I vigneti israeliani vogliono partecipare alla crescita mondiale del vino delle colonie

Joseph Massad

sabato 5 dicembre 2020 – Middle East Eye

Israele ambisce a creare una nicchia commerciale per i suoi vini prodotti su terreni palestinesi e siriani rubati

Dagli anni ’90 uno degli aspetti più significativi della nuova cultura mondiale del vino è che non si limita ai Paesi produttori di vino europei.

Accanto alla Francia e, in misura minore, all’Italia, che in precedenza dominavano il settore, i nuovi produttori di vino sul mercato provengono da ex-colonie europee: Australia, Nuova Zelanda, California, Sudafrica, Argentina, Cile. I loro vini sono largamente commercializzati a livello internazionale.

Le colonie israeliane cercano di penetrare in questo mercato, peraltro senza successo a causa della scarsissima competitività dei loro vini sul piano qualitativo, salvo forse in luoghi limitati di alcune città americane ed europee e in alcune zone degli Emirati Arabi Uniti.

Recenti ricerche che valutano la produzione del vino in diverse regioni del mondo non citano neppure Israele come candidato degno di questo nome.

Le origini colonialiste di questi vini sono una semplice coincidenza o la produzione del vino è stata fondata sul furto di terre indigene?

Un importante episodio della storia della produzione vitivinicola europea è stato il disastro avvenuto verso la fine del XIX secolo a causa di una invasione di fillossera, un insetto che si nutre delle viti. La fillossera ha rischiato di distruggere l’industria vinicola francese, con una produzione scesa di circa il 75% tra il 1875 e il 1889.

Era l’epoca dell’apogeo del colonialismo francese, in particolare in Algeria, che a partire dagli anni ‘70 dell’‘800 vide dilagare una nuova ondata di coloni. La maggior parte dei nuovi coloni erano agricoltori del Sud della Francia che cercavano di sfuggire alla povertà dopo la distruzione dei vigneti della Linguadoca e della Provenza da parte della fillossera.

Con la concessione di crediti da parte dello Stato e prestiti bancari ai coloni bianchi, i vigneti cominciarono a ricoprire la regione dell’Atlante telliano [catena montuosa settentrionale del Maghreb, ndtr.] in Algeria, dove si costituì e prosperò un’industria vitivinicola redditizia fino all’indipendenza dell’Algeria.

Le olive e l’uva

I contadini algerini spogliati delle loro terre svolgevano la maggior parte dei lavori agricoli. La resistenza anticolonialista algerina si manifestò con attacchi periodici contro le colonie agricole.

Come illustra l’esempio algerino, le misure giuridiche colonialiste che consentivano di privatizzare le terre conquistate sono sempre state determinanti per l’espansione della colonizzazione.

Nella vicina Tunisia, un’altra colonia francese, i francesi usurparono più di un quarto di milione di ettari tra il 1892 e il 1914.

L’agricoltura colonialista si è specializzata nelle olive e nell’uva per la produzione di olio e di vino. Con la colonizzazione ufficiale sostenuta dallo Stato, i francesi hanno cacciato i contadini tunisini dalle terre su cui lavoravano da sempre ma per le quali non avevano un titolo di proprietà.

La stessa sorte è stata riservata ai pascoli, che persero a favore dei coloni. I tunisini espulsi e in preda alla miseria attaccarono le aziende agricole coloniali.

Nel 1858 gli Ottomani emisero un codice agrario che privatizzò le terre in Palestina: esse cominciarono ad essere acquistate dai mercanti della Palestina e di altre zone. Proprietari assenteisti acquistarono enormi estensioni di terreno e ne vendettero alcuni a degli agenti locali di organizzazioni filantropiche ebraiche con sede in Francia, che finanziavano a loro volta delle colonie agricole.

Allo stesso tempo i vigneti francesi del barone Edmond de Rothschild, un importante produttore di vino francese, furono devastate dalla fillossera. Il barone cominciò a concedere dei fondi ai coloni ebrei russi perché coltivassero delle vigne e nel 1883 finanziò le colonie di Petah Tikva e di Rishon LeZion, dove intendeva impiantare dei vigneti e una tenuta vitivinicola.

Nel 1882 i coloni russi crearono sulle terre perse dal villaggio di Uyun Qarah la prima azienda vinicola di Rothschild a Rishon LeZion, poi poco più tardi nella colonia di Zikhron Yaakov, costruita su terre del villaggio palestinese di Zamarin.

Rothschild “seguì il modello della colonizzazione agricola francese in Algeria e in Tunisia” inviando degli esperti agricoli e orticoli formati in Algeria e in Francia. Proprio come i contadini tunisini ed algerini, quelli palestinesi vennero espulsi dalle terre dove avevano vissuto e lavorato da secoli.

Il primo grande atto di resistenza contadina contro le colonie ebraiche avvenne nel 1886, quando dei contadini attaccarono la colonia ebraica di Petah Tikva finanziata da Rothschild.

Alla colonia erano state vendute delle terre dei contadini confiscate da usurai di Giaffa e dalle autorità a causa dell’indebitamento dei contadini.

Tuttavia una grande quantità di terre vendute alla colonia non era stata confiscata e in realtà apparteneva ai contadini.

Le azioni di resistenza si moltiplicarono quando i coloni ampliarono le loro attività agricole, in quanto i contadini si resero conto di tutte le terre che gli erano state rubate.

Alla fine del XIX secolo la resistenza era tale che non c’era nessuna colonia ebraica “che prima o poi non fosse entrata in conflitto” con i palestinesi.

Vini provenienti dalle colonie

Circa un secolo dopo, nel 1967, Israele invase e occupò le Alture del Golan siriano, espellendo 100.000 siriani. In spregio al diritto internazionale, i coloni ebrei arrivarono in massa e nel 1981 Israele annesse il territorio.

Oggi circa 22.000 coloni ebrei vivono nelle 33 colonie sulle Alture del Golan. Alcune di esse hanno piantato viti e cominciato a produrre vino. Nel 1984 l’azienda vinicola delle Alture del Golan ha prodotto la sua prima annata. Tra gli altri produttori di vino figurano le colonie ebraiche costruite su terre confiscate a Gerusalemme est occupata e in Cisgiordania, come la colonia di Rehelim, nel nord della Cisgiordania. Ciò ha provocato dei problemi agli esportatori di vino israeliani e messo in difficoltà gli importatori europei.

Nel 2015 l’Unione Europea (UE), primo partner commerciale di Israele, ha deciso di identificare i vini provenienti dalle colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata, di Gerusalemme est e delle Alture del Golan come provenienti dalle “colonie israeliane”. Questa decisione è stata ratificata nel 2019 da una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Questa decisione è stata presa dopo un’azione legale intentata dall’azienda agricola di Psagot, un’impresa fondata nella colonia ebraica di Pisgat Ze’ev a Gerusalemme est occupata, perché venissero rimosse le etichette di questo tipo.

I vigneti di Psagot sono situati sulle terre nella Cisgiordania occupata. La sua azione legale ha avuto un effetto controproducente: la decisione della Corte di Giustizia della UE ha fatto seguito a un’altra decisione presa nel 2019 da parte della Corte Federale del Canada, che ha rifiutato di autorizzare l’etichetta “Made in Israel” per il vino proveniente dalle colonie ebraiche.

Nel suo parere consultivo un alto responsabile della Corte di Giustizia dell’UE aveva già paragonato il vino israeliano prodotto nelle colonie alle merci proveniente dal Sudafrica all’epoca dell’apartheid.

Un apartheid di altro genere

Più di tre secoli fa dei coloni ugonotti [denominazione dei calvinisti in Francia, ndtr.] olandesi e francesi avviarono su terre indigene conquistate l’industria vitivinicola sudafricana. Gran parte della manodopera agricola delle vigne sudafricane era fornita dalla popolazione “di colore” pagata con vino attraverso il “dop system” [sistema per creare dipendenza da alcool, ndtr.], una forma ufficiosa di schiavismo che ha determinato un diffusissimo alcoolismo.

Negli anni ’90, dopo la fine dell’apartheid, che ha coinciso con l’era del neoliberismo, i vini sudafricani che appartenevano ancora a coloni bianchi hanno iniziato ad essere commercializzati all’estero.

Nonostante sia illegale, il “dop system” in Sudafrica continua ad esistere: secondo alcune stime, nel 2015 rappresentava tra il 2% e il 20% dei salari nella [provincia del] Capo Occidentale.

Insistendo sul fatto che, contrariamente all’apartheid sudafricano, il suo tipo di apartheid è più che accettabile agli occhi dei regimi arabi, in particolare del Golfo, con cui recentemente ha stretto rapporti, Israele ambisce a creare una nicchia commerciale per i suoi vini di scarsa qualità prodotti su terre palestinesi e siriane rubate.

Benché gli Emirati Arabi Uniti riconoscano le Alture del Golan come territorio siriano occupato e Gerusalemme est e la Cisgiordania come territori palestinesi occupati, la commercializzazione da parte di Israele di vini “Made in Israel” negli Emirati contribuisce a rafforzare il riconoscimento dell’annessione di questi territori, ottenuto dall’amministrazione Trump negli ultimi anni.

Resta tuttavia da sapere se il governo emiratino o i suoi tribunali insisteranno affinché l’etichettatura specifichi se i vini sono stati prodotti nelle colonie israeliane illegali o sarà consentito di etichettarli “Made in Israel”.

– Joseph Massad è professore di storia politica ed intellettuale araba moderna alla Columbia University di New York. È autore di numerosi libri ed articoli, sia accademici che giornalistici. Tra le sue opere figurano “Colonial Effects: The Making of National Identity in Jordan” [Effetti coloniali: la creazione dell’identità nazionale in Giordania], “Desiring Arabs” [Arabi Desideranti] e, pubblicato in francese, “La persistance de la question palestinienne” [La persistenza della questione palestinese] (La Fabrique, 2009). Più di recente ha pubblicato “Islam in Liberalism” [L’Islam nel liberismo]. I suoi libri ed articoli sono stati pubblicati in una decina di lingue.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




“Siete pionieri sionisti” –Una ministra israeliana di centro saluta così i coloni messianici

Jonathan Ofir  

1 dicembre 2020 – MondoWeiss

La pluridecennale impresa coloniale di Israele consiste nella creazione di “fatti sul campo”. I fatti si presentano tipicamente come “avamposti” costruiti da zelanti fedeli senza un’autorizzazione, sia su terreni sequestrati dai militari per lo Stato, sia semplicemente su terreni privati palestinesi. La questione è quindi come legalizzare retroattivamente il furto e come inquadrarlo. Si tende a pensare che questa attività sia principalmente un progetto della destra, ma storicamente è stata praticata sia dalla destra che dalla sinistra, in modo più o meno esplicito.

Questa settimana, una ministra centrista ha intenzionalmente sganciato una bomba. Domenica, la ministra israeliana della Diaspora Omer Yankelevich, del partito Blu e Bianco di Benny Gantz si è rivolta ai coloni durante un “Forum delle colonie”. L’ ha fatto a conferma dell’iniziativa del ministro della Difesa Gantz e del suo collega di partito Michael Biton (ministro degli Affari Strategici) di legalizzare retroattivamente 1.700 unità abitative dei coloni, considerate illegali anche dalle indulgenti leggi di Israele (che sfidano il diritto internazionale).

Yankelevitch ha invocato l'”unità” suprematista ebraica riguardo alle colonie, dicendo che “è tempo di porre fine ai discorsi di divisione e odio nei confronti dei coloni”. Condividendo il video del discorso, il giornalista Neri Zilber ha detto che l’affermazione è un tradimento. “I [parlamentari di] Blu e Bianchi sono stati votati con più di un milione di voti di centrosinistra”.

Ma davvero quei milioni di elettori sono contrari? Il quotidiano israeliano Yediot Aharonot aveva già denunciato tre settimane fa la possibilità di tale mossa, che i coloni stavano ovviamente aspettando, una mossa che Peace Now [movimento israeliano contrario all’occupazione, ndtr.] ha definito “la realizzazione di una politica da coloni messianici”. E contemporaneamente Oded Ravivi, capo del consiglio regionale dei coloni di Efrat, ha detto che “l’insediamento di ebrei in Giudea e Samaria ha ottenuto il consenso”.

La giornalista Mairav Zonszein ha commentato le dichiarazioni di Yankelevitch, scrivendo su Twitter: “Non un ministro qualsiasi, ma Omer Yankelevich, ministra degli Affari della Diaspora, che sovrintende ai rapporti con gli ebrei americani, i quali in genere si oppongono alle colonie.”

Gli ebrei americani sono una cosa. Gli ebrei israeliani un’altra.

Yankelevich ha detto senza mezzi termini che Gantz sostiene in pieno l’iniziativa di Biton di legalizzare le case illegali dei coloni.

In passato, simili palesi iniziative promozionali della legalizzazione dell’illegale venivano dalla destra di Benjamin Netanyahu, ad esempio dall’ex ministra della Giustizia Ayelet Shaked, che nel 2017 promosse la “legge di regolarizzazione”, che analogamente forniva copertura giuridica alla legalizzazione retroattiva di circa 4.000 case illegali di coloni.

Con la sua dichiarazione, Yankelevich ha in sostanza detto che un partito di centro, Blu e Bianco, stava superando Netanyahu a destra, e andando persino oltre Shaked, poiché in particolare questa “legalizzazione” verrebbe messa in pratica anche prima che venga approvata una specifica legge in merito a quelle case. Yediot riferisce che l’intenzione è quella di approvare la mozione che viene chiamata “regolarizzazione del mercato”, che “consente all’acquirente di acquisire diritti sulla proprietà se è dimostrato che l’acquisto è stato fatto in buona fede”.

Già, “buona fede” è un termine usato spesso dai promotori di questi atti. I coloni dell’avamposto sono chiamati collettivamente “il giovane insediamento”, come li ha chiamati anche Yankelevich, piuttosto che colonialisti ladri di terre. Le affermazioni di Yankelevich sono diventate un grosso problema per Gantz, che vorrebbe almeno apparire come un centrista. Così lunedì c’è stata una discussione nel partito se questa posizione rappresenti effettivamente la linea del partito. Gantz ha detto di no, e che Yankelevich stava travisando (come riportato da Walla [portale web di una società di telecomunicazioni israeliana, ndtr.]):

Il capo di Blu e Bianco Benny Gantz ha chiarito oggi (lunedì) di non appoggiare la mozione di regolarizzazione degli avamposti, e ha preso le distanze dalle dichiarazioni della ministra della Diaspora Omer Yankelevich che ieri al raduno di protesta ha detto che Gantz li sostiene. Durante la riunione del partito Blu e Bianco Gantz ha detto: Non sosteniamo gli avamposti illegali e non importa chi vi risieda, che quella persona sia un pilota o un medico, non ha il permesso di insediarsi in aree illegali’ ”.

Tuttavia, Gantz ha sottolineato che questo non significa che si opponga alle colonie in generale, né in toto alla “regolarizzazione”. Devono solo essere fatti correttamente, per così dire:Sostengo il fatto che i blocchi [di colonie] della valle del Giordano rimangano, senza tornare ai confini del ’67 … Il Ministero della Difesa [di cui Gantz è il titolare, ndtr.] sta lavorando alla regolarizzazione di tutti gli avamposti che si trovano su aree legali esattamente secondo i regolamenti e le leggi. Qualsiasi deviazione da questa linea non è la politica di Blu e Bianco.

Questo crea un po’ di confusione, poiché gli avamposti che si trovano su aree consentite non hanno bisogno di essere legalizzati. Il punto è che si trovano in zone non ancora chiaramente definite da Israele come legali per le colonie: possono essere terre confiscate e sottoposte a “verifica”, o semplicemente terre private palestinesi.

In ogni caso, la “legalizzazione” retroattiva di tali aree è proprio il processo di “regolarizzazione” a cui si riferisce Gantz. Ma anche per chi è perplesso, il punto qui sottolineato da Gantz rivela che Israele sta operando istituzionalmente su una base espansionistica colonialista attraverso le istituzioni militari. L’unica domanda è quanto velocemente debbano andare le cose, prima che la Cisgiordania inizi a sembrare il Far West.

Durante la riunione il parlamentare di Blu e Bianco Asaf Zamir (ex ministro del Turismo) ha aggredito Yankelevich e ha detto che stava “danneggiando politicamente [il partito] nelle regioni in cui non abbiamo elettori”. Zamir ha accennato alla possibilità di elezioni imminenti: “Siamo alla vigilia di un potenziale scioglimento della Knesset [il parlamento], è meglio che ci ricordiamo chi siamo, perché queste dichiarazioni e queste iniziative non coordinate che hai compiuto allontanano la sala di comando dai nostri elettori.

Ma Yankelevich non ne ha voluto sapere. Ha mantenuto la posizione come una brava giovane colona: “La posizione del partito, come ha detto alla riunione del partito il presidente del partito, è di supporto alla regolarizzazione degli insediamenti costruiti in buona fede su terre demaniali. Questa è la posizione che ho espresso anch’io e ne sono orgogliosa. Stiamo parlando del sale della terra, di persone che vivono in condizioni inaccettabili ed è giunto il momento di fornire loro condizioni di vita onorevoli. Non credete alle false citazioni.

E dunque, Blu e Bianco si sconterà un per un po’ al suo interno e deciderà quale sia veramente la linea del partito. È un furto intenzionale e palese o è piuttosto un furto accettabile?

Due anni fa, chi scrive sostenne che il dibattito sinistra-destra in Israele è sulla velocità della colonizzazione, non su come porvi fine. Blu e Bianco è il presunto contrappeso di opposizione progressista al Likud di Netanyahu. Ma non è così, e non si riesce nemmeno a capire cosa rappresenti. Gantz dice “colonizzazione leggera”, Yankelevich dice “pionierismo sionista”. E il promemoria per gli ebrei all’estero, in particolare negli Stati Uniti, di cui Yankelevich è presumibilmente la ministra, è che non c’è forza politica in Israele che effettivamente si opponga alle colonie. La “sinistra” sionista? Quale sinistra? Non esiste. Oh, e che dire del gruppo di parlamentari della Lista Unita palestinese? È sistematicamente esclusa dal governo – sì, anche da Gantz.

E se dici che è un comportamento razzista, beh, fai attenzione, la definizione IHRA di antisemitismo potrebbe essere pronta ad acchiapparti.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Porre fine all’apartheid: uno Stato unico non è la soluzione ideale, ma è giusta e possibile

Ramzy Baroud

1 dicembre 2020 – Chronique de Palestine

Ancora una volta gli alti diplomatici europei hanno espresso la loro “profonda inquietudine” riguardo all’espansione in corso delle illegali colonie israeliane, evocando nuovamente la massima secondo cui le azioni israeliane “minacciano la praticabilità della soluzione a due Stati”.

Questa posizione è stata comunicata il 19 novembre dall’alto rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri Joseph Borrell, nel corso di una video-conferenza con il Ministro degli Affari Esteri dell’Autorità Nazionale Palestinese Riyad al-Maliki.

Tutte le colonie israeliane sono illegali in base al diritto internazionale e dovrebbero essere disconosciute a parole e nei fatti, che rappresentino o no un danno per la defunta soluzione a due Stati.

A parte il fatto che alla “profonda inquietudine” dell’Europa non hanno quasi mai fatto seguito misure concrete, enunciare una posizione morale e legale nel contesto di soluzioni immaginarie è notoriamente privo di senso.

Perciò la domanda che si pone è la seguente: “Perché l’Occidente continua ad utilizzare la soluzione a due Stati come parametro politico per la soluzione dell’occupazione israeliana della Palestina, pur evitando di prendere alcuna iniziativa significativa per garantirne la realizzazione?”

La risposta sta in parte nel fatto che fin dall’inizio la soluzione a due Stati non è mai stata concepita per essere attuata. Come il “processo di pace” ed altre affermazioni pretestuose, il suo scopo era promuovere l’idea, presso palestinesi ed arabi, che ci fosse un obbiettivo che valeva la pena di perseguire, pur essendo irraggiungibile.

Tuttavia anche questo obbiettivo fin dall’inizio era subordinato ad una serie di presupposti irrealistici. Storicamente i palestinesi hanno dovuto rinunciare alla violenza (la resistenza armata contro l’occupazione militare di Israele), dare il loro consenso a diverse risoluzioni dell’ONU (anche se Israele continua a ignorarle), accettare il “diritto” di esistere di Israele in quanto Stato ebraico, e via di seguito. Era anche previsto che questo Stato palestinese ancora da creare fosse demilitarizzato, diviso tra Cisgiordania e Gaza, ma senza la maggior parte della Gerusalemme est occupata.

Pertanto, nonostante gli ammonimenti secondo cui la possibilità di una soluzione a due Stati si stava sgretolando, pochi si sono premurati di comprendere la situazione dal punto di vista palestinese. Secondo un recente sondaggio, stanchi delle illusioni della propria direzione fallimentare, due terzi dei palestinesi adesso concordano che una soluzione a due Stati è attualmente impossibile.

Anche l’affermazione secondo cui una soluzione a due Stati è necessaria, non fosse che come anticipazione di una soluzione permanente di uno Stato unico, è assurda. Questo argomento solleva ancor più ostacoli sulla via della ricerca della libertà e dei diritti dei palestinesi. Se la soluzione a due Stati fosse mai stata realizzabile, lo sarebbe stata quando tutte le parti la difendevano, almeno pubblicamente.

Ormai gli americani non vi sono più legati e gli israeliani l’hanno superata e sono ora impegnati su una strada del tutto nuova, architettando l’annessione illegale e l’occupazione definitiva della Palestina.

La verità incontestabile è che milioni di arabi palestinesi (musulmani e cristiani) e di ebrei israeliani vivono tra il fiume Giordano e il mare. Camminano già sulla stessa terra e bevono la stessa acqua, ma non come persone uguali. Mentre gli ebrei israeliani sono dei privilegiati, i palestinesi sono oppressi, rinchiusi dietro muri e trattati come esseri inferiori.

Per mantenere il più a lungo possibile i privilegi degli ebrei israeliani Israele usa la violenza, utilizza leggi discriminatorie e, con le parole del professor Ilan Pappe, pratica un ‘graduale genocidio’ nei confronti dei palestinesi.

La soluzione di uno Stato unico mira a rimettere in discussione i privilegi degli ebrei israeliani, sostituendo l’attuale regime di apartheid razzista con un sistema politico rappresentativo, democratico ed equo che garantisca i diritti di tutte le popolazioni di ogni confessione, come avviene in tutti i sistemi di governo democratico nel mondo.

Perché questo diventi realtà non c’è bisogno di scorciatoie né di ulteriori illusioni riguardo ai due Stati.

Da molti anni noi colleghiamo la nostra lotta per la libertà dei palestinesi al concetto di giustizia, come negli slogan “nessuna pace senza giustizia”, “giustizia per la Palestina”, e via di seguito. Perciò conviene porre la domanda: la soluzione di uno Stato unico è una soluzione giusta?

La giustizia perfetta non è possibile perché la storia non può essere cancellata. Nessuna soluzione giusta può essere trovata quando generazioni di palestinesi sono già morte come rifugiati privati della loro libertà e senza aver mai potuto far ritorno alle proprie case. D’altra parte permettere all’ingiustizia di perpetuarsi col pretesto che non si può ottenere la giustizia ideale è altrettanto ingiusto.

Per anni molti di noi hanno perorato la causa di uno Stato unico come l’esito più naturale di circostanze storiche tremendamente ingiuste. Tuttavia io – e conosco altri intellettuali palestinesi che hanno fatto come me – ho evitato di farne una questione sotto i riflettori, semplicemente perché sono convinto che ogni iniziativa che riguardi l’avvenire del popolo palestinese debba essere difesa dal popolo palestinese stesso.

Questo è necessario per impedire il tipo di spirito fazioso e, come ha detto Antonio Gramsci, di intellettualismo, che ha forgiato Oslo e tutti i suoi danni.

Ora che l’opinione pubblica in Palestina si sta modificando, principalmente contro la soluzione a due Stati, ma anche, pur gradualmente, a favore di uno Stato unico, si può anche assumere pubblicamente questa posizione. Dovremmo sostenere lo Stato unico e democratico perché anche i palestinesi in Palestina stanno sempre più manifestando tale esigenza legittima e naturale.

Sono convinto che sia solo questione di tempo perché nel contesto del paradigma dello Stato unico uguali diritti divengano la causa comune di tutti i palestinesi.

Preconizzare delle “soluzioni” ormai defunte, come continuano a fare l’Autorità Nazionale Palestinese, l’UE ed altri, è una perdita di tempo e di energie preziose. Aiutare i palestinesi ad ottenere i loro diritti, tra cui quello al ritorno dei rifugiati palestinesi, e rendere Israele responsabile moralmente, politicamente e giuridicamente di non aver rispettato il diritto internazionale dovrebbe ora assorbire tutta l’attenzione.

Vivere come eguali in un solo Stato che abbatta tutti i muri, metta fine a tutti gli assedi e faccia cadere tutte le barriere è uno di quei diritti fondamentali che non dovrebbero essere oggetto di negoziati.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e caporedattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è “Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e difesa nelle prigioni israeliane” (Pluto Press). Baroud ha un dottorato in studi sulla Palestina presso l’università di Exeter ed è ricercatore associato presso il Centro Orfalea di studi mondiali e internazionali, università della California.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Il regalo dell’ANP a Biden è il ritorno a una strategia fallimentare

Omar Karmi

20 novembre 2020 – The Electronic Intifada

La notizia secondo cui l’Autorità Nazionale Palestinese ha deciso di riprendere il coordinamento con Israele dopo averlo sospeso per sei mesi non rappresenta una grande sorpresa.

Si tratta di un regalo di benvenuto a Joe Biden, il neoeletto presidente americano, che dimostra nel contempo la scarsità di idee della dirigenza dell’ANP.

In maggio la decisione di porre fine al coordinamento era stata presa di fronte alla minaccia di un’annessione formale da parte di Israele di circa il 30% della Cisgiordania occupata. Ma fin dall’inizio i politici palestinesi hanno fatto sapere che sarebbe stata una protesta per lo più simbolica.

Formalmente il coordinamento tra le forze di sicurezza palestinesi e l’esercito israeliano sarebbe dovuto finire. Ma le forze di sicurezza palestinesi hanno agito come se il coordinamento fosse ancora in atto. In altre parole nell’unico ambito che interessa ad Israele, la sicurezza, l’ANP ha subito fatto marcia indietro.

Il resto è stato solo atteggiarsi e farsi del male da soli.

È stata solo una posa perché, senza il coordinamento per la sicurezza, si è trattato di una mossa largamente priva di effetti concreti, rivolta più all’opinione pubblica interna – guardate, stiamo facendo qualcosa – che con la reale speranza di ottenere un qualunque effetto significativo.

È stata autolesionista perché tutto ciò che ne è derivato è stato che l’ANP ha finito per doversela cavare senza la riscossione delle tasse che Israele raccoglie a suo favore.

E, dato che ciò è avvenuto nel bel mezzo di una pandemia globale, ha anche comportato alcune conseguenze molto concrete, soprattutto a Gaza. Lì la fine del coordinamento ha voluto dire che una popolazione già imprigionata dal blocco israeliano ora non ha quasi nessuna possibilità di lasciare il territorio per cercare cure mediche.

Con un settore sanitario sull’orlo del collasso come diretta conseguenza delle sanzioni e dell’assedio israeliani, ciò ha provocato indicibili danni e sofferenze.

Il coordinamento tra l’ANP e Israele è il meccanismo attraverso il quale Israele impone il suo sistema di permessi ai palestinesi nei territori occupati, subìto in modo più pesante nella Striscia di Gaza isolata. Come potenza occupante, tuttavia, Israele conserva la responsabilità del benessere di tutte le persone sotto occupazione, indipendentemente dallo stato del coordinamento.

Una gloriosa vittoria

Ora si potrebbe sostenere, allo stesso modo degli EAU e del Bahrain, che il lavoro è stato fatto, la minaccia di un’annessione formale è superata e che non c’è bisogno di continuare a sospendere il coordinamento, soprattutto alla luce della sua natura autolesionista.

Tuttavia questo suggerirebbe che siano successe almeno due cose, entrambe palesemente false:

primo, che la mancanza del coordinamento tra Palestina e Israele abbia in un certo modo creato talmente tanti problemi ad Israele da fargli abbandonare l’annessione.

Secondo, che Israele abbia abbandonato l’annessione.

È vero che Israele ha accantonato il piano di annunciare formalmente l’annessione di altra terra occupata (ha già annesso formalmente le Alture del Golan e Gerusalemme est). Ma ha portato avanti la costruzione di colonie. Ogni insediamento edificato è un’annessione di fatto. Israele non sta spostando persone in un territorio che ha intenzione di evacuare a favore di uno Stato palestinese. Quindi porre fine al coordinamento con Israele non ha ottenuto assolutamente niente per i palestinesi. Tuttavia ciò non ha impedito a importanti politici dell’ANP di dichiarare che la ripresa del coordinamento è una “vittoria” per il popolo palestinese.

Senza dubbio in senso ironico.

Ci sono solo due ragioni per cui l’ANP ha ripreso il coordinamento e nessuna delle due ha qualcosa a che vedere con un successo diplomatico. La prima è la stretta finanziaria, che è reale. La seconda è stata l’elezione del presidente USA. L’ANP è desiderosa di presentare la (presumibilmente) entrante amministrazione Biden come un nuovo inizio.

Ma nella sua ansia di fare ciò l’ANP sta semplicemente per ristabilire la situazione precedente alla presidenza USA di Donald Trump e per ricominciare con la solita routine che per più di vent’anni non è servita a nessuno, se non a Israele.

Continuare a girare in tondo

Il primo segno delle intenzioni dell’ANP è la sua fretta di riprendere i rapporti diplomatici con gli EAU e il Bahrain, nonostante il loro “tradimento” con la normalizzazione delle relazioni con Israele.

Poi deve assicurarsi la riapertura della missione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina a Washington e una ripresa dei rapporti con gli USA. Questo può sembrare un momento promettente per ottenere qualche concessione dall’amministrazione entrante, desiderosa di prendere le distanze da quella uscente.

Tuttavia una concessione è fuori discussione: Biden ha detto molto tempo fa che non sposterà l’ambasciata USA da Gerusalemme.Ma i palestinesi potrebbero chiedere che gli USA chiariscano la loro posizione su Gerusalemme est come territorio occupato e sulle colonie come illegali in base al diritto internazionale. Queste non sono posizioni controverse a livello internazionale.

Nel corso degli anni gli USA hanno progressivamente alleggerito la loro posizione sulle colonie, arrivando al colmo quando l’amministrazione Trump le ha definite “non…in contraddizione” con le leggi internazionali. Ciò potrebbe fornire a Biden la possibilità di rompere con gli anni di Trump.

Ma Biden è profondamente coinvolto nella cultura filoisraeliana di Washington e, in ogni caso, indipendentemente da quale partito controlli il Congresso USA, dovrà sempre affrontare ostilità quando si tratta di qualunque cosa riguardi Israele.

Qualunque concessione sarà difficile. Ciò è particolarmente vero dal momento che la dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese difficilmente si troverà a resistere quando la Casa Bianca gli farà l’occhiolino. Quindi non ci si aspetti alcun concreto tentativo di ottenere qualcosa dagli Stati Uniti o da Israele quando l’amministrazione Biden si farà sentire, cosa che inevitabilmente succederà. Al contrario, se e quando l’amministrazione Biden inviterà di nuovo l’OLP a Washington, la dirigenza palestinese non ci penserà due volte.

Di conseguenza, aspettiamoci di vedere cestinati in sordina i tentativi di unità con Hamas, e con essi i colloqui per le elezioni, in quanto l’ANP cerca di evitare qualunque cosa possa mettere in difficolta il presidente Biden.

Il leader dell’ANP Mahmoud Abbas potrebbe consigliare di vedere un nuovo tipo di processo di pace, guidato da un insieme di attori internazionali piuttosto che solo dagli USA.

Nel corso degli ultimi anni ha espresso ripetutamente questa posizione.

Ma ci vorrà poco perché i funzionari di un’amministrazione USA “più amichevole” convincano la loro controparte palestinese ad accettare come primi passi un ritorno dei finanziamenti USA all’ANP o all’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, insieme alla riapertura della missione dell’OLP a Washington, e a lasciar perdere altre richieste.

Dopodiché sarà solo questione di tempo prima che i palestinesi possano celebrare un’altra “vittoria” diplomatica: il ritorno alla situazione precedente a Trump.

Ovviamente ciò ha dato davvero buoni risultati ai palestinesi.

In mancanza di un cambiamento radicale di strategia da parte della dirigenza dell’OLP, stiamo per assistere di nuovo allo stesso disastroso processo di pace.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’amministrazione statunitense uscente definisce il BDS “antisemita”

Tamara Nassar

19 novembre 2020 – ELECTRONIC INTIFADA

Giovedì il segretario di Stato Mike Pompeo ha formalmente etichettato il movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi come “antisemita” e ha promesso che l’amministrazione statunitense uscente lo combatterà.

Questa è l’ultima violazione della libertà di parola da parte del governo degli Stati Uniti nel suo tentativo di reprimere il sostegno ai diritti dei palestinesi.

“Come abbiamo chiarito, l’antisionismo è antisemitismo”, ha detto Pompeo, equiparando la critica nei confronti di Israele e della sua ideologia politica razzista al sionismo da un lato, al fanatismo contro gli ebrei dall’altro.

Gli Stati Uniti sono “impegnati a contrastare la campagna globale del BDS in quanto manifestazione di antisemitismo”, ha affermato Pompeo.

Giovedì, a Gerusalemme, in una conferenza stampa congiunta con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, egli ha inoltre definito il BDS un “cancro”.

Pompeo ha affermato che l’inviato del Dipartimento di Stato per l’antisemitismo avrebbe “identificato le organizzazioni che si impegnano o in altro modo sostengono” il BDS per consentire al Dipartimento di Stato di interrompere qualsiasi finanziamento governativo.

Giovedì Amnesty International ha dichiarato che gli attacchi mirati di Pompeo contro i gruppi “che, in quanto antisemiti, utilizzano strumenti pacifici, come il boicottaggio, per porre fine alle violazioni dei diritti umani contro i palestinesi, violano la libertà di espressione e sono un regalo per chi cerca di mettere a tacere, perseguitare, intimidire e opprimere coloro che difendono i diritti umani in tutto il mondo”.

Le organizzazioni della società civile palestinese hanno lanciato la campagna BDS nel 2005 per fare pressione su Israele affinché rispettasse i diritti dei palestinesi e si attenesse al diritto internazionale. Si basa sul modello della campagna che ha contribuito a porre fine all’apartheid in Sud Africa.

Il movimento BDS si oppone a tutte le forme di razzismo e fanatismo, compreso l’antisemitismo, e sostiene l’uguaglianza come questione di principio.

Il Comitato nazionale palestinese per il boicottaggio, il gruppo direttivo della campagna globale del BDS, ha denunciato il verificarsi della “fanatica alleanza Trump-Netanyahu” che “continua a consentire e normalizzare la supremazia bianca e l’antisemitismo negli Stati Uniti e nel mondo, diffamando contemporaneamente il BDS.”

Omar Shakir di Human Rights Watch ha affermato che l’amministrazione Trump “sta compromettendo la lotta contro l’antisemitismo equiparando quest’ultimo alle forme di boicottaggio pacifico”.

Vendita delle merci dei coloni

Pompeo ha anche dichiarato che le merci prodotte nelle colonie insediate sulla terra palestinese occupata devono essere etichettate come “Made in Israel” – nascondendo che sono state prodotte in colonie costruite nel territorio occupato in violazione del diritto internazionale.

Ciò verrà applicato a tutti i prodotti dell’Area C – il 60% della Cisgiordania sotto il pieno controllo militare israeliano secondo gli accordi di Oslo degli anni ’90. È l’area in cui si trova la maggior parte delle colonie israeliane.

Questo avviene nel momento in cui quattro senatori repubblicani hanno scritto questa settimana una lettera al presidente Donald Trump chiedendogli di cambiare la politica doganale degli Stati Uniti per consentire alle merci prodotte nelle colonie di essere etichettate come “Made in Israel”.

Pompeo ha aggiunto che le merci prodotte nelle aree della Cisgiordania occupata nominalmente sotto il controllo dell’Autorità Palestinese saranno etichettate come prodotte in “Cisgiordania”.

Pompeo ha anche affermato che gli Stati Uniti “non accetteranno più” l’etichettatura congiunta dei prodotti della Cisgiordania occupata e di Gaza, poiché i due territori “sono separati politicamente e amministrativamente e devono essere trattati di conseguenza”.

Queste misure possono essere interpretate come un ulteriore riconoscimento da parte degli Stati Uniti dell’annessione de facto del territorio palestinese da parte di Israele, mentre negano ai palestinesi qualsiasi riconoscimento che la Cisgiordania e la Striscia di Gaza costituiscano un’unica entità politica.

Il Comitato nazionale del BDS ha definito la fusione intenzionale di antisionismo e antisemitismo da parte del Dipartimento di Stato un tentativo “revisionista e fraudolento” di mettere a tacere non solo i sostenitori del BDS, ma anche le organizzazioni per i diritti umani – come Human Rights Watch – che non sostengono il BDS ma si oppongono al commercio dei prodotti delle colonie.

Il vino delle colonie

Giovedì in un tweet Pompeo ha anche attaccato la politica della UE, scarsamente applicata, volta a richiedere che le merci delle colonie israeliane siano etichettate come tali.

A quanto pare Pompeo avrebbe poco dopo cancellato il tweet per poi ripubblicarlo senza l’immagine, originariamente inclusa, di quello che sembrava il villaggio palestinese di Mukhmas [a nord-est di Gerusalemme, nella Cisgiordania centrale, ndtr.]

Ciò è avvenuto quando Pompeo e l’ambasciatore statunitense David Friedman hanno visitato le Cantine Psagot, un’azienda coloniale che opera su terre palestinesi occupate e rubate.

“Oggi ho pranzato nella pittoresca cantina Psagot”, ha scritto Pompeo.

“Sfortunatamente, Psagot e altre aziende sono state prese di mira dalle dannose iniziative della UE riguardo l’etichettatura, le quali agevolano il boicottaggio delle aziende israeliane”.

Funzionari statunitensi avevano già visitato, nel corso dell’amministrazione Trump, i territori occupati.

La sosta di Pompeo presso le cantine Psagot era tuttavia chiaramente intesa a fornire un sostegno di alto profilo alle colonie illegali di Israele.

Il vino prodotto dalle Cantine Psagot è ottenuto da uve provenienti da diverse colonie della Cisgiordania.

Le cantine sono costruite su un terreno di proprietà dei palestinesi della vicina città di al-Bireh [adiacente a Ramallah, in Cisgiordania, ndtr.], i cui abitanti hanno protestato contro la visita di Pompeo.

Alla stregua di altri colonizzatori europei Israele ha cercato a lungo di vendere all’interno del mercato vinicolo internazionale vini prodotti su terreni palestinesi e siriani rubati, come ha scritto recentemente il professore della Columbia University Joseph Massad [docente di politica araba moderna e storia intellettuale, ndtr.].

Il vino prodotto sulle alture del Golan siriano occupate sarà presto in vendita anche negli Emirati Arabi Uniti.

Durante la sua visita Pompeo ha anche esaltato la costruzione della cosiddetta Città di David, un parco a tema costruito nel quartiere di Silwan, nella Gerusalemme est occupata, da dove Israele sta espellendo con la forza i residenti palestinesi.

Giovedì Pompeo ha inoltre visitato il sito battesimale vicino al fiume Giordano, al confine della Cisgiordania occupata con la Giordania.

Pompeo aveva anche in programma una sosta sulle alture del Golan. Trump ha riconosciuto la sovranità di Israele sull’area nel marzo 2019, in barba al diritto internazionale.

Rafforzamento dell’alleanza anti-Iran

La visita di Pompeo ha coinciso con quella del ministro degli Esteri del Bahrein Abdullatif bin Rashid Al Zayani, arrivato mercoledì a Tel Aviv per la sua prima visita ufficiale da quando, a settembre, il suo paese ha accettato di normalizzare i rapporti con Israele.

Al Zayani si è unito a Pompeo e Netanyahu a Gerusalemme per una conferenza stampa congiunta.

Al Zayani ha annunciato che Israele e Bahrein si scambieranno presto le ambasciate. Dal prossimo mese, ha aggiunto, israeliani e bahreiniti potranno ottenere visti elettronici e presto potranno viaggiare con voli regolari tra i due paesi.

Gli accordi di normalizzazione tra gli stati arabi e Israele fanno parte degli sforzi degli Stati Uniti per costruire un’alleanza anti-Iran tra Israele e gli stati del Golfo sotto la supervisione americana.

Pompeo si è vantato del fatto che i recenti accordi tra Israele e gli Stati arabi abbiano reso l’Iran “sempre più isolato”, con la sua influenza “in declino”.

Ciò avviene mentre l’amministrazione Trump intensifica le sanzioni economiche contro l’Iran nel tentativo di rendere irreversibile, dopo che Joe Biden lo avrà sostituito come presidente, il ritiro di Trump dall’accordo nucleare del 2015.

Trump, ha riferito il New York Times martedì, ha persino preso in considerazione di bombardare il principale impianto nucleare iraniano nel corso delle ultime settimane della sua presidenza.

Secondo quanto riferito, dei consiglieri, tra cui Pompeo e il vicepresidente Mike Pence, lo avrebbero dissuaso da ciò.

L’accordo del 2015 raggiunto dall’amministrazione Obama e da altri stati ha visto l’Iran limitare volontariamente il suo programma di produzione di energia nucleare in cambio della revoca delle sanzioni economiche.

Israele ha incessantemente fatto pressioni per intensificare la guerra economica contro l’Iran, che causa sofferenza ai normali cittadini iraniani e devasta l’economia del paese nel corso di una pandemia.

Mercoledì Pompeo ha strombazzato la campagna dell’amministrazione contro l’Iran “Massima pressione”.

“Oggi l’economia iraniana deve affrontare una crisi valutaria, un aumento del debito pubblico e un aumento dell’inflazione”, ha affermato Pompeo. Ha ammonito sulle “conseguenze dolorose” per gli stati e le società che sfidano le sanzioni statunitensi.

Lettera del Congresso

Prima dell’arrivo di Pompeo in Israele, il membro del Congresso Mark Pocan si è fatto promotore di una lettera con la richiesta al Segretario di Stato di condanna delle recenti demolizioni di case palestinesi da parte di Israele.

Co-firmata da altri 40 membri del Congresso, la lettera si riferisce alla demolizione, il 3 novembre, della comunità di Khirbet Humsa [villaggio nella parte settentrionale della valle del Giordano, ndtr.] nella Cisgiordania occupata.

La distruzione ha lasciato più di 70 palestinesi senza casa, inclusi 41 bambini – la più grande demolizione di questo tipo da molti anni.

Il membro del Congresso Ilhan Omar, una dei cofirmatari, ha definito la demolizione “un crimine grave” e ha affermato che gli Stati Uniti “non dovrebbero finanziare la pulizia etnica”.

La lettera chiede se siano stati utilizzati per la demolizione strumenti forniti dagli americani – il che Omar aveva precedentemente ammonito sarebbe stato illegale.

Chiede inoltre con forza che negli ultimi due mesi del mandato di Pompeo, “le violazioni dei diritti umani e le violazioni del diritto internazionale continuino ad essere respinte con la forza dal governo americano”.

È molto chiaro, tuttavia, che Pompeo è determinato a utilizzare il suo tempo restante per incoraggiare e premiare il maggior numero possibile di violazioni da parte di Israele.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Prevenire il terrorismo

Amira Hass

17 novembre 2020 – Haaretz

Non si tratta solo di Givat Hamatos [colonia israeliana nei pressi di Gerusalemme in cui il governo israeliano ha annunciato di voler costruire 1.200 nuove unità immobiliari, ndtr.]: Israele sta continuamente pianificando e costruendo infrastrutture e attività immobiliari su vasta scala a Gerusalemme est e in tutta la Cisgiordania, tutte intese a sabotare la possibilità di uno Stato palestinese. Ma per nostra gioia questa gara d’appalto per la costruzione di unità residenziali sulle riserve di terra di Beit Safafa e Betlemme sta facendo molto chiasso, perché è stata interpretata come una subdola manovra prima che il presidente eletto Joe Biden entri alla Casa Bianca.

Ieri diplomatici europei hanno visitato il luogo della colonia. Le condanne, o per essere più precisi le riserve riguardo alla gara d’appalto, verranno probabilmente presto rese pubbliche dai ministri degli Esteri dell’UE e da vari Stati europei. Il coordinatore speciale dell’ONU Nickolay Mladenov ha già manifestato la sua preoccupazione. sottolineando per la milionesima volta che la costruzione di colonie viola le leggi internazionali.

Non è stato solo il presidente USA Trump ad incoraggiare il progetto di furto di terra da parte di Israele. In due decenni di negoziati con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina le espressioni rituali di deplorazione e condanna da parte dell’Unione Europea e dei Paesi che ne fanno parte hanno insegnato a Israele che non ha niente da temere. Se questi Paesi, che appoggiano il percorso degli accordi di Oslo come nessun altro, non fanno passi concreti contro la criminalità seriale di Israele, perché esso dovrebbe preoccuparsene? Può continuare a derubare e calpestare, e se necessario a tirare fuori l’arma dell’“antisemitismo” e dell’“Olocausto” per contrastare qualunque iniziativa per porre fine all’orgia israeliana di spoliazione immobiliare.

Perciò, per favore, “Givat Hamatos” è un’opportunità perché questi Paesi trasformino questo rituale in azioni concrete, che possono e devono adottare. Innanzitutto, devono rendere pubbliche le seguenti precisazioni:

• Costruire insediamenti su un territorio occupato è vietato dal diritto internazionale.

• L’apartheid è un crimine per il quale i responsabili, gli esecutori e quanti vi partecipano consapevolmente devono essere puniti.

• Una dichiarazione di “terra statale” supportata da armi e ordini militari e il trasferimento di questa terra a un gruppo etnico a spese di un altro sono una forma di terrorismo.

• Costruire colonie sul territorio palestinese occupato deriva dalla visione del mondo e dalle prassi di un regime di apartheid che considera superiori gli ebrei, e di conseguenza potrebbe ancora una volta mettere in atto azioni di espulsione di massa di palestinesi.

In base a queste precisazioni, i Paesi che si oppongono al terrorismo di stato e all’apartheid renderanno pubblici i seguenti avvertimenti:

• A qualunque impresa partecipi alla gara di appalto di Givat Hamatos non verrà consentito di partecipare a progetti in cui siano coinvolte imprese europee e ai suoi proprietari e dirigenti non verrà consentito di entrare in Europa.

• Se proprietari e dirigenti sono cittadini europei, essi verranno perseguiti nei loro Paesi per complicità con il crimine di apartheid.

• Il divieto di ingresso e di svolgere attività economica e il perseguimento dei colpevoli riguarda anche i progettisti e gli architetti.

• Tutto ciò riguarda gli altri dirigenti dell’Autorità Israeliana per la Terra e gli acquirenti delle unità abitative.

• Proprietari e dirigenti delle imprese operanti in Europa che concludano affari con questi sub-contrattisti e architetti verranno perseguiti per aver favorito la perpetrazione di un reato.

• Come vengono confiscati i conti bancari di chi viene sospettato di essere coinvolto in attività terroristiche, così lo saranno i conti bancari di tutti i summenzionati.

• La vendita di abitazioni a palestinesi come “foglia di fico” non renderà legale il progetto, a meno che non vi vadano ad abitare anche i palestinesi residenti in Cisgiordania.

Questo sarà l’inizio. In seguito gli stessi ammonimenti si applicheranno ad altri progetti di costruzione meno pubblicizzati e alle colonie già esistenti. Se vi opponete all’apartheid e se vi rendete conto che i suoi progettisti e beneficiari vogliono e sono in grado di espellere altri palestinesi dalla loro patria, non definite ciò “delirante”.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele procede con una nuova colonia a Gerusalemme prima della presidenza Biden

15 novembre 2020 MiddleEastEye and agencies

Voci critiche segnalano che le autorità stanno deliberatamente pubblicando bandi per costruire a Givat Hamatos prima che Trump lasci la Casa Bianca

Israele è andato avanti con il progetto di costruzione di una nuova colonia nella Gerusalemme est occupata, ha affermato domenica un gruppo di monitoraggio, avvertendo che questi sforzi sono stati incrementati prima che il presidente Donald Trump lasci la Casa Bianca a gennaio. 

L’amministrazione Trump ha infranto una prassi decennale bipartisan non opponendosi all’attività coloniale israeliana a Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupate. Il presidente eletto Joe Biden ha affermato che la sua amministrazione ripristinerà la politica USA di opposizione alle colonie, che sono illegali in base al diritto internazionale e che molti governi considerano un ostacolo alla pace.

Nel dicembre 2017 l’amministrazione Trump ha rotto con la comunità internazionale ed ha riconosciuto l’intera città di Gerusalemme come capitale di Israele. Nel novembre 2019 ha affermato che non avrebbe più considerato le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata come una violazione del diritto internazionale, ancora una volta andando contro l’ampio consenso diplomatico. 

L’attuale Segretario di Stato Mike Pompeo visiterà nei prossimi giorni una colonia israeliana illegale nella Cisgiordania palestinese e sulle Alture del Golan siriane, compiendo la prima visita di un segretario di Stato USA nelle zone occupate palestinesi e siriane. In particolare si recherà a Psagot Winery, che a febbraio ha intitolato un vino in suo onore.

L’ultima iniziativa ha visto l’Autorità Israeliana per la Terra emettere bandi di costruzione a Givat Hamatos, un’area attualmente disabitata di Gerusalemme est, vicina al quartiere a maggioranza palestinese di Beit Safafa.

A febbraio il Primo Ministro israeliano di destra Benjamin Netanyahu ha annunciato l’approvazione di 3.000 abitazioni nell’area.

Ha detto che 2.000 sarebbero state destinate ad ebrei e 1.000 a residenti palestinesi di Beit Safafa.

La settimana scorsa l’Autorità (israeliana) per la Terra ha emesso bandi per la costruzione di oltre 1,200 unità per la maggior parte residenziali a Givat Hamatos.

Ir Amim, un’organizzazione israeliana della società civile che monitora le colonie a Gerusalemme e che domenica ha richiamato l’attenzione sui bandi ha avvertito che i prossimi due mesi che precedono il cambio a Washington DC “saranno un periodo critico”.

Pensiamo che Israele cercherà di sfruttare questo tempo per portare avanti dei passi che l’amministrazione entrante potrebbe ostacolare”, ha affermato in una dichiarazione, sottolineando che la scadenza del bando sarà il 18 gennaio 2021, due giorni prima dell’insediamento di Biden.

Ir Amim ha ribadito la preoccupazione che la costruzione di una colonia a Givat Hamatos sarebbe un colpo devastante ad una possibile risoluzione dell’occupazione israeliana delle terre palestinesi, in quanto isolerebbe Gerusalemme est dalla città cisgiordana di Betlemme, interrompendo la continuità territoriale di un futuro Stato palestinese con Gerusalemme est come capitale nel contesto di una soluzione di due Stati.

Se realizzata, Givat Hamatos diventerebbe la prima nuova colonia a Gerusalemme est in 20 anni”, ha detto l’organizzazione in una dichiarazione.

Nabil Abu Rudeina, un portavoce del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas, ha detto che i bandi per Givat Hamatos rappresentano un tentativo di Israele “di uccidere la soluzione di due Stati sostenuta a livello internazionale”.

I critici della soluzione dei due Stati sostengono che non sia più percorribile a causa della continua colonizzazione israeliana, che vede circa 400.000 coloni che vivono in Cisgiordania sotto la legge israeliana che utilizza sistemi educativi e di trasporto separati, in ciò che esperti giuridici sostengono configuri una politica di apartheid.

I bandi per Gerusalemme est fanno seguito all’approvazione, la settimana scorsa, di 96 nuove abitazioni per coloni a Gerusalemme est nel quartiere di Ramat Shlomo.

L’approvazione di costruzioni di colonie a Ramat Shlomo nel 2010 aveva provocato un grave contrasto tra Netanyahu e l’ex presidente USA Barack Obama e l’allora vicepresidente Biden.

Israele ha preso il controllo di Gerusalemme est nel corso della guerra dei sei giorni del 1967, prima di annetterla con una mossa non riconosciuta dalla maggior parte della comunità internazionale.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




In fretta e furia prima delle elezioni Trump approva finanziamenti per progetti scientifici nelle illegali colonie israeliane

Yumna Patel

28 ottobre 2020 – Mondoweiss

Ora per la prima volta i nuovi emendamenti consentiranno il fatto che il denaro dei contribuenti USA venga speso nelle colonie israeliane, illegali in base al diritto internazionale.

Con una mossa che legittima ulteriormente l’illegale attività di colonizzazione israeliana nei territori palestinesi occupati, gli USA e Israele hanno esteso una serie di accordi di cooperazione scientifica già esistenti per includervi ora le istituzioni israeliane nella Cisgiordania occupata e sulle Alture del Golan.

Il nuovo accordo, firmato mercoledì tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e l’ambasciatore USA in Israele David Friedman, modifica tre intese per la cooperazione scientifica già esistenti tra i due Paesi.

Secondo i trattati precedenti, che risalgono agli anni ’70, i progetti in collaborazione tra USA e Israele “non possono essere condotti in zone geografiche passate sotto amministrazione israeliana dopo il 5 giugno 1967 e non possono riguardare soggetti relativi principalmente a queste aree.”

Ora per la prima volta i nuovi emendamenti consentiranno che il denaro dei contribuenti USA venga speso nelle colonie israeliane, illegali in base al diritto internazionale.

In un comunicato l’ambasciata USA in Israele ha affermato che l’emendamento “rafforza ulteriormente lo speciale rapporto bilaterale” tra i due Paesi e che “queste restrizioni geografiche non corrispondono più alla politica USA.”

Lo scorso anno l’amministrazione USA ha interrotto decenni di politica statunitense e internazionale annunciando che gli Stati Uniti non considerano più illegali le colonie israeliane.

Mercoledì la cerimonia di ratifica si è svolta nella grande colonia di Ariel, che si trova al centro della Cisgiordania occupata e i cui confini municipali includono una serie di enclave di terreni di proprietari privati palestinesi espropriati dallo Stato di Israele nel 1978, quando è stata fondata la colonia.

Ariel è uno degli insediamenti più estesi della Cisgiordania, ospita circa 20.000 coloni israeliani e vanta un’università, un centro commerciale, una zona industriale, un ospedale e una facoltà di medicina.

L’università di Ariel, dove si è svolta la cerimonia di firma, è l’unica istituzione di questo tipo in Cisgiordania e, a differenza di altre università israeliane, è stata esclusa da finanziamenti non solo dagli USA, ma anche dall’UE e dalla German-Israeli Foundation for Scientific Research and Development [Fondazione Tedesco-Israeliana per la Ricerca e lo Sviluppo Scientifico, ente di coordinamento tra il ministero della Ricerca tedesco e quello israeliano, ndtr.].

L’università è stata oggetto di numerosi boicottaggi da parte di accademici internazionali ed israeliani per protestare contro la continua espansione coloniale e l’illegale occupazione israeliana della Cisgiordania.

Il primo ministro Netanyahu ha detto che l’evento di mercoledì è un messaggio “a quei boicottatori ostili” che “sbagliano e falliranno, perché siamo decisi a costruire le nostre vite e la nostra patria ancestrale e a non essere più cacciati da qui.”

Questa è un’importante vittoria su chiunque intenda delegittimare qualunque cosa sia israeliana al di là della frontiera del ’67,” ha detto Netanyahu, aggiungendo che gli accordi firmati all’università di Ariel sono di “grande rilevanza.”

Altri politici israeliani hanno salutato l’accordo come un ulteriore passo nella giusta direzione verso il piano israeliano di annessione in Cisgiordania, e il ministro israeliano dell’Educazione Superiore Zeev Elkin [del partito di destra Likud, ndtr.] ha affermato al giornalista di Axios [sito di notizie statunitense, ndtr.] Barak Ravid che la cerimonia di mercoledì è stata “un grande successo per la sovranità israeliana” sulla Cisgiordania e “un nuovo passo verso il riconoscimento internazionale dei nostri diritti” lì.

Dirigenti ed attivisti palestinesi hanno criticato l’iniziativa come un ulteriore tentativo dell’amministrazione USA di legittimare l’occupazione israeliana e aprire ancor di più la strada perché Israele annetta illegalmente altra terra palestinese.

In un comunicato Hanan Ashrawi, membro del Comitato Esecutivo dell’OLP, ha definito l’accordo un “atto palesemente illegale.”

Estendere il finanziamento USA nella Cisgiordania occupata, comprese le illegali colonie israeliane, è un chiaro riconoscimento dell’annessione del territorio palestinese da parte di Israele,” ha affermato, aggiungendo che “ciò promuove il coinvolgimento dell’amministrazione Trump nei crimini di guerra israeliani a livello di una partecipazione attiva e deliberata.”

Ashrawi ha criticato la tempistica dell’accordo, che secondo lei è stata “una folle corsa” dell’ultima ora per “fornire ad Israele risultati definitivi prima del gennaio 2021, compresi normalizzazione, vantaggi economici e appoggio all’annessione.”

La tempistica dell’emendamento, stilato solo una settimana prima delle elezioni USA, è stata criticata da molti come un tentativo di favorire il più possibile la politica di Trump e Netanyahu nella regione nel caso in cui Trump non venga rieletto il 3 novembre.

Le critiche si appuntano su resoconti secondo cui, mentre l’impegno a favore dell’ emendamento è stato guidato da Friedman [l’ambasciatore USA in Israele, ndtr.], esso sarebbe stato fortemente promosso dal miliardario americano Sheldon Adelson, che è uno dei principali donatori sia dell’università di Ariel che del presidente Donald Trump.

Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] ha citato fonti secondo cui Adelson “ha fatto pressioni sull’amministrazione americana perché la cerimonia si tenesse prima delle elezioni USA di martedì.”

Oltre alla tempistica, l’emendamento è significativo non solo perché riconosce fondamentalmente l’annessione israeliana, ma per il fatto che, poiché è stato stilato come un accordo diplomatico, non può essere annullato unilateralmente dalla prossima amministrazione americana, se Trump dovesse perdere le imminenti elezioni.

I palestinesi hanno anche manifestato preoccupazione che l’accordo possa determinare una pressione sull’UE, fonte della maggior parte dei finanziamenti esteri alle istituzioni scientifiche israeliane, perché segua l’esempio.

Questo deve essere un campanello d’allarme per l’Unione Europea e per i singoli Stati europei. Invece di prendere in considerazione un rinnovo della collaborazione tra UE ed Israele come premio per una palese menzogna, l’Unione Europea deve assumere un ruolo guida e chiamare Israele a rispondere dei suoi crimini,” ha affermato Hanan Ashawi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il turismo al servizio di occupazione ed annessione

Halah Ahmad 

13 ottobre 2020 – Al-Shabaka

Sintesi

Per l’impresa sionista il turismo è stato fondamentale fin da quando i primi sionisti si sono stabiliti in Palestina. L’analista politica di Al-Shabaka Halah Ahmad analizza il ruolo del turismo, soprattutto di quello religioso, nella diffusione della narrazione sionista e dello Stato di Israele, concentrandosi sull’impatto dannoso del turismo verso gli insediamenti israeliani nella terra palestinese illegalmente occupata. Fornisce indicazioni per un turismo etico che promuova il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione.

Il turismo, e più specificamente quello religioso, gioca un ruolo diretto nella legittimazione ed espansione del furto di terre palestinesi da parte di Israele. Mentre i tentativi di annessione sotto il governo di estrema destra di Netanyahu, appoggiato dalla Casa Bianca di Trump, viola palesemente la governance globale dei diritti umani e le leggi internazionali, il turismo israeliano nei Territori Palestinesi Occupati (TPO) legittima in modo sostanziale questa espansione, rendendo nel contempo complici i turisti e gli operatori turistici. Infatti varie organizzazioni hanno criticato il turismo nelle colonie israeliane illegali, così come il ruolo di varie attività economiche nell’espansione delle colonie.  

Questo articolo affronta il ruolo storico e persistente dell’industria turistica nell’originario movimento sionista e nel progetto colonialista dell’odierno Stato di Israele, in particolare con la diffusione di idee bibliche dell’eterna proprietà ebraica sulla Palestina e di narrazioni razziste della superiorità degli ebrei israeliani sugli arabi in termini di governo e conoscenza. La glorificazione di Israele nella pubblicità turistica israeliana come Stato straordinariamente moderno in continuità provvidenziale con un passato biblico mette in ombra la sua continua espulsione, oppressione e sfruttamento dei palestinesi.

L’articolo si basa sulla letteratura esistente riguardo al problematico turismo religioso in Israele/Palestina e propone uno studio di caso per illustrare gli aspetti nefasti di questa industria. L’articolo fornisce anche uno sguardo sul ruolo del turismo nella negazione del diritto dei palestinesi a sviluppare un’industria turistica a vantaggio della propria economia, mentre Israele pregiudica l’accesso dei palestinesi ai loro siti di importanza archeologica, religiosa e naturalistica. Infine richiama l’attenzione su iniziative concrete intese a suscitare consapevolezza sulla dannosa industria turistica israeliana e offre suggerimenti per consentire ai turisti, ai pellegrini e alla società civile internazionale di sostenere l’autodeterminazione dei palestinesi attraverso un turismo etico.

Il turismo, chiave del colonialismo di insediamento sionista

Da quando i suoi fondatori misero gli occhi sulla Palestina alla fine del XIX° secolo, il progetto colonialista sionista ha affermato di offrire un governo e un’intelligenza superiori colonizzando la terra (1). In effetti nel 1944 David Ben-Gurion, dirigente del movimento sionista e primo capo del governo di Israele, pronunciò il famoso discorso “Gli imperativi della rivoluzione ebraica”, in cui suggerì che i lavoratori ebrei sarebbero stati i maestri che avrebbero portato “conoscenze culturali, scientifiche e tecnologiche moderne” per fare “fiorire il deserto”. Dall’inizio del XX secolo l’iconografia sionista riflette questi concetti di sviluppo ebraico e “lavoro ebraico” superiori. Moshe Shertok, il secondo primo ministro israeliano, ripeté questa idea esprimendo opinioni negative sugli arabi: “Non siamo venuti in una terra vuota per ereditarla, ma per conquistare un Paese dal popolo che vi abita, che lo governa in virtù del suo linguaggio e della sua cultura primitiva” (2) .

L’iniziale attività promozionale sionista prodotta dall’Associazione per lo Sviluppo Turistico della Palestina utilizzò vivaci immagini e simbolismo religioso per incoraggiare ebrei europei a immigrare in Palestina, e il famoso manifesto “Visita la Palestina”, disegnato da Franz Krausz nel 1936, ne è un chiaro esempio. L’obiettivo del poster commissionato dalla Associazione per lo Sviluppo Turistico della Palestina non era di incoraggiare visite temporanee, ma, di fatto, l’immigrazione permanente.

Durante le prime ondate dell’insediamento sionista in Palestina, le organizzazioni sioniste esaltavano anche gli investimenti in hotel, e tra il 1917 e il 1948 ne apparvero molte decine. Cosa importante, l’Associazione per lo Sviluppo Turistico della Palestina utilizzò anche mappe della Palestina per mostrare luoghi biblici ebraici sulla topografia esistente, costruendo in ultima analisi un legame visuale sia per immaginare una continuità ebraica in Palestina dall’antichità al presente, sia per pianificare un esteso insediamento coloniale che avrebbe oscurato qualunque concetto di appartenenza ai palestinesi.

Nel continuo tentativo di legittimare le loro rivendicazioni sulla terra, i sionisti hanno utilizzato l’archeologia. Come ha sostenuto l’antropologa Nadia Abu El-Haj nel suo fondamentale Facts on the Ground, le organizzazioni sioniste e la società israeliana degli anni ’50 e ’60 esaltarono l’archeologia come “hobby nazionale”, fondamentale per la “formazione e l’adozione di un immaginario coloniale-nazionale e per dare consistenza alle proprie rivendicazioni territoriali” (3).

In effetti Edward Said ha evidenziato come, attraverso un turismo fondato su un’archeologia selettiva e una descrizione orientalista degli arabi e dei palestinesi, i sionisti eliminarono il ricordo storico della Palestina e dei palestinesi (4). In altre parole, l’archeologia era uno strumento di legittimazione legato fondamentalmente allo svago turistico e collettivo, gettando le basi di quella che è emersa nell’attualità come una delle destinazioni turistiche più popolari.

Fin dalla sua creazione nel 1948 lo Stato di Israele ha sostenuto il progetto sionista, con la narrazione della superiorità infrastrutturale, intellettuale e produttiva sulla popolazione palestinese che continua a opprimere attraverso l’occupazione militare e le continue espulsioni. Oltretutto oggi il ministero del Turismo israeliano ribadisce i concetti di progresso e superiorità intellettuale israeliana insieme a labili e discutibili rivendicazioni di racconti biblici che forniscono un falso senso di continuità con il passato.

Il continuo utilizzo da parte di Israele delle narrazioni bibliche per escludere i palestinesi dalle guide ufficiali e dai viaggi turistici è particolarmente evidente a Gerusalemme, l’epicentro del turismo religioso. Le guide turistiche israeliane su Gerusalemme si rivolgono in particolare ai visitatori cristiani ed ebrei, con descrizioni di itinerari e luoghi che spesso mettono in evidenza solo storie giudaico-cristiane. Nel 2011 il ministero del Turismo ha descritto come segue il quartiere musulmano di Gerusalemme: “Il quartiere musulmano presenta chiese e moschee, e ci sono varie case e yeshiva [scuole religiose, ndtr.] ebraiche tuttora rimaste,” omettendo il fatto che le case ebraiche in quel quartiere sono state acquistate di recente, spesso da coloni sionisti estremisti appoggiati dall’esercito israeliano (5).

Più di recente, quando il governo israeliano ha promesso l’annessione della Valle del Giordano e di parti della Cisgiordania, il ministero del Turismo israeliano ha esaltato il turismo nelle colonie della Cisgiordania come area per investimenti strategici. Di sicuro ciò comprende il turismo nelle colonie controllate da Israele, definite illegali dalle leggi internazionali, ed esclude le città e cittadine palestinesi, in molte delle quali lo Stato israeliano vieta l’ingresso ai suoi cittadini.

Oltre a sviluppare siti di turismo archeologico nelle terre palestinesi occupate, le campagne turistiche di Israele in Cisgiordania circostanziano il furto illegale di terra palestinese. Sia il turismo storico che quello attuale, che partecipa all’impresa di colonizzazione illegale, accelerano l’annessione israeliana compresa nel più complessivo progetto coloniale sionista e sono complici della negazione ai palestinesi del diritto alla loro terra e all’autodeterminazione.

L’impatto dannoso del turismo nelle colonie

Le illegali colonie israeliane nei TPO costituiscono una minaccia per l’autodeterminazione palestinese. Negano anche l’accesso dei palestinesi alle risorse naturali e culturali e il loro uso. Infatti lo sfruttamento di queste risorse per il turismo da parte dei coloni ostacola lo sviluppo economico dei palestinesi, creando dipendenza dall’aiuto estero e consentendo all’impresa colonialista israeliana di prosperare. Cioè, il successo e la sostenibilità della colonizzazione israeliana attraverso il turismo nelle colonie dipendono dalla più complessiva oppressione economica e militare inflitta ai palestinesi attraverso le colonie.

Per illustrare le dimensioni dell’impresa coloniale di Israele nei TPO è importante contestualizzare il differente accesso alla terra e alle risorse tra i palestinesi e lo Stato israeliano. In particolare, oltre il 60% della Cisgiordania costituisce l’Area C, sottoposta al totale controllo amministrativo e militare israeliano. Un rapporto del 2017 dell’UNOCHA [Agenzia delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari, ndtr.] evidenziava che oltre il 10% della Cisgiordania si trova all’interno dei confini municipali delle colonie, costituendo ulteriori zone cuscinetto attorno agli insediamenti a cui i palestinesi non possono accedere. Mentre i confini fisici delle colonie costituiscono oltre il 5% della Cisgiordania, un rapporto del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU del 2013 ha evidenziato che oltre il 43% della Cisgiordania è sotto la giurisdizione dei consigli dei coloni israeliani. In più il rapporto ha mostrato che questi consigli controllano l’86% della Valle del Giordano e del Mar Morto.

Al-Haq, organizzazione non governativa indipendente palestinese per i diritti umani, ha pubblicato molti rapporti sullo sfruttamento economico della terra e delle risorse palestinesi in Cisgiordania per il turismo nelle colonie. Nel suo rapporto dell’aprile 2020 accusa le aziende turistiche e i loro Paesi d’origine di essere convolti nell’impresa di colonizzazione in Cisgiordania, tra gli altri territori occupati. In seguito a questi rapporti, aziende turistiche come Airbnb, che operano nelle colonie israeliane, sono state oggetto di campagne di base per il disinvestimento e perché rispondano delle violazioni dei diritti umani. Inoltre Amnesty International ha criticato parecchie compagnie perché traggono profitto operando nelle colonie israeliane, con nomi particolarmente noti nell’industria turistica come TripAdvisor, Expedia, Booking.com e Airbnb. 

Nel dicembre 2017 il Dipartimento degli Affari Negoziali dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha pubblicato un rapporto che documenta l’impatto negativo dello sviluppo turistico nelle colonie sul settore turistico palestinese. Il rapporto evidenzia che, secondo il rapporto dell’OCHA del 2017, se l’Area C fosse trasferita sotto il controllo palestinese, come previsto dagli Accordi di Oslo, l’economia palestinese crescerebbe in modo notevolissimo, pari a un aumento del 35% del PIL. Tuttavia nel 2016, quando Israele ha approvato 20 milioni di dollari di finanziamento per le colonie, il ministero del Turismo israeliano e il primo ministro Netanyahu hanno entrambi sottolineato che i principali obiettivi di questi finanziamenti sono stati i luoghi turistici e la costruzione di hotel nelle colonie della Cisgiordania. Poi, nel gennaio 2020, il ministro della Difesa Naftali Bennett [del partito di estrema destra dei coloni Yamina, ndtr.] ha approvato la costruzione di parchi nazionali e riserve naturali in Cisgiordania come parte di una spesa di oltre 110 milioni di dollari nel primo trimestre dell’anno, la più alta in un decennio, nelle colonie della Cisgiordania.

Israele nega anche attivamente ai palestinesi lo sviluppo economico del proprio settore turistico, limitando il movimento dei turisti, dei lavoratori palestinesi del settore e del trasporto turistico. Nel rapporto del dicembre 2017 l’OLP ha documentato le differenti prassi per la concessione di licenze del ministero del Turismo israeliano, scoprendo che le guide turistiche israeliane contano oltre 8.000 permessi di accesso approvati a siti in Israele e in Cisgiordania, mentre i permessi approvati ai palestinesi rappresentano lo 0,5%. L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha anche chiesto permessi per sviluppare oltre 10 siti turistici in Cisgiordania. Come nel caso di tentativi simili a Gerusalemme est, Israele li ha sistematicamente negati.

Tali ostacoli allo sviluppo dei palestinesi rappresentano un’attiva continuazione dell’originaria narrazione sionista della maggiore capacità di sfruttare la terra con una profezia che si auto-avvera, utilizzata allora per rappresentare un destino decretato dalla Bibbia. Infatti, oltre ad essere luoghi per i profitti delle imprese, le colonie israeliane sono diventate uno scenario per rafforzare “il rapporto del popolo ebraico con la terra di Israele.”

Turismo religioso a sostegno del colonialismo di insediamento israeliano

Il turismo religioso è fondamentale nella narrazione sionista dei diritti in base alla Bibbia e della continuità dell’insediamento ebraico in Palestina. Le città palestinesi di Betlemme, Gerico, Nablus, Ramallah, al-Khalil (Hebron) e villaggi come Sabastia e Burqin sono tra i molteplici luoghi di grande significato religioso nella tradizione abramitica. Molti di questi siti sono centri del turismo cristiano, che continua a giocare un ruolo particolarmente importante nella diffusione della narrazione coloniale sionista, soprattutto tra i turisti degli Stati Uniti. Mentre questi luoghi si trovano nei TPO e sarebbero fondamentali per attirare pellegrini e promuovere il settore turistico palestinese, Israele li rivendica come luoghi storici propri.

Negli itinerari di programmi e viaggi religiosi sionisti compaiono in modo considerevole parecchi luoghi problematici. Herodion, per esempio, un sito archeologico e parco nazionale in Cisgiordania, vede scavi devastanti e la rimozione di reperti nonostante l’opposizione dell’ANP in base alle leggi. Nel contempo questi scavi hanno anche lasciato i villaggi vicini senza acqua per oltre tre settimane. Oltretutto, benché sia una colonia illegale costruita su terre di proprietà del villaggio palestinese di Bi’lin, il governo israeliano ha riconosciuto Modi’in Illit come città israeliana, in flagrante violazione delle leggi internazionali e persino di quelle israeliane. Un altro sito è l’acquedotto di Biyar, rovine romane di 2000 anni fa che, benché vengano pubblicizzate come un sito del patrimonio culturale israeliano, si trovano sulla terra palestinese occupata, rafforzando la narrazione dell’antica storia ebraica per legittimare e continuare l’occupazione della terra. Nel solo 2014 le visite turistiche all’acquedotto hanno portato un profitto di 4,5 milioni di dollari.

Il Jerusalem Walls National Park [Parco Nazionale dei Muri di Gerusalemme] è un altro esempio, costruito nella Gerusalemme est occupata e utilizzato in tempi diversi per giustificare la demolizione di case palestinesi per fare spazio al “cammino della Bibbia”. Un altro luogo è Tel Shiloh, un sito archeologico su territorio palestinese occupato che attrae annualmente decine di migliaia di turisti cristiani e dove è stato costituito un parco tematico biblico con finanziamenti della famiglia statunitense Falic, che appoggia gruppi di coloni di destra e lo sviluppo delle colonie. L’appropriazione da parte di Israele di questi siti per il turismo religioso, insieme a molti altri nella Gerusalemme est occupata come la Città di David (Silwan), il Giardino di l’Orto del Getsemani (Monte degli Ulivi) e la Via Dolorosa (Città Vecchia), rafforza la narrazione sionista di un’eterna appartenenza ebraica per negare la questione dell’espulsione dei palestinesi.

In questo senso per decenni i principali finanziatori e sostenitori sionisti dello Stato di Israele hanno garantito il turismo religioso verso Israele all’insegna dei rapporti interreligiosi, dell’appoggio a Israele o del pellegrinaggio. Figure come Naty Saidoff, Sheldon Adelson, Steve Green, Ira Rennert, Roger Hertog, Simon Falic e la famiglia Falic, così come l’attuale ambasciatore USA in Israele, David Friedman, sono tra i grandi donatori e finanziatori che appoggiano sia lo sviluppo di colonie israeliane, compresi esplicitamente sia lo sviluppo turistico e le aziende vitivinicole che il sostegno e l’educazione sionisti filoisraeliani negli USA. Significativamente parecchi di questi donatori statunitensi sono anche noti finanziatori di gruppi di estrema destra ed islamofobi.

I turisti religiosi continuano ad essere coinvolti in queste dinamiche, e dunque diventano parte della diffusione della strategia sionista di colonizzazione di insediamento, appoggiando materialmente il furto e l’occupazione delle terre palestinesi e la continua violazione dei diritti umani dei palestinesi. Il caso di studio che segue illustra il danno provocato ai palestinesi dall’industria del turismo dei cristiano-sionisti.

Passages: uno caso di studio del turismo cristiano-sionista

Passages [Passaggi] è un’organizzazione statunitense dli turismo religioso che considera visitare Israele un “rito di passaggio per ogni cristiano”, anche per “rendere la storia di Israele parte della propria storia.” Il programma è lautamente sovvenzionato da finanziatori cristiani ed ebrei conservatori e negli USA lo si può trovare presso 157 tra università e organizzazioni. Le università sono per lo più cristiane, ma includono anche alcune grandi università pubbliche come, tra le altre, la Texas A&M, l’università della Florida e quella del Minnesota. Passages vanta anche 7.000 ex-studenti in tutti gli Stati Uniti. Non sorprende che abbia espliciti legami con il governo israeliano e sarebbe frutto dell’ingegno di Ron Dermer, ambasciatore di Israele negli USA. Nel 2015 Dermer ha ospitato all’ambasciata israeliana a Washington il lancio del programma. All’avvenimento hanno partecipato anche l’ambasciatore USA in Israele, David Friedman, e l’ex-ambasciatore israeliano negli USA, Michael Oren.

Una ricerca su Passages di Friends of SabeelNorth America [Amici di Sabeel, ong cristiana per la pace in Terra Santa, ndtr.] (FOSNA), insieme ad alcune organizzazioni di solidarietà con la Palestina nei campus, ha rivelato i problematici itinerari percorsi dai tour, compresi i luoghi degli itinerari turistici, così come la narrazione cristiano-sionista che vi viene proposta (6). In questi viaggi Passages glorifica Israele come Stato moderno che manifesta una continuità provvidenziale con un passato biblico, rendendo strategicamente irrilevante l’espulsione e l’oppressione dei palestinesi. Questa narrazione sionista è emblematica dello sfruttamento del turismo religioso da parte di Israele per nobilitare e favorire il suo progetto colonialista, presentando falsamente la situazione come una disputa territoriale (tra niente di meno che esseri superiori e selvaggi) invece che un’occupazione.

Oltre a problematiche visite alle Alture del Golan occupate e ad ex-avamposti delle Israeli Defense Force [Forze di Difesa Israeliane] (IDF), FOSNA riporta che il viaggio intende evidenziare la persecuzione dei cristiani in Medio Oriente e la presunta drammatica vulnerabilità di Israele, inquadrando vari giorni del viaggio nel contesto dei rischi che Israele corre a causa dei suoi vicini, compreso un viaggio a Sderot, la città israeliana di fronte a Gaza. Sderot non è una città di importanza religiosa per i viaggiatori cristiani ed è nota per le opinioni di estrema destra dei suoi abitanti. Infatti Sderot è stata il luogo del famoso incidente degli abitanti seduti sulle sdraio a guardare i bombardamenti israeliani di Gaza durante l’offensiva del 2014, che uccise oltre 2.000 palestinesi e 73 israeliani.

Passages afferma esplicitamente la sua intenzione di sviluppare sentimenti filo-israeliani tra i leader cristiani negli USA. È modellato su Birthright Israel, o Taglit, che offre viaggi totalmente pagati e molto pubblicizzati a giovani ebrei americani perché visitino Israele e che in anni recenti è stato avversato da campagne nazionali da parte di organizzazioni ebraiche progressiste USA per la sua rappresentazione ingannevole di Israele. Tuttavia i viaggi di Passages sono oggetto di un’attenzione molto meno critica e un impegno molto minore per documentare e contrastare i loro discutibili programmi.

Cosa importante, sebbene i viaggi di Passages si concentrino sull’esperienza religiosa cristiana in Terra Santa, essi intendono esplicitamente collegare il fatto di essere in Israele con l’appoggio allo Stato di Israele. Infatti il programma di Passages mette in risalto dialoghi con soldati israeliani, una visita alla Knesset [il parlamento, ndtr.] israeliana ed esperienze culturali per comprendere la “cultura tecnologicamente innovativa” e “il dinamismo economico” di Israele. Nel contempo gli itinerari del viaggio ignorano, o affrontano in modo superficiale, le vicende dei musulmani e dei palestinesi nella regione e non mettono in discussione l’illegale occupazione di molti dei luoghi religiosi visitati in Cisgiordania. Di fatto una particolare narrazione della persecuzione di cristiani ed ebrei e di Israele come rifugio religioso si prestano ad un progetto di estraniamento islamofobico comune a molti mezzi di comunicazione americani.

Le testimonianze di ex-partecipanti ai viaggi di Passages riflettono la prospettiva adottata dall’agenzia turistica e non sorprende che sul suo sito in rete Passages sottolinei queste testimonianze. Per esempio un partecipante al viaggio scrive: “Non sono la stessa persona che ero quando sono partito per Israele. Ho una motivazione nuova per stare dalla parte di Israele, e sento che i piani di Dio per la mia vita dopo l’università sono di sostenere la Terra Santa nel mio lavoro futuro. Grazie a Passages, il mio cuore è pieno della passione di sentirmi unito a Israele.” L’aspirazione politica a “stare dalla parte di Israele” implica un’avversione nei confronti di ogni critica allo Stato di Israele e, in quanto programma che si basa sulla fede, il viaggio riesce alla fine ad identificare l’impegno biblico o spirituale per la Terra Santa con il progetto coloniale sionista laico.

Un partecipante ha sottolineato che il suo viaggio in Israele è stato particolarmente speciale non solo per le visite ai siti biblici, ma anche per l’opportunità di saperne di più su Israele come “Stato moderno”. Una descrizione del genere espone il progetto sionista: promuovere l’immagine di uno Stato eccezionale, tecnologicamente avanzato, e di un popolo a cui vengono sovrapposte le immagini orientaliste degli arabi come sottosviluppati. Un’altra ha scritto che il suo viaggio “ha messo Israele ed il popolo ebraico al centro del mio cuore quando rifletto sulla mia fede cristiana (…). Mi trovo a parlare di Israele a chiunque sia disposto ad ascoltarmi.” Le dichiarazioni di alcuni dei partecipanti indicano un sentimento di autentico impegno interconfessionale nel “conflitto”, sottolineando costantemente anche l’ammirazione per il moderno Stato di Israele.

Ciò che molte testimonianze hanno in comune è la sconcertante riproposizione della propaganda sionista riguardo a un progresso superiore al resto del Medio Oriente, un discorso sulla divina provvidenza incarnata dallo Stato ebraico e una connessione esplicita tra la storia antica e biblica e il moderno Stato di Israele, tutto ciò con poche, o senza, discussioni sui duemila anni che ci sono in mezzo, dove figurano ampiamente la storia islamica così come l’espulsione coloniale sionista dei palestinesi. Il quadro continua a mettere in ombra, e di fatto a giustificare, l’oppressione dei palestinesi da parte di Israele.

Passages esemplifica la più complessiva infrastruttura del turismo religioso al servizio del discorso coloniale sionista e il progetto israeliano di costruzione dello Stato. Ciò è particolarmente evidente nel contesto del tentativo di una vasta annessione da parte di Netanyahu, che ha coltivato forti rapporti politici con gli evangelici statunitensi, l’80% dei quali si identifica come cristiano-sionista. Passages fa parte di parecchi programmi analoghi che intendono promuovere il dialogo interreligioso mobilitando attivamente ed esplicitamente l’appoggio al progetto colonialista, sia storico che in corso, da parte di Israele in Palestina. Non solo questi viaggi lavorano per ridurre al silenzio e inficiare le storie e le narrazioni palestinesi, ma sostengono anche materialmente un settore turistico nelle terre palestinesi occupate illegalmente, cosa che mina gli stessi tentativi dei palestinesi per una sostenibilità economica duratura.

Alternative e suggerimenti

Nel 2019 la Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (PACBI) ha pubblicato l’appello delle organizzazioni della società civile palestinese per un turismo etico. La dichiarazione chiede ai turisti di “non nuocere” e di evitare i luoghi storici e religiosi nei TPO controllati dalle autorità israeliane o promossi come siti israeliani. Allo stesso modo le organizzazioni cristiane palestinesi hanno prodotto una guida turistica che chiede ai visitatori cristiani di sostenere le agenzie di viaggio palestinesi come Walk Palestine, viaggi organizzati dal Siraj Center for Holy Land Studies [Centro Saraj per gli Studi sulla Terra Santa] a Beit Sahur, e di evitare i viaggi organizzati dagli israeliani o i siti sfruttati da Israele nei TPO.

I gruppi americani come Eyewitness Palestine [Testimone oculare in Palestina] forniscono anche delle opzioni alternative ai pellegrini e ad altri turisti per visitare la Palestina evitando di essere complici dell’oppressione e dell’occupazione israeliane. Inoltre un numero crescente di iniziative “Palestine Trek” [Escursione in Palestina] nei campus universitari, come quelli di Harvard, Cambridge e Berkeley, offrono opportunità per un turismo etico in Palestina che possa evitare le rappresentazioni intese a “rifarsi un’immagine con la fede” da parte di Israele e di contribuire materialmente all’industria turistica israeliana. Insieme ad altre, queste alternative rafforzano i diritti umani e la dignità palestinesi e fanno da modello affinché la società civile sostenga delle alternative.

Altri suggerimenti includono:

  • Le organizzazioni della società civile, e in particolare le organizzazioni religiose negli Stati Uniti, dovrebbero valutare in modo critico il ruolo del turismo a favore di Israele nella legittimazione dell’annessione illegale e delle violazioni dei diritti umani dei palestinesi.

  • Le organizzazioni di sostegno alla Palestina con sede nei campus degli Stati Uniti possono giocare un ruolo importantissimo, opponendosi ai viaggi degli studenti nei TPO o negli altri territori occupati. I viaggi di Passages possono servire da obiettivo principale delle campagne per bloccare la complicità con le violazioni israeliane dei diritti umani, nel quadro di una campagna più ampia per porre fine all’occupazione israeliana condizionando al rispetto del diritto internazionale l’aiuto militare americano a Israele.

  • Le autorità di controllo e i responsabili politici devono riconoscere la necessità di porre fine alle attività economiche con soggetti israeliani dall’altra parte della Linea Verde [cioè nei territori occupati, ndtr.]. Le imprese che operano nei TPO dovrebbero quanto meno essere obbligate ad adottare misure di controllo con effetti di interdizione per garantire che non contribuiscano a progetti colonialisti israeliani illegali, né ne traggano benefici.

Note:

1. Rashid Khalidi, The Hundred Year’s War on Palestine: A History of Settler Colonialism and Resistance, 1917-2017 [La Guerra dei Cent’Anni contro la Palestina: una storia di colonialismo di insediamento e di resistenza] (New York: Metropolitan Books, 2020), p. 7.

2. Benny Morris, Righteous Victims: A History of the Zionist-Arab Conflict,1881-2001 (New York: Vintage Books, 2001), 91 [Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Rizzoli, Milano, 2001], p. 91.

3. Nadia Abu El-Haj, Facts on the Ground: Archaeological Practice and Territorial Self-Fashioning in Israeli Society [Fatti sul terreno: pratiche archeologiche e auto-produzione del territorio nella società israeliana] (Chicago: University of Chicago Press, 2001), p. 2.

4. Edward Said, The Question of Palestine [La questione palestinese, Gamberetti Editrice, Roma, 1995] (New York: Vintage Books, 1992), p. 158.

5. Yara Hawari, “The Old City of Jerusalem; Whose Heritage? Tourism, Narratives and Orientalism” [La Città Vecchia di Gerusalemme: quale eredità? Turismo, Narrazioni e Orientalismo], p. 22

6. FOSNA e qualche altra associazione universitaria anonima di solidarietà è riuscita a partecipare a un viaggio di Passages e l’ha condiviso con l’autrice per questo articolo. L’itinerario non è stato pubblicato, ma le informazioni in questa sezione riguardante i viaggi di Passages vengono direttamente dal programma del tour.

Halah Ahmad

Halah Ahmad, analista politica di Al-Shabaka, ha conseguito il master in Politiche Pubbliche all’Università di Cambridge come studentessa del programma Lionel de Jersey Harvard presso l’Emmmanuel College. Ha fatto ricerche in politica strategica per agenzie governative e Ong in Grecia, Albania, a Berlino, in Cisgiordania, a San Francisco, a Chicago e a Boston. Attualmente dirige lavori su politica e relazioni pubbliche presso il Jain Family Institute, un istituto per le ricerche in scienze sociali applicate con sede a New York. Le sue ricerche riguardano vari argomenti, dallo sviluppo equo e il benessere sociale all’urbanistica, al turismo, all’espulsione, alle questioni abitative e alla giustizia economica. Halah si è laureata con lode in religioni comparate e sociologia ad Harvard.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’inviato dell’ONU non ha niente da dire mentre Israele respinge i suoi colleghi

Maureen Clare Murphy

16 ottobre 2020 – The Electronic Intifada

Giovedì Middle East Eye ha riferito che Israele, con una nuova aggressione contro ogni forma di controllo, ha sospeso la concessione dei visti ai dipendenti dell’ OHCHR, Agenzia per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.

Israele a febbraio ha annunciato l’interruzione dei rapporti con l’ONU dopo che questa ha creato una lista di aziende coinvolte nelle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est.

La pubblicazione della lista è stata rinviata per anni, creando il sospetto che l’ONU stesse cedendo alla pressione politica affinché cancellasse l’informazione.

Ora che la notizia è stata resa pubblica, Israele sembra voler dar seguito alla sua promessa di punire l’agenzia ONU.

Secondo Middle East Eye “a partire da giugno nessuna delle richieste di nuovi visti ha ricevuto risposta, e i passaporti inviati per il rinnovo [del visto] sono tornati indietro vuoti”.

Nove dei 12 dipendenti stranieri dell’organizzazione hanno ora lasciato Israele e i territori palestinesi per timore di trovarsi là privi di documenti”, ha aggiunto Middle East Eye. “Tra loro vi è il direttore [della missione ONU] nel Paese, James Heenan.”

Divieto di ingresso

Da lungo tempo Israele, che controlla i movimenti verso e dalla Cisgiordania e Gaza, ha espulso e negato l’ingresso a cittadini stranieri legati ad associazioni per i diritti umani o di solidarietà con i palestinesi.

Da molto tempo ha negato l’ingresso a Michael Lynk, incaricato dal Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU di monitorare la situazione dei diritti umani in Cisgiordania e a Gaza.

Tuttavia altri responsabili dell’ONU, come Nickolay Mladenov, inviato di pace per il Medio Oriente del Segretario Generale dell’ONU, continuano a godere dei favori di Israele e dei suoi sostenitori – anche quando attaccano le agenzie per i diritti umani dell’ONU e le loro indagini.

Il contrastante trattamento di questi due rappresentanti dell’ONU è in linea con i loro sforzi – o con l’assenza di essi – di rendere Israele responsabile per le sue violazioni dei diritti dei palestinesi. Rispecchia anche le loro divergenti vedute riguardo ai diritti dei palestinesi come qualcosa da proteggere o come moneta di scambio da negoziare in colloqui con Israele.

Lynk ha approvato la pubblicazione della lista delle attività economiche con le colonie, dicendo che “la continua violazione da parte di una potenza occupante non rimarrà senza risposta.”

Ha aggiunto che, in assenza delle colonie, sostenute dall’attività economica di imprese israeliane e straniere, “l’occupazione israeliana che dura da cinquant’anni perderebbe la sua ragion d’essere coloniale.”

Mladenov invia regolari rapporti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU sull’applicazione (o violazione) della Risoluzione 2334, che chiede a Israele di cessare la costruzione di colonie in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est.

Nonostante la rilevanza di ciò per il suo incarico, Mladenov è rimasto vistosamente in silenzio riguardo alla lista delle attività economiche con le colonie – sia prima che dopo la sua pubblicazione. Né ha aperto bocca contro il divieto d’ingresso israeliano nei confronti dei suoi colleghi dell’ONU, come Lynk.

Le richieste di intervento di Mladenov si limitano ad invitare a non specificati passi “verso una soluzione negoziata di due Stati.”

In evidente contrasto, Lynk ha accolto calorosamente la conclusione della procuratrice capo della Corte Penale Internazionale secondo cui vi è un ragionevole fondamento per indagare sui crimini di guerra (israeliani) in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Non così Mladenov.

Lynk ha evidenziato l’uso da parte di Israele di punizioni collettive per sottomettere i palestinesi che vivono sotto il suo governo militare. Ha invitato gli Stati terzi a prendere contromisure, incluse sanzioni “necessarie ad assicurare il rispetto da parte di Israele del suo obbligo di porre fine all’occupazione, conformemente al diritto internazionale.”

Invece Mladenov chiede che venga ripristinato “il dialogo tra tutti i decisori, senza precondizioni.”

Tuttavia il dialogo senza attribuzione di responsabilità non farà che consentire ad Israele di guadagnare altro tempo per colonizzare rapidamente la terra palestinese e reprimere violentemente la resistenza palestinese – come è stato negli ultimi 25 anni, segnati dal paradigma del processo di pace di Oslo.

Spazi ridotti

Nel frattempo le associazioni palestinesi impegnate nella responsabilizzazione [di Israele] stanno lavorando in un ambito sempre più ristretto, in quanto Israele cerca di limitare qualunque accesso alla giustizia.

I deputati del partito Likud del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu hanno proposto di ampliare la definizione statale di agenti stranieri.

Come sottolinea il Consiglio palestinese per i Diritti Umani, la legge israeliana “impone una condanna a 15 anni di carcere nei confronti di chiunque abbia coscientemente contattato un agente straniero senza fornire spiegazioni di ciò”.

Attualmente la legge definisce agente straniero chi agisce “per conto di uno Stato straniero o di un’organizzazione terroristica” in modo che “potrebbe mettere a rischio la sicurezza di Israele”.

Un emendamento proposto a questa legge sostituirebbe “Stato straniero” con “entità politica straniera”. I parlamentari promotori dell’emendamento citano l’Autorità Nazionale Palestinese e l’Unione Europea – che non sono Stati – come la ragione della necessità di modificare il linguaggio.

Il Consiglio palestinese per i Diritti Umani ha affermato che l’emendamento prende di mira “organizzazioni che cooperano con, o ricevono appoggio da, UE e ANP. Esso cerca di limitare ulteriormente il lavoro delle organizzazioni per i diritti umani presentando la nostra attività come contatti con enti stranieri.”

Israele ha già approvato una legge che impone severe sanzioni a coloro che difendono il boicottaggio di Israele o delle sue colonie nella Cisgiordania occupata e sulle alture del Golan.

Le associazioni palestinesi per i diritti umani hanno affermato che il boicottaggio è “il principale strumento di protesta civile…per porre fine all’occupazione.”

La legge israeliana impone anche alle associazioni per i diritti umani con sede nel Paese che ricevono più della metà dei loro finanziamenti da Stati esteri di dichiararlo nelle loro pubblicazioni.

Maureen Clare Murphy è vicedirettrice di The Electronic Intifada e vive a Chicago.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)