Perché Israele festeggia i suoi terroristi: Ben Uliel e l’assassinio della famiglia Dawabsheh

Ramzy Baroud

22 maggio 2020 – Middle East Monitor

I media israeliani e gli apologeti del sionismo in tutto il mondo sono impegnati a ripulire l’immagine di Israele gravemente danneggiata a livello mondiale utilizzando la rara condanna di un terrorista israeliano, Amiram Ben Uliel, che recentemente è stato ritenuto colpevole per l’uccisione della famiglia palestinese Dawabsheh, compreso un bambinetto di 18 mesi, nella cittadina di Duma, a sud di Nablus.

La condanna di Ben Uliel il 18 maggio da parte della corte israeliana composta da tre giudici è prevedibilmente acclamata da qualcuno come la prova che il sistema giudiziario israeliano è corretto e trasparente e che Israele non deve essere messo sotto inchiesta da soggetti esterni.

Il tempismo della decisione del tribunale israeliano nel condannare Ben Uliel per tre accuse di omicidio e due di tentato omicidio è stato particolarmente significativo, in quanto ha fatto seguito a una decisione della procuratrice generale della Corte Penale Internazionale (CPI), Fatou Bensouda, di proseguire l’indagine per crimini di guerra commessi nella Palestina occupata.

Visto come gli estremisti israeliani, soprattutto quelli che vivono illegalmente nella Cisgiordania occupata, sono governati attraverso un sistema separato, e molto più clemente del regime militare che governa i palestinesi, l’apparentemente netta condanna del terrorista israeliano merita un ulteriore esame.

Gli apologeti di Israele si sono affrettati a festeggiare il verdetto del tribunale fino al punto che lo stesso organo israeliano di intelligence interna, lo Shin Bet, noto per i suoi famigerati metodi di tortura dei prigionieri palestinesi, ha descritto la decisione come “un’importante pietra miliare nella lotta contro il terrorismo ebraico.” Altri hanno lavorato per scindere il macabro attacco di Ben Uliel dal resto della società israeliana, sottintendendo che l’uomo era un lupo solitario e non il risultato diretto del folle razzismo e dei discorsi violenti diretti contro palestinesi innocenti.

Nonostante la chiara condanna di Ben Uliel, il tribunale israeliano ha cercato di evidenziare che il terrorista israeliano ha agito da solo e non è membro di un’organizzazione terroristica. In base a questa logica il tribunale ha sostenuto che i giudici “non potrebbero scartare l’ipotesi che l’aggressione sia stata motivata dal desiderio di vendetta o razzismo senza che Ben-Uliel fosse effettivamente membro di un gruppo organizzato.”

Date le circostanze il verdetto è stato lo scenario più favorevole per l’immagine di Israele, in quanto assolve deliberatamente la massiccia rete terroristica che ha prodotto personaggi come Ben Uliel e l’esercito israeliano che protegge quotidianamente quegli stessi estremisti, mentre ripulisce la meritata pessima reputazione di Israele come una società violenta con un sistema giudiziario ingiusto.

Ma Ben Uliel non è affatto un lupo solitario.

Quando il terrorista israeliano, insieme ad altri aggressori mascherati, ha fatto irruzione nella casa di Sa’ad e Reham Dawabsheh alle 4 del mattino del 31 luglio 2015 era chiaramente impegnato a farsi un nome all’interno della società fervidamente razzista ed estremista che ha fatto dell’omicidio e della pulizia etnica dei palestinesi una missione divina.

Ben Uliel ha raggiunto in pieno i suoi obiettivi. Non solo ha ucciso Sa’ad e Reham, ma anche il loro figlio di 18 mesi, Ali. L’unico membro della famiglia sopravvissuto è stato Ahmed, di 4 anni, che è rimasto gravemente ustionato.

La morte della famiglia palestinese, in particolare del piccolo Ali, è diventata rapidamente fonte di gioia e di festeggiamenti tra gli estremisti ebrei. Nel dicembre 2015, sei mesi dopo l’uccisione della famiglia Dawabsheh, un video di 25 secondi diventato virale sulle reti sociali ha mostrato una folla di israeliani che festeggiava la morte di Ali.

Il video mostrava una “stanza piena di uomini con zuccotti bianchi che saltavano e danzavano, molti con i lunghi riccioli degli ebrei ortodossi. Alcuni di loro – ha riportato il New York Times – brandivano armi da fuoco e coltelli.”

“Due (degli israeliani che festeggiavano) appaiono mentre accoltellano pezzi di carta che hanno nelle mani, che la rete televisiva ha identificato come foto di un bambino di 18 mesi, Ali Dawabsheh.” Nonostante la polizia israeliana sostenga di avere in corso “indagini” sulla festa di odio, non c’è nessuna prova che qualcuno sia stato considerato responsabile della vera e propria celebrazione della violenza contro una famiglia innocente e un neonato. Di fatto i magistrati dello Stato di Israele hanno in seguito sostenuto di aver perso il video originale degli estremisti che ballavano.

La celebrazione del terrorismo israeliano è proseguita per anni senza tregua, fino al punto che il 19 giugno 2018 estremisti israeliani, minacciando il nonno di Ali mentre stava lasciando un tribunale israeliano, hanno apertamente gridato slogan osceni come “Dov’è Ali? Ali è morto,” “Ali è sulla griglia.”

L’efferata uccisione di Ali e della sua famiglia e il conseguente processo si sono aggiunti a una serie di altri avvenimenti che hanno chiaramente messo in discussione l’immagine creata con cura di Israele come una democrazia liberale. Il 24 marzo 2016 Elor Azaria ha ucciso a sangue freddo un palestinese, Fattah al-Sharif. Al-Sharif era stato lasciato a terra sanguinante privo di sensi dopo che, secondo quanto sostenuto dall’esercito israeliano, avrebbe cercato di accoltellare un soldato israeliano.

Azaria ha avuto una lieve condanna a 18 mesi, presto liberato tra festeggiamenti di massa come un eroe vittorioso. Importanti esponenti del governo israeliano, compreso il primo ministro Benjamin Netanyahu, hanno appoggiato l’assassino che ha agito a sangue freddo durante il processo. Non è affatto sorprendente che Azaria chieda di avere in futuro un ruolo importante nel governo israeliano.

I festeggiamenti per gli assassini e i terroristi come Ben Ulliel e Azaria non sono un fenomeno nuovo nella società israeliana. Baruch Goldstein, il terrorista israeliano che nel 1994 uccise molti fedeli palestinesi mentre erano inginocchiati in preghiera nella moschea Al-Ibrahimi di Al-Khalil (Hebron) ora è percepito come un moderno martire, un santo di proporzioni bibliche.

In questi casi, quando la natura del delitto è così terribilmente violenta, la cui gravità si impone ai mezzi di informazione internazionali, a Israele non rimane altra possibilità che utilizzare la condanna del “terrorismo ebraico” come un’opportunità per reinventare se stesso, il suo sistema “democratico”, i suoi procedimenti giudiziari “trasparenti”, e via di seguito. Nel contempo i media israeliani e i loro associati in tutto il mondo si danno da fare per descrivere lo “shock” e l’“indignazione” collettivi provati dagli israeliani “rispettosi della legge” e “amanti della pace”.

L’uccisione della famiglia Dawabshe, seppur uno dei numerosi atti di violenza perpetrati da estremisti ebrei e dall’esercito israeliano contro palestinesi innocenti, è un esempio perfettamente calzante.

In effetti un rapido sguardo ai dati e ai rapporti prodotti dalle Nazioni Unite indica che l’assassinio della famiglia palestinese da parte di coloni ebrei non è stato un’eccezione quanto la regola.

In un rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per le Questioni Umanitarie (OCHA) del giugno 2018 i ricercatori dell’ONU hanno parlato di un aumento esponenziale della violenza dei coloni ebrei contro i palestinesi.

“Tra il gennaio e l’aprile 2018 l’OCHA ha documentato 84 incidenti attribuiti ai coloni israeliani che hanno provocato vittime palestinesi (27 casi) o danni a proprietà palestinesi (57),” afferma il rapporto. Questa tendenza prosegue, a volte con un aumento marcato, senza che nessuno ne debba rendere conto.

L’associazione israeliana per i diritti Yesh Din ha seguito la piccola percentuale di indagini sulle violenze dei coloni aperte dall’esercito e dalla polizia israeliani. L’associazione conclude che “su 185 inchieste aperte dagli investigatori tra il 2014 e il 2017 che sono arrivate a conclusione, solo 21, cioè l’11,4%, ha portato al procedimento penale contro i responsabili, mentre altre 164 denunce sono state chiuse senza un’imputazione.”

La ragione di ciò è semplice: le centinaia di migliaia di estremisti ebrei che sono stati trasferiti perché si insediassero stabilmente nei territori occupati, un atto che viola chiaramente il diritto internazionale, non operano al di fuori del paradigma colonialista disegnato dal governo israeliano. In qualche modo anche loro sono “soldati”, non solo perché sono armati e concordano i propri spostamenti con l’esercito israeliano, ma perché le loro colonie in continua espansione si trovano al centro dell’occupazione israeliana e del suo continuo processo di pulizia etnica.

Pertanto la violenza dei coloni ebrei come quella commessa da Ben Uliel non dovrebbe essere analizzata separatamente dalla violenza inflitta dall’esercito israeliano, ma vista all’interno del più vasto contesto della violenta ideologia sionista che governa la società israeliana nel suo complesso. Ne consegue che la violenza dei coloni può finire solo con la fine dell’occupazione militare in Cisgiordania, a Gerusalemme est e a Gaza e con la fine dell’ideologia sionista razzista che diffonde odio, accoglie il razzismo e rende razionale l’assassinio.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)