Il congelamento dei finanziamenti potrebbe fermare le operazioni dell’UNRWA entro la fine del mese

Maureen Clare Murphy

Diritti e responsabilità

3 febbraio 2024 – The Electronic Intifada

Secondo il direttore dell’Agenzia Philippe Lazzarini se i finanziamenti non verranno ripristinati l’UNRWA sarà costretta a sospendere le operazioni già entro la fine del mese.

I Paesi donatori, tra cui gli Stati Uniti, il suo principale finanziatore, hanno sospeso gli aiuti per un valore di 440 milioni di dollari dopo che Israele ha sollevato accuse non verificate secondo cui alcuni dipendenti dellUNRWA a Gaza avrebbero partecipato agli attacchi del 7 ottobre guidati da Hamas.

Mercoledì Martin Griffiths, responsabile per gli aiuti umanitari dell’ONU, ha dichiarato al Consiglio di Sicurezza che la risposta umanitaria dellorganismo mondiale in Cisgiordania e Gaza dipende dal presupposto che lUNRWA sia adeguatamente finanziata e operativa” e ha chiesto che le decisioni di trattenere i fondi” vengano revocate.

Questa settimana tre organizzazioni palestinesi per i diritti umani – Al-Haq, Al Mezan e il Centro Palestinese per i Diritti Umani – hanno condannato il congelamento dei finanziamenti allUNRWA, affermando che ciò “equivale a un atto di punizione collettiva contro 5,9 milioni di rifugiati palestinesi registrati” presso lagenzia.

Anche Josep Borrell, rappresentante dellUnione Europea per gli affari esteri, si è espresso contro quella che ha descritto come una punizione collettiva” del popolo palestinese. Ha detto che il collasso dellagenzia causerebbe la morte di centinaia di migliaia di persone”.

Questa settimana Petra De Sutter, vice prima ministra del Belgio, ha descritto lUNRWA come insostituibile nel compito di fornire aiuti umanitari urgenti e cruciali a Gaza”. Un giorno prima che lei facesse quel commento, Israele aveva bombardato gli uffici di Gaza dellagenzia umanitaria belga.

Le organizzazioni palestinesi per i diritti umani hanno avvertito che la sospensione dei fondi, con conseguente cessazione degli aiuti umanitari a Gaza, potrebbe costituire complicità nel genocidio”. Ciò varrebbe soprattutto per gli Stati Uniti e la Germania, due dei principali Paesi donatori.

L’Istituto Lemkin per la Prevenzione del Genocidio ha affermato che la decisione di sospendere i finanziamenti rappresenta un passaggio da parte di diversi paesi da una potenziale complicità nel genocidio a un coinvolgimento diretto in una carestia pianificata”.

Listituto ha aggiunto che si tratta di un attacco a ciò che resta della sicurezza personale, libertà, salute e dignità in Palestina”.

Giovedì l‘UNRWA ha affermato che lagenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi è il più grande fornitore di aiuti umanitari a Gaza, dove la stragrande maggioranza della popolazione dipende da essa per la propria sopravvivenza”.

Prima delle agenzie delle Nazioni Unite ad essere istituita, lUNRWA fornisce servizi pubblici a circa sei milioni di rifugiati palestinesi nella Striscia di Gaza occupata e in Cisgiordania, nonché in Libano, Siria e Giordania.

Due terzi dei 2,3 milioni di abitanti di Gaza sono rifugiati registrati presso lUNRWA. Delle circa 27.000 persone uccise a Gaza dal 7 ottobre più di 150 erano membri del personale dellUNRWA mentre più di 140 strutture dellagenzia sono state danneggiate o distrutte, compreso il quartier generale di Gaza City.

Centinaia di migliaia di sfollati si trovano nelle strutture dell’UNRWA in tutta Gaza. Più di 350 sfollati sono stati uccisi e 1.255 feriti negli attacchi contro le strutture delle Nazioni Unite.

Intento criminale”

Lagenzia, che fa affidamento sui finanziamenti volontari degli Stati membri delle Nazioni Unite, negli ultimi anni ha visto diminuire i contributi mentre le necessità dei suoi servizi non hanno fatto altro che aumentare. L’estate scorsa il segretario generale delle Nazioni Unite ha avvertito che lUNRWA si trovava sullorlo del collasso finanziario”.

Le tre organizzazioni palestinesi per i diritti umani affermano che la tempistica delle accuse di Israele contro lUNRWA suggerisce un intento criminale” a seguito della sentenza provvisoria della Corte Internazionale di Giustizia dellAia che ha stabilito che Israele sta plausibilmente commettendo un genocidio a Gaza.

Una delle numerose misure provvisorie emesse dalla corte impone a Israele di adottare misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura dei servizi di base e di assistenza umanitaria urgentemente necessari”.

Le organizzazioni per i diritti umani hanno affermato che le accuse convenientemente tempestive costituiscono rappresaglie contro lUNRWA, le cui dichiarazioni sono citate come supporto nellautorevole sentenza della CIG contro Israele”.

Si tratta di un comportamento abituale nel recente passato: Israele impedisce regolarmente lingresso ai funzionari delle Nazioni Unite e ad altri investigatori sui diritti umani e ha rifiutato di rinnovare un il visto a Lynn Hastings, lex alto funzionario per gli aiuti umanitari delle Nazioni Unite a favore della Cisgiordania e Gaza.

A quanto pare all’inizio di novembre dello scorso anno lo Stato ha rifiutato l’ingresso a Volker Türk, il responsabile dei diritti umani delle Nazioni Unite, nel corso della sua visita di cinque giorni nella regione.

Questa settimana durante un incontro a Gerusalemme il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto agli ambasciatori delle Nazioni Unite che lUNRWA è “totalmente infiltrata” da Hamas e deve essere sostituita.

“Lo dico con grande rammarico perché speravamo che esistesse un organismo di soccorso obiettivo e costruttivo”, ha detto Netanyahu ai diplomatici. Oggi a Gaza abbiamo bisogno di un organismo di questo tipo, ma lUNRWA non è quellorganismo”.

Netanyahu si è anche lamentato del controllo delle Nazioni Unite sulle azioni di Israele, ha ripetuto affermazioni già confutate sulle atrocità e ha affermato che il suo Paese sta combattendo la guerra della civiltà contro la barbarie”.

Netanyahu ha criticato lUNRWA per aver presentato le informazioni citate dal Sudafrica nella sua denuncia di genocidio contro Israele allAia.

Altri funzionari israeliani sono meno desiderosi di Netanyahu di vedere il collasso immediato dellUNRWA.

Un alto funzionario anonimo ha detto al Times of Israel che se lUNRWA cessasse di operare sul terreno ciò potrebbe causare una catastrofe umanitaria che costringerebbe Israele a fermare la sua lotta contro Hamas”.

Una catastrofe umanitaria a Gaza è in corso da mesi dopo che allinizio della sua controffensiva Israele ha tagliato la fornitura di elettricità, carburante, acqua, cibo e scorte mediche.

Alcuni di questi elementi vitali indispensabili sono stati ripristinati a Gaza ma a un livello ben lungi dal soddisfare i bisogni primari della popolazione poiché le restrizioni e le operazioni militari israeliane impediscono lattività commerciale e la fornitura di aiuti su vasta scala.

I palestinesi di Gaza si trovano ad affrontare una malnutrizione di massa con un ritmo e una portata mai visti dalla seconda guerra mondiale, costretti a mangiare erba e bere acqua inquinata per sopravvivere alle condizioni di carestia imposte da Israele.

Christian Lindmeier, portavoce dellOrganizzazione Mondiale della Sanità, ha affermato che le accuse contro il personale dellUNRWA sono una distrazione da ciò che realmente accade ogni giorno, ogni ora, ogni minuto a Gaza”.

È un voler distogliere l’attenzione dall’aver interdetto a unintera popolazione laccesso allacqua pulita, al cibo e ad un riparo”, ha aggiunto. “È un voler distogliere l’attenzione dallaver impedito l’afflusso dell’elettricità a Gaza per oltre 100 giorni”.

Diritto al ritorno

La dichiarazione di rammarico di Netanyahyu è smentita dalla campagna multi-decennale di Israele rivolta a smantellare lUNRWA.

Le tre organizzazioni palestinesi per i diritti umani hanno affermato che il desiderio di Israele di distruggere lagenzia è “motivato dalla questione centrale insita nel mandato dellUNRWA: lattuazione della risoluzione 194 (III) dellAssemblea generale delle Nazioni Unite”.

Tale risoluzione fu approvata dallAssemblea Generale delle Nazioni Unite nel dicembre 1948 in seguito allespulsione forzata di centinaia di migliaia di palestinesi dalla loro patria da parte delle milizie sioniste prestatali e dellesercito israeliano.

I rifugiati che desiderano ritornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovranno essere autorizzati a farlo il prima possibile”, afferma la risoluzione delle Nazioni Unite, aggiungendo che i rifugiati che avessero scelto di non ritornare avrebbero dovuto essere risarciti per la perdita o il danno alle loro proprietà.

Israele ha negato ai palestinesi di esercitare il loro diritto al ritorno nelle terre che ora occupa perché ciò “altererebbe il carattere demografico di Israele al punto da eliminarlo come Stato ebraico”, come ha affermato la Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per lAsia occidentale in un rapporto del 2017.

Le nostre organizzazioni sottolineano che lUNRWA deve essere preservata come istituzione per proteggere i diritti dei palestinesi”, hanno affermato le tre organizzazioni per i diritti umani sopra menzionate, aggiungendo che ai rifugiati palestinesi viene ancora sistematicamente negato il loro inalienabile diritto al ritorno; essi vengono lasciati vivere per generazioni in campi profughi e viene negata loro la libertà di movimento e i diritti umani fondamentali”.

Le organizzazioni per i diritti dei palestinesi sottolineano che i Paesi che hanno sospeso il sostegno all’UNRWA – che oltre agli Stati Uniti includono Germania, Regno Unito, Canada, Australia, Italia, Paesi Bassi, Svezia, Finlandia, Estonia, Islanda, Giappone, Austria, Lettonia, Lituania e Romania – hanno ignorato i loro appelli affinché smettessero di armare Israele.

La britannica Sky News ha riferito questa settimana di aver visto i documenti dellintelligence israeliana che supporterebbero le sue affermazioni secondo cui degli operatori dellUNRWA sarebbero collegati ad Hamas.

Sky News ha affermato che il dossier, condiviso con i governi stranieri ma non con le autorità delle Nazioni Unite, sostiene che il 7 ottobre sei dipendenti dellUNRWA si sono infiltrati” in Israele da Gaza. Secondo Sky News quattro di questi sei dipendenti sarebbero presumibilmente coinvolti nel rapimento di israeliani, mentre un altro lavoratore avrebbe fornito supporto logistico’”.

I primi rapporti della scorsa settimana affermavano che Israele avrebbe sostenuto che 12 dipendenti dell’UNRWA erano coinvolti negli attacchi del 7 ottobre.

Sky News ha aggiunto che il dossier di Israele afferma che il 10% dei 12.000 dipendenti dellUNRWA a Gaza sono agenti di Hamas e della Jihad islamica, unaltra fazione palestinese impegnata nella resistenza armata. Il dossier afferma inoltre che circa la metà del personale dellUNRWA a Gaza sarebbe costituita da parenti di primo grado di un militante di Hamas”.

Il dossier di Israele tenta evidentemente di dipingere il coordinamento dellUNRWA con le autorità locali come una forma di subordinazione a Hamas che di fatto governa gli affari interni di Gaza dal 2007.

L’emittente ha affermato: I documenti dellintelligence israeliana fanno diverse affermazioni di cui Sky News non ha visto prove e molte delle affermazioni, anche se vere, non implicano esplicitamente lUNRWA”.

Dossier sospetti

Il dossier dellUNRWA riportato da Sky News sembra essere simile ai documenti prodotti in passato da Israele e dai suoi delegati che cercavano di collegare le organizzazioni non governative palestinesi alle organizzazioni di resistenza nel tentativo di privarle dei loro finanziamenti europei.

Nel 2021 gli Stati europei hanno affermato di non essere rimasti convinti da un dossier segreto fornito da Israele per dimostrare le sue accuse contro diverse importanti organizzazioni della società civile palestinese dichiarate organizzazioni terroristiche”.

Il dossier si fondava su testimonianze di due uomini licenziati da un’organizzazione per sospetti reati finanziari.

L’avvocato di uno degli uomini ha sostenuto che [il suo assistito] durante l’interrogatorio potrebbe essere stato sottoposto a maltrattamenti o torture.

Nel dossier segreto, il cui contenuto è stato rivelato dalla rivista +972 Magazine, risultava evidente che i due uomini non avevano familiarità con le altre organizzazioni palestinesi contro le quali la loro testimonianza era stata usata.

Le dichiarazioni dei funzionari israeliani suggeriscono che le attuali accuse contro i dipendenti dell’UNRWA potrebbero essere basate su informazioni estorte ai detenuti, dando adito a preoccupazioni per torture e maltrattamenti.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Dichiarazione su Gaza di funzionari pubblici delle due sponde dell’Atlantico: È nostro dovere far sentire la nostra voce quando le politiche dei nostri governi sono sbagliate

Rilasciata il 2 febbraio 2024

Versione originale

Dichiarazione dei funzionari pubblici riguardo a Gaza.

Ricordando che:

  • Abbiamo il dovere di rispettare, proteggere e tutelare le nostre costituzioni e i vincoli giuridici internazionali e nazionali a cui ci hanno impegnati i nostri governi democraticamente eletti;

  • In quanto funzionari pubblici, ci si aspetta da noi che rispettiamo, serviamo e difendiamo le leggi quando mettiamo in pratica le politiche, indipendentemente dai partiti politici che sono al potere, cosa che abbiamo fatto durante tutta la nostra carriera;

  • Siamo stati assunti per servire, informare e consigliare i nostri governi/istituzioni e abbiamo dimostrato professionalità, competenza ed esperienza su cui i nostri governi hanno contato durante decenni di servizio;

  • Abbiamo manifestato all’interno [delle pubbliche amministrazioni] le nostre preoccupazioni che le politiche dei nostri governi/istituzioni non soddisfino gli interessi comuni e abbiamo chiesto alternative che sarebbero più utili alla sicurezza, democrazia e libertà nazionali e internazionali, rifletterebbero i principi fondamentali della politica estera occidentale e recepirebbero quanto abbiamo imparato;

  • Le nostre preoccupazioni professionali sono state ignorate in base a considerazioni di carattere politico e ideologico;

  • Siamo obbligati a fare tutto quanto in nostro potere a favore dei nostri Paesi e di noi stessi per non essere complici di una delle peggiori catastrofi umanitarie di questo secolo;

  • Abbiamo l’obbligo di mettere in guardia le opinioni pubbliche dei nostri Paesi, per le quali prestiamo servizio, e di agire di concerto con i nostri colleghi a livello internazionale.

Ribadiamo pubblicamente le nostre preoccupazioni riguardo al fatto che:

  • Israele non ha dimostrato alcun limite nelle sue operazioni militari a Gaza, che hanno hanno quindi causato decine di migliaia di evitabili morti civili, e il deliberato blocco degli aiuti da parte di Israele ha portato a una catastrofe umanitaria, mettendo a rischio di carestia e di una morte lenta migliaia di civili;

  • Le operazioni militari di Israele non hanno contribuito all’obiettivo del rilascio di tutti gli ostaggi e stanno mettendo a rischio il loro benessere, le loro vite e il loro rilascio;

  • Le operazioni militari israeliane hanno ignorato ogni importante lezione sull’antiterrorismo appresa dall’11 settembre e l’operazione [militare] non ha contribuito all’obiettivo israeliano di sconfiggere Hamas. ma al contrario ha rafforzato la popolarità di Hamas, Hezbollah e di altri attori negativi;

  • L’operazione militare in corso sarà dannosa non solo per la stessa sicurezza di Israele, ma anche per la stabilità regionale. Il rischio di guerre più ampie sta influendo negativamente anche sugli obiettivi di sicurezza dichiarati dai nostri governi;

  • I nostri governi hanno fornito alle operazioni militari israeliane un appoggio pubblico, diplomatico e militare. Questo supporto è stato fornito in modo incondizionato e senza nessuna responsabilizzazione. Quando sono stati messi di fronte a una catastrofe umanitaria i nostri governi non hanno chiesto un immeditato cessate il fuoco e la fine del blocco di cibo, acqua e medicinali indispensabili a Gaza;

  • Le attuali politiche dei nostri governi hanno indebolito la loro posizione etica e minacciano la loro possibilità di difendere libertà, giustizia e diritti umani a livello globale e indeboliscono i nostri tentativi di mobilitare il sostegno internazionale per l’Ucraina e contrastare le azioni malvage di Russia, Cina ed Iran;

  • C’è il ragionevole rischio che le politiche dei nostri governi stiano contribuendo a gravi violazioni delle leggi umanitarie internazionali, a crimini di guerra e persino a pulizia etnica o genocidio.

Pertanto chiediamo ai nostri governi/istituzioni di:

  • Smettere di dire all’opinione pubblica che dietro all’operazione militare israeliana c’è una motivazione strategica e giustificabile e che appoggiarla è nell’interesse dei nostri Paesi;

  • Ritenere Israele, come a tutti gli attori, responsabile in base agli stessi livelli umanitari e di diritti umani internazionali applicati altrove e rispondere obbligatoriamente degli attacchi contro i civili, come abbiamo fatto nel nostro sostegno al popolo ucraino. Ciò include la richiesta di una immediata e totale messa in pratica della recente ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia;

  • Ricorrere ad ogni forma di pressione disponibile, compresa l’interruzione degli aiuti militari, per garantire un cessate il fuoco permanente, il pieno accesso umanitario a Gaza e un rilascio sicuro di tutti gli ostaggi;

  • Definire una strategia per una pace durevole che includa uno Stato palestinese sicuro e garanzie per la sicurezza di Israele, in modo che non si ripeta mai più un attacco come quello del 7 ottobre né un’offensiva contro Gaza.

Coordinata da funzionari pubblici di:

  • Enti e istituzioni dell’Unione Europea

  • Olanda

  • Stati Uniti

Appoggiata anche da funzionari pubblici di:

  • Belgio

  • Danimarca

  • Finlandia

  • Francia

  • Germania

  • Italia

  • Spagna

  • Svezia

  • Svizzera

  • Regno Unito

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Secondo un’esperta gli Stati che tagliano i fondi all’UNRWA potrebbero violare la convenzione sul genocidio

Redazione The New Arab

28 gennaio 2024 – The New Arab

Sabato un certo numero di Paesi – tra cui Australia, Gran Bretagna, Finlandia, Germania e Italia – hanno seguito lesempio degli Stati Uniti sospendendo i finanziamenti allUNRWA.

Domenica un’esperta delle Nazioni Unite ha avvertito che i Paesi che hanno bloccato i finanziamenti allAgenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati palestinesi stanno violando lordine del tribunale di fornire validi aiuti a Gaza e potrebbero violare la convenzione internazionale sul genocidio.

Sabato un certo numero di Paesi donatori – tra cui Australia, Gran Bretagna, Finlandia, Germania e Italia – hanno seguito lesempio degli Stati Uniti sospendendo ulteriori finanziamenti allUNRWA.

Ciò è avvenuto dopo che Israele ha affermato che diversi membri dello staff dell’Agenzia delle Nazioni Unite sarebbero coinvolti nell’attacco di Hamas del 7 ottobre. Le accuse israeliane si basano su confessioni ottenute durante gli interrogatori e non sono state oggetto di indagini indipendenti. Dall’inizio della sua ultima offensiva contro Gaza Israele ha ucciso più di 150 membri del personale dell’UNRWA.

Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi Occupati, ha avvertito che la decisione di sospendere i finanziamenti all’UNRWA “sfida apertamente” l’ordine della Corte Internazionale di Giustizia di consentire che una valida assistenza umanitaria” raggiunga gli abitanti di Gaza.

“Ciò comporterà responsabilità legali – o la fine dell’ordinamento giuridico (internazionale)”, ha scritto su X, ex Twitter.

L’UNRWA ha reagito alle accuse licenziando diversi membri del personale e promettendo un’indagine approfondita sulle accuse non specificate, ma Israele ha comunque giurato di interrompere l’attività dell’agenzia a Gaza dopo la guerra.

Il conflitto tra Israele e UNRWA fa seguito alla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite di venerdì secondo cui Israele deve prevenire possibili atti di genocidio nel conflitto e consentire maggiori aiuti a Gaza.

Albanese, esperta indipendente nominata dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, ma che non parla a nome delle Nazioni Unite, ha sottolineato i tempi delle decisioni dell’interruzione dei finanziamenti.

In un altro commento su X ha detto: “Il giorno dopo che l’ICJ ha concluso che Israele sta plausibilmente commettendo un genocidio a Gaza alcuni Stati hanno deciso di tagliare i fondi all’UNRWA”, dichiarando che, così facendo quei Paesi stanno punendo collettivamente nel momento più critico milioni di palestinesi e molto probabilmente violano i loro obblighi ai sensi della Convenzione sul Genocidio”.

Secondo un conteggio ufficiale dell’AFP [agenzia di stampa francese, ndt.] l’attacco di Hamas contro Israele ha provocato il 7 ottobre la morte di circa 1.140 persone. Le prove emerse indicano che sia i combattenti palestinesi che Israele sono responsabili della morte dei civili.

Inoltre i combattenti hanno sequestrato circa 250 ostaggi e Israele afferma che si trovano ancora a Gaza circa 132 di loro, compresi i corpi di almeno 28 prigionieri.

Secondo il ministero della Sanità dell’enclave costiera la successiva offensiva militare di Israele ha ucciso a Gaza almeno 26.422 persone, la maggior parte delle quali donne e minori.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un ‘genocidio culturale’: quali sono i siti storici distrutti a Gaza?

Indlieb Farazi Saber

14 gennaio 2023 – Al Jazeera

Negli ultimi 100 giorni circa 200 siti di importanza storica sono stati distrutti o danneggiati dai raid aerei israeliani contro l’enclave palestinese.

Secondo un’ong che documenta i danni di guerra ai siti storici un porto antico datato all’800 a.C., una moschea che conserva rari manoscritti e uno dei più antichi monasteri cristiani del mondo sono solo alcuni degli oltre 195 siti distrutti o danneggiati dal 7 ottobre quando è iniziata la guerra di Israele contro Gaza.

Spazzare via il patrimonio culturale di un popolo è uno dei molti crimini di guerra che il Sudafrica cita nella causa intentata contro Israele esaminata la scorsa settimana dalla Corte Internazionale di Giustizia. In essa si legge: “Israele ha danneggiato e distrutto numerosi centri di studio e cultura palestinesi”, fra cui biblioteche, luoghi religiosi e importanti siti storici antichi.

Secondo gli storici Gaza, una delle aree del mondo abitate da più tempo, è stata patria di una mescolanza di popoli almeno fin dal XV secolo a.C.

Gli imperi dell’antico Egitto, degli assiri e dei romani sono andati e venuti, dominando in momenti diversi la terra dei Cananei, gli antenati dei palestinesi, lasciando reperti del proprio patrimonio culturale. Nel corso dei secoli anche greci, ebrei, persiani e nabatei sono vissuti in questa striscia costiera.

Situata strategicamente sulla costa orientale del Mediterraneo, Gaza è sempre stata in una posizione eccellente sulle vie commerciali fra Eurasia verso l’Africa. I suoi porti l’hanno resa un polo regionale per commerci e cultura. Almeno dal 1300 a.C. la Via Maris che da Eliopolis, nell’antico Egitto, tagliava la costa occidentale di Gaza e poi entrava in Siria era il principale passaggio per i viaggiatori diretti a Damasco.

Il crimine di prendere di mira e distruggere siti archeologi dovrebbe spronare il mondo e l’UNESCO ad agire per conservare questa grande civiltà e il suo patrimonio culturale,” ha detto il ministero per il Turismo e le Antichità di Gaza dopo la distruzione della grande moschea di Omari nel corso di un attacco aereo israeliano l’8 dicembre.

Come conseguenza di quel particolare attacco, un’antica collezione di manoscritti conservata nella moschea potrebbe essere andata persa per sempre. “La collezione di manoscritti resta nelle vicinanze della moschea e al momento inaccessibile perché il conflitto è ancora in corso,” ha detto ad Al Jazeera subito dopo l’attacco padre Columba Stewart, direttore esecutivo dell’Hill Museum and Manuscript Library (HMML).

Secondo la convenzione dell’Aja del 1954, ratificata sia da palestinesi che da israeliani, si dovrebbero difendere i monumenti dalle devastazioni della guerra. Isber Sabrine, presidente di un’ong internazionale che documenta il patrimonio culturale, ha spiegato che i crimini che riguardano il patrimonio culturale fanno parte “dei danni collaterali del genocidio”.

Le biblioteche fungono da contenitori di cultura e un attacco contro di esse è un attacco contro il patrimonio culturale. Ciò che sta accadendo ora è un crimine di guerra. Contravviene alla prima convenzione dell’Aja,” dice Sabrine. “Israele sta tentando di cancellare il legame del popolo con la propria terra. È molto chiaro e intenzionale. L’eredità di Gaza fa parte del suo popolo, è la sua storia e il suo legame.”

Se il genocidio culturale cancella il patrimonio tangibile come musei, chiese e moschee, quello immateriale include costumi, cultura e manufatti. Anche questi sono stati danneggiati, come [la sede del] sindacato degli artisti palestinesi in Jalaa Street a Gaza City e i famosi vasi di argilla prodotti un tempo nel quartiere di al-Fawakhir.

In una dichiarazione ad Al Jazeera l’UNESCO ha detto: “Se la priorità è giustamente data alla situazione umanitaria, anche la protezione del patrimonio culturale in tutte le sue forme deve essere tenuta in conto. Secondo il suo mandato l’UNESCO fa appello a tutti gli attori coinvolti a rispettare rigorosamente il diritto internazionale. Un bene culturale non dovrebbe essere preso di mira o usato a scopi militari in quanto è considerato una infrastruttura civile.”

Ecco un elenco di alcuni dei siti che sono stati distrutti o danneggiati:

Musei

Ci sono quattro musei a Gaza e due sono stati spianati, come confermato ad Al Jazeera dall’International Council of Museums-Arab (ICOM-Arab).

Il Museo Rafah aveva completato un progetto trentennale di curatela di una collezione di monete antiche, piatti di rame e gioielli che ne faceva il principale museo di Gaza del patrimonio palestinese. È stato una delle prime vittime della guerra, distrutto in un attacco aereo l’undici ottobre.

Il museo Al Qarara (anche noto come il Museo Khan Younis), più ad oriente e una volta situato in cima a una collina, fu aperto nel 2016 dai coniugi Mohamed e Najla Abu Lahia che volevano conservare per le generazioni future la storia del territorio e del patrimonio di Gaza.

La collezione consisteva di circa 3.000 manufatti risalenti ai Cananei, la civiltà dell’età del Bronzo che visse a Gaza e in gran parte del Levante nel secondo secolo a.C.

Ora tutto ciò che resta del museo sono frammenti di ceramica e vetri rotti che sono schizzati fuori dalle vetrine durante un attacco aereo in ottobre.

ICOM-Arab ha detto ad Al Jazeera che a questo museo era stato dato un preavviso dalle forze israeliane di svuotarlo del suo contenuto ed evacuarlo nel sud di Gaza.

Il Mathaf al-Funduq, un piccolo museo aperto nel 2008 e ospitato nel Mathaf Hotel a Gaza nord, è stato danneggiato da bombardamenti il 3 novembre.

A Gaza City Qasr Al-Basha, o Palazzo del Pasha, del XIII secolo, fu trasformato in un museo nel 2010 dal ministero del Turismo palestinese e in mostra c’era una collezione di oggetti di periodi diversi della storia di Gaza. L’undici dicembre è stato colpito da un attacco aereo israeliano che ha danneggiato i muri, il cortile e i giardini.

Come molti degli edifici storici di Gaza, ha cambiato proprietà e funzioni parecchie volte nella sua vita. Il forte a due piani, costruito dal sultano mamelucco Zahir Baybars a metà del XIII secolo, fu un tempo sede del potere, costruito per difendersi dalle armate crociate e mongole. Durante il XVII secolo venne usato dagli Ottomani e ci abitò il comandante dell’armata francese Napoleone Bonaparte nel 1799 quando entrò a Gaza per cercare di prevenire l’incombente invasione ottomana dell’Egitto, dove i francesi avevano il quartier generale.

Prima della Nakba del 1948, quando centinaia di migliaia di palestinesi divennero rifugiati nel corso della creazione di Israele e molti fuggirono a Gaza, il palazzo servì come stazione di polizia per gli inglesi che governavano l’area e poi divenne una scuola femminile palestinese.

Biblioteche

Durante una pausa di una settimana nei bombardamenti israeliani iniziata il 24 novembre, i palestinesi hanno potuto ispezionare velocemente la vastità dei danni alla propria patria. È diventato rapidamente chiaro che molti edifici pubblici erano stati distrutti, incluso il Centro culturale Rashad El Shawa a Gaza City, un tempo sede dei colloqui di pace fra il leader dell’OLP Yasser Arafat e il presidente americano Bill Clinton negli anni ‘90. Anche la libreria comunitaria Samir Mansour, accuratamente restaurata dopo i bombardamenti israeliani del 2021, è stata gravemente danneggiata.

La biblioteca della Grande moschea Omari a Gaza City era un tempo ricolma di manoscritti rari, fra cui antiche copie del Corano, biografie del profeta Maometto e antichi tomi di filosofia, medicina e del misticismo sufi. La biblioteca, fondata dal sultano Zahir Baybars e aperta nel 1277 vantava una volta una collezione di 20.000 libri e manoscritti.

Molti dei libri e manoscritti rari là conservati andarono perduti o distrutti durante le Crociate e la prima guerra mondiale, lasciando solo 62 libri, anche questi ora distrutti in un attacco l’8 dicembre.

Un progetto di digitalizzazione di questi libri è stato completato lo scorso anno dall’Hill Museum and Manuscript Library e dalla British Library e sono ora accessibili online su HMML Reading Room.

Moschee

Il Ministero del Turismo e delle Antichità di Gaza stima che dall’inizio dell’attacco israeliano ben 104 moschee siano state danneggiate o distrutte. Sono incluse la moschea Othman bin Qashqar a Gaza City nel quartiere di Zeitoun, costruita nel 1220 sul sito dove si crede sia sepolto il bisnonno del profeta Maometto. È stata gravemente danneggiata in un attacco aereo il 7 dicembre.

La moschea Sayed al-Hashim, costruita nel XII e ricostruita nel 1850 ‘ stata danneggiata in un attacco aereo in ottobre. Questo edificio costruito di solido calcare nella città vecchia di Gaza è di grande importanza per i musulmani perché si dice che ospiti la tomba di un altro bisnonno del profeta Maometto, Hashim bin Abd Manaf. Secondo tradizioni locali sarebbe stato un mercante che si ammalò e morì nel viaggio di ritorno in Siria dalla Mecca e sia quindi sepolto in quello che ora è il sobborgo di Daraj.

La Moschea Hashim bin Abd Manaf. Foto: Abdelhakim Abu Riash/Al Jazeera

Alla costruzione della moschea fece seguito un breve intervallo di dominio crociato prima che si insediassero al potere i Mamelucchi che la ricostruirono. Fu in seguito restaurata nel 1850 sotto la guida del sultano ottomano Abdul Majide e di nuovo dopo i danni nel 1917 durante la prima guerra mondiale.

Agli inizi del presente conflitto la moschea ha preso fuoco durante un attacco aereo israeliano che ne ha danneggiato i muri e i soffitti.

La Grande moschea Omari è stata luogo di venerazione religiosa in forme diverse per circa due millenni.

Conosciuta in arabo come Al-Masjid al-Omari al-Kabir, si pensa sia stata la prima moschea costruita nella Striscia di Gaza 1.400 anni fa. L’otto dicembre è stata distrutta da un attacco aereo israeliano.

Costruita di arenaria locale per accogliere 5.000 fedeli per momenti di preghiera collettiva, tutto quello che ne rimane è il minareto dell’era mamelucca, spezzato e danneggiato.

Per la comunità era più di una moschea,” dice Sabrine. “Un signore mi ha detto che si sentiva più addolorato per la distruzione della moschea che della propria casa.”

Chiamata così dal secondo califfo islamico, Omar bin Khattab, fu costruita nel VII secolo sopra le rovine di una chiesa antica costruita nel 406, essa stessa sorta sulle fondamenta di un tempio pagano del dio cananaico della fertilità, Dagon.

Come molti siti storici che sopravvivono ai popoli che li costruirono, nasconde storie diverse. Secondo una versione Sansone, un guerriero israelita citato nell’Antico Testamento, noto perché la sua forza risiedeva nei capelli, finì sepolto fra le rovine della struttura che cadde su di lui dopo che aveva abbattuto i muri del tempio pagano. Altri dicono che il tempio cadde dopo che i Bizantini diedero alle fiamme tutti i siti pagani quando presero il potere a Gaza dal 390.

Il conquistatore ayyubita Salah al-Din riportò l’edificio al ruolo di moschea dopo che i Crociati l’avevano convertito nella cattedrale di San Giovanni Battista.

La moschea è stata usata come luogo di preghiera dalla comunità musulmana locale fin dal 1291 ed è stata il punto focale di riunioni e attività culturali.

L’anno scorso, in collaborazione con il programma per gli archivi a rischio della British Library Endangered Archives, HMML ha digitalizzato una selezione di copie uniche antiche della biblioteca della moschea che non sono disponibili “in nessun altro posto al mondo”, come ha detto ad Al Jazeera un consulente di HMML. Le opere includono un libro di poesia sufi del XIV secolo di Ibn-Zokaa e tomi di famosi giuristi gazawi, come Sheikh Skaike.

L’attacco di dicembre non è stato il primo subito dalla moschea, che era stata colpita anche il 19 ottobre e danneggiata durante la Prima Guerra Mondiale e di nuovo nell’attacco israeliano contro Gaza nel 2014.

Chiese

Il pavimento della chiesa bizantina di Jabalia, costruita nel 444, era un tempo decorato con mosaici colorati rappresentanti animali, scene di caccia e palme. I suoi muri erano adornati da 16 testi religiosi scritti in greco antico datati all’era dell’imperatore Teodosio II, che governò Bisanzio dal 408 al 450.

Il ministero per il Turismo e le Antichità palestinesi riaprì la chiesa agli inizi del 2022 dopo un restauro durato tre anni in collaborazione con l’ente francese Premiere Urgence Internationale e il British Council.

All’epoca il ministro Nariman Khella disse: “La chiesa fu scoperta nel pavimentare Salah al-Din Street e la prima cosa rinvenuta furono due tombe, una di una persona anziana e l’altra di un bambino piccolo.” Quello stesso anno un contadino scoprì nelle vicinanze una serie di mosaici con motivi intricati. Le condizioni delle tombe e dei mosaici restano incerte.

Per quanto riguarda l’antica chiesa stessa, è stata distrutta in un attacco aereo israeliano in ottobre.

Il monastero di Sant’Ilarione a Tell Umm Amer nel villaggio di Nuseirat, sulla costa, data circa al 340, durante il dominio romano della regione. Un “tell” è una collinetta dalla sommità piatta che spesso segna la posizione di una città antica.

Per ritirarsi dalla vita mondana e immergersi nella ricerca spirituale Sant’Ilarione, un cristiano che si dice sia stato il fondatore del monachesimo, costruì per sé una stanza piccola e semplice in quello che pensava fosse un angolo remoto dell’odierna città di Deir el-Balah, nella zona centrale della Striscia di Gaza. Nonostante il suo desiderio di solitudine, i pellegrini lo cercavano per la cura di malattie e come guida spirituale. Nel corso degli anni gli edifici intorno alla sua semplice stanza si espansero per poi diventare il più grande monastero del Medio Oriente.

Sui 10 ettari del santuario sorsero cinque chiese, un cimitero, una fonte battesimale e terme antiche. Mosaici e lastre in calcare decoravano i pavimenti e i muri ad accogliere i pellegrini che viaggiavano lungo la Via Maris dall’Egitto a Damasco.

Danneggiato dal terremoto del 614, il sito rimase abbandonato fino a che gli archeologi palestinesi iniziarono gli scavi alla fine degli anni ‘90. Il sito, che nel 2012 l’UNESCO ha aggiunto alla sua lista propositiva dei candidati al Patrimonio Mondiale, è stato danneggiato dai bombardamenti israeliani.

La chiesa greco-ortodossa di San Porfirio, rimasta in piedi a Zeitoun per 16 secoli, è stata colpita e danneggiata il 19 ottobre.

Considerata la terza chiesa più antica al mondo, San Porfirio fu costruita nel 425 sulle fondamenta di un antico sito pagano e chiamata con il nome del santo bizantino, che rese sua la missione di chiudere i templi pagani. Si pensa che egli sia stato seppellito all’interno della chiesa.

Come altri siti significativi, questa chiesa fu trasformata in moschea nel Settimo secolo, per poi tornare ad essere chiesa negli anni ’50 del XII con i crociati. Restaurata nel 1856, è rimasta un luogo di preghiera per la comunità cristiana di Gaza e per cercare riparo in tempo di guerra.

Nei bombardamenti israeliani del 19 ottobre 17 persone sono rimaste uccise nel crollo del tetto della chiesa. Il Patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme ha detto che prendere di mira la chiesa “costituisce un crimine di guerra”. La vicina moschea in stile ottomano di Katib al-Wilaya, costruita nel XV secolo, è stata danneggiata nello stesso attacco.

La chiesa della Sacra Famiglla, costruita nel 1974, è l’unica chiesa cattolica romana a Gaza e un rifugio per la comunità locale. È stata colpita in un raid aereo il 4 novembre. Una scuola all’interno del complesso ecclesiale è stata parzialmente distrutta.

Il Patriarca Latino di Gerusalemme conferma che schegge di proiettili degli attacchi dell’esercito israeliano contro gli edifici accanto alla chiesa della Sacra Famiglia hanno distrutto cisterne dell’acqua e pannelli solari sul suo tetto.

Altri siti antichi

Ard-al-Moharbeen, la necropoli romana, è stata riportata alla luce l’anno scorso da archeologi palestinesi e francesi dopo il ritrovamento di tombe nel corso della costruzione di nuove case.

Almeno 134 tombe romane datate tra il 200 a.C. e il 200 d.C. con scheletri ancora intatti sono state trovate in quella che si pensa sia una necropoli romana.

Sono stati scoperti due sarcofagi di piombo con decorazioni intricate, uno con motivi di vendemmia e l’altro con delfini.

Fadel Alatel, un archeologo di Gaza e parte della rete Heritage for Peace, ha lavorato in questo scavo prima del 7 ottobre. Ha detto ad Al Jazeera di aver paura di quello che potrebbe essere successo a queste rare tombe.

Sono in un’area in cui sono state lanciate bombe al fosforo bianco. I danni al sito non sono noti,” dice. “Inoltre a causa dei rigori dell’inverno e delle intense piogge questi rari ritrovamenti potrebbero andare distrutti.”

Alatel ha lavorato per conservare il patrimonio e l’archeologia di Gaza durante innumerevoli raid aerei israeliani, ma ha detto che questa volta la situazione è molto peggiore e non ha potuto ritornare al sito per prendere visione dell’entità del danno.

Forensic Architecture (FA), un’agenzia di giornalismo investigativo con sede presso la Goldsmiths University di Londra, ha documentato la distruzione al patrimonio culturale di Gaza nella sua indagine “Living Archaeology”. L’otto ottobre, il giorno dopo l’attacco di Hamas contro Israele che ha dato inizio alla guerra, i ricercatori dell’agenzia, usando tecnologia satellitare, hanno trovato la prova di 3 ampi crateri nel sito archeologico provocati dai missili israeliani.

In una relazione FA dichiara: “Questo disprezzo per il patrimonio culturale palestinese e la sua distruzione sminuiscono le rivendicazioni palestinesi a uno Stato e negano ai palestinesi il diritto fondamentale all’accesso e alla conservazione del proprio retaggio.”

Il destino di un altro sito antico, un porto, è noto. È stato distrutto.

Situato nella zona nord occidentale di Gaza, il primo porto marittimo conosciuto dell’enclave, Anthedon, noto anche come Balakhiyah o Tida, fu abitato dall’800 a.C. al 1100 d.C. o dall’era micenea agli inizi dell’epoca bizantina. Diventò una città indipendente durante il periodo ellenistico.

Dopo la scoperta delle rovine di un tempio romano e mosaici pavimentali sui 2 ettari del sito archeologico, nel 2012 fu posto dall’UNESCO nella lista propositiva dei candidati al Patrimonio Mondiale.

Altri resti datano alla fine dell’età del Ferro e ai periodi persiano, ellenistico, romano e bizantino.

L’hammam al-Sammara, o bagno turco dei samaritani, è stato distrutto l’8 dicembre. Precedente all’Islam, venne probabilmente costruito dai samaritani, una setta religiosa di etnia ebraica che visse nella zona di Zeitoun, anche noto come il quartiere ebraico. L’area aveva una fiorente comunità ebraica fino al dominio crociato nel XII secolo. L’ultima famiglia ebrea palestinese visse nel quartiere fino agli anni ‘60.

L’unica altra reliquia della storia ebraica a Gaza era il mosaico del re Davide che data al 508. Fu scoperto presso i resti di una sinagoga del VI e rappresenta il re Davide che suona un’arpa. Fu trasferito all’Israel Museum a Gerusalemme dopo la conquista israeliana di Gaza durante la guerra dei Sei Giorni nel 1967.

C’è stato un periodo in cui a Gaza City c’erano 38 bagni turchi. Molti andarono perduti durante guerre e occupazioni perché non c’erano le risorse per conservarli.

L’Hammam al-Sammara .Foto: Ahmed Jadallah/Reuters

L’hammam al-Sammara era l’ultimo rimasto. Una volta un cartello all’ingresso diceva che era stato restaurato nel 1320 dal governatore mamelucco Sangar ibn Abdullah.

Era un luogo d’incontro popolare dei gazawi per socializzare e curarsi sotto gli storici soffitti a volta. Dai pavimenti in lastre di marmo con intarsi intricati l’hammam era ancora riscaldato con le tradizionali stufe a legna e condutture.

Situata a nord est di Nuseirat, la città fortifcata di Tell el-Ajjul, o Collina dei vitelli, si trova tra il mar Mediterraneo e Wadi Gaza. Fondata tra il 2000 e il 1800 a.C., è stata danneggiata dai bombardamenti israeliani.

L’egittologo inglese William Matthew Flinders Petrie scoprì il sito negli anni ’30 dopo essersi trasferito ad oriente in Palestina dopo gli scavi della grande piramide di Giza. Qui scoprì gioielli in oro e antiche monete usate da hyksos, romani e bizantini.

Molte delle sue scoperte fatte tra il 1930 e il 1934, quando Gaza era sotto il Mandato britannico, ora si trovano a Londra nell’Istituto di Archeologia del British Museum. Altri ritrovamenti includono ceramiche importate da Cipro, bottiglie e scarabei, con molti pezzi risalenti all’età del Bronzo, circa 3.600 anni fa. i manufatti suggeriscono anche che Tell el-Ajjul fosse un tempo un polo commerciale.

Condizioni sconosciute

Le condizioni di molti altri siti storici di Gaza restano sconosciute. Secondo Alatel è difficile restare aggiornati sulla situazione sul terreno perché essa “cambia ogni cinque minuti”. A causa della pericolosità della situazione i fotografi locali non sono riusciti a ritornare in molti siti per valutare i danni.

Ecco alcuni dei siti di cui non si conoscono ancora le condizioni

Risalente al XIV secolo, il caravanserraglio Khan Younis fu costruito per soddisfare le necessità dei viaggiatori lungo la Via Maris.

Prendendo il suo nome dal suo fondatore mamelucco, Younis al-Nuruzi, il khanato, o khan, era un tipo di albergo popolare nella regione circa dal X secolo, dove i viaggiatori potevano riposare e fare una pausa durante i viaggi. Questo, costruito nel 1387, ha una moschea, un ufficio postale e magazzini.

Durante gli scavi archeologici dal 1972 al 1982 presso il cimitero di Deir el-Balah fu scoperta una collezione di bare di argilla antropomorfe uniche, datate alla tarda età del Bronzo (1550-1200 a.C.).

Situata nel quartiere Daraj, la moschea sufi di Ahmadiyyah Zawiya fu fondata nel 1336 dai seguaci dello sceicco Ahmad al-Badawi, un famoso studioso sufi del XII secolo che viveva a Gaza.

Fedeli sufi si riunivano qui per la preghiera comune i lunedì e giovedì. Ci sono state sparatorie nell’area, dice Alatel, ma non si sa ancora cosa sia successo al luogo sacro.

Tutti i nostri siti storici sono contrassegnati chiaramente, eppure gli attacchi dell’esercito israeliano con carri armati e bulldozer continuano,” dice l’archeologo. “Ma ho fiducia che tutto questo finirà. Anche se cercano di distruggere il nostro passato noi ricostruiremo il futuro di Gaza.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Lo scrittore ospite: Testimonianza al Tribunale Russell sulla Palestina: Apartheid nei Territori palestinesi occupati

John Dugard

29 gennaio 2014 – Middle East Monitor

Nel novembre 2011 il Tribunale Russell sulla Palestina [fondato nel 1966 da Bertrand Russell per indagare sui crimini commessi in Vietnam; il Tribunale Russell sulla Palestina è stato istituito nel marzo del 2009 per promuovere e sostenere iniziative per i diritti del popolo palestinese, ndtr.] terrà una sessione a Città del Capo [Sudafrica, ndtr.] sulla questione se Israele sia o meno colpevole di aver commesso il crimine internazionale di apartheid nel trattamento dei palestinesi. Ho accettato di testimoniare davanti al Tribunale. In questo articolo spiegherò perché credo che il Tribunale Russell abbia un ruolo da svolgere nel promuovere l’attribuzione di responsabilità in Medio Oriente. Descriverò anche la natura della mia testimonianza.

Israele ha violato molte regole fondamentali del diritto internazionale. Si è impadronito della terra palestinese costruendo colonie nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est e costruendo un muro di sicurezza all’interno del territorio palestinese. Ha violato i diritti umani fondamentali dei palestinesi attraverso un regime repressivo di occupazione che ignora le regole contenute nei trattati internazionali in materia di diritti umani e gli strumenti del diritto internazionale umanitario. Si è rifiutato di riconoscere la sua responsabilità nei confronti di diversi milioni di rifugiati palestinesi in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e nella diaspora.

Tuttavia non esiste un tribunale internazionale in grado di valutare la responsabilità di Israele e di perseguirlo penalmente per i suoi crimini. La Corte internazionale di Giustizia ha espresso un eccellente parere consultivo sull’argomento, ma le Nazioni Unite non possono attuarlo a causa dell’opposizione degli Stati Uniti. Alla Corte Penale Internazionale è stato chiesto di indagare sulla condotta di Israele nel corso dell’operazione Piombo Fuso, ma per quasi tre anni il pubblico ministero della CPI ha rifiutato di rispondere a questa richiesta, probabilmente a causa dell’opposizione degli Stati Uniti e della UE [solo nel dicembre 2020 la procuratrice della CPI ha chiesto di aprire un’indagine contro Israele per presunti crimini di guerra nei territori palestinesi, ndtr.] Ai tribunali nazionali nell’esercizio della loro giurisdizione a livello internazionale è stato impedito dall’intervento dei loro governi di procedere penalmente verso politici e soldati israeliani per i loro crimini. Pertanto non esiste un tribunale competente in grado di pronunciarsi sulla condotta di Israele o di procedere penalmente.

L’opinione pubblica internazionale, indignata per l’assenza di un intervento penale nei confronti di Israele per i suoi crimini, non ha quindi a disposizione una soluzione giudiziaria. È qui che entra in gioco il Tribunale Russell per la Palestina. Esso cerca di dare spazio all’opinione pubblica internazionale esaminando le azioni di Israele attraverso un processo simile a quello di un tribunale. Testimoni depongono sull’illegalità della condotta di Israele davanti a una giuria di personalità illustri che rappresentano l’opinione pubblica di molti Paesi.

La sessione del Tribunale Russell di Città del Capo si concentrerà sulla domanda se le politiche e le pratiche di Israele nei territori palestinesi occupati possano o meno rappresentare un crimine di apartheid ai sensi della Convenzione internazionale del 1973 sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid [testo adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 3068 (XXVIII) del 30 novembre 1973 ed entrato in vigore il 18 luglio 1976, ndtr.]. Gli avvocati presenteranno argomentazioni sul campo di applicazione della suddetta Convenzione e i testimoni deporranno sull’apartheid in Sudafrica e sui comportamenti di Israele nei territori occupati. Verranno effettuati dei confronti e saranno prese in esame le somiglianze.

La mia testimonianza si concentrerà sulle somiglianze tra i sistemi sudafricano e israeliano in base alla mia conoscenza personale e la mia esperienza dell’apartheid e alla condotta di Israele nella Palestina occupata. Non tenterò di confrontare l’apartheid con il trattamento degli israeliani arabi all’interno di Israele. Non rivendico alcuna competenza in materia.

Nella mia testimonianza esporrò prima la mia esperienza e poi passerò al mio pensiero sulle affinità o somiglianze nei due sistemi.

La mia vita in Sudafrica

Ho trascorso gran parte della mia vita adulta in Sudafrica come testimone dell’apartheid. Mi sono opposto all’apartheid, come comune cittadino, avvocato, studioso e responsabile di ONG. Ho avuto una vasta esperienza e conoscenza dei tre pilastri della condizione dell’apartheid: discriminazione razziale, repressione e frammentazione territoriale.

Scrivendo proficuamente sull’apartheid, ho pubblicato un importante lavoro sull’argomento, Human Rights and the South African Legal Order [Diritti umani e ordinamento giuridico sudafricano] (1978), che fornisce il resoconto più completo pubblicato finora sulla struttura giuridica dell’apartheid. Nel libro prendo in esame le ingiustizie dell’apartheid e metto a confronto l’apartheid con le norme internazionali sui diritti umani.

Ho partecipato attivamente al lavoro di ONG contrarie all’apartheid, come il South African Institute of Race Relations [Istituto sudafricano per le relazioni razziali] e Lawyers for Human Rights [Avvocati per i diritti umani]. Dal 1978 al 1990 sono stato direttore del Center for Applied Legal Studies [Centro per gli studi legali applicati, ndtr.] (CALS) presso l’Università del Witwatersrand, che si occupava di patrocini e contenziosi nel campo dei diritti umani. Come avvocato ho rappresentato famosi oppositori dell’apartheid, come Robert Sobukwe e l’arcivescovo Desmond Tutu, e vittime non note del sistema; ho portato avanti campagne legali contro lo sfratto di persone di colore dai quartieri riservati esclusivamente ai bianchi in seguito alla Group Areas Act [insieme di tre provvedimenti del parlamento del Sudafrica emanati sotto il governo dell’apartheid. I provvedimenti assegnavano gruppi razziali a diverse zone residenziali e commerciali nelle aree urbane sulla base di un sistema di apartheid urbano, ndtr.] e contro le famigerate “pass laws” [leggi che hanno istituito una specie di passaporto interno progettato per separare la popolazione, gestire l’urbanizzazione e allocare il lavoro migrante con logiche segreganti, ndtr.] che hanno fatto diventare un reato la presenza di neri nelle cosiddette “aree bianche” senza un documento che lo consentisse. Queste campagne hanno assunto la forma di una difesa legale gratuita per tutti gli arrestati, il che ha reso i sistemi ingovernabili. Attraverso il Center for Applied Legal Studies mi sono impegnato in sfide legali contro l’attuazione delle leggi sulla sicurezza e sull’emergenza, che hanno reso possibili le detenzioni senza processo, gli arresti domiciliari e, in pratica, le torture. Ho anche combattuto l’istituzione dei Bantustan, nei miei scritti, nei tribunali e attraverso interventi pubblici. Se ero esperto di qualcosa, questo erano le leggi dell’ apartheid.

Il mio incontro con Israele e Palestina

Ho visitato Israele e la Palestina ripetutamente dopo il 1982. Nel 1984 ho fatto uno studio comparato sulla posizione israeliana e sudafricana nei confronti del diritto internazionale e nel 1988 ho partecipato a una conferenza organizzata da Al Haq [organizzazione palestinese indipendente per i diritti umani che monitora e documenta le violazioni dei diritti umani di tutte le parti del conflitto israelo-palestinese, ndtr.] a Gerusalemme est durante la Prima Intifada. I quaccheri mi hanno chiesto nel 1992 di revisionare un progetto di assistenza legale a Gerusalemme est durante il quale ho viaggiato molto in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Nel 2001 sono stato nominato presidente di una commissione d’inchiesta istituita dalla Commissione per i diritti umani [organo dell’ONU istituito nel 1946, ndtr.] per indagare sulle violazioni dei diritti umani durante la seconda Intifada. Nel 2001 sono stato nominato relatore speciale della Commissione per i diritti umani (in seguito Consiglio dei diritti umani) sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO). In tale veste visitavo i TPO due volte all’anno e presentavo un rapporto alla Commissione e al terzo comitato dell’Assemblea generale sia per iscritto che verbalmente. Il mio rapporto del 2003, che ha messo in guardia la comunità internazionale sull’annessione di fatto da parte di Israele della terra palestinese con il pretesto del “Muro”, ha portato alla richiesta di un parere consultivo alla Corte Internazionale di Giustizia ed è stato ampiamente citato dalla Corte nel suo Parere consultivo del 2004. Il mio mandato è scaduto nel 2008. Nel febbraio 2009, tuttavia, ho guidato una missione conoscitiva istituita dalla Lega degli Stati Arabi per indagare e riferire sulle violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario nel corso dell’operazione israeliana “Piombo fuso” contro Gaza.

Dalla mia prima visita in Israele / Palestina sono stato colpito dalle somiglianze tra l’apartheid in Sudafrica e le pratiche e le politiche di Israele nei territori palestinesi occupati. Queste somiglianze sono apparse più evidenti man mano che mi sono informato meglio sulla situazione. Come relatore speciale, mi sono deliberatamente astenuto dal fare simili confronti fino al 2005, poiché temevo che avrebbero impedito a molti governi occidentali di prendere sul serio le mie relazioni. Tuttavia, dopo il 2005, ho deciso che non potevo in buona coscienza astenermi dal fare tali confronti.

Osservazioni personali

Naturalmente i regimi di apartheid e di occupazione sono molto diversi, in quanto il Sud Africa dell’apartheid praticava discriminazioni contro la propria gente; ha cercato di frammentare il Paese in un Sudafrica bianco e bantustan neri per evitare di estendere il diritto di voto ai sudafricani neri. Le sue leggi sulla sicurezza sono state usate per reprimere brutalmente l’opposizione all’apartheid. Israele, invece, è una potenza occupante che controlla un territorio straniero e il suo popolo sotto un regime la cui natura è riconosciuta dal diritto umanitario internazionale come una forma di occupazione bellica. In pratica, tuttavia, c’è poca differenza. Entrambi i regimi erano e sono caratterizzati da discriminazione, repressione e frammentazione territoriale. La differenza principale è che il regime dell’apartheid era più onesto: le leggi sull’apartheid sono state legalmente approvate in Parlamento ed erano chiare a tutti, mentre le leggi che governano i palestinesi nei TPO sono contenute in oscuri decreti militari e hanno perpetuato regolamenti di emergenza praticamente inaccessibili. Nel Sudafrica dell’apartheid cartelli rozzi e razzisti indicavano quali servizi fossero riservati ad uso esclusivo dei bianchi. Nell’OPT non esistono tali cartelli, ma le Forze di Difesa israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] (IDF) assicurano in molte aree ai coloni i loro diritti esclusivi. In nessun settore ciò è evidente quanto nel caso dell'”apartheid stradale”. In Cisgiordania le strade in buone condizioni sono riservate all’uso esclusivo dei coloni senza che alcun segnale indichi tale prerogativa, ma l’IDF assicura che i palestinesi non utilizzino queste autostrade. (Per inciso, va sottolineato che l’apartheid in Sudafrica non si è mai esteso alle strade!)

Nel mio lavoro di commissario (2001) e relatore speciale (2001-2008) ho assistito ad ogni aspetto dell’occupazione dei TPO; la mia posizione era molto privilegiata. Accompagnato e sotto la guida di un autista palestinese e in compagnia di leader della comunità palestinese ed esperti delle Nazioni Unite, ho viaggiato molto in Cisgiordania e Gaza, visitando ogni città, molti villaggi, fattorie, scuole, ospedali, università e fabbriche. Nel corso degli anni ho anche visitato colonie come Ariel, Ma’ale Adummim, Betar Illit e Kirya Arba, che assomigliano ai sobborghi di lusso sudafricani di Sandton e Constantia con le loro belle case, supermercati, scuole e ospedali.

Ho visto gli umilianti posti di controllo, con lunghe file di palestinesi che aspettavano pazientemente sotto il sole e la pioggia che i soldati dell’IDF esaminassero i loro documenti di viaggio. Inevitabilmente ciò ha riportato alla memoria le lunghe file negli “uffici per il pass” dell’apartheid e il trattamento dei sudafricani neri da parte di agenti di polizia e burocrati. Ho visitato case che erano state distrutte dall’IDF per “ragioni amministrative” (cioè, erano state costruite senza un permesso della potenza occupante israeliana, quando i permessi di costruzione non sono praticamente mai concessi). Mi sono tornati alla mente i ricordi delle case demolite nel Sud Africa dell’apartheid nelle “aree nere” di un tempo, [perché] riservate all’esclusiva presenza abitativa da parte di bianchi. Ho visitato la maggior parte del muro che si estende lungo il lato ovest della Palestina, ho visitato fattorie che erano state confiscate per la costruzione del muro e ho parlato con gli agricoltori che avevano perso i loro mezzi di sostentamento. Ho anche parlato con i proprietari di fabbriche i cui locali erano stati distrutti dalle IDF come “danno collaterale” nel corso delle loro incursioni e con i pescatori di Gaza a cui non era permesso pescare per ragioni di “sicurezza”.

Nel 2003 ho visitato Jenin poco dopo la devastazione da parte dell’IDF e ho visto le case rase al suolo dai bulldozer. Ho visto i danni causati alle infrastrutture di Rafah dai bulldozer Caterpillar costruiti appositamente allo scopo di distruggere strade e case; ho parlato con le famiglie in un campo profughi vicino a Nablus le cui case erano state saccheggiate e vandalizzate dai soldati israeliani con la compagnia di cani aggressivi; ho parlato con gli adulti e i più giovani che erano stati torturati dalle IDF; e ho visitato gli ospedali per incontrare coloro che erano stati feriti dall’IDF. Ho visitato scuole che erano state distrutte dalle IDF, con squallidi graffiti anti-palestinesi scritti sui muri; ho parlato con bambini traumatizzati i cui amici erano stati uccisi dal fuoco a casaccio dalle IDF e che venivano curati da psicologi; sono stato esposto agli assalti dei coloni a Hebron e ho visitato le comunità a sud di Hebron, che vivevano nella paura degli stessi coloni illegali. Ho visto ulivi distrutti dai coloni e ho viaggiato attraverso la Valle del Giordano osservando campi beduini distrutti (che mi hanno ricordato ancora la distruzione dei “settori neri” nel Sudafrica dell’apartheid) e posti di controllo progettati per servire gli interessi dei coloni. Ho incontrato membri delle IDF nei posti di controllo e nei valichi di frontiera e ho avuto un forte senso di déjà vu: avevo già visto quel genere di individui in una vita precedente.

Durante la visita in Palestina, ho soggiornato a Gerusalemme est occupata. Lì ho visto insediamenti coloniali israeliani nel cuore della Città Vecchia e ho visitato case che erano state distrutte da Israele o individuate per la distruzione (ad esempio a Silwan). Ho parlato con famiglie che erano state separate dai misteri amministrativi dell’occupazione israeliana che permetteva ad alcuni palestinesi di vivere a Gerusalemme, ma confinava altri in Cisgiordania. Ho ricordato le leggi dell’apartheid che separavano le famiglie in questo modo.

Ho avuto un’esperienza di prima mano della “frammentazione territoriale” della Palestina, ovvero il sequestro, la confisca e l’appropriazione della terra palestinese da parte di Israele. Ho esplorato la terra annessa de facto da Israele tra la Linea Verde (il confine generalmente accettato del 1948/49 tra Israele e Palestina) e il Muro; ho visto e visitato gli insediamenti tentacolari che hanno sottratto ampi tratti di terra palestinese in Cisgiordania e Gerusalemme est; ho visto le vaste aree di terra dichiarate zone militari israeliane nella Valle del Giordano e altrove.

Tutto ciò che dirò delle mie indagini a Gaza nel febbraio 2009, poco dopo l’Operazione Piombo Fuso, è che credo che la Striscia di Gaza si trova ancora sotto occupazione e l’operazione Piombo Fuso sia stata un’operazione di polizia progettata per punire collettivamente una popolazione sotto occupazione che si ribella, visione condivisa dal cosiddetto rapporto Goldstone commissionato dal Consiglio dei diritti umani. Sono rimasto sconvolto e rattristato da ciò che ho visto. Non ho dubbi sul fatto che sia stato un atto di punizione collettiva in cui le IDF hanno attaccato intenzionalmente civili e obiettivi civili. Le prove non hanno fornito spiegazioni diverse.

Un commento finale basato sulla mia esperienza personale. C’era un elemento positivo nel regime dell’apartheid, sebbene motivato dall’ideologia dello sviluppo separato, che mirava a rendere i Bantustan degli Stati vivibili. Sebbene non legalmente obbligato a farlo, il regime dell’apartheid ha costruito scuole, ospedali e buone strade per i neri sudafricani. Ha costruito industrie nei Bantustan per fornire lavoro ai neri. Israele non arriva minimamente a farlo per i palestinesi. Sebbene per legge, ai sensi delle Convenzioni di Ginevra del 1949, sia tenuto a soddisfare i bisogni materiali delle persone sotto occupazione, lascia questa responsabilità ai donatori stranieri e alle agenzie internazionali. Israele pratica nei TPO il peggior tipo di colonialismo. La terra e l’acqua sono sfruttate da una comunità di coloni aggressivi che non si preoccupano del benessere del popolo palestinese, tutto ciò con la benedizione del governo dello Stato di Israele.

I comportamenti di Israele nei TPO assomigliano a quelli dell’apartheid. Sebbene ci siano differenze, queste sono compensate dalle somiglianze. Qual è, ed era, peggio, l’apartheid o l’occupazione israeliana della Palestina? Sarebbe un errore, da parte mia, dare un giudizio. Come bianco sudafricano non potevo condividere il dolore intenso e l’umiliazione dell’apartheid con i miei compagni sudafricani neri. Ho capito la loro rabbia e frustrazione e ho cercato di identificarmi con loro e di oppormi al sistema che li ha relegati allo status di sub-umani. Allo stesso modo, non riesco a sentire pienamente il dolore e l’umiliazione che i palestinesi provano sotto l’occupazione di Israele. Ma osservo il sistema al quale sono sottoposti e provo lo stesso senso di rabbia che ho provato nel Sudafrica dell’apartheid.

Al Tribunale Russell gli avvocati e i giurati esamineranno, discuteranno e terranno delle conclusioni riguardo la questione se il comportamento di Israele nei TPO rientri o meno nei comportamenti penalmente perseguibili in base alla Convenzione internazionale del 1973 sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid. Questo è importante per determinare la responsabilità di Israele. Ma per me c’è una domanda più grande che si pone dinnanzi al giudizio morale della gente nel mondo, e in particolare degli occidentali. Come possono coloro, sia ebrei che gentili, che si sono opposti così energicamente all’apartheid per motivi morali rifiutarsi di opporsi a un sistema simile imposto da Israele alla popolazione palestinese?

John Duggard è presidente del comitato indipendente di accertamento dei fatti di Gaza; ed ex relatore speciale del Consiglio per diritti umani sui diritti umani in Palestina.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dal’inglese di Aldo Lotta)




I tribunali israeliani possono garantire la giustizia ai palestinesi?

Ben White

17 luglio 2019 – Al Jazeera

Critiche mettono in dubbio il ricorso alla Corte Suprema dopo che essa ha consentito la demolizione di edifici sotto controllo palestinese

La demolizione di edifici di proprietà di palestinesi da parte delle forze israeliane nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est è un avvenimento frequente.

Ma a Sur Baher, un quartiere sudorientale di Gerusalemme, incombe una demolizione di massa senza precedenti, con l’approvazione della Corte Suprema israeliana.

Dieci edifici abitati o in via di costruzione, che contano decine di appartamenti, sono stati segnati per essere distrutti, dopo aver contravvenuto a un ordine militare israeliano del 2011 che proibisce la costruzione all’interno di una zona cuscinetto di 100-300 metri dal muro di separazione.

Mentre la maggior parte di Sur Baher si trova all’interno dei confini municipali della Gerusalemme est unilateralmente annessa da Israele, parte della terra della comunità è in Cisgiordania – terreno che tuttavia è finito sul lato “israeliano” del muro condannato internazionalmente che è stato dichiarato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia.

Lo scorso mese la Corte Suprema israeliana ha dato il permesso di demolizione a Sur Baher, benché gli edifici in questione siano stati costruiti su terreni destinati al controllo civile dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), da cui sono stati regolarmente ottenuti permessi edilizi.

Le autorità israeliane hanno fissato la scadenza per giovedì 18 luglio.

La documentazione parla chiaro”

La decisione della Corte Suprema non corrisponde alla sua fama internazionale come difensore di diritti umani. In effetti la Corte è stata a lungo una maledizione per parte della destra israeliana, che si è lamentata di una presunta tendenza progressista e di un’interferenza giudiziaria con le leggi.

Ma Hagai El-Ad, direttore esecutivo dell’Ong [israeliana, ndtr.] per i diritti umani “B’Tselem”, dice ad Al Jazeera che per “avere una visione adeguata riguardo alla Corte Suprema, è necessario esaminare quello che ha fatto finora.

E questi dati parlano chiaro, dimostrano in modo inequivocabile come la Corte abbia costantemente respinto i ricorsi presentati dai palestinesi, mentre ha fornito il beneplacito legale a sistematiche violazioni dei diritti umani, compresi trasferimenti forzati, punizioni collettive, impunità generalizzata per le forze di sicurezza israeliane e tortura,” aggiunge.

Sawsan Zaher, vice direttrice esecutiva del centro per i diritti giuridici “Adalah”, con sede ad Haifa, è d’accordo. “Se si guarda alla Corte Suprema riguardo ai territori palestinesi occupati, nella grande maggioranza dei casi essa ha respinto ricorsi che contestavano violazioni delle leggi umanitarie internazionali, indipendentemente dal fatto che i giudici fossero conservatori o più “progressisti”, dice ad Al Jazeera.

Secondo Zaher l’approccio della Corte alle petizioni presentate da cittadini palestinesi è differenziato. “Alcune sono accolte, in genere quelle riguardanti i classici casi di discriminazione, come quelli riguardanti la destinazione dei fondi,” dice Zaher.

Ma aggiunge che la Corte usa “ogni genere di scusa e di interpretazione per giustificare il rigetto” quando si tratta di “casi che sono al centro del conflitto nazionale tra lo Stato e i cittadini palestinesi come minoranza” e dell’“esistenza di Israele come ‘Stato ebraico’”, comprese le questioni relative a “terra e demografia”.

Pianificazione discriminatoria

Ma è l’intervento – o il mancato intervento – della Corte sul sistema discriminatorio di pianificazione di Israele e sulle conseguenti demolizioni di case palestinesi che recentemente forse è stato più sotto i riflettori, anche nei casi particolarmente gravi in attesa di espulsione forzata, come nel caso del villaggio di Khan al-Ahmar.

In aprile i giudici hanno respinto un ricorso sulla demolizione di case palestinesi costruite senza permesso, chiarendo che non avrebbero discusso il sistema di pianificazione in cui tali demolizioni avvengono – ma solo se le strutture erano state costruite “legalmente” o meno.

In un rapporto di quest’anno sulla “responsabilità” della Corte Suprema per la “spoliazione dei palestinesi”, B’Tselem ha affermato che, per quanto a sua conoscenza, “non c’è stato neppure un singolo caso in cui i giudici abbiano accolto un ricorso presentato dai palestinesi contro la demolizione delle loro case.”

Per Dalia Qumsieh, un’esperta consulente giuridica dell’Ong per i diritti dei palestinesi “Al-Haq”, il caso di Sur Baher “dimostra uno schema costante della Corte (Suprema) che si rifiuta di prendere le distanze dai progetti del governo e accoglie persino ogni sua richiesta: “In generale la Corte non mette in discussione la legalità di politiche o misure in sé,” dice ad Al Jazeera. “Al contrario, si concentra su dettagli tecnico-legali che riguardano la messa in pratica di tali politiche.

Il massimo risultato che si può ottenere essendo palestinese con una causa nel sistema israeliano non può andare oltre le tutele minime, ora ancora più difficili da ottenere,” aggiunge.

Altri dicono che persino quelle “tutele minime” sono minacciate.

“La composizione della Corte Suprema è cambiata,” afferma Zaher, indicando le nomine giudiziarie del 2017 fatte dall’allora ministra della Giustizia Ayelet Shaked [esponente del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.].

“Oggi la critica dei conservatori alla Corte è cambiata: invece di accuse riguardo a un approccio “progressista” verso le richieste della minoranza araba, la destra sta criticando persino la facoltà della Corte di discutere della costituzionalità delle leggi,” aggiunge Zaher, descrivendo come negativa la parabola della Corte.

Complicità nel rafforzamento

Secondo Qumsieh, mentre la Corte “non è mai stata un vero luogo in cui è stata fatta giustizia per i palestinesi,” gli ultimi anni hanno visto “gravi sviluppi riguardanti il lavoro della Corte”, e in particolare lo “legame sempre più stretto” tra essa e il governo israeliano.

“Questo legame è passato dal fare pressione sui ricorrenti palestinesi perché accettino i progetti dell’esercito israeliano a dettare effettivamente al governo quello che deve fare per legalizzare politiche illegali,” aggiunge, citando il caso della revoca della residenza a Gerusalemme a politici affiliati ad Hamas. Per qualcuno, come El-Ad di B’Tselem, la situazione dell’attività giurisprudenziale della Corte significa che “la domanda è: per quale fine realistico si avvia una causa davanti ad essa?”

Per avvocati e gruppi per i diritti umani, palestinesi e israeliani, il vantaggio di impegnarsi in un giudizio con la Corte Suprema rimane una questione aperta.

“La Corte non ha mai sinceramente messo in discussione nessuna delle principali politiche che tengono in piedi l’occupazione,” afferma Qumsieh, “fino a diventarne un pilastro.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Quindici anni di separazione: i palestinesi tagliati fuori da Gerusalemme dal muro

Netta Ahituv

10 marzo 2018,Haaretz

I palestinesi lo vedono come un tentativo di Israele di espellerli da Gerusalemme; gli israeliani come una difesa contro il terrorismo. Haaretz ha indagato l’impatto della barriera di separazione sulla città e sui suoi abitanti.

Nella capitale di Israele[ per Israele ma per la comunità internazionale salvo Trump la capitale è Tel Aviv,ndt] un muro serpeggia e gira per un totale di 202 kilometri. Da una parte questo serpente di cemento incarna l’occupazione; allo stesso tempo offre un senso di sicurezza. Tra questi due poli, a volte la situazione assume una dimensione assurda. Quest’anno segna il quindicesimo anniversario da quando la costruzione del muro è iniziata – un progetto concepito come necessità securitaria che si è ingrandito fino a diventare un strumento politico molto potente. I suoi molteplici aspetti si riflettono nei diversi nomi che gli sono stati attribuiti: “barriera di sicurezza”, “recinto di separazione”, il “muro” e, denominazione ufficiale, “l’involucro di Gerusalemme”.

I suoi sostenitori si concentrano su quello che descrivono come il suo principale pregio: la sicurezza. Come prova che il muro sta funzionando bene sottolineano il notevole decremento del numero di attacchi suicidi che sono avvenuti in Israele da quando l’idea è stata approvata la prima volta (43 di questi attacchi nel 2002, zero attacchi suicidi nel 2012).

Chi critica la barriera sostiene che il suo obiettivo sotteso sia demografico: l’annessione di fatto ad Israele della maggiore estensione possibile di territorio, includendo il minor numero possibile di abitanti palestinesi. L’esistenza del muro, affermano, renderà ancora più difficile alle due parti raggiungere mai un accordo. A supporto di questa considerazione, sottolineano che solo il 15% del percorso di 470 km dell’intera barriera (non solo il suo tracciato a Gerusalemme) corrisponde alla Linea Verde [che divideva Israele e la Cisgiordania prima della guerra del ’67 e dell’occupazione israeliana, ndt.], mentre il restante 85% passa all’interno di zone palestinesi.

Sostenitori e detrattori dei benefici del muro possono essere trovati tra israeliani sia di destra che di sinistra, così come nella comunità internazionale. Un suo ammiratore è il presidente Usa Donald Trump, che vuole replicare il suo “successo” lungo il confine del suo Paese con il Messico. Tuttavia la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia non riconosce la legittimità del muro e – in una sentenza del 2004 – chiede che venga smantellato, con indennizzi da pagare ai palestinesi che sono stati danneggiati dalla sua costruzione.

Qualunque sia l’opinione, non si può negare il fatto che la presenza del muro abbia provocato non pochi sconvolgimenti nelle vite sia degli israeliani che dei palestinesi. Ha alterato l’aspetto delle comunità, è diventato il fattore dominante nelle vite di molti, ha colpito l’economia dei due popoli e si è insinuato in modo molto naturale nelle abitudini culturali di questa terra in conflitto.

Descrivendo le diverse percezioni del muro all’interno delle due Nazioni, l’avvocatessa Nisreen Alyan, una palestinese con cittadinanza israeliana che lavora per l’”Associazione per i Diritti Civili in Israele”, osserva: “I palestinesi lo vedono come una ferita in mezzo alla popolazione. Sono anche informati del fatto che, in base alle leggi internazionali, non è legittimo. Dal loro punto di vista il muro è un ulteriore simbolo dell’occupazione israeliana. Al contrario gli israeliani vedono il muro come un mezzo di protezione, una necessità legata alla sicurezza, e di conseguenza pensano che la sua legittimità o illegittimità non sia pertinente alla discussione.”

Anche i tribunali israeliani si sono occupati del problema del muro in varie occasioni (negli anni sono stati presentati circa 150 ricorsi contro di esso e contro il suo percorso). Le sentenze non hanno mai assunto la forma di decisioni contro il muro in quanto tale, al massimo hanno dato debole espressione all’opinione che questa o quella parte del suo percorso fosse sproporzionata o irragionevole in termini di sconvolgimento della vita quotidiana dei palestinesi.

In realtà il tribunale non ha mai scavato in profondità alla radice dell’esistenza del muro, ne ha invariabilmente discusso in superficie,” dice Alyan.

Tutti questi ricorsi e contro-ricorsi hanno assunto una maggiore intensità riguardo al tratto di muro a Gerusalemme, che va dalla comunità di Har Adar a nord fino al blocco di colonie di Gush Etzion, a sud di Betlemme. In alcune parti assume la forma di una recinzione, con sotto dei fossati, in altre parti, soprattutto nelle aree urbane, è un muro di cemento alto nove metri sormontato da filo spinato, punteggiato di torri di controllo e telecamere.

Come molti capitoli della storia israeliana, la vicenda della nascita del muro è intrisa di sangue. Una serie di attacchi kamikaze scosse il Paese alla fine degli anni ’90 e nei primi anni del nuovo secolo. Il dicembre del 2001 fu un mese particolarmente duro, iniziato con due attacchi mortali. Nel primo vennero uccisi 11 israeliani da due kamikaze nella zona commerciale pedonale di via Ben Yehuda e da un’autobomba che esplose nei pressi. Il secondo incidente avvenne il giorno dopo ad Haifa, con 15 persone uccise in un autobus. La commissione ministeriale per la sicurezza nazionale si riunì in sessione speciale e decise di mettere in atto il progetto dell’“involucro di Gerusalemme”, con l’obiettivo di regolare l’ingresso dei palestinesi in Israele.

Nell’agosto del 2002 la prima fase del muro di Gerusalemme venne pianificata ed approvata – due sezioni di 10 km l’una. La parte settentrionale avrebbe separato Ramallah da Gerusalemme; quella meridionale avrebbe diviso Betlemme dalla capitale israeliana. Il resto del percorso venne aggiunto un po’ alla volta nel corso degli anni. Il tratto finale, al momento, viene costruito sulla dorsale meridionale di Gerusalemme, nel quartiere [in realtà una colonia, ndt.] di Gilo attraverso la Linea Verde, vicino al monastero “Cremisan” (che rimane all’interno dei confini municipali di Gerusalemme a causa delle pressioni da parte del Vaticano).

Nel loro libro del 2008 “The Wall of Folly” [“Il muro della follia”] (in ebraico) il geo-demografo Shaul Arieli e l’avvocato Michael Sfard, specializzato in leggi sui diritti umani, raccontano come il primo ministro Ariel Sharon e il suo governo del Likud [partito di destra israeliano, ndt.] “cercarono in ogni modo di evitare la costruzione di un muro a Gerusalemme.” Alla fine, aggiungono, la decisione di erigerlo “fu una risposta senza alternative di fronte agli avvenimenti terroristici di cui Gerusalemme soffrì più di qualunque altro luogo in Israele.”

In effetti il terrorismo si ridusse, ma molti analisti, compreso Arieli, sostengono che la diminuzione degli attacchi non sia stata dovuta solo alla costruzione del muro, ma a un insieme di vari fattori: il colpo sferrato alle organizzazioni terroristiche nell’operazione “Scudo difensivo” dell’esercito israeliano nel 2002; una più stretta collaborazione con l’Autorità Nazionale Palestinese in questioni relative alla sicurezza; una maggiore attività di intelligence da parte di Israele.

Inizialmente la barriera di Gerusalemme avrebbe dovuto circondare la cittadina [in realtà una colonia, ndt.] di Ma’aleh Adumim a est della città sulla strada verso il Mar Morto e annettere quella regione, nota come E-1, ad Israele. Tuttavia, in seguito a pressioni internazionali, il progetto di rendere Ma’aleh Adumim parte della conurbazione di Gerusalemme non è ancora stato messo in pratica. Per evitare un varco nella barriera di Gerusalemme, ma senza annettere quest’area sensibile, è stato costruito un muro tra Gerusalemme e l’E-1, che obbliga i 38.000 coloni ebrei nella zona ad attraversare un checkpoint per entrare a Gerusalemme.

La nostra espulsione silenziosa”

Per i palestinesi l’involucro di Gerusalemme ha creato spazi urbani totalmente diversi da quelli che esistevano nel periodo precedente il muro. Il risultato che più colpisce è la separazione di Gerusalemme sia da Betlemme che da Ramallah, che di fatto esclude dalla Cisgiordania gli abitanti palestinesi di Gerusalemme.

Un esempio calzante è la vita di due studenti, M. e L., che vivono entrambi a Gerusalemme est ed hanno carte d’identità blu (quelle israeliane). Si sono incontrati al corso preparatorio dell’Università Ebraica di Gerusalemme, dove ancora studiano, ed hanno intenzione di sposarsi presto. Poiché la famiglia estesa di L. vive a Ramallah, lei ha presentato una richiesta per ottenere dei permessi di ingresso per i parenti in modo che possano festeggiare insieme alla coppia il giorno delle nozze. La data dell’avvenimento si avvicina, ma le autorità israeliane non hanno ancora risposto alla richiesta. Questo non era stato un problema che i genitori di L., che si erano sposati prima della costruzione del muro, dovettero affrontare quando spedirono gli inviti per il loro matrimonio.

Il secondo cambiamento importante è la separazione dalla città vera e propria di Kafr Aqab, un villaggio nel nord di Gerusalemme, e del campo profughi di Shoafat, a nordest. Il muro separa entrambe le aree dal resto della città. Per entrare a Gerusalemme – cosa per cui queste persone hanno il permesso, in quanto possiedono carte d’identità blu e sono considerati residenti di Gerusalemme – gli abitanti dei due quartieri sono obbligati ad attraversare dei checkpoint. Circa 90.000 persone, che rappresentano tra un quarto e un terzo degli abitanti palestinesi di Gerusalemme est, vivono in quartieri “lasciati” dalla parte sbagliata del muro, fuori dalla Gerusalemme vera e propria.

Per i palestinesi con status di residenti a Gerusalemme est, le barriere erano precedenti al muro. Già negli anni ’90, durante la prima Intifada, Israele eresse barriere e proibì ai palestinesi che non erano residenti a Gerusalemme di entrare in città senza un permesso – ma la separazione ora è concreta e permanente.

Molti palestinesi ricordano con nostalgia il periodo precedente il muro. Descrivono via Salah e-Din, la strada principale di Gerusalemme est, come un prospero centro commerciale, economico e culturale, una calamita per i palestinesi di ogni parte della Cisgiordania e di Israele. In seguito alla costruzione della barriera, tuttavia, l’accesso a Gerusalemme è diventato difficile e l’attività commerciale nella parte orientale della città si è ridotta. Negli anni seguenti circa 5.000 piccoli commerci a Gerusalemme est hanno chiuso per mancanza di clienti, cosa che ha ulteriormente intensificato la povertà. Se prima della costruzione dell’involucro di Gerusalemme la percentuale di poveri tra i palestinesi di Gerusalemme era del 60%, dopo è salita fino all’80%, ed è rimasta tuttora invariata.

Il quartiere Bir Naballah di Gerusalemme nord, per esempio, è stato chiuso fuori, trasformato in una enclave isolata. Nel passato il quartiere era un centro di locali da ricevimento. Oggi i palestinesi che vogliono entrare a Bir Naballah devono attraversare posti di blocco e nessuno vuole smorzare l’allegria di una festa in quel modo. La situazione ha portato alla chiusura della maggior parte dei locali da ricevimento e dei ristoranti.

E non sono state solo le attività commerciali a soffrirne – anche la vita culturale ne ha risentito. C’erano tre cine teatri popolari a Gerusalemme est, insieme al teatro nazionale palestinese, Al Hakawati; i cine teatri hanno chiuso e Al Hakawati si è spostato a Ramallah.

Quindici anni sono passati da quando è iniziata la costruzione del muro, e gli uffici ed i servizi governativi, come la polizia e i servizi fognari, in quei quartieri non stanno più funzionando,” dice Nisreen Alyan.

Il risultato è stato il dominio di delinquenti e famiglie criminali. Ci sono spaccio di droga, prostituzione e anche un mercato delle armi, e nessuno sta facendo qualcosa. I quartieri oltre il muro sono diventati il rifugio di criminali che scappano dalle leggi in Israele o dal sistema giudiziario dell’ANP.”

Si è detto e scritto molto sul campo di rifugiati di Shoafat (30.000 abitanti), che soffre per la scarsità di infrastrutture e per la povertà. Kafr Aqab (25.000 abitanti) e i quartieri limitrofi sono in una situazione simile. Ufficialmente si trovano all’interno della giurisdizione del Comune di Gerusalemme, ma in pratica ricevono dalla città servizi vergognosamente inadeguati.

I residenti del posto descrivono la loro condizione come “la nostra espulsione silenziosa.” Quello che vogliono dire è che, in base al fatto concreto del loro abbandono, sono convinti che il Comune di Gerusalemme e lo Stato di Israele stiano tentando di spingerli in una condizione disperata, in seguito alla quale se ne andranno, e così facendo perderanno il loro status di residenti a Gerusalemme. In questo modo non rappresenteranno più una minaccia demografica per la maggioranza ebraica della città.

Infatti la disperazione è il sentimento dilagante sia a Shoafat che a Kafr Aqab. Le ragioni di ciò non mancano, e recentemente se n’è aggiunta una nuova: il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte del presidente Trump e l’annuncio che l’ambasciata USA sarà spostata in città come omaggio a Israele per il 70° anniversario della sua indipendenza. Per i palestinesi di Gerusalemme è l’ennesima iniziativa che allontana ulteriormente le loro speranze della fine dell’occupazione e le loro aspirazioni a fare di Al-Quds – come definiscono la Gerusalemme est araba – la loro capitale. Ciò potrebbe non cambiare la loro situazione materiale, ma costituisce un colpo in più al loro morale.

Paura della partizione

Una persona che ancora non dispera di migliorare la situazione è l’avvocato Mu’in Odeh. È nato e cresciuto nel quartiere di Silwan a Gerusalemme, nei pressi della Città Vecchia. Quando si è sposato, otto anni fa, a trent’anni, ha constatato di persona la crisi abitativa del quartiere. Siccome Silwan è parte integrante di Gerusalemme, i suoi abitanti non devono attraversare posti di controllo per entrare in città, il che rende molto ricercato il fatto di abitarvi. Odeh e sua moglie non hanno avuto altra possibilità che spostarsi a Kafr Aqab, al di là del muro. Lì pagano un affitto mensile di 2.000 shekel (circa 400 €), mentre un affitto all’interno della barriera di Gerusalemme può costare due o tre volte quella somma.

L’affitto a Kfr Aqab è basso, sì, ma ci sono tre gravi problemi in questo quartiere,” dice Odeh, che ha uno studio legale privato a Gerusalemme. “Il primo è il checkpoint. Non c’è modo di sapere in anticipo se ci sarà un grande ingorgo e per attraversarlo ci vorranno due ore o se andrà veloce e potrò superarlo in un quarto d’ora.”

Il secondo problema è “l’assenza di una sensazione di sicurezza,” continua Odeh. “Non ci sono forze di sicurezza nel quartiere, né israeliane né palestinesi. L’unica istituzione che agisce qui a volte è l’esercito israeliano, che entra solo per compiere arresti legati alla sicurezza. Nessuno ci protegge.”

Odeh arriva al terzo problema: l’abbandono delle infrastrutture e della rete fognaria. Solo metà delle case sono collegate alla rete idrica, le strade secondarie non sono asfaltate e sono costellate di buche, e la spazzatura è ammucchiata dappertutto. I residenti di Kafr Aqab parlano di una carenza di aule scolastiche – secondo “Ir Amim”, un’organizzazione no profit che si dedica a creare una situazione più giusta per i palestinesi di Gerusalemme, c’è una carenza di 2.557 aule nei quartieri di Gerusalemme dall’altra parte del muro. I dati mostrano che c’è una carenza di ambulatori infantili e di centri di salute, uffici di assistenza sociale, uffici postali – e in zona non c’è neppure un parco giochi per i bambini.

Nel 2012 Odeh ha presentato una petizione contro il Comune di Gerusalemme presso il tribunale amministrativo a nome dei residenti di Kafr Aqab. Nel preparare la causa, gli abitanti hanno scoperto che il bilancio per i servizi di pulizia a Kafr Aqab ammonta a meno dell’1% del bilancio totale del Comune per quella voce. Il tribunale ha invitato le due parti a raggiungere un compromesso, e la città ha accettato di aumentare il bilancio per le pulizie all’1%.

Odeh dice che la risposta del Comune è sempre la stessa: non ci sono soldi ed è pericoloso mandare operai municipali in quei quartieri. Riguardo agli stanziamenti, dice, “paghiamo le tasse municipali e il bilancio dovrebbe essere ripartito in modo diverso. Invece in merito alle questioni di sicurezza, molti operai delle fognature sono di Gerusalemme est. Invece di mandarli in altre zone della città, perché non lavorano nei loro stessi quartieri? Se il Comune pensa che non sia troppo pericoloso per loro vivere lì, possono anche lavorarci.”

Nel 2015 Odeh ha presentato un altro ricorso, dato che i servizi comunali non sono migliorati. Il municipio afferma che, dato che è lo Stato che ha costruito il muro, dovrebbe partecipare alle decisioni. A questo lo Stato ha risposto criticando la città per aver trascurato i quartieri, benché abbia ricevuto fondi statali a loro favore. Per esempio, il ministero dei Trasporti ha informato il tribunale di aver concesso a Gerusalemme 423 milioni di shekel (circa 121.2 milioni di dollari) per migliorare infrastrutture come strade e servizi di autobus a Gerusalemme est, ma il Comune non ha utilizzato i soldi a quello scopo.

Nir Barkat è stato eletto sindaco di Gerusalemme per la prima volta nel 2008. Il suo predecessore, Uri Lupolianski, ha cercato di risolvere il problema dei suoi quartieri palestinesi nel 2005. Pensava che con 80 milioni di shekel (circa 17.5 milioni di dollari), si potesse creare una rete di servizi accettabile per quelli che erano stati tagliati fuori dal muro. “Prendi i soldi dai tuoi amici dell’Unione Europea, qual è il problema?” consigliò al sindaco l’allora ministro delle Finanze, Benjamin Netanyahu. In seguito lo stesso Netanyahu, come primo ministro, ha dovuto fare i conti con le conseguenze dell’abbandono. Un rapporto del servizio di sicurezza Shin Bet del 2008 ha fatto riferimento al crescente numero degli abitanti di Gerusalemme coinvolti nel terrorismo. C’era anche un allarme in merito alla possibilità di atti di terrorismo perpetrati da individui solitari dei quartieri di Gerusalemme est – una previsione che si sarebbe avverata qualche anno dopo.

Durante i primi anni 2000 relativamente pochi abitanti della città presero parte al terrorismo, ma il numero di attentatori residenti a Gerusalemme iniziò ad aumentare nel 2008. In un articolo di Nir Hasson nel 2014 su Haaretz, intitolato “La pericolosa anomalia imprevista di Gerusalemme est” egli ha citato palestinesi che attribuivano l’incremento a tre fattori. Il primo di questi era la barriera di separazione, che, con le parole di uno di loro, “danneggia gravemente la vita sociale ed economica a Gerusalemme.”

Un’altra proposta per risolvere il “problema dei quartieri di Gerusalemme est” è stata architettata recentemente dal ministro per Gerusalemme e il Patrimonio Nazionale, Zeev Elkin (Likud). Elkin ha fatto molte pressioni per l’approvazione di un emendamento alla “Legge Fondamentale su Gerusalemme, Capitale di Israele”. Una delle sue clausole avrebbe stabilito che i quartieri palestinesi della parte orientale della città sarebbero stati gestiti da un’autorità municipale separata rispetto a quella di Gerusalemme. L’ottobre scorso Elkin ha detto ai giornalisti di “Haaretz” Nir Hasson e Jonathan Lis che la situazione nei quartieri non potrebbe essere peggiore, ed ha proposto: “Il sistema attuale è stato un totale fallimento. È stato un errore il modo in cui hanno tracciato la barriera. Attualmente ci sono due aree municipali – Gerusalemme e i suoi quartieri – e il rapporto tra loro è molto scarso. Dal punto di vista formale l’esercito non potrebbe intervenire là, la polizia vi entra solo per (effettuare) operazioni, e la zona è diventata una terra di nessuno.”

Elkin ha anche manifestato preoccupazione per il rapido aumento della popolazione in quei quartieri, che sta disintegrando l’attuale equilibrio tra ebrei ed arabi in città, a danno della maggioranza ebraica. Il collega che ha proposto l’emendamento insieme a lui è il ministro dell’Educazione Naftali Bennett (“La casa ebraica” [partito di estrema destra, ndt]). Tuttavia molti altri deputati di destra si sono indignati all’idea di mettere i quartieri di Gerusalemme sotto l’autorità di un governo municipale a parte: essi hanno sostenuto che ciò avrebbe messo le basi per un’eventuale divisione della città, anche se solo a livello dei servizi. Ne è seguito un certo trambusto, e Elkin e Bennett sono stati obbligati a cancellare la clausola dall’emendamento. L’emendamento, il cui principale obiettivo era rendere più difficile ad ogni futuro governo rinunciare alla sovranità su una qualunque parte di Gerusalemme, è stato approvato dalla Knesset a gennaio di quest’anno, ma senza la clausola sulla “divisione”.

Un sacco di cancelli”

Ahmed Sub Laban, un ricercatore di “Ir Amim”, guida la sua auto con sorprendente destrezza nel dedalo di stradine nel quartiere A-Ram di Gerusalemme. Conosce bene ogni pezzetto di asfalto ed ogni vicolo, sa chi vive dove e può raccontare la storia di ogni edificio. “Pronta?” chiede poco prima di girare a sinistra da una stretta via senza nome ad un’altra. Improvvisamente il muro si profila davanti a noi, emergendo in tutta la sua gloria in mezzo alla strada, come se fosse caduto a caso dal cielo. Ma non c’è niente di casuale nel percorso del muro. Passa qui e non in un posto più logico perché c’è una scuola cristiana nel quartiere, a cui molti diplomatici stranieri mandano i propri figli. Non vogliono aver a che fare tutte le mattine con un posto di blocco, per cui lo Stato di Israele ha accettato di far passare il muro dietro la scuola. Il muro passa anche attraverso il cortile della casa del nonno di Sub Laban. Lo stesso Sub Laban sottolinea di aver passato un’infanzia relativamente tranquilla accanto agli ebrei del vicino quartiere di Neve Yaakov, all’estremità settentrionale della città.

Dice che fin dalle prime voci sulla costruzione della barriera, tra i palestinesi si scatenò un boom immobiliare: “Sapevamo che avrebbe cambiato il quartiere, per cui la gente iniziò a costruire in tutti i modi, per creare fatti sul terreno prima che l’occupante ci dicesse cosa avesse bisogno di un permesso e cosa no. Quelli che hanno costruito qui (sul lato che alla fine è rimasto all’interno di Gerusalemme) hanno fatto un affarone, quelli che hanno costruito là (in quello che è risultato essere l’altro lato del muro) hanno perso.” La differenza di prezzo è notevole: un appartamento di tre stanze sul lato israeliano costa 1.5 milioni di shekel (oltre 430.000 dollari), sul lato palestinese circa 16.000 shekel (48.000 dollari).

La direttrice esecutiva di “Ir Amim”, Yudith Oppenheimer, anche lei nell’auto, aggiunge che il muro a Gerusalemme “non separa solo israeliani da palestinesi, ma anche Gerusalemme est dalla Cisgiordania. La sua costruzione è stata provocata da ragioni di sicurezza, ma il percorso scelto è stato sfruttato per rispondere alle ambizioni politiche, demografiche e territoriali israeliane.”

Il geografo Arnon Soffer, professore emerito dell’università di Haifa, parla dell’estetica del muro. “Tutta questa barriera è un sacco di cancelli ed ingressi,” dice, quando ne parliamo. “La sua bruttezza è spaventosa. Entrambi possiamo concordare che è un’aggiunta estremamente brutta alla nostra capitale. Ricordo fin dall’adolescenza la classica immagine della stupenda Gerusalemme. Cosa ne è rimasto? È un errore estetico madornale, che è anche un errore geografico.”

Aggiunge: “Sa quanti palestinesi vivono a Gerusalemme? Qualcuno lo sa? Nessuno lo sa esattamente. I numeri variano da 300.000 a 400.000, e si suppone che un terzo di loro siano fuori dal muro. Ma non c’è un modo effettivo per contarli, perché nessuno sa cosa stia succedendo in quei miseri quartieri. Quale futuro stiamo preparando a noi stessi in questo terribile posto?”

La curiosità di sapere cosa succede dall’altra parte del muro è irresistibile, ma tutto quello che si può fare è ascoltare. Dall’altra parte, alla “Tomba di Rachele”, a sud della città, si sente una guida turistica spiegare in inglese fluente il muro a un gruppo che sembra avere un accento britannico. Sul lato israeliano circa 50 scolare ascoltano i loro insegnanti raccontare la storia della matriarca biblica Rachele. Chiedo se qualcuna di loro è curiosa di sapere cosa ci sia dall’altra parte del muro. Una risponde “Sì,” un’altra dice “C’è Betlemme”; tutte le altre rispondono negativamente, non sono curiose: “È così alla Tomba di Rachele.” È sorprendente con quanta rapidità un muro fatto dall’uomo possa diventare qualcosa che la gente dà per scontato.

Sfide insormontabili

Chiedo a Soffer, che ha 82 anni, come vede il futuro del muro. “Le sfide sono così terribili che sono seriamente preoccupato che voi” – riferendosi alle generazioni più giovani – “non sarete in grado di superarle,” risponde.

Infatti, a questo punto del conflitto e dato lo spirito dei tempi, è difficile immaginare che il muro possa mai crollare. Al momento non pare che succederà nel contesto di un accordo di pace, e la sua eliminazione per obiettivi di annessione ora è una missione troppo complessa. Ma ci sono anche quelli che pensano che il muro sia in realtà un segnale di speranza. Sottolineano che comunque esiste una specie di frontiera tra palestinesi ed israeliani, per quanto frammentata e discussa. Quindi lo spazio per un accordo potrebbe essere più ampio di quanto appaia in un primo momento.

Questa è la premessa di due architetti, Karen-Lee Bar Sinai and Yehuda Greenfield-Gilat (che è anche membro del consiglio comunale di Gerusalemme, in rappresentanza del Partito dei Gerosolimitani [partito laico-religioso di centro, ndt.]). Entrambi erano studenti di architettura quando venne lanciato il progetto di separazione.

Benché le implicazioni geopolitiche, spaziali ed economiche del muro siano enormi, abbiamo rilevato che la comunità locale degli architetti non è stata coinvolta nella questione,” dice Bar Sinai. “Pensiamo che gli architetti abbiano un importante ruolo da svolgere nell’assunzione di responsabilità su come sarà il confine tra Israele e Palestina. Quello che è iniziato come una tesi di laurea è diventato la nostra professione.” I due hanno fondato lo studio “SAYA/Design for Change” ed hanno prodotto numerose mappe e simulazioni con l’obiettivo di “valorizzare la frontiera tra Israele e Palestina,” come dicono loro.

Il muro attorno a Gerusalemme rimarrà,” dice Greenfield-Gilat, “ma il suo percorso cambierà una volta che siano stabiliti i confini definitivi. Secondo noi, insieme ad un cambiamento del percorso, deve cambiare anche l’essenza del muro, in modo che diventi un collegamento e non una divisione. Deve diventare una membrana che respira e rende possibile un tessuto urbano vitale.”

Se il muro rimane, ma non com’è adesso, a cosa somiglierà? I due suggeriscono che sia integrato nelle infrastrutture municipali e mostrano con immagini e mappe come ciò possa essere fatto. Un’idea, per esempio, è di collocare un attraversamento nella stazione centrale degli autobus, in modo che il controllo di sicurezza venga effettuato all’entrata della stazione viaria ed evochi un aeroporto più che un posto di blocco. Un altro attraversamento verrebbe creato sotto la porta di Damasco della Città Vecchia, vicino al sito archeologico. Propongono anche un punto di passaggio nella forma di un ponte pedonale nei pressi dell’hotel “American Colony” a Gerusalemme est. Invece di un muro, in certi punti propongono uno spartitraffico alto, che separi due parti di una strada.

Durante la nostra conversazione dico agli architetti che, benché abbiano descritto la barriera di separazione in termini eleganti, parlando di una “membrana che respira” o di “un viale di confine” – non posso smettere di immaginare un alto muro con filo spinato.

Il nostro ruolo,” replica Greenfield-Gilat, “è proprio cambiare quello che lei sta immaginando. Stiamo proponendo una soluzione che ponga le basi soprattutto per trasformare le coscienze.” A cui Bar Sinai aggiunge: “Lei dipinge la separazione tra i popoli, e va bene – quando viene deciso di separarli per ragioni di sicurezza, lasciamo fare la separazione -, ma noi stiamo parlando della connessione. Stiamo dimostrando che è possibile mettere in connessione in modo più intelligente, farlo meglio.”

(traduzione di Amedeo Rossi)