CPJ: Israele “non si assume alcuna responsabilità” per l’uccisione di giornalisti

AL JAZEERA

9 maggio 2023 – Aljazeera

L’impunità dell’esercito israeliano nell’uccisione di almeno 20 giornalisti negli ultimi 20 anni mina “gravemente” la libertà di stampa, afferma il rapporto del CPJ.

Il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) afferma in un nuovo duro rapporto che l’esercito israeliano non si è assunto alcuna responsabilità per l’uccisione di almeno 20 giornalisti, 18 dei quali palestinesi, negli ultimi 20 anni.

Nel suo rapporto, Deadly Pattern, pubblicato martedì, questa organizzazione a tutela della libertà di stampa dichiara di aver riscontrato “uno schema sistematico nelle uccisioni di giornalisti da parte [dell’esercito israeliano]”.

“Nessuno è mai stato accusato o ritenuto responsabile di queste morti… minando con ciò gravemente la libertà di stampa”, aggiunge.

Il CPJ afferma che i palestinesi costituiscono l’80% dei giornalisti e degli operatori dei media uccisi dall’esercito israeliano.

Queste cifre riflettono in parte l’andamento generale del conflitto israelo-palestinese; secondo i dati delle Nazioni Unite negli ultimi 15 anni i sono stati uccisi 21 volte più palestinesi che israeliani, aggiunge il rapporto.

Inoltre il rapporto evidenzia che “gli ufficiali israeliani sminuiscono le prove e le affermazioni dei testimoni, e spesso sembrano scagionare i soldati per le uccisioni mentre le indagini sono ancora in corso”, e aggiunge che le indagini dell’esercito israeliano sulle uccisioni sono una “scatola nera”, con risultati tenuti segreti.

Nello svolgimento delle indagini l’esercito israeliano spesso impiega mesi o anni per investigare sugli omicidi, e le famiglie dei giornalisti, per lo più palestinesi, hanno poche risorse all’interno di Israele per perseguire la giustizia”, afferma il CPJ.

Hagai El-Ad, direttore esecutivo dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, afferma nel rapporto che l’esame da parte di Israele delle azioni dei suoi soldati è meno seria di una “rappresentazione teatrale di un’indagine”.

Vogliono renderla credibile. Eseguono gli atti, le procedure richiedono molto tempo, molte scartoffie”, riferisce a CPJ. “Ma alla fine … è l’impunità quasi totale per le forze di sicurezza”.

Il rapporto afferma che le organizzazioni per i diritti umani hanno costantemente sollevato preoccupazioni circa “la… lentezza di queste valutazioni totalmente riservate, che possono trascinarsi per mesi o anni”, durante le quali “i ricordi dei testimoni svaniscono, le prove possono scomparire o essere distrutte e i soldati coinvolti possono far coincidere le testimonianze”.

L’uccisione di Shireen Abu Akleh

Il rapporto arriva due giorni prima del primo anniversario dell’uccisione della giornalista veterana di Al Jazeera Shireen Abu Akleh da parte di un proiettile israeliano alla testa mentre l’11 maggio 2022 conduceva un reportage su un raid militare israeliano nella città occupata di Jenin in Cisgiordania.

Nel settembre 2022 un’indagine congiunta di Forensic Architecture, organizzazione di ricerca multidisciplinare, e dell’organizzazione per i diritti dei palestinesi Al-Haq ha rivelato che le prove confutavano la versione di Israele secondo cui Abu Akleh sarebbe stata uccisa per “errore”.

L’inchiesta ha esaminato l’angolo di tiro del cecchino israeliano e ha concluso che era in grado di vedere chiaramente che in quel luogo c’erano i giornalisti. Ha anche escluso la possibilità che in quel momento ci fossero degli scontri tra forze israeliane e palestinesi, che avrebbero potuto dar luogo ad un fuoco incrociato.

Secondo l’inchiesta, per la quale Al Jazeera ha fornito del materiale, il cecchino israeliano ha sparato per due minuti e ha preso di mira coloro che cercavano di soccorrere Abu Akleh.

I risultati sono arrivati lo stesso giorno in cui la famiglia della giornalista palestinese americana di 51 anni ha formalmente presentato una denuncia ufficiale alla Corte Penale Internazionale (CPI) chiedendo giustizia per la sua uccisione.

Israele ha dichiarato a settembre che c’era una “alta possibilità” che Abu Akleh fosse stata “accidentalmente colpita” dal fuoco dell’esercito israeliano, ma ha aggiunto che non avrebbe avviato un’indagine penale.

“Mancato rispetto” della stampa cercando di imporre false narrazioni

Come Abu Akleh, che quando è stata uccisa indossava un casco e un giubbotto protettivo blu con la scritta “Press”, la maggior parte dei 20 giornalisti uccisi al momento della loro morte erano “chiaramente identificabili come membri dei media o si trovavano all’interno di veicoli con insegne della stampa, si legge nel rapporto.

Il rapporto afferma anche che dopo che un giornalista viene ucciso dalle forze di sicurezza israeliane gli ufficiali israeliani “spesso inviano ai media una contro-narrazione” nel tentativo di allontanare ogni responsabilità dai loro soldati.

Il CPJ ha sottolineato che nel caso di Abu Akleh gli ufficiali israeliani hanno iniziato a incolpare dei palestinesi nonostante i testimoni e il ministero della salute palestinese affermassero che era stata uccisa dalle truppe israeliane. Israele ha anche accusato alcuni giornalisti palestinesi uccisi dai suoi sodati di “attività terroristica e militante”.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Una lobby israeliana ammette di aver mentito riguardo ad un’associazione palestinese per i diritti

Maureen Clare Murphy

13 dicembre 2022 – The Electronic Intifada

Il principale gruppo lobbistico olandese a favore di Israele ha rimosso dal proprio sito web tre articoli contenenti diffamazioni nei confronti di Al-Haq, una nota associazione palestinese per i diritti umani.

Dopo che Al-Haq ha avviato un’azione legale contro di esso il Centro di Informazione e Documentazione Israele (CIDI) ha ammesso che gli articoli contenevano false accuse che danneggiavano “il buon nome dell’organizzazione”.

Una di tali accuse è che Al-Haq avrebbe “stretti legami con gruppi terroristi palestinesi” e farebbe parte del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), una fazione marxista-leninista bandita da Israele, USA e UE.

Nell’ottobre 2021 Israele ha etichettato Al-Haq e diverse altre famose associazioni della società civile palestinese come organizzazioni terroriste, sostenendo che esse erano organizzazioni collaterali al FPLP. Israele non ha fornito alcuna prova a riscontro delle sue accuse, che sono state respinte da 10 Paesi europei, compresa l’Olanda, che finanziano le organizzazioni.

Il CIDI ha anche ammesso che è “falso sostenere che Al-Haq compaia in diversi elenchi internazionali di terroristi” e che non vi è prova dell’accusa che essa storni i finanziamenti europei al FPLP o che sia stata bandita dalle società di carte di credito.

Al-Haq ha accusato il CIDI di diffamazione per aver amplificato le infondate accuse nei suoi confronti.

Concordando con la veridicità dell’accusa di Al-Haq, il CIDI di fatto riconosce che la definizione di organizzazione “terroristica” da parte del governo israeliano è senza fondamento e diffamatoria.

Il CIDI ha condotto a lungo una campagna per porre fine all’assistenza olandese alle associazioni palestinesi ed ha ricalcato le campagne del governo israeliano che le diffamavano come fiancheggiatrici di organizzazioni terroristiche.

Israele e strutture di copertura come il CIDI hanno preso di mira Al-Haq soprattutto a causa dell’attività dell’organizzazione in difesa della giustizia internazionale, in particolare presso la Corte Penale Internazionale (CPI).

Circa 200 organizzazioni in Palestina e in tutto il mondo hanno chiesto a Karim Khan, il procuratore capo della CPI, di condannare le definizioni di Israele contro Al-Haq e due altre associazioni palestinesi, fornendo prove e rappresentando le vittime presso la Corte.

Il problema della “arbitraria criminalizzazione” da parte di Israele di associazioni della società civile palestinese è stato sollevato nel corso dell’assemblea degli Stati membri della CPI la settimana scorsa.

In una dichiarazione comune, Al-Haq e altre organizzazioni, comprese Human Rights Watch, Al Mezan e il Centro Palestinese per i Diritti Umani, hanno chiesto di agire rispetto alle minacce e agli attacchi contro i difensori dei diritti umani che collaborano con la Corte.

Al-Haq, Al Mezan e il Centro Palestinese per i Diritti Umani hanno convenuto, durante l’assemblea degli Stati membri, di mettere in evidenza l’ostruzionismo di Khan rispetto all’indagine sulla Palestina avviata dal suo predecessore all’inizio dello scorso anno.

I critici affermano che il doppio standard della generosa allocazione delle risorse della Corte per l’indagine in Ucraina mentre viene affossata l’inchiesta sulla Palestina ha ulteriormente compromesso la credibilità della CPI.

Se la CPI non agirà sulla Palestina, verrà disconosciuta in quanto strumento al servizio degli interessi dei potenti Stati occidentali, lasciando che i palestinesi prendano le leggi nelle proprie mani, hanno dichiarato i difensori dei diritti umani durante l’evento in corso all’Aja.

Maureen Clare Murphy è caporedattrice di The Electronic Intifada.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Al Jazeera porta l’uccisione di Shireen Abu Akleh alla Corte Penale Internazionale CPI

La rete afferma che le prove presentate ribaltano le affermazioni delle autorità israeliane secondo cui la giornalista palestinese sarebbe stata uccisa da un fuoco incrociato.

Annette Ekin

6 dicembre 2022 – Al Jazeera

L’Aia, Paesi Bassi Al Jazeera Media Network ha presentato una richiesta formale alla Corte Penale Internazionale (CPI) per indagare e perseguire i responsabili dell’uccisione dell’esperta giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh.

Abu Akleh, corrispondente televisiva di Al Jazeera per 25 anni, è stata uccisa dalle forze israeliane l’11 maggio mentre stava documentando un raid militare israeliano in un campo profughi a Jenin, nel nord della Cisgiordania occupata.

La 51enne nativa di Gerusalemme e cittadina statunitense era un nome familiare e una giornalista molto rispettata che ha dato voce ai palestinesi attraverso la sua copertura dell’occupazione israeliana.

Una strategia più ampia’

La richiesta include un dossier con un’indagine approfondita svolta nell’arco di sei mesi da Al Jazeera che raccoglie tutte le prove rese disponibili da testimoni oculari e riprese video, oltre a nuovo materiale sull’uccisione di Abu Akleh.

La richiesta è presentata alla CPI “nel contesto di un più ampio attacco contro Al Jazeera e i giornalisti in Palestina”, ha affermato Rodney Dixon KC, un avvocato di Al Jazeera, riferendosi ad episodi come il bombardamento degli uffici della rete a Gaza il 15 maggio 2021.

“Non è un incidente isolato, è un omicidio che fa parte di una strategia più ampia su cui l’accusa dovrebbe indagare per identificare e incriminare i responsabili dell’omicidio”, ha detto.

Il focus è su Shireen, e su questo particolare omicidio, questo vergognoso omicidio. Ma le prove che presentiamo prendono in esame tutte le azioni contro Al Jazeera perché essa è stata presa di mira come organizzazione mediatica internazionale.

“E le prove dimostrano che ciò che le autorità [israeliane] stanno cercando di fare è farla tacere”, afferma Dixon.

Al Jazeera spera che il procuratore della CPI “avvii effettivamente le indagini su questo caso” dopo la richiesta della rete, dice Dixon. La richiesta integra la denuncia presentata alla CPI dalla famiglia di Abu Akleh a settembre, sostenuta dal Sindacato della stampa palestinese e dalla Federazione internazionale dei giornalisti.

Un nuovo documentario su Fault Lines [programma televisivo americano di attualità e documentari trasmesso su Al Jazeera English, ndt.] di Al Jazeera mostra come Abu Akleh e altri giornalisti, indossando elmetti protettivi e giubbotti antiproiettile chiaramente contrassegnati con la parola “PRESS”, stavano camminando lungo una strada in vista delle forze israeliane quando sono finiti sotto il fuoco.

Abu Akleh è stata colpita alla testa mentre cercava di proteggersi dietro un albero di carrubo. Anche il produttore di Al Jazeera Ali al-Samoudi è stato colpito alla spalla.

Le nuove prove presentate da Al Jazeera mostrano che “Shireen e i suoi colleghi sono stati colpiti direttamente dalle forze di occupazione israeliane (IOF)”, ha dichiarato martedì Al Jazeera Media Network in un comunicato.

Il comunicato precisa che le prove ribaltano le affermazioni delle autorità israeliane secondo cui Shireen sarebbe stata uccisa in un fuoco incrociato e “conferma, senza alcun dubbio, che non ci sono stati spari nell’area in cui si trovava Shireen, a parte quelli delle IOF diretti contro di lei”.

“Le prove dimostrano che questa uccisione deliberata è stata parte di una campagna più ampia che ha lo scopo di prendere di mira e mettere a tacere Al Jazeera”, afferma la dichiarazione.

Le truppe delle forze di difesa israeliane (IDF) non saranno mai interrogate, ha dichiarato martedì il primo ministro israeliano Yair Lapid.

“Nessuno interrogherà i soldati dell’IDF e nessuno ci farà prediche sulla morale del combattimento, certamente non la rete Al Jazeera”, ha detto Lapid.

Il ministro della Difesa Benny Gantz ha espresso le sue condoglianze alla famiglia Abu Akleh e ha affermato che l’esercito israeliano opera secondo “gli standard più elevati”.

I prossimi passi

Parlando davanti all’ingresso della CPI nella mattinata nuvolosa e frizzante dopo che Al Jazeera ha presentato la sua richiesta, Lina Abu Akleh, che indossava un distintivo con il volto di sua zia, ha detto che la famiglia spera di vedere “presto risultati positivi”.

“Ci aspettiamo che il pubblico ministero cerchi verità e giustizia e ci aspettiamo che il tribunale si impegni a condurre in giudizio per l’uccisione di mia zia le istituzioni e gli individui responsabili di questo crimine”, ha detto.

Il fratello maggiore di Abu Akleh, Anton, ha affermato che la presentazione [della richiesta di indagine] da parte della rete è stata importante per la famiglia.

“Questo per noi è molto importante, non solo per Shireen – niente può riportare indietro Shireen – ma come garanzia che tali crimini vengano fermati e, si spera, la CPI sarà in grado di agire immediatamente per porre fine a questa impunità“.

Walid al-Omari, a capo dell’ufficio di Al Jazeera a Gerusalemme e amico e collega di Abu Akleh, ha affermato che è fondamentale mantenere vivo il caso tra l’opinione pubblica. “Non pensiamo che Israele dovrebbe sfuggire all’obbligo di rispondere giuridicamente”.

Una volta che la CPI avrà esaminato le prove deciderà se indagare sull’uccisione di Abu Akleh nell’ambito delle indagini in corso.

Portare a giudizio i responsabili’

Nel 2021 la CPI ha stabilito la propria giurisdizione sulla situazione nei territori palestinesi occupati. La presentazione di Al Jazeera richiede che l’uccisione di Abu Akleh diventi parte di questa indagine più ampia.

“Stiamo facendo una richiesta per un’indagine che porti alla presentazione di accuse e al perseguimento dei responsabili”, ha affermato Dixon.

Le indagini condotte dalle Nazioni Unite, dalle organizzazioni per i diritti umani palestinesi e israeliane e dagli organi di informazione internazionali hanno concluso che Abu Akleh è stata uccisa da un soldato israeliano.

La famiglia Abu Akleh ha chiesto un’ “indagine approfondita e trasparente” da parte dell’FBI e del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti per rivelare la catena di comando che ha portato alla morte di una cittadina statunitense.

“In breve, vorremmo che [il presidente degli Stati Uniti Joe] Biden facesse nel caso di Shireen ciò che la sua e le precedenti amministrazioni statunitensi non sono riuscite a fare quando altri cittadini americani sono stati uccisi da Israele: portare a giudizio gli assassini”, ha scritto Lina Abu Akleh su Al Jazeera nel mese di luglio.

A novembre gli Stati Uniti hanno annunciato un’indagine dell’FBI sull’uccisione di Abu Akleh, notizia accolta favorevolmente dalla sua famiglia.

Ma, ha ammonito Dixon, questa indagine non dovrebbe essere un motivo per cui la Corte penale internazionale non agisca.

“Possono, possono collaborare con… l’FBI, in modo che questo caso non scivoli tra le crepe e che i responsabili siano identificati e processati”.

Poco dopo la presentazione della richiesta alla Corte Penale Internazionale, gli Stati Uniti hanno dichiarato di respingere l’iniziativa.

“La CPI dovrebbe concentrarsi sulla sua missione principale”, ha detto ai giornalisti il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price. “E tale missione principale è servire come tribunale di ultima istanza per punire e scoraggiare i crimini atroci”.

Sfatare narrazioni mutevoli

Il documentario di Fault Lines esamina attentamente anche le mutevoli narrazioni di Israele.

Israele ha inizialmente incolpato per la morte di Abu Akleh dei palestinesi armati, ma a settembre ha affermato che c’era “un’alta probabilità” che un soldato israeliano avesse “colpito accidentalmente” la giornalista, ma che non avrebbe avviato un’indagine penale.

Hagai El-Ad, direttore dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, che ha rapidamente smentito la falsa affermazione di Israele secondo cui un uomo armato palestinese sarebbe stato responsabile della morte di Abu Akleh, ha detto a Fault Lines: Sono anche molto abituati a farla franca sia nell’arena pubblica che in quella legale nel mentire sull’uccisione di palestinesi”.

Il motivo per cui Al Jazeera ha fatto questa richiesta è perché le autorità israeliane non hanno fatto nulla per indagare sul caso. In realtà hanno detto che non indagheranno, che non c’è alcun sospetto di crimine”, afferma Dixon.

Al Jazeera Media Network definisce l’omicidio un “palese omicidio” e un “crimine atroce”.

“Al Jazeera ribadisce il suo impegno a ottenere giustizia per Shireen e ad esplorare tutte le strade per garantire che gli autori siano ritenuti responsabili e assicurati alla giustizia”, ha affermato la rete.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Amnesty sollecita un’inchiesta per possibili crimini di guerra a Gaza

Redazione di Al Jazeera

25 Ottobre 2022 – Al Jazeera

Solo in quest’anno almeno 160 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza

Amnesty International ha sollecitato la Corte Penale Internazionale (CPI) ad indagare su possibili crimini di guerra relativi agli “illegittimi attacchi” condotti nel corso della letale aggressione di Israele alla Striscia di Gaza in agosto.

Le forze israeliane “si sono vantate” della precisione dei loro attacchi su Gaza in agosto, ha affermato Amnesty International in un nuovo rapporto pubblicato martedì, che indaga le circostanze relative a tre specifici attacchi a civili.

Amnesty ha affermato che le vittime dei cosiddetti “attacchi mirati” includono un bambino di quattro anni, un adolescente in visita alla tomba della madre e una studentessa di belle arti uccisa dal fuoco israeliano mentre era in casa a bere un tè con sua madre.

L’organizzazione ha dichiarato che è stato posto sotto indagine anche un attacco che ha ucciso sette civili palestinesi, che sembra essere stato l’esito di un razzo senza guida probabilmente lanciato da gruppi armati palestinesi.

L’ultima offensiva di Israele contro Gaza è durata solo 3 giorni, ma è stato un tempo sufficiente per infliggere nuovi traumi e distruzioni alla popolazione assediata”, ha detto Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International, in una dichiarazione allegata al rapporto.

I tre attacchi mortali che abbiamo esaminato devono essere indagati come crimini di guerra; tutte le vittime degli attacchi illegittimi e le loro famiglie meritano giustizia e risarcimenti”, ha detto.

Il violento attacco di agosto da parte delle forze israeliane è stato solo uno dei più recenti esempi di violenza indiscriminata contro la popolazione di Gaza “dominata, oppressa e segregata”, che ha subito anni di blocco illegale del territorio, ha aggiunto Callamard.

Oltre ad indagare sui crimini di guerra compiuti a Gaza, la CPI dovrebbe prendere in considerazione, all’interno della sua attuale inchiesta nei Territori Palestinesi Occupati, il crimine contro l’umanità di apartheid”, ha affermato.

Secondo il Ministero della Salute palestinese dall’inizio di quest’anno almeno 160 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza, compresi 51 palestinesi uccisi durante l’attacco di tre giorni a Gaza in agosto.

31 civili figurano fra i 49 palestinesi che secondo le Nazioni Unite sono stati uccisi nella Striscia di Gaza durante il conflitto di tre giorni, ha dichiarato Amnesty nel nuovo rapporto.

Il conflitto è iniziato il 5 agosto, quando Israele ha scatenato attacchi aerei in ciò che a suo dire era un attacco preventivo mirato al gruppo della Jihad islamica.

Amnesty ha detto che, utilizzando fotografie di frammenti di armi, l’analisi di immagini satellitari e le testimonianze di decine di intervistati, ha ricostruito le circostanze relative ai tre attacchi specifici, due dei quali condotti dalle forze israeliane e uno probabilmente da gruppi armati palestinesi.

La CPI ha avviato un’indagine sul conflitto israelo-palestinese, che ci si attende focalizzata in parte su possibili crimini di guerra compiuti durante il conflitto del 2014 a Gaza. L’inchiesta è appoggiata dall’Autorità Nazionale Palestinese, ma Israele non è membro della CPI e contesta la sua giurisdizione.

Il mese scorso la famiglia della giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh ha inoltrato una denuncia ufficiale alla CPI per chiedere giustizia per la sua morte.

Abu Akleh, che ha lavorato per Al Jazeera per 25 anni ed era conosciuta come “la voce della Palestina”, è stata colpita alla testa ed uccisa dalle forze israeliane l’11 maggio mentre stava documentando un’incursione dell’esercito nel campo profughi di Jenin nella Cisgiordania occupata.

Fonte: Al Jazeera e agenzie di stampa

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Nuove prove emergono della deliberata intenzione di Israele di uccidere Shireen Abu Akleh, e la famiglia presenta una denuncia alla Corte Penale Internazionale

DAVID KATTENBURG

  20 settembre 2022 ,Mondoweiss

Una nuova analisi forense dimostra che Shireen Abu Akleh è stata “deliberatamente e ripetutamente presa di mira” da un cecchino militare israeliano che prendeva “la mira con precisione e cura”.

Shireen Abu Akleh è stata “deliberatamente e ripetutamente presa di mira” da un cecchino militare israeliano lo scorso maggio mentre effettuava un reportage su un raid dell’esercito israeliano all’ingresso del campo profughi di Jenin, un cecchino che prendeva una”mira precisa e accurata”.

Questo è uno dei risultati inediti di un’indagine congiunta della britannica Forensic Architecture [gruppo di ricerca multidisciplinare che utilizza tecniche e tecnologie architettoniche per indagare su casi di violenza di Stato e violazioni dei diritti umani, guidato dall’arch. Eyal Weizman, ndt.] e del Dipartimento di Monitoraggio e Documentazione dell’organizzazione palestinese per i diritti umani Al Haq, presentata questa mattina alla Corte penale internazionale nella capitale olandese L’Aia.

Questi risultati, basati in parte su filmati inediti girati sulla scena da un cameraman di Al Jazeera, sono stati esposti a un piccolo gruppo di giornalisti a seguito della presentazione di una denuncia alla CPI da parte degli avvocati della famiglia di Abu Akleh e di due giornalisti palestinesi che erano accanto a lei quel giorno.

L’attacco dei cecchini israeliani ha comportato tre distinte sequenze di spari, per un totale di sedici colpi destinati a Shireen, ai suoi colleghi e a un civile che cercava di fornire assistenza medica”, ha rivelato l’Unità Investigativa Forensic Architecture-Al Haq (FAI).

“Tutti i colpi sono stati sparati col fucile a spalla ed erano destinati a uccidere”.

Forensic Architecture, con sede presso la Goldsmiths University di Londra, è specializzata nella “ricostruzione spaziale di siti e scene di violenza di Stato”. La sua analisi della morte di Abu Akleh – descritta come un “omicidio mirato” – si basa su più video registrati da palestinesi insieme ad altre prove.

Secondo il rapporto FAI, letto da un documento scritto, “non c’erano altre persone presenti lì tra [Abu Akleh e i suoi colleghi] e il convoglio di veicoli militari al momento dell’incidente”, “nessun colpo … proveniva dalle vicinanze dei giornalisti” e “gli unici colpi sparati nei tre minuti precedenti la sparatoria di Shireen provenivano dalla posizione delle forze di occupazione israeliana”.

Il rapporto FAI di questa mattina rivela anche che, mentre tentava di fornire aiuto alla veterana giornalista di Al Jazeera, “un civile sulla scena veniva colpito da colpi di arma da fuoco ogni volta che tentava di avvicinarlesi” e “di conseguenza [le forze di occupazione israeliane] hanno deliberatamente negato assistenza medica a Shireen dopo averle sparato”.

L’analisi del campo visivo che simula ciò che il cecchino dell’IDF avrebbe visto “mostra che i giornalisti erano chiaramente identificabili come tali”, conclude la FAI.

“I colpi sono stati sparati solo quando i giornalisti e poi un civile sono entrati nel campo visivo dell’assassino delle forze di occupazione israeliane”.

Appello alla Corte Penale Internazionale

Nessuno di questi dettagli forensi è contenuto nella denuncia consegnata alla Corte Penale Internazionale questa mattina. Invece il testo di oggi, presentato da una coppia di avvocati della società britannica Doughty Chambers [gruppo di avvocati di fama internazionale con una reputazione di eccellenza, ndt.], riassume i resoconti dei testimoni oculari e fornisce argomenti legali per intraprendere un’indagine completa sull’omicidio di Abu Akleh.

“Esistono motivi ragionevoli per sospettare che siano stati commessi crimini di guerra”, nel contesto di un più ampio “attacco sistematico” ai giornalisti palestinesi da parte delle forze di occupazione israeliane, affermano le dichiarazioni depositate oggi alla CPI.

La denuncia di 25 pagine è stata consegnata a un membro dello staff della CPI che non si è identificato al team legale, gli avvocati di Doughty Chambers Jennifer Robinson e Tatyana Eatwell. Non erano presenti né il procuratore capo Karim Khan né il vice procuratore Nazhat Shameen Khan (che non sono parenti).

La denuncia di oggi è stata presentata a nome del fratello di Shireen Abu Akleh, il cinquantanovenne Anton Abu Akleh, e di due colleghi di Shireen: il giornalista palestinese Ali Samoudi, colpito alla spalla quel giorno mentre si trovava vicino ad Abu Akleh, e Shatha Hanaysha, una reporter ventinovenne per il sito web di notizie Ultra Palestine e collaboratrice di Mondoweiss, anch’ella vicino ad Abu Akleh quando il cecchino israeliano l’ha uccisa sparandole.

Samoudi, Hanaysha e la famiglia di Abu Akleh sono sostenuti dal Sindacato dei Giornalisti Palestinesi, dal Centro Internazionale di Giustizia per i Palestinesi e dalla Federazione Internazionale dei Giornalisti.

Tatyana Eatwell ha detto a Mondoweiss che gli avvocati sperano di essere ricevuti presso l’Ufficio del procuratore della CPI nelle “prossime settimane” per presentare prove forensi e testimonianze che portino al perseguimento dei responsabili della morte di Shireen Abu Akleh e di altri giornalisti palestinesi,.

“Stiamo offrendo loro la nostra collaborazione, al fine di assisterli in questa indagine”.

“Questo caso, e gli altri casi di giornalisti uccisi o mutilati dalle forze israeliane, rientrano esattamente nella giurisdizione della Corte e richiedono un’indagine da parte della Corte Penale Internazionale”, ha detto Tatyana Eatwell ai giornalisti riuniti alla CPI questa mattina.

“Non c’è quasi nessuna prospettiva di una qualche indagine penale su questi fatti da parte delle autorità nazionali”.

Una denuncia più ampia redatta dal team di Doughty Street Chambers, consegnata alla CPI il 16 aprile – tre settimane prima dell’uccisione di Abu Akleh – chiedeva alla CPI di indagare sul “prendere sistematicamente di mira, mutilare e uccidere giornalisti e distruggere le infrastrutture dei media in Palestina”.

Nella denuncia di aprile erano citati quattro giornalisti palestinesi. Yaser Murtaja e Ahmed Abu Hussein sono stati colpiti da cecchini israeliani nell’aprile 2018 mentre seguivano le proteste della Grande Marcia del Ritorno a Gaza. Entrambi sono morti per le ferite riportate. Nedal Eshtayeh e Muath Amarneh hanno perso la vista mentre documentavano le proteste rispettivamente nel 2015 e alla fine del 2019. Tutti e quattro quando sono stati colpiti indossavano giubbotti stampa.

La denuncia di aprile e quella odierna sono state depositate ai sensi dell’articolo 15 dello Statuto di Roma, che incarica il procuratore capo della CPI di avviare indagini di propria iniziativa (motu proprio) se esiste una base ragionevole per farlo. In teoria, il permesso ufficiale a procedere deve poi essere concesso dalla Camera Istruttoria della Corte.

L’ufficio del procuratore capo Karim Khan ha ammesso di aver ricevuto la denuncia di aprile, ma non ha specificato se la denuncia sarà o meno seguita da indagine, ha detto a Mondoweiss Tatyana Eatwell.

Ciò detto, entrambe le denunce sono attinenti alla più ampia indagine sulla Palestina annunciata all’inizio di marzo 2021 dall’allora procuratore capo Fatou Bensouda.

Nelle parole di Bensouda, l’indagine sulla Palestina – una delle diciassette “situazioni” attualmente oggetto di indagine da parte della CPI – interessa “tutti i fatti e le prove rilevanti per valutare se vi sia responsabilità penale individuale ai sensi dello Statuto [di Roma]”.

“L’accusa potrà ampliare o modificare l’indagine”, aveva scritto Bensouda, “solo se i casi individuati per l’accusa sono sufficientemente collegati alla situazione. In particolare, la situazione in Palestina è tale che si suppone continuino a essere commessi crimini”.

Le indagini della CPI mirano a identificare “i presunti colpevoli più efferati o quelli che si presume siano i maggiori responsabili dell’esecuzione dei crimini”.

Una cultura dell’impunità

Israele non ha identificato il cecchino israeliano che ha sparato a Shireen Abu Akleh e ferito Ali Samoudi l’11 maggio, né la loro unità o il comandante.

In seguito all’annuncio da parte del governo degli Stati Uniti dell’esame del proiettile che ha ucciso Shireen Abu Akleh, il team legale di Doughty Street ha chiesto di poter accedere a questi e ad altri risultati. Richieste simili sono state presentate al governo di Israele e all’Autorità Nazionale Palestinese. Nessuna informazione è stata fornita.

Nel suo rapporto del febbraio 2019 al Consiglio per i Diritti Umani, la Commissione Internazionale Indipendente d’Inchiesta sulle proteste nei Territori Palestinesi Occupati ha concluso che ci siano “ragionevoli motivi per ritenere che i cecchini israeliani avessero sparato intenzionalmente ai giornalisti, nonostante avessero chiaramente visto che erano contrassegnati come tali”.

“C’è tutta una cultura di impunità per questi atti all’interno delle forze di sicurezza israeliane. Ed è proprio per questo che è molto importante che la Corte Penale Internazionale, in quanto autorità internazionale indipendente, indaghi su questi casi”, ha detto Tatyana Eatwell a Mondoweiss poco dopo la denunzia di aprile alla CPI sua e del collega avvocato Jennifer Robinson.

Le vittime hanno diritto a questo; è ciò che stanno chiedendo, un’indagine”.

Anton Abu Akleh, il fratello maggiore di Shireen, ha parlato questa mattina con i giornalisti davanti alla sede della CPI.

“L’amministrazione Biden non è finora riuscita ad avviare un’indagine, nonostante le richieste di oltre ottanta membri del Congresso degli Stati Uniti”, ha detto Abu Akleh.

Oltre ad essere cittadina statunitense, Shireen era anche fiera di essere palestinese ed è stata uccisa a sangue freddo da un soldato israeliano. Sembra che il motivo per cui il suo caso non è diventato una priorità per il governo degli Stati Uniti è per via di chi era e da chi è stata uccisa. Non c’è mistero su cosa sia successo a Shireen. Fatta eccezione per il nome e l’identità del suo assassino… Abbiamo bisogno di un’indagine degli Stati Uniti e della CPI per far sì che Israele ne risponda… la nostra famiglia non dovrebbe dover aspettare nemmeno un giorno in più per avere giustizia”.

David Kattenburg è insegnante universitario di scienze e giornalista radiofonico/web e vive a Breda, nel Brabante settentrionale, Paesi Bassi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Reportage: Israele ammette la responsabilità del raid contro Gaza che ha ucciso dei minorenni

Redazione di Al Jazeera

16 agosto 2022 – Al Jazeera

Contraddicendo le prime affermazioni, fonti ufficiali hanno detto al quotidiano Haaretz che Israele è responsabile del l’attacco del 7 agosto nei pressi del campo rifugiati di Jabalia.

Secondo un nuovo reportage, contraddicendo precedenti dichiarazioni fatte a media locali da importanti funzionari militari, fonti ufficiali della difesa israeliana hanno confermato che durante l’attacco di inizio agosto un raid israeliano contro un cimitero di Gaza ha ucciso cinque minorenni palestinesi.

Varie fonti della difesa hanno detto al quotidiano Haaretz che un’indagine dell’esercito sull’attacco del 7 agosto ha concluso che cinque minori – Jamil Najm al-Deen Naijm, 4 anni, Jamil Ihab Najim, 13, Mohammad Naijm e Hamed Naijm, 17, e Nazmi Abu Karsh, 15 anni – sono stati uccisi da un raid aereo israeliano contro il cimitero di Al-Faluja, nei pressi del campo profughi di Jabalia nel nord della Striscia di Gaza.

All’indomani dell’attacco, avvenuto durante l’aggressione israeliana di tre giorni dal 6 all’8 agosto contro l’enclave assediata, alcuni ufficiali israeliani avevano detto ad Haaretz che probabilmente le morti erano state causate da un razzo della Jihad Islamica fuori traiettoria.

L’esercito non ha pubblicamente assunto la responsabilità delle morti e non ha risposto a una richiesta di commenti sull’ultimo resoconto da parte di Al Jazeera.

Martedì, qualche ora dopo la pubblicazione del reportage di Haaretz, la famiglia Najim ha tenuto una veglia presso il cimitero di Gaza e ha chiesto che Israele risponda di queste accuse davanti alla Corte Penale Internazionale. Quattro minori della famiglia sono rimasti uccisi nel raid.

Decine di persone hanno partecipato all’evento, e alcuni dei presenti hanno esposto cartelli che dicevano: “I nostri figli hanno il diritto di vivere in pace e sicurezza.”

Ihab Najim, padre di quattro dei minori uccisi nell’attacco, ha detto ad Al Jazeera che la famiglia era sicura che Israele fosse responsabile della morte dei figli dopo aver sentito i racconti di testimoni oculari.

“I nostri figli erano giovani innocenti, e si trovavano nel cimitero davanti a casa nostra in visita alla tomba del nonno. Sono stati uccisi a sangue freddo. Chiediamo a tutti i partiti di stare dalla nostra parte e sostenere la causa dei nostri figli presso i tribunali internazionali.”

“Per noi l’ammissione di responsabilità di Israele non è una notizia,” ha aggiunto. “Era chiaro fin dal primo momento in cui i nostri quattro figli e quello dei nostri vicini sono stati uccisi che il missile era israeliano, secondo i testimoni oculari.”

In un altro incidente avvenuto il giorno prima dell’attacco al cimitero l’esercito israeliano aveva subito incolpato il Jihad islamico dopo che otto persone, tra cui minorenni, erano stati uccisi in un’esplosione nel campo profughi di Jabalia.

L’esercito israeliano aveva affermato di non aver effettuato nessun bombardamento al momento dell’attacco, e in seguito ha reso pubblico un filmato in cui si vedevano vari razzi lanciati da Gaza, uno dei quali caduto troppo presto a metà volo.

Dei 49 palestinesi uccisi nell’attacco di tre giorni, descritto da Israele come un’“operazione preventiva” in seguito all’arresto il giorno prima di un dirigente della Jihad islamica nella Cisgiordania occupata, i minorenni sono stati 17.

Parlando con Al Jazeera dopo le uccisioni del 7 agosto, la madre di Hamed Najim ha segnalato che l’attacco è arrivato a poche ore dall’entrata in vigore del cessate il fuoco, che è stato in seguito rispettato.

“Solo due ore prima che venisse annunciata la tregua lui mi ha detto che sarebbe uscito per cinque minuti con i suoi cugini,” ha affermato. “Passato qualche minuto abbiamo sentito un’esplosione. Siamo corsi fuori per cercare mio figlio e i suoi tre cugini. Erano tutti ridotti in pezzi.”

Il Norwegian Refugee Council [Consiglio Norvegese per i Rifugiati, ong indipendente che si occupa dei diritti dei profughi, ndt.] ha affermato che prima della morte tre dei ragazzini uccisi nell’attacco stavano seguendo una terapia per i traumi subiti.

Secondo i dati raccolti dal Norwegian Refugee Council, dal 2000, anno d’inizio della Seconda Intifada, almeno 2.200 minori sono stati uccisi dall’esercito e da coloni israeliani nei Territori Palestinesi Occupati.

Maram Humaid ha contribuito a questo reportage da Gaza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Palestina: impunità per arresti arbitrari e tortura da parte dell’ANP e di Hamas e persistenti e sistematici abusi un anno dopo il pestaggio a morte di un famoso dissidente

30 giugno 2022 – Human Rights Watch

(Gerusalemme) – Le autorità palestinesi maltrattano e torturano sistematicamente i palestinesi in detenzione, inclusi dissidenti e oppositori, ha affermato oggi Human Rights Watch [organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani, ndt.] in un rapporto parallelo presentato al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura congiuntamente alla organizzazione per i diritti dei palestinesi Lawyers for Justice [Avvocati per la giustizia, ndt.]. La tortura, sia da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) guidata da Fatah [organizzazione politica laica palestinese prevalentemente di sinistra, ndt.] in Cisgiordania che delle autorità di Hamas [organizzazione politica islamista, sunnita e fondamentalista, ndt.] a Gaza, può costituire crimine contro l’umanità, data la sua natura sistematica nel corso di molti anni.

Più di un anno dopo il pestaggio a morte da parte dell’ANP dell’eminente attivista e dissidente Nizar Banat mentre era in custodia detentiva e la repressione violenta di persone che chiedevano giustizia per la sua morte, incluse le retate per proteste pacifiche, nessuno è stato ritenuto responsabile. I pubblici ministeri hanno emesso dei capi d’accusa contro 14 agenti di sicurezza ma i dissidenti affermano che le autorità si stanno muovendo troppo lentamente e sono di parte, come nel caso di una decisione del 21 giugno da parte della procura militare di concedere all’imputato un periodo di libertà di 12 giorni.

“Più di un anno dopo il pestaggio a morte di Nizar Banat l’Autorità Nazionale Palestinese continua ad arrestare e torturare critici e oppositori”, afferma Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina. “Gli abusi sistematici da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese e di Hamas costituiscono una componente fondamentale della repressione del popolo palestinese”.

Alla luce di questa serie di abusi altri Paesi dovrebbero tagliare l’assistenza alle forze di sicurezza palestinesi responsabili, inclusa la polizia dell’ANP che ha svolto un ruolo centrale nella recente repressione. La Procura della Corte Penale Internazionale dovrebbe indagare e perseguire le persone credibilmente implicate in questi gravi abusi.

All’alba del 24 giugno 2021 più di una decina di agenti di sicurezza preventiva dell’ANP, che monitorano le attività politiche e le minacce alle autorità a livello nazionale, hanno arrestato e aggredito violentemente Banat. Egli era un famoso dissidente che l’Autorità Nazionale Palestinese aveva precedentemente tenuto in detenzione per il suo attivismo e che aveva pianificato di candidarsi con una lista indipendente durante le elezioni legislative palestinesi del 2021, prima che fossero rinviate.

E’ morto durante la custodia, soffocato dal sangue e dalle secrezioni che avevano riempito i suoi polmoni, ha concluso un’autopsia. Un rapporto congiunto del marzo 2022 dell’organismo di vigilanza legale palestinese, della Commissione indipendente per i diritti umani (ICHR) e dell’associazione palestinese per i diritti umani al-Haq, ha rilevato che a causare la morte di Banat è stato l’uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza dell’ANP.

Il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha formato un comitato ufficiale per indagare sul decesso, ma il suo rapporto, presentato cinque giorni dopo, nel giugno 2021, non è stato reso pubblico. Il processo contro gli accusati di aver partecipato all’uccisione di Banat è in corso. A maggio la famiglia Banat ha annunciato un boicottaggio del procedimento, adducendo preoccupazioni tra cui la concessione di privilegi agli imputati, come consentire loro di uscire di prigione per visitare la famiglia senza un ordine del tribunale.

Nei mesi successivi alla morte di Banat le forze di polizia dell’ANP hanno disperso violentemente le proteste popolari che chiedevano giustizia e hanno rastrellato decine di persone per aver protestato pacificamente. Jehad Abdo, 54 anni, ha detto a Human Rights Watch che agenti di polizia dell’ANP in abiti civili lo hanno arrestato nell’agosto 2021 mentre si stava recando ad una protesta. I pubblici ministeri lo hanno accusato di aver insultato “autorità superiori” e di “raduno illegale”, accuse che di fatto criminalizzano l’espressione e le manifestazioni pacifiche, e lo hanno rilasciato quattro giorni dopo con imputazioni ancora pendenti.

Hamza Zbeidat, 38 anni, ha riferito a Human Rights Watch di essere stato arrestato anche lui dalle forze di polizia dell’ANP mentre si recava a una manifestazione programmata nellagosto 2021 sul caso di Banat. I pubblici ministeri in seguito hanno accusato Zbeidat di aver insultato “autorità superiori, di “raduno illegale” e istigazione a “conflitti settari”. Ha detto di aver trascorso tre notti in una minuscola cella sovraffollata senza un’adeguata ventilazione e di essere risultato positivo al Covid-19 diversi giorni dopo essere stato rilasciato con accuse pendenti.

Fakhri Jaradat, 53 anni, afferma che le forze di polizia dell’ANP lo hanno arrestato a casa sua in due diverse occasioni nel luglio 2021 dopo la sua partecipazione a manifestazioni legate al caso Banat e lo hanno interrogato riguardo a dei post su Facebook, uno dei quali invitava il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas a “lasciare, andarsene.” I pubblici ministeri hanno accusato anche lui di insulti contro “autorità superiori”, “raduno illegale” e istigazione a “conflitti settari”, detenendolo tra i due arresti per circa una settimana in totale, prima di rilasciarlo con accuse ancora in corso.

Fadi Quran, 34 anni, afferma che le forze di polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese lo hanno arrestato nell’agosto 2021 mentre camminava nel centro di Ramallah, vicino al luogo di una manifestazione programmata a cui intendeva partecipare, ma il cui svolgimento era stato impedito dalle forze di sicurezza. Ha detto che la polizia lo ha interrogato sulle bandiere palestinesi che portava e sui post su Facebook, incluso uno che criticava il rinvio delle elezioni dell’ANP e il governo del presidente Abbas, e lo ha rilasciato dopo due giorni di detenzione senza accusa.

Human Rights Watch afferma che la morte durante la custodia detentiva di Banat e i rastrellamenti dei manifestanti nelle settimane successive riflettono la pratica sistematica delle autorità palestinesi di arresti arbitrari e torture impunite. Le forze di sicurezza dell’ANP e di Hamas maltrattano e minacciano regolarmente i detenuti, usano l’isolamento e le percosse, tra cui frustate ai piedi, e costringono i detenuti in posizioni forzate dolorose per periodi prolungati, tra cui lo stare appesi con le braccia dietro la schiena con cavi o corde, per punire e intimidire i dissidenti e oppositori e ottenere confessioni, come mostrano Human Rights Watch e Lawyers for Justice nel loro rapporto parallelo.

L’ANP e Hamas sostengono che gli abusi non sono altro che casi isolati su cui sono in corso delle indagini e per i quali i trasgressori sono tenuti a rispondere, ma anni di ricerca da parte di Human Rights Watch, incluso il suo rapporto di 147 pagine del 2018, Two Authorities, One Way , Zero Dissent” [Due autorità, un metodo, zero dissenso, ndt.], contraddicono queste affermazioni. Come documentato nel rapporto parallelo, le autorità palestinesi hanno costantemente omesso di ritenere responsabili le forze di sicurezza.

Nel 2021 l’ICHR ha ricevuto 252 denunce di tortura e maltrattamenti e 279 di arresti arbitrari contro le autorità dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania e 193 denunce di tortura e maltrattamenti e 97 di arresti arbitrari contro le autorità di Hamas a Gaza. Le autorità di Hamas hanno anche giustiziato 28 persone a Gaza da quando hanno preso il controllo politico nel giugno 2007, in un contesto in cui prevalgono le violazioni del giusto processo, la coercizione e la tortura, e hanno giustiziato sommariamente decine di altre persone senza alcun processo giudiziario, spesso con l’accusa di collaborazione con Israele.

Le autorità palestinesi dovrebbero rispettare i trattati internazionali sui diritti umani a cui hanno aderito e porre fine ai gravi abusi e all’impunità endemica assicurando i responsabili alla giustizia. Cinque anni dopo l’adesione della Palestina al Protocollo opzionale della Convenzione contro la tortura, che richiede l’istituzione di un “meccanismo nazionale di prevenzione” per monitorare in modo indipendente i centri di detenzione, anche con visite a sorpresa, il presidente Abbas a maggio ha emesso un decreto che istituisce la Commissione nazionale contro la tortura.

Tuttavia, il decreto prevede che il presidente dell’ANP nomini i membri della commissione, che saranno dipendenti del governo, e che la commissione operi come organo di governo. Ciò priverà la commissione di molta effettiva indipendenza, come hanno notato l’ICHR e una dichiarazione congiunta di 26 organizzazioni della società civile palestinese. Il presidente Abbas dovrebbe revocare il decreto e presentare un nuovo regolamento che crei un organismo pienamente indipendente.

Il rapporto parallelo di Human Rights Watch e Lawyers for Justice riguarda anche i maltrattamenti e le torture da parte delle autorità israeliane nei Territori Palestinesi Occupati e l’impunità per questi abusi. Secondo l’organizzazione israeliana per i diritti Public Committee Against Torture in Israel [Comitato pubblico contro la tortura in Israele, ndt.], nonostante le oltre 1.300 denunce di tortura presentate al Ministero della Giustizia israeliano dal 2001 a partire da atti presumibilmente commessi dalle autorità israeliane in Israele o in Cisgiordania, tra cui incatenamento in posizioni dolorose, privazione del sonno ed esposizione a temperature estreme, negli ultimi 20 anni queste denunce hanno portato a due sole indagini penali e nessun atto d’accusa.

Human Rights Watch afferma che nell’ambito dei suoi doveri ai sensi della Convenzione contro la tortura di “prevenire atti di tortura in qualsiasi territorio sotto la sua giurisdizione”, lo Stato di Palestina dovrebbe cessare ogni coordinamento di sicurezza con l’esercito israeliano che contribuisce a facilitare la tortura e altri gravi abusi, e smettere di consegnare i palestinesi, fintanto che persista per coloro che vengono consegnati un rischio reale di tortura e altri maltrattamenti proibiti.

“Molti governi affermano di voler sostenere lo stato di diritto in Palestina e tuttavia anno dopo anno continuano a finanziare le forze di polizia che lo minano attivamente”, afferma Shakir. Gli ostacoli costituiti da presunte preoccupazioni per la fragilità delle istituzioni palestinesi e altre scuse inconsistenti dovrebbero cadere. I governi donatori dovrebbero recidere i legami con la polizia e le forze di sicurezza palestinesi colpevoli di abusi e concentrare le loro politiche in Palestina e Israele sui diritti umani”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I ragazzi della famiglia Bakr e la cupola di ferro dell’impunità di Israele.

Jonathan Ofir

26 Aprile 2022 – Mondoweiss

La sentenza nel caso dei ragazzi della famiglia Bakr è un’ulteriore prova che Israele non è in grado e non vuole indagare e perseguire soldati e comandanti per crimini di guerra contro i palestinesi.

Il massacro dei quattro ragazzi della famiglia Bakr (di età compresa tra 10 e 11 anni) che stavano giocando a calcio sulla spiaggia di Gaza nel 2014 è uno dei singoli eventi più noti dei 51 giorni di attacco israeliano all’enclave assediata di Gaza.

Due giorni fa un’altra bomba è caduta sulla loro memoria: la bomba dell’impunità, spedita dalla Corte Suprema israeliana.

Domenica un’istanza presentata nel 2020 da tre organizzazioni palestinesi per i diritti umani (Adalah – The Legal Center for Arab Minority Rights in Israel, Al Mezan Center for Human Rights e Palestine Center for Human Rights) per riaprire l’indagine sull’incidente è stata respinta dal tribunale.

La corte ha accolto integralmente le motivazioni del Procuratore Generale (PG), che ha accettato integralmente quelle dell’Avvocato Generale Militare (AGM), secondo cui si trattò solo di un “tragico” errore che non richiedeva l’accertamento di ulteriori responsabilità.

Nella sua sentenza, la Corte Suprema ha concluso che l’uccisione dei ragazzi “non si discostava da quanto consentito dalla legge o dagli ordini dell’esercito” fu messa in atto secondo i principi della “differenziazione” e della “proporzionalità”. Purtroppo non era stato possibile compiere con alcuna accuratezza l’atto di “differenziazione “: “non era stato possibile intraprendere ulteriori atti al fine di verificare i bersagli identificati come sospetti”. Perché sospetti? Perché quella zona della spiaggia era considerata una specie di area militare di Hamas.

La corte ha dimostrato un’estrema comprensione e perdono nei confronti dell’esercito:

Questa corte ha più volte sottolineato l’eccezionalità dell’operazione di combattimento, caratterizzata da un’elevata intensità, che richiede alle forze militari di prendere decisioni rapide sul campo e di correre rischi in condizioni di incertezza.

In base all’unicità di tali circostanze, il tribunale non ha nemmeno ritenuto necessario affrontare le lacune dell’indagine che sono stati segnalate dai ricorrenti, che osservano:

I ricorrenti hanno presentato prove che mostrano ampie lacune nell’indagine condotta dalle autorità investigative israeliane e molte contraddizioni nelle testimonianze e nelle indagini. La Corte, tuttavia, ha stabilito di non vedere alcun motivo per intervenire nella decisione del PG e non ha affrontato la sostanza di nessuno degli argomenti dei ricorrenti in merito alle lacune dell’indagine.

Inoltre vi è un sistematico conflitto di interessi:

La Corte ha anche respinto le argomentazioni di conflitto di interessi dei ricorrenti inerenti al duplice ruolo dell’AGM: l’AGM fornisce consulenza legale all’esercito prima e durante le operazioni militari e, al termine dei combattimenti, decide anche se aprire un’indagine penale e come condurla.

La più totale impunità”

I ricorrenti hanno sostenuto che “in questa sentenza la Corte Suprema concede sostanzialmente la piena licenza all’esercito israeliano di uccidere i civili nella più totale impunità. Piuttosto che valutare le decisioni dei militari durante il combattimento, la Corte ha fornito dichiarazioni generali sull’ampio margine di discrezionalità dell’ AGM e del PG”.

Questo astuto meccanismo di copertura è la ragione addotta da Israele contro [l’apertura di qualsiasi, ndt] procedimento da parte della Corte penale internazionale (CPI). Il mandato della CPI si basa sull’idea di agire quando lo Stato indagato non è in grado o non vuole indagare sulle proprie presunte gravi violazioni. Ma Israele afferma di avere un sistema giudiziario pienamente funzionante.

I ricorrenti:

La sentenza della Corte Suprema israeliana nel caso dei ragazzi della famiglia Bakr è un’ulteriore prova che Israele non è in grado e non vuole indagare e perseguire soldati e comandanti per crimini di guerra contro civili palestinesi. Questo fatto mette in evidenza la pressante necessità di indagini indipendenti ed efficaci per chiamare a rispondere dei propri atti tutti i responsabili. Questo caso illustra chiaramente gli attacchi indiscriminati e letali dell’esercito israeliano contro i civili palestinesi durante la guerra di Gaza del 2014, in cui sono stati uccisi oltre 550 minorenni, e come il sistema legale israeliano si sia adoperato per difendere l’aggressione israeliana e garantire la totale impunità e discrezionalità all’esercito israeliano. Questo caso è un’ulteriore prova della necessità che gli attori internazionali, inclusa la Corte penale internazionale, chiamino a risponderne i leader israeliani.

Sappiamo che Israele non è l’unico a godere di questa impunità. Gli Stati Uniti agiscono più o meno allo stesso modo e hanno un atteggiamento simile nei confronti della CPI, sostenendo che possono occuparsene da soli, quindi la CPI dovrebbe tenersi alla larga. Pertanto si concedono l’impunità per gravi crimini di guerra come nel caso della guerra in Iraq. Ma ora che la Russia ha invaso l’Ucraina, Putin viene rapidamente dichiarato criminale di guerra da Joe Biden (lo stesso che ha votato per l’invasione illegale dell’Iraq). Israele conta sugli Stati Uniti per sostenere la sua impunità. È un grande club di impunità, e finché c’è la Russia da condannare, questa storia, nonostante tutto, non dovrebbe fare troppo rumore.

Raji Sourani, Direttore Generale del Centro palestinese per i diritti umani, ha commentato:

Di recente molti Stati, compresi gli Stati Uniti e i Paesi europei, hanno intrapreso un’azione immediata contro gli attacchi delle forze russe contro i civili ucraini, esprimendo la loro condanna e imponendo sanzioni. Tuttavia, quando le forze israeliane uccidono i palestinesi, quei Paesi continuano a sostenere Israele. Abbiamo l’obbligo di garantire che i figli della famiglia Bakr e tutti i minori, donne, anziani e civili presi di mira e uccisi dalle forze israeliane non vengano dimenticati.

Personalmente non dimenticherò mai le foto di quei bambini nella sabbia con gli arti contorti. Le parole “differenziazione” e “proporzionalità” lacerano quella memoria con un insopportabile stridore di indifferenza, cinismo e insensibilità. È lo stesso per le molte decine di famiglie annientate. Proprio in quell’estate, 142 famiglie di Gaza persero tre o più membri. La giornalista israeliana Amira Hass scrive in “Famiglie annientate”:

La cancellazione di intere famiglie è stata una delle caratteristiche spaventose dell’assalto del 2014. Non si trattava di errori o scelte personali sbagliate da parte di un pilota o di un operatore di droni o di un comandante di brigata. Questa fu una scelta politica.

Anche quando si trattava di combattenti, “alcuni dei combattenti uccisi – vale a dire miliziani delle organizzazioni armate – non sono stati uccisi in battaglia ma nelle stesse circostanze “civili” in cui sono stati uccisi anche i loro parenti: nei loro letti, nelle loro case, durante il pasto dell’interruzione del digiuno, nei loro quartieri residenziali”, riferisce Hass. “Le azioni sistematiche e il silenzio mostrano entrambi che Israele trova ‘legittimo’ e ‘proporzionale’ uccidere intere famiglie: se uno dei loro membri è un combattente di Hamas, se un deposito di armi è tenuto nelle vicinanze o nella loro casa, o per qualsiasi altro motivo simile”.

Dunque i ragazzi Bakr sono stati annientati perché giocavano a calcio sulla spiaggia di Gaza e sono usciti da un container che si pensava fosse un centro di comando e controllo di Hamas, o un deposito di armi, o qualcosa del genere. E per quanto “tragico” sia, l’esercito di Israele [che di autodefinisce il più morale del mondo, ndr.] non può essere rimproverato per errori di giudizio “legittimi e proporzionati”. Queste sono la logica e la realtà che prevarranno finché Israele non sarà tenuto a rispondere. Più minori palestinesi soccomberanno a morti “proporzionate” mentre i piloti – i migliori e i più morali – torneranno alle loro famiglie legittime e dormiranno stretti nella loro cupola di ferro [riferimento ironico al sistema antimissilistico israeliano Iron Dome, ndt.] della negazione, convinti che non ci sarà mai un prezzo da pagare, dal momento che il sangue palestinese non vale niente, e lo dice persino la Corte Suprema.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Una dipendente di Google dice che la compagnia ha cercato di trasferirla in Brasile dopo che ha criticato un contratto con Israele

Michael Arria

18 marzo 2022 – Mondoweiss

Una dipendente di Google in California dice di aver subito una ritorsione dopo aver criticato il Progetto Nimbus

Una dipendente di Google dice di essere stata trasferita in Brasile per aver chiesto alla compagnia di interrompere il suo contratto con il governo di Israele

Questa settimana il Los Angeles Times ha riportato il caso di Ariel Koren, una responsabile commerciale di Google per l’Educazione. Koren, che lavorava alla direzione generale di Mountain View del gigante della tecnologia, in California, ha ripetutamente criticato il suo datore di lavoro riguardo al Progetto Nimbus, un contratto da 1,2 miliardi di dollari che coinvolge Google, i servizi internet di Amazon e Israele. Il progetto contribuisce a fornire servizi cloud per l’esercito e il governo del Paese.

Nell’ottobre 2021 Koren ha contribuito alla stesura di una lettera aperta di condanna di tale collaborazione firmata da centinaia di dipendenti di Google e di Amazon. “Non possiamo fare finta di niente quando i prodotti che fabbrichiamo vengono usati per negare ai palestinesi i loro diritti fondamentali, per scacciarli dalle loro case ed attaccarli nella Striscia di Gaza – azioni che hanno provocato indagini per crimini di guerra da parte della Corte Penale Internazionale”, vi è scritto. Noi immaginiamo un futuro in cui la tecnologia unisca le persone e renda migliore la vita per tutti. Per costruire un tale più luminoso futuro le compagnie per cui lavoriamo devono smettere di stipulare contratti con qualunque organizzazione militarizzata, negli USA e altrove.”

Koren ha citato il documento che la compagnia le ha recapitato a novembre con un ultimatum: avrebbe dovuto trasferirsi nell’ufficio di Google a San Paolo, Brasile, o essere licenziata. Secondo Koren, in seguito il suo dirigente ha ammesso che non prevedeva che lei si sarebbe trasferita in Brasile, cosa che indica che Google stava cercando con questa offerta di estrometterla dalla compagnia. “È stato semplicemente assurdo. Tutta la vicenda è stata del tutto incredibile.”

Koren ha sporto denuncia al dipartimento risorse umane di Google e una denuncia di pratica aziendale sleale presso il National Labor Relations Board (NLRB) [Agenzia governativa USA per il rispetto del diritto del lavoro, ndtr.]. Google sostiene di aver già esaminato la situazione e di non aver riscontrato prove di ritorsione. Koren attualmente lavora ancora in California e non è chiaro se verrà costretta ad andarsene.

Una petizione di sostegno a Koren è già stata firmata da oltre 12.000 persone. “I lavoratori hanno il diritto di esprimersi riguardo a come viene utilizzato il proprio lavoro, senza il timore di perdere il loro impiego – soprattutto quando si opera all’interno di contratti poco etici che violano i diritti umani”, vi si legge. “Sosteniamo le centinaia di lavoratori di Google che hanno già firmato una petizione in appoggio ad Ariel e chiediamo che Google rispetti i lavoratori che si impegnano per i diritti umani – a cominciare dalla garanzia che Ariel rimanga al suo posto.”

Un’altra petizione, scritta da colleghi di Koren, è stata firmata da oltre 500 dipendenti di Google. “Purtroppo il caso di Ariel è in linea con i pericolosi precedenti di ritorsioni di Google nei confronti di lavoratori che negli scorsi anni hanno riempito i titoli dei principali giornali – e in particolare riguardo a quei dipendenti che si sono espressi contro contratti che permettono violenze di Stato contro persone discriminate”, vi è scritto.

Lo scorso autunno, dopo che i dipendenti hanno diffuso la lettera di condanna del Progetto Nimbus, un gruppo di organizzazioni legali (compresi ‘Palestine Legal’, ‘National Lawyers Guild’ e il Centro per i Diritti Costituzionali) ha inviato una lettera di ammonimento alla compagnia relativamente ad illecite ritorsioni contro i lavoratori. “Le sottoscritte organizzazioni per i diritti civili vi chiedono di rispettare le espressioni politiche e nazionali dei vostri dipendenti e di evitare di intraprendere azioni ostili nei loro confronti”, vi si legge. “Le organizzazioni della società civile, le associazioni giuridiche progressiste e anche i mezzi di comunicazione stanno monitorando da vicino la situazione nell’ambiente di lavoro nella vostra azienda per garantire che vengano rispettati i diritti dei vostri dipendenti, dei palestinesi o di altri.”

Michael Arria

Michael Arria è il corrispondente per gli Stati Uniti di Mondoweiss. I suoi articoli sono stati pubblicati su ‘In These Times’, ‘The Appeal’ e ‘Truthout. È autore di ‘Medium Blue: The politics of MSNBC’.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Palestina e Ucraina: un esperto di diritto internazionale parla dei doppi standard della Corte Penale Internazionale (INTERVISTA ESCLUSIVA)

Romana Rubeo

7 marzo 2022 – PALESTINE CHRONICLE

Il 2 marzo la Corte Penale Internazionale (CPI) ha annunciato che procederà immediatamente ad un’indagine sull’operazione militare russa in Ucraina. Quella che è stata denominata “invasione” dall’Occidente e “operazione militare speciale” da Mosca, ha immediatamente generato una rapida condanna e reazione internazionale. La CPI è stata in prima linea in questa reazione.

Il procuratore della CPI Karim Khan ha affermato in un intervento che l’indagine è stata richiesta da 39 Stati membri e che il suo ufficio ha già trovato una base ragionevole per ritenere che siano stati commessi crimini rientranti nell’ambito giurisdizionale della Corte e ha identificato dei casi come potenzialmente ammissibili.”

Mentre qualsiasi procedura genuina e non politicizzata volta a indagare su possibili crimini di guerra e crimini contro l’umanità in qualsiasi parte del mondo dovrebbe, in effetti, essere accolta favorevolmente, il doppio standard della CPI è palpabile. Tra le altre nazioni, i palestinesi e i loro sostenitori sono perplessi in considerazione dei numerosi indugi da parte della CPI nell’indagare sui crimini di guerra e contro l’umanità in Palestina, che si trova da decenni sotto l’occupazione militare israeliana.

Per comprendere meglio questo argomento ho parlato con il Dr. Triestino Mariniello, professore associato di diritto presso la Liverpool John Moores University, e membro della squadra di avvocati per le vittime di Gaza presso la Corte Penale Internazionale. Gli ho chiesto:

D. Per prima cosa, ci faccia conoscere a quale stadio si trova attualmente il procedimento della CPI sulla Palestina.

R. Il 3 marzo 2021 l’ex procuratrice della CPI Fatou Bensouda ha aperto ufficialmente un’indagine, attualmente incentrata su possibili crimini di guerra, in particolare legati all’aggressione militare del 2014 a Gaza, alla Grande Marcia del Ritorno e alle colonie israeliane illegali in Cisgiordania.

Tecnicamente, il passo successivo dovrebbe essere la richiesta di mandati di arresto o di comparizione, passando quindi da una fase procedurale” a una fase processuale”, sulla base dello Statuto di Roma [trattato internazionale istitutivo della Corte Penale Internazionale, ndtr.].

D. Tuttavia, finora non è successo nulla.

R. Tutto è iniziato molto prima del 2021. La situazione della Palestina è stata inizialmente portata all’attenzione della Corte nel 2009. Nel 2015, a seguito dell’aggressione israeliana alla Striscia di Gaza assediata, lo Stato di Palestina ha formalmente accettato l’autorità della Corte e ha ratificato lo Statuto di Roma. Ci sono voluti quasi sei anni (dicembre 2019) perché Bensouda dichiarasse che sussisteva “una base ragionevole per procedere ad un’indagine sulla situazione in Palestina”. La questione è stata deferita alla Camera preliminare, alla quale è stato chiesto di deliberare in merito alla giurisdizione sulla Palestina. La Camera ha emesso una decisione solo più di un anno dopo, nel febbraio 2021.

D. Come descriverebbe le differenze tra i due casi: Russia in Ucraina, Israele in Palestina? E perché nel caso russo il tribunale ha potuto agire immediatamente e senza indugi?

R. Ovviamente è difficile mettere a confronto le due situazioni.

L’Ucraina ha accettato l’autorità della CPI nel 2013 e l’ex procuratore capo della CPI Bensouda aveva già dichiarato che esisteva una base ragionevole per procedere.

Dopo l’inizio dell’operazione militare russa, l’attuale procuratore della CPI Khan ha annunciato l’apertura ufficiale delle indagini.

Avendo già ricevuto mandati da 39 Stati contraenti la CPI il suo ufficio non è tenuto a richiedere un’autorizzazione alla Camera preliminare competente. In realtà anche nella situazione della Palestina la Corte non necessitava di ulteriori autorizzazioni e la richiesta della Procura alla Camera era del tutto facoltativa.

In qualità di rappresentanti legali delle vittime, abbiamo espresso ai giudici della CPI le nostre preoccupazioni sul fatto che questa richiesta non necessaria della Procura avrebbe causato un ulteriore ritardo nell’apertura delle indagini.

Tra i 39 Stati ci sono tre paesi che si erano apertamente opposti alle indagini in ambito israelo-palestinese, ovvero Austria, Germania e Ungheria.

 Generalmente si dice che i procedimenti penali internazionali siano particolarmente lunghi. Se questo è vero nel caso della Palestina, per l’Ucraina la durata è ridotta al minimo. Lo stesso è accaduto per la situazione libica, dove la decisione di aprire un’indagine è stata presa con una rapidità senza precedenti, a soli sette giorni dal deferimento del Consiglio di Sicurezza [dell’ONU, ndtr.].

Tuttavia, nel caso della Palestina la quantità di prove è molto più significativa. Anche prima di avviare le indagini la Corte dispone di una quantità impressionante di prove, grazie al meticoloso lavoro della società civile palestinese, che non ha mai smesso di raccogliere prove, anche durante le guerre israeliane.

D. Lei fa parte di una squadra che difende le vittime di Gaza. Ritenete che da parte della CPI ci sia una politica di doppio standard?

R. Indagare su gravi violazioni dei diritti umani è sempre un’iniziativa lodevole. Ciò che è meno lodevole è la politica del doppio standard. La realtà dolorosa è che dopo 13 anni non abbiamo ancora un procedimento.

Per decenni i civili palestinesi hanno subito le più gravi violazioni dei loro diritti fondamentali, equivalenti a crimini di guerra e crimini contro l’umanità. L’interesse principale delle vittime di Gaza è che l’indagine tanto attesa e tanto necessaria passi immediatamente alla fase successiva: l’identificazione dei presunti colpevoli. Per loro è davvero difficile capire quali siano gli ostacoli che gli impediscono di presentarsi in tribunale per raccontare finalmente le loro vicende e ottenere giustizia.

L’assenza fino ad ora di misure efficaci adottate dalla Corte rafforza l’opinione delle vittime di aver subito per lungo tempo una negazione della giustizia. Inoltre l’impunità concessa da tanto tempo a Israele incoraggia i responsabili a commettere nuovi crimini.

Dall’inizio dell’operazione militare russa in Ucraina abbiamo assistito al ritorno del diritto internazionale nell’arena globale. Quello che sta accadendo ora mostra che il diritto internazionale può essere, nei fatti, uno strumento efficace, se attuato correttamente.

Le vittime palestinesi continuano a nutrire grandi speranze per le indagini della CPI, ma sono seriamente preoccupate che “la giustizia rimandata sia giustizia negata”.

D. Cosa può fare la società civile per accelerare le procedure relative alla Palestina?

È essenziale continuare a fare pressione sulla CPI anche presentando ulteriori prove che possano attestare gravi violazioni dei diritti umani in corso, equivalenti a crimini di guerra. Pensiamo, ad esempio, ai crimini di guerra commessi lo scorso maggio a Gaza, che dovrebbero essere immediatamente inseriti nell’indagine in corso.

Inoltre, la società civile dovrebbe invitare la CPI ad ampliare l’ambito delle indagini per includere altri crimini internazionali, in particolare crimini contro l’umanità, compreso il crimine di apartheid, anche alla luce dei recenti rapporti di Amnesty International e di altre organizzazioni per i diritti umani.

Il messaggio alla Corte e alla comunità internazionale deve essere chiarissimo: i palestinesi non sono vittime di serie B e continueranno a far sentire la loro voce.

Sebbene apprezziamo gli sforzi della CPI per fare luce sulla situazione ucraina, dobbiamo ribadire che altri casi non dovrebbero essere dimenticati o archiviati.

La CPI è stata creata per porre fine all’impunità di cui godono gli autori dei crimini più gravi. Dopo vent’anni, dovremmo pretendere che lo Statuto sia pienamente attuato, indipendentemente dall’origine geografica delle vittime.

Romana Rubeo è una scrittrice italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito un Master in Lingue e Letterature Straniere ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)