Cosa rende diverso il rapporto di Amnesty?

Maureen Clare Murphy

3 febbraio 2022 – Electronic Intifada

Cosa rende diverso da quelli che l’hanno preceduto il nuovo rapporto di Amnesty International secondo cui Israele pratica il crimine di apartheid contro i palestinesi?

Sicuramente la reazione di Israele, “isterica” nelle parole di un titolo di Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.], all’analisi di Amnesty è notevolmente diversa dalla sua risposta, relativamente di basso profilo, a rapporti simili recentemente resi pubblici da B’Tselem, un’associazione israeliana per i diritti umani, e da Human Rights Watch, con sede a New York.

Organizzazioni palestinesi per i diritti umani come Al-Haq e Al Mezan hanno da molto prima presentato un quadro generale di apartheid, e i rapporti delle summenzionate associazioni israeliane e internazionali prendono spunto dal loro lavoro.

Amnesty, Human Rights Watch e B’Tselem hanno esaminato il sistema di controllo di Israele che privilegia gli ebrei israeliani in tutta la Palestina storica, emargina i palestinesi e viola i loro diritti in vario modo, in larga misura a seconda di dove essi vivano.

E, a differenza delle analisi pubblicate dalle associazioni palestinesi, questi tre rapporti, accolti come rivoluzionari e innovativi, sono inadeguati nel collocare il sistema dell’apartheid di Israele nel contesto del colonialismo di insediamento. (Una ricerca delle parole chiave nel rapporto di Amnesty dà tre risultati per i termini “colonialismo” e “coloniale”, che si trovano nei titoli di lavori citati nelle note.)

Amnesty sottolinea ripetutamente “il tentativo di Israele di conservare il suo sistema di oppressione e dominazione” senza mettere esplicitamente in chiaro che l’apartheid è un mezzo il cui fine è la colonizzazione di insediamento: cacciare i palestinesi dalla terra in modo che siano sostituiti da coloni provenienti dall’estero.

L’organizzazione per i diritti afferma che “dalla sua fondazione nel 1948 Israele ha perseguito una politica esplicita di creazione e conservazione di un’egemonia demografica ebraica e massimizzazione del suo controllo sulla terra a favore degli ebrei israeliani, riducendo nel contempo al minimo il numero di palestinesi, limitandone i diritti e ostacolandone la possibilità di resistere a questa spoliazione.”

Onore al merito: Amnesty fa piazza pulita del mito fondativo di Israele, riconoscendo che è stato razzista fin dall’inizio, una presa di distanza dal tipico atteggiamento progressista secondo cui nel corso del tempo Israele in qualche momento si è allontanato dai suoi ideali.

Amnesty evidenzia persino che “molti elementi del sistema militare repressivo di Israele nei TPO [territori palestinesi occupati, ndtr.] (Cisgiordania e Gaza) hanno origine nel regime militare israeliano sui palestinesi cittadini di Israele durato 18 anni,” iniziato nel 1948, “e che la spoliazione dei palestinesi di Israele continua fino a oggi.”

Amnesty riconosce anche che “nel 1948 singoli individui e istituzioni ebraiche detenevano circa il 6,5% della Palestina mandataria, mentre i palestinesi erano in possesso del 90% della terra di proprietà privata,” in riferimento a tutta la Palestina storica prima della fondazione dello Stato di Israele. “In soli 70 anni la situazione è stata ribaltata,” aggiunge l’organizzazione.

E questo è l’obiettivo di Israele – il “sistema di oppressione e dominazione” sottolineato da Amnesty è il mezzo attraverso cui esso ha usurpato la terra palestinese a favore di coloni provenienti dall’estero.

Dopotutto i coloni sionisti non sono andati in Palestina dall’Europa con l’intenzione di dominare e opprimere i palestinesi: essi sono arrivati con l’intenzione di colonizzarne la terra.

Come afferma il Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center [Centro Palestinese di Assistenza Legale e Diritti Umani di Gerusalemme, ndtr.], un’organizzazione palestinese, “ogni riconoscimento di Israele come Stato di apartheid dovrebbe essere collocato all’interno del contesto del suo regime di colonialismo d’insediamento.”

Amnesty evita anche di esaminare e mettere in discussione il sionismo, l’ideologia razzista dello Stato di Israele attorno alla quale si è organizzato il suo progetto di colonialismo d’insediamento.

Come ha chiesto mercoledì Adalah-NY, un’associazione di sostegno con sede negli USA: “È possibile porre fine all’apartheid senza fare altrettanto con il progetto colonialista d’insediamento sionista?”

Un lavoro preliminare per obbligare a pagare le conseguenze

Nonostante questi limiti problematici, l’analisi di Amnesty pone una solida base per considerare Israele responsabile all’interno del carente contesto delle leggi internazionali e fa energiche raccomandazioni per porvi fine.

Amnesty si unisce alle associazioni palestinesi che sollecitano la Corte Penale Internazionale a “indagare sulla messa in atto del crimine di apartheid” e la sua procura generale a “prendere in considerazione l’applicabilità del crimine contro l’umanità di apartheid all’interno della sua attuale indagine formale” in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Dato che la CPI non ha giurisdizione territoriale in Israele, Amnesty chiede al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di sottoporre “tutta la situazione alla CPI” oppure di creare “un tribunale internazionale per processare i presunti responsabili” del crimine contro l’umanità di apartheid.

Amnesty aggiunge che il Consiglio di Sicurezza “deve anche imporre sanzioni mirate, come il congelamento dei beni, contro i politici israeliani più coinvolti … e un complessivo embargo militare contro Israele.”

Ripetendo il suo “appello di lunga data” agli Stati perché sospendano ogni forma di assistenza militare e vendita di armamenti a Israele, Amnesty chiede anche alle autorità palestinesi di “garantire che ogni tipo di accordo con Israele, principalmente attraverso il coordinamento per la sicurezza, non contribuisca a mantenere il sistema di apartheid contro i palestinesi” in Cisgiordania e a Gaza.

Amnesty afferma inoltre che Israele deve riconoscere il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e fornire alle vittime palestinesi “risarcimenti completi”, compresa la “restituzione di tutte le proprietà acquisite su base razziale.”

Queste richieste di Amnesty, che afferma di essere la principale organizzazione mondiale per i diritti umani, vanno molto oltre quelle fatte da Human Rights Watch e da B’Tselem.

Ciò spiega in certa misura perché Israele e i suoi alleati e apologeti abbiano tentato di fare pressione su Amnesty perché ritirasse il suo rapporto prima della pubblicazione e, non essendovi riusciti, ora stanno ricorrendo alle solite accuse senza fondamento di antisemitismo.

Yair Lapid, ministro degli Esteri di Israele, ha cercato di screditare il rapporto di Amnesty affermando che esso “riecheggia la propaganda” e “le stesse menzogne condivise da organizzazioni terroristiche,” in riferimento a importanti associazioni palestinesi recentemente dichiarate illegali da Israele.

Se Israele non fosse uno Stato ebraico, nessuno ad Amnesty avrebbe osato fare simili affermazioni contro di esso,” ha aggiunto Lapid.

Nel suo rapporto Amnesty osserva che “le organizzazioni palestinesi e i difensori dei diritti umani che hanno guidato la sensibilizzazione contro l’apartheid e si sono impegnati in campagne hanno subito per anni la repressione israeliana come punizione per il loro lavoro.”

Mentre definisce “organizzazioni terroristiche” le associazioni palestinesi per i diritti umani, Israele sottopone “le organizzazioni israeliane che denunciano l’apartheid a campagne di calunnie e delegittimazione,” aggiunge Amnesty.

Israele potrebbe scoprire che tali tattiche, quando utilizzate contro la principale organizzazione mondiale per i diritti umani, potrebbero non convincere nessuno al di fuori della sua cerchia.

Il suo tentativo di “anticipare la faccenda”, che sarebbe stato guidato dal primo ministro israeliano Naftali Bennett insieme a Lapid attaccando preventivamente il rapporto di Amnesty, è solo servito a rafforzare la correlazione tra Israele e l’apartheid.

Ha anche garantito che “il rapporto avesse una pubblicità molto maggiore di quella di cui avrebbe beneficiato,” come ha osservato un editorialista di Haaretz.

Rendere noto al grande pubblico il contesto di apartheid

C’è un’altra differenza fondamentale tra il rapporto di Amnesty sull’apartheid e quelli che lo hanno preceduto.

Amnesty International è un’organizzazione che fa campagne con milioni di membri e sostenitori che, afferma l’organizzazione, “rafforzano la nostra richiesta di giustizia.”

Amnesty ha accompagnato il suo rapporto con un corso in rete di 90 minuti intitolato “Decostruire l’apartheid israeliano contro i palestinesi.”

Ha anche prodotto un documentario di 15 minuti per un vasto pubblico disponibile su YouTube che analizza la domanda se Israele pratica l’apartheid.

Finora la lista di attività di Amnesty include solo il fatto di inviare una cortese lettera a Naftali Bennett, primo ministro israeliano, contro le demolizioni di case e le espulsioni, cose per niente entusiasmanti.

Invece la sezione statunitense di Amnesty ha fatto bizzarre smentite per distinguersi dal movimento per il boicottaggio, disinvestimento e le sanzioni guidato dai palestinesi ed ha persino affermato che l’organizzazione non prende posizione sull’occupazione in sé, concentrandosi invece sugli obblighi di Israele “come potenza occupante, in base alle leggi internazionali”.

Sia Amnesty International che Human Rights Watch hanno sede in Paesi imperialisti e sono state create nel contesto della guerra fredda perché si concentrassero principalmente sulla rivendicazione dei diritti di persone nei Paesi comunisti dell’Europa orientale.

Il loro quadro ristretto e l’ideologia costitutiva le hanno portate ad opporsi alle lotte di liberazione anticolonialiste e alla violenza che esse implicavano perché, come ha detto Nelson Mandela, “è l’oppressore che definisce la natura della lotta e spesso l’oppresso è lasciato senza altri mezzi se non ricorrere a metodi che rispecchiano quelli dell’oppressore.”

Queste contraddizioni fondamentali significano che le associazioni occidentali per i diritti umani prenderanno sempre posizioni di compromesso, se non dannose, contrarie alla liberazione dei palestinesi, e Human Rights Watch recentemente ha suggerito un’equivalenza etica tra la violenza utilizzata da Israele contro i palestinesi assediati a Gaza e quella della resistenza palestinese contro di esso.

Ma i materiali didattici di Amnesty, comprendenti un lungo documento con domande e risposte, contribuiranno a preparare i militanti di base per rispondere ai sostenitori di Israele che intendano sviare le critiche alle prassi dello Stato attaccando chi le divulga.

Dopotutto, come ha detto su Twitter un acuto osservatore, questa è l’unica freccia a disposizione dell’arco di quanti sono impegnati a mantenere il governo di apartheid di Israele e la situazione di impunità.

Il rapporto di Amnesty è un potente indicatore che un’analisi al di là dell’occupazione del 1967 in Cisgiordania e a Gaza sta diventando di dominio pubblico.

Nel contempo Israele e i suoi alleati e sostenitori nel Congresso USA e nel Dipartimento di Stato hanno tirato in ballo triti argomenti, ignorando nel contempo la sostanza dei risultati di Amnesty.

(Al contrario, pochi parlamentari del partito Democratico hanno pubblicamente sostenuto le conclusioni di Amnesty, e Cory Bush [afroamericana eletta nel Missouri, ndtr.] ha chiesto di porre fine al “sostegno USA, con i soldi dei contribuenti, a questa violenza”).

Ma, come politici dell’ONU e dell’UE che blaterano noiosamente all’infinito sul loro impegno per un’inesistente processo di pace verso la soluzione a due Stati, quanti ripetono a pappagallo questi argomenti della lobby israeliana così slegati dalla realtà appaiono sempre più ridicoli.

Israele teme un rapporto ONU

Mentre respingono il termine “apartheid” e attacca Amnesty, Israele e i suoi alleati e sostenitori hanno gli occhi puntati su una minaccia ancora maggiore per l’impunità di Israele.

Secondo un dispaccio del ministero degli Esteri israeliano visionato dal periodico Axios [sito statunitense di notizie, ndtr.], Israele ha pianificato una campagna che cerca di screditare una commissione d’inchiesta permanente dell’ONU sulle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele in tutto il territorio sotto il suo controllo.

Lo scorso maggio la Commissione ONU per i Diritti Umani ha approvato di stretta misura una risoluzione che crea questa commissione d’inchiesta in seguito all’attacco israeliano di 11 giorni contro Gaza durante il quale i palestinesi si sono ribellati in tutta la loro patria.

Associazioni palestinesi hanno a lungo chiesto agli Stati di “affrontare le cause che sono alla radice del colonialismo d’insediamento e dell’apartheid imposto sul popolo palestinese nel suo complesso,” come ha affermato Al-Haq prima del voto.

La commissione d’inchiesta condotta da tre esperti di diritti umani indipendenti scelti dalla Commissione per i Diritti Umani dovrebbe presentare i suoi risultati a giugno.

La scorsa settimana Axios ha informato che i politici israeliani sono “molto preoccupati che il rapporto della commissione faccia riferimento a Israele come uno ‘Stato di apartheid’.”

La rivista aggiunge che “l’amministrazione Biden non appoggia l’inchiesta e ha giocato un ruolo centrale nel tagliarle i fondi del 25% nei negoziati sul bilancio ONU.”

Nel contempo un gruppo bi-partisan di 42 membri del Congresso ha chiesto al Segretario di Stato USA di “guidare un tentativo di porre fine alla vergognosa e ingiusta commissione permanente d’inchiesta.”

Ma evidentemente Israele teme che questo intervento non sia sufficiente.

Questa settimana Haaretz ha informato che “importanti politici israeliani” non meglio identificati sono preoccupati che l’ONU “possa presto accettare una narrazione secondo cui Israele è uno ‘Stato di apartheid’, infliggendo un duro colpo allo status di Israele a livello internazionale.”

Il consenso dell’ONU riguardo all’apartheid israeliano “potrebbe portare all’esclusione di Israele da varie manifestazioni internazionali, comprese competizioni sportive o eventi culturali,” aggiunge la rivista.

In altre parole, i politici israeliani temono che lo Stato venga trattato come un paria a livello globale nello stesso modo in cui lo fu il Sudafrica prima del crollo dell’apartheid in quel Paese.

Il comitato direttivo del movimento guidato dai palestinesi per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, che si ispira alla campagna di boicottaggio globale che contribuì alla fine dell’apartheid in Sudafrica, sostiene che “indagini sull’apartheid israeliano da parte dell’ONU e dei suoi membri sono passi necessari per raggiungere la libertà, la giustizia e l’uguaglianza per il popolo palestinese.”

Questo comitato esorta le Nazioni che sono state colonizzate a riprendere “il ruolo di guida che hanno assunto all’ONU per l’eliminazione dell’apartheid nell’Africa meridionale.”

Human Rights Watch ha invitato a nominare un incaricato internazionale ONU per i crimini di persecuzione e apartheid.

Amnesty afferma che l’Assemblea Generale dell’ONU “dovrebbe ripristinare la Commissione Speciale contro l’Apartheid, creata in origine nel novembre 1962 per concentrarsi su ogni situazione… in cui sia stata commessa la grave violazione dei diritti umani e crimine contro l’umanità di apartheid.”

Secondo il comitato direttivo del movimento BDS queste iniziative avrebbero conseguenze al di là della causa palestinese all’interno del sistema dell’ONU, dove “le intimidazioni e la pressione politica hanno impedito l’analisi e la discussione, per non parlare delle sanzioni, sull’apartheid israeliano.”

In definitiva, la ricerca di Amnesty non sarebbe fondamentalmente diversa da quelle che l’hanno preceduta. Ma il contesto in cui compare – mentre si consolida il consenso internazionale riguardo al riconoscimento dell’apartheid israeliano, è in corso un’indagine della Corte Penale Internazionale e con le ripercussioni del programma di spionaggio israeliano – suggerisce che potrebbe essere iniziato un nuovo capitolo nella lotta globale per la libertà dei palestinesi.

Maureen Clare Murphy è caporedattrice di The Electronic Intifada.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il ritorno dei progetti People-to-People: rinunciare a rendere Israele responsabile

Yara Hawari 

6 aprile 2021 – Al Shabaka

Sintesi

I finanziamenti ai progetti People-to-People [Da-Persona-a-Persona] (P2P) sono ripresi negli USA e in Europa, minacciando di danneggiare le leggi internazionali e i diritti dei palestinesi. L’analista esperta di Al-Shabaka Yara Hawari esamina le sconcertanti implicazioni delle iniziative P2P e offre indicazioni su come i decisori politici possano contrastarle per portare avanti una giusta pace che chiami Israele a rendere conto delle sue violazioni dei diritti dei palestinesi.

Introduzione

Tra le iniziative finanziate in Palestina dai donatori è stato riattivato lo schema People-to-People (P2P), che riguarda progetti che uniscono attori palestinesi e israeliani della società civile in cosiddette collaborazioni e discussioni. Sottolineando i concetti di cooperazione, comprensione e costruzione della pace, P2P è pubblicizzato come un progetto positivo nel momento in cui la situazione politica si sta aggravando. Benché in apparenza P2P possa sembrare promettente, il contesto è profondamente problematico, presentando fondamentali ostacoli sia epistemici che materiali sul terreno, per riuscire a portare Israele a rispondere delle sue violazioni dei diritti umani dei palestinesi e raggiungere una pace giusta.

Invece di identificare la colonizzazione di insediamento israeliana e l’occupazione militare come la causa profonda, l’inquadramento complessivo [P2P] si basa sulla convinzione aprioristica che ci sia un lungo conflitto tra palestinesi e israeliani. Inoltre stabilisce che il contatto e il dialogo siano il modo per porre fine alla violenza e quindi al conflitto, creando un falso parallelo tra l’oppressione strutturale da parte degli occupanti israeliani e la giustificata resistenza dei palestinesi oppressi.

Diversi attori locali ed internazionali hanno anche dimostrato che P2P è inutile, perché la grande maggioranza dei palestinesi non ne vuole sapere. Infatti la società civile palestinese rifiuta in modo unanime l’idea di P2P perché i progetti non si basano sui principi delle leggi internazionali o sul riconoscimento dei diritti fondamentali dei palestinesi. Di fatto spesso arrivano persino a compromettere tali diritti.

Benché fin dall’inizio degli anni 2000 P2P sia in declino, recentemente è stato rivitalizzato con il Middle East Partnership for Peace Act [legge sulla Collaborazione per la Pace in Medio Oriente] di Nita M. Lowey [parlamentare USA, ndtr.], approvata dal Congresso USA nel dicembre 2020. La legge prevede 250 milioni di dollari in cinque anni per due fondi, uno dei quali specificatamente incentrato su “progetti di pace e riconciliazione” tra palestinesi e israeliani. Notizie nei media l’hanno definita un’iniziativa per riprendere gli aiuti ai palestinesi dopo una lunga interruzione durante l’amministrazione Trump. È stata persino festeggiata come una spinta al riavvicinamento e a un approccio nuovo a un processo di pace altrimenti stagnante.

Una rapida occhiata a questa legge e al finanziamento in sé non provocheranno necessariamente un allarme per molti parlamentari progressisti. Tuttavia un’analisi più approfondita sia del testo della legge che delle sue probabili implicazioni rivela un preoccupante precedente a minacciare le leggi internazionali e i diritti fondamentali dei palestinesi, anche perché ignorano l’impunità del regime israeliano. Questo articolo di politica presenta una critica a P2P e dimostra il pericolo di questo progetto volendo garantire giustizia ai palestinesi. Infine l’articolo arriva a concludere che quanti appoggiano i principi fondamentali delle leggi internazionali e i diritti dei palestinesi dovrebbero contrastare questi finanziamenti e il contesto P2P più in generale e portare Israele a rendere conto delle sue violazioni.

Un quadro problematico e ormai defunto

Il predecessore di P2P è stata la diplomazia Track II [Cammino II] degli anni ’80, in cui vennero utilizzati canali ufficiosi per creare spazi informali in cui discutere alternative di soluzione con l’intento di influenzare prima o poi quanti erano coinvolti nella diplomazia Track I, in cui avvenivano negoziati ufficiali tra dirigenti politici. Ma P2P è decollato dopo la firma degli Accordi di Oslo del 1993, che ampliarono l’ambito della diplomazia Track II per includere le organizzazioni della società civile palestinese e israeliana che non intendevano necessariamente influenzare i politici, ma piuttosto creare una migliore comprensione tra i due popoli.

Mentre la traiettoria storica del quadro P2P è complessa, è importante notare che conobbe un periodo di significativo declino iniziato all’inizio degli anni 2000 in seguito a vari fattori: lo scoppio della Seconda Intifada, il crollo della “sinistra” israeliana, alcuni membri della quale avevano partecipato ai progetti P2P, e nel 2007 l’emergere di un rinnovato accordo della società civile palestinese contro la normalizzazione.

“Contrasto alla normalizzazione” è una definizione coniata e definita dalla società civile palestinese. Trova le sue radici nella lotta palestinese contro l’occupazione britannica culminata con la Grande Rivolta del 1936-1939. “Contrasto alla normalizzazione” vuol dire rifiuto palestinese di partecipare a progetti, eventi o attività che promuovano il concetto secondo cui Israele è un’entità legittima che a sua volta avrebbe normalizzato i rapporti tra l’oppressore e l’oppresso.

Come tattica il contrasto alla normalizzazione è un tentativo di rifiutare la legittimazione e l’occultamento delle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele attraverso la patina del dialogo. Un esempio di normalizzazione sarebbe un progetto che intenda unire donne israeliane e palestinesi per discutere delle sfide che devono affrontare rispettivamente nella società senza citare la fondamentale disparità tra loro, una disparità che sottomette regolarmente le donne palestinesi alla violenza da parte del regime israeliano.

Il contrasto alla normalizzazione non è semplicemente una posizione di principio, ma anche una tattica politica che riconosce il fallimento di un dialogo tra palestinesi ed israeliani e una costruzione della pace che non siano fondati sui principi fondamentali delle leggi internazionali. Infatti riconosce che i progetti P2P ignorano le responsabilità israeliane nella violazione dei diritti dei palestinesi e di conseguenza i palestinesi vedono i progetti P2P come tattiche specificamente destinate a garantire l’impunità di Israele.

Oltretutto P2P sottolinea l’importanza della “cooperazione oltre i confini” per raggiungere una pace duratura. Progetti all’interno di questo quadro sono destinati a “iniziare e promuovere contatti a livello di base e l’interazione tra persone sui lati opposti del confine.” Ma nel caso della Palestina ciò è chiaramente inapplicabile. Come Edward Said e altri intellettuali e attivisti palestinesi hanno instancabilmente sostenuto, il conflitto non è tra due parti uguali intrappolate in una lotta simmetrica. È invece un colonialismo d’insediamento e un’oppressione senza sosta di Israele nei confronti dei palestinesi.

Il concetto di confine è altrettanto errato. Il regime israeliano è un’entità sovrana de facto dal fiume Giordano al mare Mediterraneo. Da decenni ha tenuto milioni di palestinesi sotto occupazione militare e, nel contempo, continua ad espropriare terra palestinese. Il risultato è la bantustanizzazione dei palestinesi in piccole enclave. Da parte sua il regime israeliano non ha mai ufficialmente dichiarato i suoi confini; farlo sarebbe stato in conflitto con le sue intenzioni espansioniste. In questo modo la narrazione P2P di due popoli in conflitto attraverso un confine condiviso rappresenta in modo errato la situazione di un popolo palestinese occupato e colonizzato.

Ancora peggio, P2P presuppone che i palestinesi cooperino e si riconcilino con un popolo e un’entità che approvano la loro colonizzazione e occupazione o che le praticano direttamente. Non sorprende che tali progetti siano nella stragrande maggioranza falliti. Infatti le analisi di un rapporto del 2014 della Commissione per lo Sviluppo Internazionale del governo britannico riguardo ai programmi P2P in Cisgiordania hanno rilevato che tali progetti hanno avuto un costo elevato e nel complesso hanno prodotto “risultati, modularità e un impatto strategico dimostrabile scarsi.”

Un’altra narrazione comune è il falso assunto che iniziative e finanziamenti P2P abbiano il potenziale di “far ripartire” l’economia palestinese, un concetto pericoloso che ignora di proposito il dato di fatto che l’economia palestinese è totalmente soffocata dal regime israeliano. Oltre a essere falso, ciò non considera il regime israeliano responsabile della continua distruzione dell’economia palestinese. Infatti fin dalla fondazione dello Stato israeliano nel 1948 e in seguito alle successive ondate di occupazione della terra palestinese l’economia dei palestinesi è stata schiacciata.

Gli Accordi di Oslo l’hanno ulteriormente assoggettata, e il Protocollo di Parigi del 1994 è stato particolarmente dannoso. Ha imposto un’unione doganale iniqua, che concede alle imprese israeliane accesso diretto al mercato palestinese, ma limita l’ingresso dei prodotti palestinesi a quello israeliano; concede allo Stato di Israele il controllo sulla riscossione delle imposte; rafforza ulteriormente l’uso dello shekel israeliano in Cisgiordania e a Gaza, lasciando l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) appena creata senza mezzi per imporre il controllo fiscale o adottare politiche macroeconomiche autonome.

In effetti ciò significa che oggi il regime israeliano ha il totale controllo diretto o indiretto sulle leve dell’economia palestinese. L’occupazione militare rafforza questa situazione, consentendo al regime israeliano di esercitare il controllo fisico sulle attività economiche quotidiane dei palestinesi e di espandere l’espropriazione della terra palestinese.

L’iniezione di denaro in questo sistema attraverso iniziative finanziate con P2P non è ciò di cui ha bisogno l’economia palestinese. Invece, come ha scritto Leila Farsakh [economista giordano-palestinese, ndtr.], “l’economia palestinese…non può esistere, per non dire prosperare, fino a quando la comunità internazionale non chiamerà Israele a rispondere in base alle leggi internazionali, proteggerà i diritti dei palestinesi e obbligherà Israele a porre fine alla sua occupazione.”

Il Middle East Partnership for Peace Act

Indipendentemente dalle questioni fondamentali su illustrate, il quadro P2P è tornato di moda in seguito al Middle East Partnership for Peace Act [legge per la Collaborazione in Medio Oriente per la Pace] di Nita M. Lowey nel 2000. La legge è stata proposta al Congresso USA dall’ex parlamentare democratica Nita Lowey e dal repubblicano Jeff Fortenberry, a dimostrazione dell’appoggio bi-partisan alla legge.

In seguito alla sua approvazione l’Alliance for Middle East Peace [Alleanza per la Pace in Medio Oriente] (ALLMEP) ha rivendicato l’iniziativa spiegando che si è trattato del risultato di “oltre un decennio di sostegno” da parte di ALLMEP “alla creazione di un Fondo Internazionale per la Pace Israelo-palestinese.” ALLMEP cita una “vasta coalizione” di sostenitori, che include J Street, il New Israel Fund, Jewish Federations of North America, l’Israel Action Network, Churches for Middle East Peace, AIPAC, AJC e l’Israel Policy Forum. Significativamente tutte queste organizzazioni tranne una sono dichiaratamente sioniste.

Un mese prima della legge, ALLMEP ha citato un dibattito parlamentare in Inghilterra diretto dalla deputata Catherine McKinnell, a capo di Labour Friends of Israel [Amici Laburisti di Israele], che ha portato avanti l’idea di creare un fondo simile in Gran Bretagna. Si sosteneva che la proposta era ampiamente appoggiata da deputati sia dell’opposizione che del partito di governo. Nel dibattito McKinnell ha finito con un accenno all’International Fund for Ireland [Fondo Internazionale per l’Irlanda, istituito per finanziare progetti di pacificazione in Irlanda del nord, ndtr.] e al Good Friday Agreement [Accordo del Venerdì Santo, che ha posto fine alla guerra civile nell’Irlanda del Nord, ndtr.]. In effetti ALLMEP fa riferimento all’ International Fund for Ireland (IFI) come “quadro concettuale” che sta dietro a questa idea di un fondo per “la pace israelo-palestinese” e cita il Partnership for Peace Act [legge per una pace condivisa ndtr] quale primo passo verso un tale fondo.

Dopo il dibattito, McKinnell ha inviato una lettera aperta a James Cleverly, ministro per il Medio Oriente e il Nord Africa presso l’Ufficio per gli Esteri, il Commonwealth & lo Sviluppo (FCDO). Nella lettera chiede al ministro di incontrarla per discutere del coinvolgimento britannico in tale fondo. Ha anche chiesto al ministro di impegnarsi a “discutere con l’amministrazione Biden come il Middle East Partnership for Peace Fund possa trasformarsi in una vera istituzione internazionale.” Infine ha proposto che la Gran Bretagna presenti una richiesta agli USA per uno dei seggi come membro internazionale nel consiglio del Partnership for Peace Act.

La legge è stata adottata anche nel testo della legge di bilancio per il Dipartimento di Stato e le Operazioni Estere del 2021. Essa destina 50 milioni di dollari all’anno per oltre 5 anni per la costituzione di due fondi: il fondo “People-to-People Partnership for Peace” con USAID [discussa agenzia federale USA per la cooperazione internazionale, ndtr.] e la Joint Investment for Peace Initiative [Iniziativa di Investimenti Congiunti per la Pace] dipendente dall’ International Development Finance Corporation [Società Finanziaria per lo Sviluppo Internazionale, istituzione finanziaria federale USA che gestisce i fondi per lo sviluppo, ndtr.].

Il fondo P2P è governato e gestito dall’Amministrazione dell’Agenzia USA per lo Sviluppo Internazionale in collaborazione con il Segretario di Stato e il ministero delle Finanze USA.

Vi sovrintende un consiglio di amministrazione formato da cinque cittadini USA nominati dall’amministrazione dell’Agenzia USA per lo Sviluppo Internazionale. La legge, stilata per la prima volta nel giugno del 2019, stabilisce che i membri del consiglio debbano essere persone che hanno “dimostrato esperienza e competenza nelle questioni relative a Israele e ai territori palestinesi,” e fa particolare riferimento alla competenza in campo economico. Due seggi del consiglio sono riservati a rappresentanti di organizzazioni internazionali di governi esteri: da qui la summenzionata richiesta di McKinnell di un rappresentante britannico.

Il fondo sarà finanziato principalmente dagli USA, ma la legge afferma anche che “raccoglierà ulteriori contributi per il Fondo dalla comunità internazionale, compresi Paesi del Medio Oriente e in Europa.”

Gli Stati che hanno recentemente normalizzato i rapporti con il regime israeliano saranno senza dubbio inclusi tra quelli a cui si chiederanno contributi. È anche probabile che gli ideatori del fondo sperino che diventi il principale meccanismo attraverso il quale finanziamenti internazionali saranno diretti in Palestina e i palestinesi saranno obbligati a impegnarsi nel “dialogo” P2P con gli israeliani come condizione per ricevere finanziamenti. In cambio questo darà come risultato il monopolio e la micro-gestione da parte degli Usa della maggioranza dei progetti finanziati dai donatori in Palestina.

Minare le leggi internazionali e rinunciare a chiamare Israele a rispondere dei suoi crimini

Benché il discorso del Partnership for Peace Act riguardi pace e cooperazione, una lettura attenta del testo della legge rivela preoccupanti lacune che consentono il totale annullamento dei diritti dei palestinesi. Così facendo la legge incoraggia le violazioni israeliane del diritto internazionale.

Nel settembre 2020 l’analista politica di Al-Shabaka e avvocatessa per i diritti umani Zaha Hassan ha notato che una prima bozza della legge vietava la “discriminazione geografica” nella presentazione di richieste da parte di beneficiari da “Israele, Cisgiordania e Gaza.” In altre parole chiunque, compresi i coloni israeliani in Cisgiordania, avrebbero potuto presentare domanda di finanziamenti.

In effetti Hassan ha evidenziato che un rapporto della commissione per gli Stanziamenti del Senato [USA] che ha messo in discussione la prima versione della legge, aveva esplicitamente affermato che i finanziamenti avrebbero dovuto essere utilizzati “per incoraggiare il commercio tra l’economia israeliana e palestinese in Cisgiordania.” Benché la versione finale non contenga più quella formulazione, essa non presenta alcuna definizione che possa impedire ai coloni di far richiesta di finanziamenti. Eppure l’impresa di colonizzazione del regime israeliano in Cisgiordania, avviata da un governo laburista israeliano poco dopo la conquista della Cisgiordania nel 1967, è uno dei crimini più vergognosi contro il popolo palestinese.

Oggi ci sono oltre 622.500 coloni israeliani che vivono in centinaia di insediamenti illegali in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est. Questa impresa di colonizzazione ha avuto un impatto incredibilmente devastante sulla vita dei palestinesi in Cisgiordania. La terra palestinese è continuamente espropriata per le colonie e le loro infrastrutture, rinchiudendo i palestinesi in enclave sempre più piccole collegate da pochissime strade in pessimo stato.

Oltre a questo le colonie si impadroniscono delle migliori risorse della Cisgiordania, in particolare dell’acqua. Per decenni il regime israeliano ha sistematicamente scavato pozzi e ha bloccato l’acceso dei palestinesi alle sorgenti in Cisgiordania, mentre deviava nel contempo l’acqua per rifornire la propria popolazione, compresa quella che vive negli insediamenti illegali. Non è quindi sorprendente che le colonie illegali israeliane siano spesso definite il maggior ostacolo alla pace, anche dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Mentre queste attività e la costante espansione del regime israeliano sulla terra palestinese sono continuamente condannate dalla comunità internazionale e dalle associazioni per i diritti umani, non ci sono state conseguenze e il regime israeliano deve ancora essere chiamato a risponderne. Tuttavia il Partnership for Peace Act va ben oltre la semplice mancata richiesta al regime israeliano di risponderne; esso fornisce deliberatamente una scappatoia per non vietare esplicitamente ai coloni degli insediamenti illegali di chiedere finanziamenti, incentivando quindi l’attività di colonizzazione e arricchendo i coloni.

Come detto in precedenza, la legge di bilancio USA proposta nel luglio 2020 dalla Camera dei Rappresentanti USA per l’anno fiscale 2020-2021 ha incluso provvedimenti per il Partnership for Peace Act. Le disposizioni impongono inoltre una serie di clausole per ricevere i finanziamenti, comprese restrizioni all’accesso per i palestinesi nel caso in cui l’ANP promuova un’inchiesta della Corte Penale Internazionale contro crimini di guerra di Israele. In particolare il testo include la seguente clausola:

Nessuno dei fondi stanziati sotto la voce “Fondo per il sostegno economico” di questa legge può essere messo a disposizione per assistenza all’Autorità Nazionale Palestinese se dopo la data di entrata in vigore di questa legge: (I) i palestinesi ottengono la stessa posizione di Stato membro o la piena adesione come Stato nelle Nazioni Unite o in qualunque loro specifica agenzia al di fuori di un accordo negoziato tra Israele e i palestinesi; o se i palestinesi promuovono un’indagine giuridicamente autorizzata della Corte Penale Internazionale (CPI), o appoggiano attivamente una simile indagine che sottoponga cittadini israeliani a un’inchiesta per presunti crimini contro i palestinesi.

Ciò è particolarmente significativo, considerando che nel febbraio 2021 l’ufficio della procura generale e la Camera Preliminare della Corte Penale internazionale (CPI) hanno stabilito che la Palestina ricade sotto la giurisdizione della CPI, consentendo quindi un’indagine per crimini di guerra contro Israele in Palestina. Meno di un mese dopo, nel marzo 2021, la procura ha annunciato l’apertura di un’inchiesta formale. Mentre ciò può essere festeggiato come una prima vittoria, molti ostacoli si prospettano ancora, compreso il fatto che l’ANP possa o meno essere convinta ad abbandonare l’inchiesta con la minaccia del ritiro dei finanziamenti.

Benché la CPI conserverebbe la giurisdizione anche se la ANP dovesse rinunciare a sostenere un’indagine e presentare denunce per crimini di guerra, ciò avrebbe un pesante impatto sulla causa. Infatti lascerebbe nelle mani di attori non statali, come le Ong per i diritti umani, la responsabilità di presentare denunce. Le denunce da parte di Stati hanno un peso politico maggiore, soprattutto nei confronti della CPI, che si basa molto sulla collaborazione degli Stati per condurre le proprie indagini.

È estremamente problematico il fatto che un ente finanziatore imponga simili limitazioni alla distribuzione dei propri fondi. Si deve quindi mettere in discussione la sincerità di ogni tentativo di “pace e riconciliazione” che limiti i finanziamenti in base al fatto che un popolo o, in questo caso, uno Stato persegua attraverso un’istituzione giudiziaria internazionale la richiesta di procedere in giudizio contro responsabili di crimini di guerra. Inoltre va notato che l’amministrazione Trump ha presentato clausole simili insieme all’“Accordo del Secolo”, che vietava alla dirigenza palestinese di ricorrere a un’indagine della CPI.

Clausole come queste, che politicizzano i finanziamenti incardinandoli a condizioni ingiuste, non solo sono dannose nel garantire i diritti fondamentali dei palestinesi, ma minano anche l’intero sistema della giustizia internazionale rafforzando l’impunità israeliana in quanto rinunciano a chiedere conto delle sue gravi violazioni del diritto internazionale. Il Partnership for Peace Act non è sicuramente una ragione di ottimismo, è uno strumento politico utilizzato contro i palestinesi che potrebbero cercare di utilizzare mezzi giudiziari affinché il regime israeliano sia chiamato a rispondere delle proprie continue sofferenze sotto l’occupazione israeliana. È una condanna a morte per i palestinesi che cercano giustizia attraverso i canali giudiziari formali del sistema internazionale.

Mettere in dubbio la falsa vernice di pace e riconciliazione

Questo articolo ha dimostrato come il Partnership for Peace Fund agisca all’interno di un quadro epistemico che pretende che la mancanza di collaborazione, di dialogo e di opportunità economiche per i palestinesi siano il principale ostacolo alla pace tra palestinesi e israeliani. Questo articolo ha anche dimostrato che ciò è semplicemente falso. Il principale ostacolo per “raggiungere la pace” sono le violazioni dei diritti dei palestinesi da parte del regime israeliano da oltre settant’anni, così come la continua colonizzazione della terra palestinese.

Tuttavia il fondo non è l’unico ad adottare questa narrazione. È l’ultimo esempio di una storia più lunga di iniziative P2P simili che tentano di minare i diritti fondamentali dei palestinesi attraverso una vernice di pace e riconciliazione.

Alla luce delle leggi emanate negli USA e della possibilità che leggi simili vengano emanate altrove, in particolare in Gran Bretagna e in Europa, è fondamentale che quanti appoggiano le leggi internazionali e i diritti dei palestinesi si oppongano con decisione a tali iniziative che minacciano il diritto internazionale e privilegiano una falsa vernice di dialogo e responsabilizzazione.

Come ha notato Omar Barghouti [co-fondatore del movimento BDS, ndtr.]:

“La lotta è innanzitutto per la libertà, la giustizia e l’autodeterminazione dell’oppresso…Solo attraverso la fine dell’oppressione ci può essere una vera potenzialità per quella che chiamo coesistenza etica, basata sulla giustizia e sulla piena uguaglianza per chiunque, non una coesistenza del tipo ‘padrone-schiavo’ che invocano molti nell’ ‘industria della pace’.”

L’impostazione P2P dovrebbe essere rifiutata in quanto inadeguata e problematica nel contesto palestinese e, in effetti, in ogni contesto di colonialismo d’insediamento definito da un notevole asimmetria di potere. Politici e legislatori dovrebbero invece appoggiare progetti e iniziative che si basino sui principi fondamentali delle leggi internazionali e sulla protezione dei diritti umani dei palestinesi invece che su quelli che li ignorano per promuovere il “dialogo”.

Infine, dovrebbero appoggiare i meccanismi esistenti che si oppongono all’espansionismo del colonialismo d’insediamento israeliano e dell’occupazione militare. Ciò include il divieto di importazione nei mercati internazionali dei prodotti delle colonie illegali o di investimenti da istituzioni e imprese complici delle violazioni dei diritti umani da parte di Israele. In ultima analisi Israele sarà chiamato realmente a pagare le conseguenze delle sue azioni con l’applicazione di sanzioni internazionali. Infatti obbligarlo a risponderne è l’unico cammino attraverso il quale ottenere una pace giusta.

Yara Hawari

Yara Hawari è analista esperta di Al-Shabaka: La Rete Politica Palestinese. Ha ottenuto un dottorato in Politiche del Medio Oriente presso l’università di Exeter, dove ha insegnato in vari corsi di post-grado e continua ad essere ricercatrice onoraria. In aggiunta al suo lavoro accademico centrato su storia indigena e storia orale, è anche una assidua commentatrice che scrive su vari mezzi di comunicazione, tra cui The Guardian, Foreign Policy e Al Jazeera in inglese.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il Futuro della Palestina : il punto di vista dei giovani sulla soluzione dei due stati.

Hugh Lovat

ecfr, 28 maggio 2019

Un quarto di secolo dopo gli accordi di pace di Oslo, alcuni giovani scrittori palestinesi espongono il loro punto di vista sulla soluzione dei due stati.

Mai come oggi la validità del modello dei due stati è stata messa in dubbio. Una delle cause determinanti è senz’altro la comparsa sulla scena di una amministrazione americana che mostra un allineamento senza precedenti con l’ideologia della Grande Israele tipica dell’estrema destra israeliana. Tuttavia, già prima dell’elezione di Donald Trump, il modello dei due stati presentava segni di logoramento. A ciò hanno contribuito non poco lo stallo interminabile del processo di pace in Medio Oriente e l’impegno deliberato dei governi israeliani per ostacolare il processo di crescita dello stato palestinese, mentre consolidavano il loro controllo su Gerusalemme Est e sulla Cisgiordania. Un altro fattore determinante è stata senz’altro l’incapacità dell’Unione Europea di mettere in atto azioni conseguenti alla propria fervente presa di posizione in favore della soluzione dei due stati.

È difficile dire se la prospettiva dei due stati andrà avanti e la situazione attuale non depone certo a favore della sua futura realizzazione. Quello che tuttavia sembra più che certo oggi è che le misure politiche di USA e Israele stanno consolidando una realtà fatta di un solo stato senza uguali diritti per i Palestinesi. Il modo in cui il movimento di liberazione palestinese risponderà a questa sfida sarà cruciale. Se un cambio di strategia da parte dei leader palestinesi più anziani pare improbabile, i giovani attivisti della Cisgiordania, di Gaza, di Israele e della diaspora stanno già sviluppando un approccio diverso.

Questa serie di brevi saggi scritti da giovani intellettuali costituisce una rassegna parziale del dibattito sulla validità attuale del modello dei due stati e su cosa chiedere all’Unione Europea in questo momento critico.

Le opinioni espresse di seguito non rappresentano certo la totalità delle posizioni palestinesi e senz’altro mancano alcune voci, quali quelle degli Islamisti e dei rifugiati nei paesi limitrofi. Tuttavia questi brevi contributi riflettono le posizioni di molti giovani palestinesi sulla situazione attuale e danno un’indicazione sulla direzione in cui si svilupperà il futuro movimento nazionale palestinese. Per questo motivo dovrebbero essere presi in seria considerazione dai responsabili politici.

Yasmeen Al Khodary, scrittrice e ricercatrice. Londra/Gaza

La domanda se si debba o no lasciar cadere la soluzione dei due stati è obsoleta. È difficile pensare che la gente la creda ancora possibile: siamo nel 2019 e non nel 1995 e molte cose sono cambiate in peggio. E poi, come sarebbe una soluzione a due stati?

La gente che quotidianamente subisce le conseguenze di questo progetto –i Palestinesi di Gaza e della Cisgiordania– hanno problemi ben più importanti, quali la sopravvivenza. Le conseguenze devastanti dell’occupazione israeliana hanno gradualmente trasformato i Palestinesi in popolazioni divise, che non godono dei diritti fondamentali e sono senza alcun sostegno, costrette ogni giorno a fronteggiare difficoltà sempre diverse: sono assediati, attaccati militarmente, circondati dagli insediamenti, bloccati da strade con divieto di transito, sottoposti a coprifuoco, arresti e prigione, per nominarne solo alcune. Provate a chiedere a un Palestinese che sta soffocando a Gaza a causa di un blocco che va avanti da 12 anni che cosa pensa della soluzione dei due stati. Molto probabilmente non otterrete risposta. La gente non ne po’ più di discorsi, non ne può più di ripetere sempre la stessa richiesta: ponete fine all’occupazione. Questo è il solo modello che possiamo portare avanti ora.

Yasmeen Al-Khoudary è una scrittrice e ricercatrice indipendente, è specializzata in archeologia e patrimonio e culturale palestinese dell’area di Gaza. Ha co-fondato Diwan Ghazza e scritto per numerose testate fra cui il Guardian, CNN, Al Jazeera English. Account twitter @yelkhoudary

Zaha Hassan, avvocata esperta in diritti umani e visiting fellow presso il Carnegie Endowment for International Peace di Washington.

Venticinque anni di trattato di pace di Oslo hanno confinato i Palestinesi in un buco nero politico e legale. Nella realtà attuale i Palestinesi sono privi del diritto all’autodeterminazione in quello che dovrebbe essere il loro stato sovrano e sono privi di uguali diritti di cittadinanza nello stato di Israele. Benjamin Netanyahu lo chiama lo ‘stato ridotto (state minus)’ palestinese.

Attualmente la scelta fra un unico stato binazionale e due stati è quindi illusoria. Entrambe queste soluzioni sono impraticabili in questo momento e lo saranno anche in futuro, per quanto è dato prevedere. La necessità più urgente è quella di definire con precisione la natura del conflitto attuale e quale dovrebbe essere la risposta a livello internazionale e dell’Europa in particolare.

I Palestinesi subiscono da oltre settant’anni un colonialismo insediativo che li costringe ad abbandonare i loro territori. Ridefinire il conflitto in questi termini non significa che il quadro del diritto internazionale, entro cui sono definiti gli obblighi di Israele quale forza occupante dal 1967, diventi inapplicabile o impraticabile. Il diritto umanitario internazionale non viene disatteso quando si chiede il rispetto delle norme internazionali sui diritti umani. I due quadri normativi si completano a vicenda e forniscono un orientamento per gli stati terzi su come inquadrare e che risposta dare alle azioni di Israele contro i Palestinesi.

Nel passato l’Europa è stata pioniera nel riconoscimento dell’OLP e del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. L’Unione Europea è particolarmente impegnata nel rispetto della legge e dei diritti umani; per questo l’Europa, in accordo con l’ONU, può agire come baluardo nella protezione dei diritti del popolo palestinese e condurre un dibattito che individui una soluzione durevole del conflitto, rispettosa delle richieste individuali e collettive dei Palestinesi.

Ma prima di tutto la UE e i suoi stati membri devono riconoscere la realtà attuale per quella che è, ossia che Israele impone oggi ai Palestinesi un solo stato con un’occupazione e un conflitto perenne che non prevedono uguali diritti.

Zaha Hassan è avvocata specializzata in diritti umani e visiting fellow alla Carnegie Endowment for International Peace. È stata coordinatrice e senior legal advisor del team palestinese di negoziazione durante la richiesta della Palestina di ammissione all’ONU come stato membro, ha fatto parte della delegazione palestinese nei colloqui esplorativi sponsorizzati dal ‘quartetto per la pace’ nel 2011/2012. Account twitter: @zahahassan

Yara Hawari, policy fellow di Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network, Ramallah

Molti stati dell’Unione Europea temono che l’annessione formale della Cisgiordania da parte di Israele sia imminente e metta così l’ultima pietra sulla tomba degli accordi di pace di Oslo e della soluzione dei due stati. Se questa preoccupazione include un interesse nella difesa dei diritti dei Palestinesi, essa però non riconosce che gli accordi di Oslo e il modello dei due stati hanno fornito, nei 26 anni trascorsi, una complice copertura all’imposizione di un regime di apartheid che si estende dalla valle del Giordano al Mediterraneo e istituisce un controllo assoluto di Israele sulla vita dei Palestinesi.

Israele accusa continuamente i Palestinesi di non volere la pace e allo stesso tempo colonizza le loro terre costringendoli in ‘bantustan’ sempre più ristretti. La leadership palestinese, ostaggio del dibattito sul processo di pace di Oslo, ha fallito nel proprio progetto democratico e rivoluzionario e di conseguenza il popolo palestinese, con i suoi diritti e le sue aspirazioni all’autodeterminazione, non è mai stato così vulnerabile come in questo momento.

È necessario che gli stati dell’Unione Europea compiano un atto di umiltà e di onestà e riconoscano che un progetto in cui essi avevano investito tempo, denaro e energie non ha avuto gli esiti sperati né ha ottenuto risultati concreti.

Anziché impegnarsi in negoziati che ormai avvengono in un contesto e all’interno di una cornice politica ormai impraticabili, l’UE dovrebbe impegnarsi a far rispettare i diritti internazionalmente riconosciuti ai Palestinesi, ovunque essi si trovino, e garantire l’applicazione del diritto umanitario internazionale. Usando i propri canali diplomatici e di scambio, l’UE dovrebbe chiedere conto a Israele delle violazioni compiute, creando così un ambito più equo di discussione.

Contestualmente, abbandonato il sostegno caparbio alla politica dei due stati, l’Unione Europea potrà contribuire a creare spazi e opportunità anche per i Palestinesi, perché essi possano elaborare altre soluzioni al di fuori dal contesto della divisione in due stati che li ha paralizzati per tutto questo tempo.

Yara Hawari è Palestine policy fellow per Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network. Ha tenuto diversi corsi alla Università di Exeter; come giornalista free-lance collabora con diverse testate fra cui Al Jazeera English, Middle East Eye, e Independent. Account twitter:@yarahawari

Amjad Iraqi, scrittore, +972 Magazine, Haifa

Una regola elementare della politica ci insegna che se un piano non produce gli esiti desiderati, allora va rivisto. Purtroppo i governi europei, quando si tratta del processo di pace in Medio Oriente

prefigurato degli accordi Oslo, ignorano questo principio.

Per anni l’Europa ha creduto che l’occupazione fosse insostenibile e indesiderabile tanto per gli Israeliani quanto per i Palestinesi. Questa idea si è rivelata fatalmente sbagliata. Nella situazione attuale gli Israeliani possono permettersi di abitare in ‘Giudea e Samaria’, godersi le risorse naturali del territorio sentendosi sicuri perché sanno che i loro ‘nemici’ a Gaza sono tenuti a bada dall’occhio vigile dell’esercito. La maggioranza delle forze politiche di Israele non considera più l’occupazione una situazione transitoria, ma una soluzione permanente del ‘problema’ palestinese.

L’incapacità dell’Europa di comprendere questa situazione la colloca dieci passi indietro rispetto alla realtà odierna. Sebbene la Green Line compaia come una linea tratteggiata in Google Maps, nella realtà essa non esiste più e di certo non esiste nella mente della potenza occupante. Anche quando il governo israeliano palesa apertamente i propri obiettivi –incluse le leggi sull’annessione di terre e la legge sullo Stato Nazione– le autorità europee continuano a negare le intenzioni di Israele, si dicono preoccupate, ma non sanzionano questa deliberata cancellazione della soluzione dei due stati.

Perciò questo modello non solo è liquidato, ma risulta addirittura deleterio. L’Europa deve aggiornarsi su una situazione di cui i Palestinesi sono ormai consci da decenni: che la realtà in cui viviamo è quella di un solo stato, in cui siamo governati da un regime complesso, ma comunque gestito da uno stato unico, di apartheid. Finché l’Europa non giocherà le proprie carte contro questo sistema, Israele riterrà logico insistere nel mantenimento di questo stato di cose.

Amjad Iraqi è un palestinese con cittadinanza israeliana e attualmente risiede a Haifa. È advocacy coordinator al Centro Legale Hadala, scrive su + 972 Magazine ed è analista politico per Al-Shabaka. Account twitter: @aj_iraqi

Inès Abdel Razek, consulente free-lance, ha lavorato come consulente per l’Ufficio del Primo Ministro Palestinese, Ramallah.

Dobbiamo prendere le distanze dai fallimenti dal processo di pace in Medio Oriente (PPME) gestito dagli USA e dalla soluzione dei due stati, che sono diventati esercizi interconnessi di retorica politica e non tengono conto della realtà. Dobbiamo liberarcene sia perché Israele non ha mai riconosciuto i parametri internazionalmente fissati per la soluzione dei due stati, sia soprattutto se vediamo i passi compiuti dall’amministrazione Trump per porre fine all’autodeterminazione e al diritto al ritorno del popolo palestinese e la sua aperta adesione al punto di vista israeliano.

Bisogna articolare un nuovo modello politico basato sul diritto internazionale, che adotti una strategia imperniata sulle persone, tesa a promuovere uguali diritti e uguale libertà di autodeterminazione per Palestinesi e Israeliani. A prescindere dal fatto che ciò venga realizzato da un unico stato o da due stati, un nuovo modello deve prima di tutto sconfiggere la realtà di un unico stato che espande continuamente gli insediamenti coloniali, e deve contrastare ogni discriminazione su base etnica. La pace non può venire prima della libertà.

Questo nuovo modello politico dovrà quindi controllare che l’abbandono dei parametri tradizionali previsti ad Oslo per il Processo di Pace in Medio Oriente (PPME) non lasci spazio a interpretazioni ambigue e che il governo di Israele non sfrutti eventuali ambiguità per consolidare l’attuale situazione di un solo stato con un regime di apartheid.

Il movimento nazionale palestinese deve impegnarsi a questo cambio di metodo, abbandonare le tattiche usate da Oslo in poi e fare un uso strategico del diritto al ritorno e all’auto-determinazione come vengono riconosciuti a livello internazionale, senza cadere nella trappola della sovranità nazionale. Dal punto di vista della diplomazia, occorreranno una serie di sforzi multilaterali che facilitino questa nuova strategia, mentre gli attori geopolitici fondamentali del Sud globale e dell’Europa dovranno assumere un ruolo determinante e cambiare la deleteria agenda politica ora dominata dagli USA.

Inès Abdel Razek è consulente diplomatica e per la cooperazione internazionale in Palestina e nell’area del Mediterraneo. Attualmente collabora con il Palestinian Institute for Public Diplomacy e si occupa di advocacy internazionale. Account twitter: @InesAbdelrazek

https://www.ecfr.eu/article/commentary_the_future_of_palestine_youth_views_on_the_two_state_paradigm

Traduzione di Nara Ronchetti

A cura di AssopacePalestina




INTERVISTA. Ilan Pappe: come Israele ha trasformato la Palestina nella più grande prigione al mondo

Mustafa Abu Sneineh

Venerdì 24 novembre 2017, Middle East Eye

Una storia dell’occupazione israeliana in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza analizza quali meccanismi militari vengono usati per controllare le vite dei palestinesi.

La guerra dei Sei Giorni del 1967 tra Israele e gli eserciti arabi ha portato all’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

Israele ha spacciato la storia di questa guerra come se fosse stata accidentale. Ma nuovi documenti storici e verbali d’archivio dimostrano che Israele l’aspettava da tempo.

Nel 1963 elementi dell’amministrazione militare, legale e civile israeliana frequentarono un corso presso l’università ebraica di Gerusalemme per stendere un piano complessivo per gestire i territori che Israele avrebbe occupato quattro anni dopo e per controllare un milione e mezzo di palestinesi che ci vivevano.

La ragione stava nella fallimentare gestione israeliana dei palestinesi a Gaza durante la breve occupazione nel periodo della crisi di Suez del 1956 [in cui l’esercito israeliano, affiancando inglesi e francesi, combatté contro l’Egitto di Nasser, che aveva nazionalizzato il canale, ndt.].

Nel maggio 1967, settimane prima della guerra, i governatori militari israeliani ricevettero istruzioni legali e militari su come controllare le città ed i villaggi palestinesi. Israele avrebbe proceduto a trasformare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza in mega prigioni sotto governo e controllo militare.

Insediamenti, posti di blocco e punizioni collettive fecero parte di questo piano, come dimostra lo storico israeliano Ilan Pappe in “The biggest prison on earth: a history of the occupied territories(“La più grande prigione al mondo: una storia dei territori occupati”), una descrizione in profondità dell’occupazione israeliana.

Pubblicato nel cinquantesimo anniversario della guerra del 1967, il libro è stato selezionato per il “Palestine Book Award 2017”, organizzato da Middle East Monitor, in attesa di essere proclamato a Londra il 24 novembre. Pappe ha parlato con Middle East Eye del libro e di ciò che esso rivela.

Middle East Eye: Quanto questo libro si basa sul suo saggio precedente, “The ethnic cleansing of Palestine” (“La pulizia etnica in Palestina”) sulla guerra del 1948?

Ilan Pappe: È decisamente un proseguimento del mio precedente libro “The ethnic cleansing”, che descrive gli eventi del 1948. Io vedo l’intero progetto sionista come uno schema, non solo come un singolo evento. Una struttura di colonialismo di insediamento attraverso cui un movimento di coloni si insedia in una nazione. Fin quando la colonizzazione non è completa e la popolazione indigena resiste con un movimento di liberazione nazionale, ognuno dei periodi di cui mi occupo non è che una fase all’interno della stessa struttura.

Benché “La più grande prigione” sia un libro di storia, siamo tuttora all’interno dello stesso capitolo storico. Quindi a questo riguardo probabilmente ci sarà in seguito un terzo libro che tratterà degli eventi del XXI secolo, di come la stessa ideologia di pulizia etnica e di espropriazione viene attuata nella nuova era e di come i palestinesi vi resistono.

MEE: Lei parla della pulizia etnica che ebbe luogo nel giugno 1967. Che cosa accadde allora ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza? In che modo essa si differenziò dalla pulizia etnica della guerra del 1948?

I.P. Nel 1948 c’era un piano molto chiaro per cercare di espellere quanti più palestinesi possibile dalla maggior parte possibile della Palestina. Il progetto colonialista di insediamento credeva di avere la forza di creare uno spazio ebraico in Palestina che fosse totalmente privo di palestinesi. Non ha funzionato così bene, ma è stato quasi vincente, come tutti sapete. L’80% dei palestinesi che vivevano all’interno di quello che diventò lo Stato di Israele divennero rifugiati.

Come dimostro nel libro, vi erano alcuni politici israeliani che pensavano che fosse possibile fare nel 1967 ciò che era stato fatto nel 1948. Ma la grande maggioranza di loro comprese che la guerra del 1967 fu molto breve, durò sei giorni, e c’era già la televisione e parecchi di coloro che volevano espellere erano già dei rifugiati del 1948.

Quindi io penso che la strategia non fu di compiere una pulizia etnica nello stesso modo in cui fu condotta nel 1948. Fu ciò che chiamerei una pulizia etnica progressiva. In alcuni casi espulsero masse di persone da certe zone quali Gerico, la Città Vecchia di Gerusalemme e i dintorni di Qalqilya. Ma nella maggior parte dei casi decisero che un governo militare ed un blocco che rinchiudesse i palestinesi all’interno delle proprie aree sarebbe stato tanto vantaggioso quanto espellerli.

Dal 1967 fino ad oggi c’è stata una pulizia etnica molto lenta, che probabilmente copre un periodo di 50 anni ed è così lenta che a volte può colpire una sola persona in un giorno. Ma se si guarda l’intero panorama dal 1967 ad oggi, stiamo parlando di centinaia di migliaia di palestinesi che non hanno il permesso di tornare in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza.

MEE: Lei distingue tra due modelli militari utilizzati da Israele: il modello di prigione aperta in Cisgiordania e il modello di prigione di massima sicurezza nella Striscia di Gaza. Come definisce questi due modelli? E si tratta di termini militari?

IP: Uso questi termini come metafora per spiegare i due modelli che Israele offre ai palestinesi nei territori occupati. Insisto ad usarli perché ritengo che la soluzione dei due Stati sia in realtà il modello di prigione aperta.

Gli israeliani controllano i territori occupati direttamente o indirettamente e cercano di non penetrare all’interno delle città e dei villaggi palestinesi con alta densità di popolazione. Hanno separato la Striscia di Gaza [dalla Cisgiordania, ndt.] nel 2005 e stanno ancora suddividendo la Cisgiordania in parti. Esistono una Cisgiordania ebrea ed una Cisgiordania palestinese, che non è più una zona dotata di contiguità territoriale.

A Gaza gli israeliani sono i guardiani che tengono chiusi i palestinesi dal mondo esterno, ma non interferiscono con ciò che essi fanno all’interno.

La Cisgiordania è come una prigione a cielo aperto in cui si mandano piccoli criminali a cui si consente più tempo per uscire e lavorare all’esterno. E non c’è un regime duro all’interno, ma è sempre una prigione. Persino il presidente Mahmoud Abbas, se si sposta dall’area B [sotto controllo amministrativo dell’ANP e controllo militare israeliano, ndt.] all’area C [sotto totale controllo israeliano, ndt.], ha bisogno che gli israeliani gli aprano il cancello. E secondo me è veramente emblematico il fatto che il presidente non possa spostarsi senza che il carceriere israeliano apra la gabbia.

Ovviamente c’è una continua reazione palestinese a tutto questo. I palestinesi non rimangono passivi e non lo accettano. Abbiamo assistito alla Prima e alla Seconda Intifada, e forse ne vedremo una terza. Gli israeliani dicono ai palestinesi, secondo una mentalità da gestione carceraria, ‘se voi resistete noi vi toglieremo tutti i vostri privilegi, come facciamo in carcere. Non potrete lavorare all’esterno. Non potrete muovervi liberamente e subirete punizioni collettive.’ E’ questo il genere di versione repressiva, la punizione collettiva come rappresaglia.

MEE: La comunità internazionale condanna timidamente la costruzione o l’espansione delle colonie israeliane nei territori occupati. Non considera questo come elemento centrale del sistema coloniale israeliano, come lei descrive nel suo libro. Come hanno avuto inizio le colonie israeliane e questo è avvenuto su basi razionali o religiose?

IP: Dopo il 1967 c’erano due mappe di insediamenti o colonizzazione. C’era una mappa strategica ideata dalla sinistra israeliana. Il padre di questa mappa fu il defunto Yigal Allon, il grande stratega, che lavorò con Moshe Dayan nel 1967 al piano per controllare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Si basavano su un principio strategico, non troppo ideologico, benché ritenessero che la Cisgiordania appartenesse ad Israele.

Erano più interessati ad assicurare che gli ebrei non si insediassero in zone arabe densamente popolate. Dicevano che dovunque i palestinesi non vivessero in forti concentrazioni, là noi potevamo insediarci. Quindi iniziarono con la Valle del Giordano, poiché là vi erano piccoli villaggi, ma non c’era una densità di popolazione come in altre aree.

Il problema per loro fu che, nello stesso momento in cui elaboravano la loro mappa strategica, emerse un nuovo movimento religioso messianico, Gush Emunim, un movimento religioso nazionalista di ebrei che rifiutavano di insediarsi in base alla mappa strategica. Volevano insediarsi secondo la mappa biblica. La loro idea era che la Bibbia è un testo che dice esattamente dove si trovano le antiche città ebraiche. E si dà il caso che la mappa prevedesse che gli ebrei dovessero insediarsi nel centro di Nablus, Hebron e Betlemme, nel bel mezzo delle aree palestinesi.

Inizialmente il governo israeliano cercò di controllare questo movimento biblico in modo che gli insediamenti si facessero in modo più strategico. Ma parecchi giornalisti israeliani hanno rivelato che Shimon Peres, ministro della Difesa nei primi anni ’70, decise di consentire gli insediamenti biblici. I palestinesi della Cisgiordania furono sottoposti a due piani di colonizzazione, quello strategico e quello biblico.

La comunità internazionale sa che secondo il diritto internazionale non conta che le colonie siano strategiche o bibliche, sono tutte illegali.

Ma purtroppo dal 1967 la comunità internazionale ha accettato la formula israeliana, che recita: “Le colonie sono illegali, ma sono provvisorie, una volta che vi sia la pace noi garantiremo che tutto sia legale. Ma finché non vi è pace noi abbiamo bisogno delle colonie poiché siamo ancora in guerra con i palestinesi.”

MEE: Lei sostiene che ‘occupazione’ non è il termine adeguato per descrivere la realtà in Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza. E in un dialogo con Noam Chomsky, ‘On Palestine’, lei critica il termine ‘processo di pace’. Questo è discutibile. Perché questi termini non sono adeguati?

IP: Penso che il linguaggio sia molto importante. Il modo in cui si definisce una situazione incide sulla possibilità di cambiarla.

Abbiamo descritto la situazione in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e all’interno di Israele con un vocabolario e dei termini errati. Occupazione significa sempre una situazione temporanea.

La soluzione per l’occupazione è la fine dell’occupazione, il ritiro dell’esercito invasore a casa sua, ma non è questa la situazione né in Cisgiordania né nella Striscia di Gaza. Questa è colonizzazione, ritengo, benché suoni come un termine anacronistico nel XXI secolo, penso che dovremmo comprendere che Israele sta colonizzando la Palestina. Ha iniziato a colonizzarla alla fine del XIX secolo e continua ancora oggi.

C’è un regime di insediamento coloniale che controlla l’intera Palestina in modi differenti. Nella Striscia di Gaza il controllo è dall’esterno. In Cisgiordania il controllo è differenziato nelle aree A, B e C. Esistono politiche differenti verso i palestinesi nei campi profughi, dove ai rifugiati non è permesso di ritornare a casa. Non permettere alle persone espulse di ritornare è un altro modo di mantenere la colonizzazione. È sempre parte della stessa ideologia.

Perciò penso che i termini ‘processo di pace’ e ‘occupazione’, quando vengono usati insieme, creino la falsa impressione che tutto ciò che serve è che l’esercito israeliano esca dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza e che vi sia una pace tra Israele e la futura Palestina.

Ora, l’esercito israeliano non è presente nella Striscia di Gaza né nell’area A. Lo è anche poco nell’area B, dove non ha bisogno di esserci. Ma non c’è pace. C’è una situazione che è molto peggiore di quella precedente agli accordi di Oslo del 1993.

Il cosiddetto processo di pace ha consentito ad Israele di aumentare le colonie, ma questa volta con il sostegno internazionale. Quindi suggerisco di parlare di decolonizzazione, non di pace. Suggerisco di parlare di cambiare il regime giuridico che governa la vita degli israeliani e dei palestinesi.

Penso che dovremmo parlare di uno Stato di apartheid. Dovremmo parlare di pulizia etnica. Dovremmo scoprire che cosa sostituisce l’apartheid. Ed abbiamo un buon esempio in Sudafrica. L’unico modo per sostituire l’apartheid è un sistema democratico. Una persona, un voto, o almeno uno Stato bi-nazionale. Penso che sia questo il tipo di terminologia che dovremmo incominciare ad usare, perché se continuiamo ad usare le vecchie parole continueremo a sprecare tempo e sforzi e non cambieremo la realtà sul terreno.

MEE: Cosa riserva il futuro al governo militare israeliano sui palestinesi? Assisteremo ad un movimento di disobbedienza civile come quello di luglio a Gerusalemme?

IP: Penso che vedremo disobbedienza civile non solo a Gerusalemme, ma in tutta la Palestina, compresi i palestinesi all’interno di Israele. La società non accetterà per sempre questa realtà. Non so quali mezzi utilizzerà. Possiamo vedere che cosa succede quando non c’è una chiara strategia dall’alto e gli individui decidono di fare la propria guerra di liberazione.

C’è stato qualcosa di veramente impressionante nel caso di Gerusalemme, quando nessuno credeva che una resistenza popolare potesse costringere gli israeliani a ritirare le misure di sicurezza imposte ad Haram al-Sharif [si riferisce all’imposizione di metal detector sulla Spianata delle Moschee, terzo luogo sacro dell’Islam, che comprende la moschea di Al Aqsa e la Cupola della Roccia, ndt.]. Penso che possa essere questo il modello. Una resistenza popolare per il futuro che non si limiti ad un solo luogo, ma avvenga in luoghi differenti.

La resistenza popolare continua senza sosta in Palestina. I media non ne danno notizia. Ma ogni giorno il popolo protesta contro il muro dell’apartheid, contro l’esproprio delle terre, le persone fanno lo sciopero della fame perché sono prigionieri politici. La resistenza palestinese dal basso continua. La resistenza palestinese dall’alto resta in sospeso.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)