonizzazione della Cisgiordania e da una totale mancanza di volontà da parte degli USA e degli Stati europei di imporre un costo reale a un governo israeliano segnato dal dire sempre di no e favorevole alle colonie.

Mercoledì scorso non c’è stato niente di originale nell’affermazione di Kerry che se Israele occuperà la Cisgiordania per sempre sarà “o ebraico o democratico”, ma “non potrà essere entrambe le cose”: versioni di questo avvertimento sono state esposte ormai da anni da diplomatici occidentali e persino da qualche politico israeliano.

Lo stesso Kerry, durante il Saban Forum [incontro annuale organizzato dall’ istituto statunitense “Centro per la Politica in Medio Oriente. Ndtr.] del dicembre 2015, ha chiesto retoricamente: “Come Israele potrebbe continuare ad conservare il suo carattere di Stato ebraico e democratico se dal fiume al mare [dal Giordano al Mediterraneo. Ndtr] non ci fosse un maggioranza ebraica?”

Due importanti punti a proposito di questo “avvertimento”. In primo luogo, Israele ha governato su milioni di palestinesi non cittadini con un regime militare per almeno 50 anni. Per cui, solo su questa base, l’occupazione permanentemente temporanea ormai mette in dubbio le credenziali democratiche di Israele.

Ma, in secondo luogo, il vero contesto è una concessione al razzismo colonialista d’insediamento, in cui la sola presenza dei palestinesi costituisce una minaccia. Ad esempio quali sono le implicazioni per i palestinesi cittadini di Israele di una ideologia dello Stato in cui “troppi” non ebrei sono una questione di pericolo esistenziale?

Ci sono tre fattori principali dietro alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU e al discorso di Kerry (in altre parole, “perché adesso?”). Il principale impulso viene da una nuova legge che sta proseguendo il suo iter alla Knesset, la quale “legalizzerebbe” retroattivamente dozzine di “avamposti” non autorizzati dei coloni in Cisgiordania.

Contemporaneamente a questo sviluppo c’è l’imminente arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, che porta con sé un gruppo di consiglieri sul Medio Oriente che include espliciti oppositori della costituzione di uno Stato palestinese e sostenitori entusiastici della colonizzazione israeliana.

E, oltretutto, questa è stata una manifestazione di frustrazione da parte di un’amministrazione Obama che avrebbe voluto avere due mandati di un primo ministro israeliano come Tzipi Livni o Isaac Herzog – strateghi più accorti quando si tratta di collaborare con il “processo di pace” – mentre gli sono toccati otto anni con Bibi [Netanyahu].

Come ha scritto su “The Nation” [rivista progressista statunitense. Ndtr.] Yousef Munayyer, direttore esecutivo della Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi: “E’ stato un tentativo di salvarsi la faccia nei libri di storia con il gioco dello scaricabarile . Kerry ha chiarito che se gli israeliani voglio uccidere la pace con le colonie, è una loro scelta.”

Ma quali sono gli aspetti positivi? Sicuramente il discorso di Kerry è stato una boccata di aria fresca rispetto alle vere e proprie macchinazioni o agli argomenti prevedibili delle fonti ufficiali israeliane e dei loro amici e alleati. Ma ciò non alza di molto il livello.

Kerry si è vantato del record di Barack Obama nell’appoggiare Israele, affermando che “nessuna amministrazione americana ha fatto di più per la sicurezza di Israele.” Ha aggiunto: “Nel mezzo della nostra crisi finanziaria e del deficit di bilancio abbiamo ripetutamente aumentato i finanziamenti per sostenere Israele.”

I diplomatici USA hanno persino sottolineato con orgoglio il sostegno di Obama a Israele durante i brutali attacchi universalmente condannati contro la Striscia di Gaza (o, con le parole di Kerry, “azioni…che hanno suscitato grandi polemiche”).

I principi di Kerry per un accordo di pace sono, nelle parole del giornalista israeliano Barak Ravid, “magnificamente sionisti”: “scambio di territori” per tener conto dei principali insediamenti illegali, negazione del ritorno a casa dei rifugiati palestinesi per non minacciare la maggioranza ebraica (creata con la violenza) di Israele.

E’ vero che Kerry ha riconosciuto alcune verità imbarazzanti a proposito del regime discriminatorio di Israele nella Cisgiordania occupata: “Praticamente nessuna costruzione privata palestinese viene approvata nell’Area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale controllo israeliano. Ndtr.]”, ha affermato, notando come “solo un permesso è stato rilasciato da Israele in tutto il 2014 e 2015.”

E sì, Kerry ha anche confutato qualche luogo comune riguardo alla costruzione di colonie, sottolineando come “quello che costituisce un blocco (di insediamenti) è stato fatto in modo unilaterale dal governo israeliano, senza consultare i palestinesi e senza il loro consenso.”

Ma è un monito del fatto che Kerry e i diplomatici come lui non sono ignari di quello che succede – hanno solo scelto di garantire l’impunità di Israele. Oltretutto, è chiaro che Kerry conosce fatti altrettanto imbarazzanti riguardanti situazioni che è orgoglioso di difendere – ad esempio, i bombardamenti israeliani contro Gaza.

Ciò detto, è importante non ignorare le scelte politiche – e l’impatto – dell’ammonimento degli USA, senza mezzi termini e pubblicamente, al governo di Netanyahu, soprattutto facendo immediatamente seguito alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che ha riaffermato le “flagranti” violazioni delle leggi internazionali da parte di Israele.

Tali dinamiche renderanno sicuramente la vita più difficile ai gruppi che appoggiano Israele – soprattutto quelli che ancora sostengono con la voce roca la causa “progressista” dello Stato del colonialismo di insediamento. Le risibili reazioni di Netanyahu e dei suoi ministri hanno messo in evidenza il loro disprezzo, e la loro paura, delle leggi internazionali.

La risoluzione dell’ONU e il discorso di Kerry (e quello che ciò rappresenta) giocheranno un ruolo e agiranno come catalizzatori di processi preesistenti – come la trasformazione di Israele in un argomento conflittuale nella politica USA e la crescita della campagna per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

Dopo la risoluzione dell’ONU le singole campagne di boicottaggio e sanzioni saranno solo più facili da attuare alla luce di una sicura continuazione dell’incremento delle colonie israeliane e delle politiche di apartheid. Dovrebbe risultare ancora più evidente ai gruppi dei diritti umani ed ai governi internazionali che è necessaria una pressione effettiva.

Il giornalista israeliano Chemi Shalev ha definito il discorso di Kerry “un rito di passaggio da un’era ad un’altra”. La domanda per i dirigenti palestinesi è se potranno agire di conseguenza e sfruttare i nuovi sviluppi a favore dell’autodeterminazione e dei diritti di tutto il popolo palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il discorso di Kerry è stato magnificamente sionista, a favore di Israele e in ritardo di tre anni

Nota redazionale: il presente articolo rappresenta posizioni che non corrispondono alle opinioni condivise da Zeitun, in quanto, come afferma lo stesso Barak Ravid fin dal titolo, Kerry ha confermato la sua adesione alla logica sionista. Quindi gli aspetti che il giornalista ritiene positivi dal nostro punto di vista non lo sono affatto. Inoltre è evidente che le responsabilità di un mancato accordo tra le parti non può ricadere equamente su Netanyahu e Abu Mazen, data l’enorme differenza di potere tra i due ed il fatto che il mediatore, in questo caso Kerry, si è sempre dimostrato acquiescente rispetto all’espansione delle colonie israeliane nei Territori occupati. Lo status quo in realtà ha rappresentato la continuazione dei cambiamenti sul terreno imposti da Israele. Anzi, nessun presidente e nessun segretario di Stato statunitensi sono stati sbeffeggiati come Obama e Kerry da un governo israeliano, senza che ciò abbia provocato serie reazioni da parte della superpotenza.

Nonostante queste ed altre obiezioni riteniamo utile tradurre questo articolo in quanto smentisce le informazioni e le interpretazioni del discorso di Kerry circolate sui nostri media, che, facendo eco alle proteste di Netanyahu e dei suoi ministri e diplomatici, hanno sostenuto che si è trattato di un duro attacco contro Israele.

 Barak Ravid – 29 dicembre 2016,Haaretz

Se lo avesse messo sul tavolo [delle trattative] nel 2014, lo schema presentato da Kerry avrebbe potuto spingere Israele ed i palestinesi ad un accordo. Ma le risposte ipocrite di Netanyahu e Abbas hanno dimostrato perché i suoi sforzi per la pace sono falliti | Analisi

Il segretario di Stato USA John Kerry ha scelto di dedicare la maggior parte del suo discorso ai suoi personali legami con Israele fin dalla sua prima visita quando era un giovane senatore 30 anni fa. Ha detto di essere salito a Masada, di aver nuotato nel Mar Morto, di essere andato da un sito biblico all’altro, di aver visto le atrocità dell’Olocausto allo Yad Vashem e ha persino parlato di come guidò un aereo dell’aviazione militare su Israele per comprendere le sue necessità in materia di sicurezza.

Non ci sono molti altri politici americani che conoscano Israele quanto John Kerry. Non c’è un solo politico americano in carica che abbia scavato quanto Kerry così in profondità nel conflitto israelo-palestinese e lo abbia studiato e tentato di risolverlo. Queste cose erano chiaramente riflesse nel suo discorso. Il segretario di Stato ha fatto un’analisi convincente dello stato delle cose attuale del processo di pace. Ha evidenziato la profonda sfiducia tra le parti, la disperazione, la rabbia e la frustrazione dei palestinesi, e l’isolamento e l’indifferenza da parte israeliana.

Il discorso di Kerry è stato magnificamente sionista e filo-israeliano. Chiunque appoggi davvero la soluzione dei due Stati e un Israele ebraico e democratico dovrebbe approvare le sue considerazioni ed appoggiarle. E’ un caso duplice, senza mezzi termini. Non c’è da sorprendersi che quelli che si sono affrettati a condannare Kerry, persino prima che parlasse e ancor di più dopo, siano stati il segretario di Habayit Hayehudi [partito di estrema destra dei coloni israeliani. Ndtr.] Naftali Bennett ed i capi della lobby delle colonie. Nel suo discorso Kerry ha notato che è questa minoranza che sta guidando il governo israeliano e l’apatica maggioranza verso la soluzione dello Stato unico.

Negli ultimi quattro anni, il segretario di Stato americano spesso ha agito goffamente, ossessivamente e persino con un tocco di messianismo, ma lo ha fatto per una causa buona e giusta. Ha tentato con tutte le sue forze di porre fine a 100 anni di conflitto per garantire un futuro a Israele, il maggiore alleato dell’America, ed alle sofferenze dei palestinesi. Purtroppo i suoi due partner in questa missione, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente dell’autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas, semplicemente non l’hanno voluto tanto quanto lui. Negli ultimi quattro anni, Abbas e Netanyahu sono stati uno l’immagine riflessa dell’altro. Si sono impegnati nel conservare lo status quo, sono rimasti trincerati sulle loro posizioni e non hanno voluto prendere neanche il minimo rischio o spostarsi di un millimetro per cercare di ottenere un miglioramento.

Il discorso di Kerry è stato lungo e dettagliato, ma il suo centro è stato il piano per la pace che ha presentato. Il progetto non intendeva essere una soluzione imposta, ma includere i principi fondamentali su cui dovrebbe essere condotto il futuro dei negoziati israelo-palestinesi. Era centrato sul documento complessivo formulato nel marzo 2014 dopo parecchi mesi di colloqui con entrambe le parti.

Quando si leggono le parole di Kerry, si vede immediatamente che egli ha accettato un numero significativo di richieste di Israele, in primo luogo e soprattutto quella secondo cui ogni futuro accordo di pace includa il riconoscimento palestinese di Israele come Stato ebraico. Kerry ha anche affermato che una soluzione del problema dei rifugiati dovrebbe essere giusto e praticabile, che non minacci le caratteristiche dello Stato di Israele. Egli ha detto che ogni futura frontiera dovrebbe essere basata sul fatto di lasciare in mani israeliane i principali blocchi di colonie; ha messo in evidenza che l’accordo definitivo deve costituire la fine del conflitto e precludere qualunque ulteriore richiesta palestinese, ed ha sottolineato che le misure per la sicurezza devono essere una componente fondamentale di ogni accordo.

Nel contempo lo schema di Kerry include una serie di compromessi richiesti ad Israele, il primo e principale è consentire che Gerusalemme sia la capitale di entrambi gli Stati. Kerry ha chiarito che i confini dello Stato palestinese dovrebbero essere basati su quelli del 1967 con un scambio consensuale di territori delle stesse dimensioni, e che Israele deve riconoscere le sofferenze dei rifugiati palestinesi.

Il principale problema dello schema di Kerry è che lo ha presentato troppo tardi. Egli sa di aver fatto un errore quando, nel marzo 2014, non ha messo ufficialmente sul tavolo [delle trattative] il suo documento quadro contenente gli stessi principi che ha enumerato nel suo discorso. I suoi principali consiglieri ammettono che Kerry, se potesse tornare indietro di 33 mesi, proporrebbe questo progetto di pace alle due parti e imporrebbe loro di negoziare su queste basi.

Questa mossa “prendere o lasciare” a quel tempo avrebbe obbligato entrambe le parti a prendere decisioni strategiche. Un simile passo avrebbe anche definito lo schema di Kerry come base per ogni futuro colloquio. Per quanto importante, il fatto di averlo presentato solo tre settimane prima che Donald Trump entri alla Casa Bianca ha solo un valore simbolico.

Come in altri esempi del passato, Netanyahu non si è neanche preso il disturbo di ascoltare le osservazioni di Kerry o di valutarle nel merito. Ha risposto con affermazioni aggressive contenenti pesanti critiche personali a Kerry. C’è chi dirà che la profondità di queste dichiarazioni riflette la profondità delle indagini su di lui [Netanyahu è indagato per corruzione. ndtr.] .

Le critiche di Netanyahu sono condite di ipocrisia e cinismo. I principi che Kerry ha elencato nel suo discorso sono gli stessi che Netanyahu aveva accettato nel marzo 2014. Il primo ministro aveva delle riserve, che aveva previsto di esprimere pubblicamente, ma in pratica aveva accettato di negoziare sulla base di un progetto molto simile. Ad oggi Netanyahu rifiuta di ammetterlo.

Il suo gemello politico, Abbas, ha reagito con la stessa ipocrisia. Quando il presidente USA Barack Obama ha presentato lo schema ad Abbas nel marzo 2014, Abbas ha promesso di pensarci e di tornare da Obama. Obama sta ancora aspettando. Persino dopo il discorso di Kerry di mercoledì Abbas ha rifiutato di dire se per lui lo schema è accettabile o meno.

Il presidente eletto Trump, che sembrava aver accettato la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU della scorsa settimana sulle colonie, rispondendo con un tweet formulato in modo generico, non ha potuto esimersi dal commentare il discorso di Kerry. Solo un attimo prima che Kerry iniziasse il suo discorso, Trump ha lanciato tre tweet che hanno reso evidente il suo dissenso.

Negli ultimi mesi Trump ha ripetutamente detto che uno dei suoi obiettivi è raggiungere una pace tra Israele e i palestinesi. Ha chiarito che vuole chiudere “la madre di ogni problema” e porre fine alla “guerra infinita” tra le due parti. Trump ha persino nominato inviato speciale per il processo di pace il suo avvocato e stretto collaboratore Jason Greenblatt. Trump e Greenblatt presto scopriranno che se vogliono fare questo storico accordo, assomiglierà molto a quello delineato da Kerry nel suo discorso.

(traduzione di Amedeo Rossi)