Un tribunale olandese conferma l’immunità per crimini di guerra dell’israeliano Benny Gantz

Adri Nieuwhof

7 dicembre 2021 The electronic intifada

I giudici olandesi hanno stabilito martedì che due alti comandanti militari israeliani non possono essere citati in giudizio per aver ucciso una famiglia palestinese nella Striscia di Gaza.

La corte d’appello dell’Aia ha deciso che i comandanti godono di “immunità funzionale” perché agivano per conto dello Stato israeliano.

La decisione è uno schiaffo in faccia per Ismail Ziada e per tutti i palestinesi che ancora una volta trovano impedito il loro cammino verso la giustizia.

Parlando con i suoi sostenitori fuori dal tribunale, Ziada ha definito la decisione “vergognosa” e “vigliacca”.

“Oggi non è facile per me perché a Gaza subiamo un massacro dal punto di vista militare, mentre all’Aja il massacro è quello legale”, ha aggiunto Ziada.

È solo perché si tratta di Israele. Nient’altro. Non si tratta di giustizia”, ​​ha detto Ziada a proposito della sentenza.

Il cittadino olandese-palestinese ha citato in giudizio Benny Gantz, all’epoca capo dell’esercito israeliano, e Amir Eshel, allora capo dell’aviazione, per la decisione di bombardare la casa della sua famiglia durante l’assalto israeliano del 2014 a Gaza.

Gantz è attualmente ministro della difesa e vice primo ministro israeliano.

Ziada chiede centinaia di migliaia di dollari di danni ai comandanti israeliani.

L’attacco israeliano ha completamente distrutto l’edificio di tre piani nel campo profughi di al-Bureij. Ha ucciso la madre settantenne di Ziada, Muftia, i suoi fratelli Jamil, Yousif e Omar, la cognata Bayan e il nipote di 12 anni Shaban, nonché una settima persona in visita alla famiglia.

Non c’è posto per la giustizia

Nel gennaio 2020, il tribunale distrettuale dell’Aja ha concesso l’immunità a Gantz ed Eshel.

La decisione di martedì è arrivata dopo l’appello di Ziada alla sentenza del tribunale di grado inferiore.

L’avvocato per i diritti umani Liesbeth Zegveld aveva sostenuto nell’appello che concedere l’immunità ai due comandanti militari israeliani non era giustificabile.

Israele ha tolto ai palestinesi di Gaza ogni possibilità di accesso alla giustizia, dichiarando l’enclave costiera una “entità nemica” e i suoi residenti “sudditi nemici”, ha affermato Zegveld.

Inoltre, la legge israeliana proibisce ai cittadini “nemici” di avanzare richieste di risarcimento contro lo Stato nei tribunali israeliani.

Nella sentenza di martedì, la corte d’appello olandese ha respinto tali argomenti. Ha accettato che, quando si tratta di responsabilità penale per crimini di guerra, i funzionari statali non hanno alcuna garanzia di immunità.

Ma i giudici hanno concluso che quando si tratta di diritto civile, i funzionari di governi stranieri non possono essere citati in giudizio per i loro atti ufficiali nei tribunali di un’altra nazione a causa del principio consuetudinario dell’immunità statale.

La sentenza tiene conto di tutti i precedenti che confermano questa immunità e respinge tutti gli argomenti e i precedenti addotti da Ziada  a favore della tesi che chi è accusato di crimini di guerra o crimini contro l’umanità dovrebbe anche affrontare un giudizio di responsabilità civile.

In un caso del 2012 citato da Ziada il tribunale distrettuale dell’Aia aveva autorizzato una causa civile per tortura contro 12 funzionari libici anonimi. Lo aveva fatto in base a una disposizione della legge olandese che, secondo una sintesi del caso, “consente ai tribunali olandesi di esercitare la giurisdizione su cause civili laddove sia impossibile intentare tali cause al di fuori dei Paesi Bassi per ragioni legali o pratiche”.

Al querelante – un medico palestinese che aveva vissuto in Libia – è stata concessa una condanna in contumacia contro i funzionari libici condannati a pagare un milione di euro.

Nella sentenza di martedì, la corte d’appello olandese ha respinto quel precedente senza una spiegazione coerente del perché la stessa logica – la impossibilità per Ziada di chiedere un risarcimento in un diverso tribunale – non si applicasse.

Di altissimo grado”

La decisione nel caso di Ziada sottolinea l’urgenza di indagini della Corte penale internazionale sui crimini di guerra nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

L’CPI è un tribunale di ultima istanza, che interviene quando i tribunali nazionali non possono o non vogliono agire, come è chiaramente il caso delle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele.

La corte non è cieca rispetto alla sofferenza di [Ziada]. Né la corte è cieca di fronte agli sviluppi del diritto penale per quanto riguarda l’immunità dalla giurisdizione funzionale”, affermano comunque i giudici olandesi.

Riconoscono che in una recente decisione in Germania si afferma che un soldato afghano di basso rango potrebbe affrontare un processo penale in un tribunale tedesco per crimini di guerra.

Nella misura in cui vi sia una qualche ragione per estendere questo sviluppo al diritto civile”, ciò non si applicherebbe nel caso di Ziada, “in cui è coinvolto personale militare di altissimo grado”, affermano i giudici olandesi.

In altre parole, il tribunale olandese sta dicendo che, anche se avesse deciso di rimuovere l’immunità di funzionari stranieri citati civilmente per crimini di guerra, non potrebbe comunque farlo nel caso di Gantz ed Eshel, proprio a causa del loro alto grado.

Ciò sembra andare contro qualsiasi nozione naturale di giustizia, in cui coloro che hanno maggiori responsabilità dovrebbero portare il peso della massima responsabilità.

Anzi, in effetti la sentenza riconosce che, a causa delle alte posizioni ricoperte da Gantz ed Eshel, “un giudizio sulla loro condotta sarebbe necessariamente anche un giudizio sulla condotta dello Stato di Israele”.

Durante l’udienza sul suo appello a settembre, Ziada aveva invitato i giudici a “non venir meno alla giustizia”. Ma per lui è esattamente quello che hanno fatto.

“La mia causa legale non riguardava me o la famiglia Ziada”, ha detto martedì. “Non voglio che nessuno su questa terra soffra quello che abbiamo sofferto e stiamo ancora soffrendo”.

“Questo è vostro caso tanto quanto il mio”, ha detto Ziada, rivolgendosi ai sostenitori di tutto il mondo. “Senza di voi non sarei stato in grado di fare nulla di quello che abbiamo fatto fino ad ora.”

Ha aggiunto che avrebbe discusso i prossimi passi con i suoi avvocati, ma avrebbe “continuato la lotta”.

“Mia madre mi dà la forza per andare avanti”, ha detto Ziada. “Lei è dentro di me e mi dà lo spirito necessario per combattere. Non lasceremo che questi giudici codardi ci impediscano di combattere per la Palestina”.

Ali Abunimah ha contribuito alla ricerca.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Riluttante e incapace: Israele insabbia le indagini sulle proteste della Grande Marcia del Ritorno

Sintesi del rapporto congiunto con il PCHR

dicembre 2021 B’Tselem

Sintesi del rapporto congiunto con il PCHR

Il 30 marzo 2018, Giornata della Terra, i palestinesi della Striscia di Gaza iniziarono a organizzare regolari proteste lungo la barriera perimetrale, chiedendo la fine del blocco che Israele impone sulla Striscia dal 2007 e il rispetto del diritto al ritorno. Le proteste, che si svolgevano principalmente il venerdì con decine di migliaia di partecipanti, tra cui bambini, donne e anziani, proseguirono fino alla fine del 2019.

Israele si affrettò a definire le proteste illegittime ancor prima che iniziassero. Fece vari tentativi per impedire le manifestazioni e dichiarò in anticipo che avrebbe disperso i manifestanti con la violenza. I militari schierarono lungo la barriera decine di cecchini e vari ufficiali chiarirono che le regole di combattimento avrebbero consentito di far fuoco contro chiunque tentasse di avvicinarsi alla barriera o di danneggiarla. Quando gli abitanti di Gaza proseguirono comunque le manifestazioni, Israele tenne fede alle sue minacce e adottò regole di combattimento che consentivano l’uso di armi da fuoco contro i manifestanti disarmati. Di conseguenza 223 palestinesi, 46 dei quali di età inferiore ai 18 anni, vennero uccisi e circa 8.000 feriti. La stragrande maggioranza delle persone uccise o ferite era disarmata e non rappresentava alcuna minaccia per i soldati ben armati che si trovavano dall’altra parte della barriera.

Israele rispose alle critiche internazionali sul bilancio delle vittime dicendo che avrebbe indagato sugli incidenti. Eppure oggi, a più di quaranta mesi dalla prima manifestazione, è chiaro che le indagini dei militari relative alle proteste di Gaza non hanno mai avuto lo scopo di assicurare giustizia alle vittime o di dissuadere le truppe da azioni simili. Queste indagini, proprio come le indagini condotte dal sistema giudiziario dell’esercito in altri casi in cui i soldati hanno recato danno a palestinesi, fanno parte del meccanismo di copertura da parte di Israele e il loro scopo principale rimane quello di mettere a tacere le critiche esterne, in modo da poter continuare ad attuare in maniera immutata la propria politica.

La principale lacuna: la mancanza di indagini sulle politiche riguardanti l’uso delle armi da fuoco

La responsabilità di aver adottato la politica delluso delle armi da fuoco, di avere impartito ordini illegali ai soldati, con gli esiti letali che ne derivano, ricade sui politici. Tuttavia, le persone principalmente responsabili delle conseguenze e della definizione di tali politiche i funzionari di livello governativo che le hanno modellate, sostenute e incoraggiate, e il procuratore generale che ne ha confermato la legalità – non sono mai state indagate. Le indagini non hanno preso in esame i regolamenti e le politiche adottate durante le proteste, ma si sono concentrate interamente su casi isolati considerati “eccezionali”.

Dei funzionari statali hanno ammesso che una delle ragioni del frettoloso annuncio di Israele che sarebbero state condotte indagini è dovuta al fatto che la Corte Penale Internazionale dell’Aia stava e sta tuttora conducendo procedimenti contro Israele. Uno dei principi guida per il lavoro della CPI è la complementarità, il che significa che la CPI afferma la [propria] giurisdizione solo quando lo Stato in questione è “riluttante o incapace” di svolgere le proprie indagini. Una volta che uno Stato intraprende delle indagini sugli incidenti, la CPI non interviene.

Tuttavia dichiarare che un’indagine è in corso non è sufficiente per evitare l’intervento della Corte Penale Internazionale. L’indagine deve essere efficace e deve esaminare la responsabilità dei funzionari di grado più elevato che hanno concepito le politiche e, se necessario, condurre a delle azioni contro di loro. Le indagini di Israele in relazione alle proteste di Gaza non soddisfano questi requisiti: consistono interamente in indagini militari sulla propria condotta. Si concentrano esclusivamente su soldati di rango inferiore e agli investigatori viene assegnato un mandato ristretto, che si limita a chiarire se i regolamenti sono stati violati, ignorando completamente la questione della loro liceità e della stessa regolamentazione sull’uso delle armi da fuoco.

Non si può neppure sostenere come hanno fatto i funzionari israeliani che la politica del fuoco aperto sia stata sostenuta dalla Corte Suprema israeliana, che ha esaminato petizioni presentate contro di loro. I giudici possono anche aver respinto le petizioni, permettendo ai militari di continuare con quella politica, ma la corte non ha difeso i regolamenti attuati sul campo, poiché questi non sono mai stati presentati ai giudici. La corte ha sì approvato i regolamenti che secondo lo Stato stavano seguendo i militari, ma lo ha fatto ignorando l’evidente discrepanza tra le informazioni presentate ai giudici e la realtà sul campo – divario evidente in tempo reale, mentre la corte esaminava la petizione.

Qual’è loggetto delle indagini secondo Israele?

Le indagini sono state affidate al Military Advocate Generals Corps (il MAG Corps) [l’Avvocatura Generale Militare è l’organo responsabile dell’attuazione dello stato di diritto all’interno dell’esercito israeliano, ndtr.] con l’assistenza di uno speciale organismo dello Stato Maggiore introdotto dopo l’operazione Protective Edge [nome in codice della campagna militare iniziata l’8 luglio 2014 dall’esercito israeliano contro i palestinesi di Hamas e altri gruppi nella Striscia di Gaza, ndtr.] (l’organismo FFA). Questo apparato è stato incaricato di una missione limitata: indagare su incidenti isolati in cui i soldati fossero sospettati di aver violato gli ordini loro impartiti. Le indagini si sono concentrate su soldati di basso rango sul terreno. In queste circostanze, anche se l’organismo avesse eccelso nel suo lavoro investigativo e avesse svolto con successo la sua missione, il contributo all’applicazione del diritto sarebbe stato limitato. Tuttavia un esame delle operazioni di tale organismo rivela che esso non si è sforzato di raggiungere neanche questo obiettivo limitato.

L’esercito ha indagato solo sui casi in cui i palestinesi sono rimasti uccisi dalle forze di sicurezza, nonostante il gran numero di persone ferite, compresi i casi in cui le vittime sono rimaste paralizzate o costrette ad amputazioni. Nel corso delle proteste sono stati feriti in totale più di 13.000 palestinesi: circa 8.000 da proiettili veri, circa 2.400 da proiettili di metallo ricoperti di gomma e quasi 3.000 da candelotti lacrimogeni che li hanno colpiti direttamente. Dei feriti, 156 hanno perso gli arti. Nessuno di questi casi è stato indagato.

Le indagini che hanno avuto luogo non sono state indipendenti, in quanto condotte interamente dai militari, senza il coinvolgimento di civili. Inoltre, sia il Mag che l’FFA funzionano molto a rilento. Secondo i dati forniti dal portavoce dell’esercito a B’Tselem, al 25 aprile 2021 l’FFA aveva ricevuto 234 pratiche riguardanti l’uccisione di palestinesi. Questa cifra comprende anche palestinesi rimasti uccisi durante il periodo in cui si sono svolte le proteste, ma senza alcun collegamento con esse. L’organismo ha completato la sua revisione in 143 di questi casi e li ha trasferiti al MAG. Il MAG ha ordinato all’Unità investigativa della polizia militare (MPIU) di indagare su 33 casi, nonché su altri tre casi non di competenza dell’ apparato FFA. In quattro casi l’inchiesta è stata chiusa senza che fossero presi provvedimenti. Per un’altra indagine del MPIU, sull’uccisione del quattordicenne ‘Othman Hiles, che è stata completata, un soldato è stato accusato di abuso di autorità al punto di mettere in pericolo la vita o l’incolumità e condannato a un mese di servizio militare comunitario. Il MAG ha deciso di non indagare penalmente su 95 casi in cui il FFA aveva completato la sua revisione e ha archiviato i casi senza ulteriori provvedimenti. Tutti gli altri casi trasferiti al MAG sono in corso di esame.

* * *

La condotta di Israele riguardo alle indagini sulle proteste a Gaza non è né nuova né sorprendente. È radicata nel sistema israeliano di applicazione della legge, come si è visto ad esempio dopo i combattimenti nel corso dell’Operazione Piombo Fuso del gennaio 2009 e nell’Operazione Margine di Protezione dell’agosto 2014. Anche allora Israele ha violato il diritto internazionale, ha rifiutato di riformare la sua politica nonostante le conseguenze letali e deviato le critiche promettendo di indagare sulla propria condotta. Ma anche allora tale promessa non ha condotto a nulla. Salvo una manciata di casi non rappresentativi nessuno è stato ritenuto responsabile per gli orribili risultati di politiche sull’uso delle armi da fuoco illegali e immorali.

Un reale cambiamento di politica avverrà solo quando Israele sarà costretto a pagare un prezzo per la propria condotta, azioni e politiche. Quando la cortina fumogena delle indagini interne sarà rimossa e sarà costretto a fare i conti con le sue violazioni dei diritti umani e delle leggi internazionali, Israele dovrà decidere: ammettere apertamente di non riconoscere che i palestinesi abbiano diritti politici e meritino di essere tutelati, e di non avere quindi nessuna intenzione di assumersi la responsabilità di aver violato i diritti umani dei palestinesi, oppure cambiare la propria politica.

(traduzione dallinglese di Aldo Lotta)




L’inserimento di Hamas nelle liste delle organizzazioni terroristiche è un’ulteriore tradimento dei palestinesi da parte del Regno Unito

Avi Shlaim

30 novembre 2021 – Middle East Eye

Finché i suoi oppositori politici vengono definiti “terroristi”, Israele viene esonerato dalla necessità di negoziare ed ha via libera dai suoi alleati per continuare a far ricorso alla forza bruta militare

La ministra dell’Interno britannica Priti Patel ha dichiarato l’intenzione di mettere al bando tutto Hamas – il movimento islamico di resistenza che governa la Striscia di Gaza – in quanto organizzazione terroristica.

L’ala militare dell’organizzazione venne messa fuorilegge nel Regno Unito nel marzo 2001. Vent’anni dopo la ministra dell’Interno propone di estendere il bando all’ala politica, affermando che la distinzione tra le due strutture non è più sostenibile. La verità a riguardo è che la distinzione era valida nel 2001 e lo è anche oggi. Anzi, si tratta di una distinzione fondamentale.

L’annuncio di Patel è giunto poco dopo che il ministro israeliano della Difesa Benny Gantz aveva definito organizzazioni terroristiche sei ong della società civile palestinese. Questa designazione è arrivata subito dopo la decisione della Corte Penale Internazionale (CPI) di iniziare un’indagine su vasta scala di possibili crimini di guerra commessi nei territori palestinesi occupati.

Gantz è stato capo di stato maggiore delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] durante l’attacco contro Gaza del luglio 2014, in cui vennero uccisi almeno 2.256 palestinesi, 1.462 dei quali civili, compresi 551 minorenni. Ciò rende Gantz il principale sospettato nell’inchiesta per crimini di guerra della CPI. Hamas ha accettato di collaborare con l’indagine della CPI, Israele ha rifiutato.

Alcune delle organizzazioni palestinesi inserite nella lista israeliana dei terroristi stanno collaborando con l’inchiesta della CPI. Benché le prove presentate da Israele siano state considerate insufficienti dall’Unione Europea e dal governo statunitense, l’etichetta di terroriste ha ottenuto il suo obiettivo di stigmatizzare le ong, riducendo la loro possibilità di ottenere finanziamenti e sconvolgendo le loro attività. L’iniziativa israeliana è stata ampiamente condannata come un attacco ai diritti umani. La ministra degli Interni britannica non è stata tra quanti hanno protestato.

Patel condivide con il primo ministro britannico Boris Johnson una visione manichea della lotta in Medio Oriente, in cui Israele rappresenta le forze della luce e la palestinese Hamas le forze delle tenebre. La realtà è molto più complessa.

I legami israeliani con i conservatori

Come prevedibile le reazioni all’annuncio di Patel sono state polarizzate. Un funzionario di Hamas ha affermato che ciò dimostra “una totale faziosità nei confronti dell’occupazione israeliana e sudditanza ai ricatti e alle imposizioni di Israele.” Ha accusato il Regno Unito di appoggiare “gli aggressori a danno delle vittime.” Il Board of Deputies of British Jews [Consiglio dei Rappresentanti degli Ebrei Britannici] ha accolto calorosamente l’iniziativa. Nei media israeliani la decisione britannica è stata acclamata come un trionfo della diplomazia israeliana.

A livello più profondo lo spostamento della politica britannica è stato il prodotto degli stretti rapporti tra Israele e il partito Conservatore. Da tempo Israele e la sua potente lobby hanno fatto pressioni sul governo britannico riguardo a questo problema. Il primo ministro Naftali Bennett ha invitato Boris Johnson a mettere fuorilegge tutto Hamas quando l’ha incontrato il mese scorso alla conferenza ONU per il clima a Glasgow.

Patel non aveva bisogno di suggerimenti per fare ciò che chiede Israele. Nel 2017, come ministra per lo Sviluppo Internazionale, partecipò a un viaggio in Israele senza informare l’allora prima ministra Theresa May né Boris Johnson, all’epoca ministro degli Esteri. Pur affermando che si trattava di una vacanza privata, Patel ebbe una serie di incontri segreti con politici israeliani di alto livello, tra cui l’allora primo ministro Benjamin Netanyahu. Lord Polak, presidente onorario degli Amici Conservatori di Israele, organizzò personalmente dodici di questi incontri.

Al suo ritorno Patel chiese ai suoi funzionari di verificare la possibilità di spostare parte del bilancio degli aiuti internazionali per consentire all’esercito israeliano di svolgere lavoro umanitario nelle Alture del Golan occupate. Venne obbligata a dare le dimissioni ed ammise che le sue azioni “erano cadute al di sotto degli alti standard che ci si aspetta da un ministro.”

Gli stretti contatti con politici israeliani e lobbysti a favore di Israele nel Regno Unito, così come la sua stessa visione di destra, l’hanno portata a introiettare la narrazione israeliana su Hamas. Questa narrazione è notevolmente distorta e palesemente strumentale. Ecco peraltro alcuni fatti rilevanti.

Hamas è nata nel 1988, all’inizio della Prima Intifada (rivolta) palestinese contro l’occupazione israeliana in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. In origine aveva il duplice obiettivo di portare avanti la lotta armata contro Israele e di gestire progetti di assistenza sociale.

Il suo statuto definiva la Palestina storica, compreso l’attuale Israele, come terra esclusivamente islamica ed escludeva qualunque pace permanente con lo Stato ebraico. Negli anni ’90 Hamas iniziò la lotta armata contro l’occupazione. Inizialmente essa prese la forma del lancio di razzi dalla Striscia di Gaza contro le città e centri abitati israeliani. Hamas venne messa in rapporto con gli attentati suicidi realizzati all’interno di Israele.

Il termine “attentati suicidi” divenne agli occhi dell’opinione pubblica una forma di guerra particolarmente orribile. In fin dei conti gli attentati suicidi sono un mezzo per portare le bombe a destinatazione. Giudicate esclusivamente in base ai loro risultati, non sono più orripilanti di una bomba da una tonnellata sganciata da un F-16 israeliano a Gaza su un complesso residenziale.

Indipendentemente dal vettore, l’uccisione di civili è sbagliata. Punto. Nel 2004 la dirigenza politica di Hamas prese la decisione strategica di porre fine agli attentati suicidi.

Hamas e Fatah

In seguito al ritiro unilaterale di Israele da Gaza nell’agosto 2005, Hamas iniziò a impegnarsi nel processo politico interno palestinese, partecipando alle elezioni contro il principale partito, Fatah, che dominava l’Autorità Nazionale Palestinese. Dalla sua sede a Ramallah l’ANP governava sia sulla Cisgiordania che sulla Striscia di Gaza.

Fatah venne generalmente percepito come corrotto e un subappaltante della sicurezza di Israele nei territori occupati. Hamas, di contro, aveva la reputazione di probità nella vita pubblica così come una provata esperienza di resistenza concreta all’occupazione israeliana. 

Nel gennaio 2006, dopo aver vinto la maggioranza assoluta in elezioni regolari, Hamas formò un nuovo governo. Israele, USA e Gran Bretagna si rifiutarono di riconoscerlo. In teoria essi erano a favore della democrazia, ma quando il popolo votò per il partito politico sbagliato Israele e i suoi alleati occidentali ripristinarono pensanti sanzioni diplomatiche ed economiche per minarlo.

Nel marzo 2007 Hamas formò un governo di unità nazionale con l’arci-nemico Fatah. Questo governo propose colloqui diretti con Israele e un cessate il fuoco a lungo termine. Israele rifiutò i negoziati, cospirando invece per cacciare Hamas dal potere e sostituirlo con un regime collaborazionista di Fatah. Dettagli del piano sono contenuti nei “Palestinian Paper”, il dossier segreto di 1.600 documenti diplomatici fatti filtrare ad Al Jazeera e al Guardian.

Hamas prevenne questo colpo di stato con la conquista violenta del potere a Gaza nel giugno 2007, cacciando le forze favorevoli a Fatah. Israele reagì imponendo alla Striscia di Gaza un blocco tuttora in atto dopo 14 anni. Il blocco ha provocato il collasso dell’economia, alti livelli di disoccupazione, grave mancanza d’acqua, di cibo e di medicine e terribili sofferenze ai due milioni di abitanti della sovrappopolata Striscia. Un blocco è una forma di punizione collettiva vietata dalle leggi internazionali, eppure la comunità internazionale non ha chiamato Israele a risponderne.

Dal 2008 ci sono stati quattro grandi attacchi militari israeliani contro Gaza, che hanno incluso morte e distruzione per la popolazione civile. Tra Israele e Hamas ci sono stati anche parecchi cessate il fuoco mediati dall’Egitto, ognuno dei quali è stato rispettato da Hamas e violato da Israele quando non rispondeva più ai suoi obiettivi.

Operazione Piombo Fuso

Nel dicembre 2008 l’esercito israeliano ha lanciato il primo di questi attacchi, l’operazione Piombo Fuso. Nel corso di questa operazione militare le truppe israeliane hanno commesso una serie di crimini di guerra documentati nel dettaglio dal rapporto Goldstone, che ha riconosciuto anche Hamas responsabile, ma che ha rivolto le critiche più dure a Israele.

Israele presentò l’operazione Piombo Fuso come una misura difensiva per proteggere i suoi civili contro i razzi lanciati da Gaza. Ma se questo fosse stato l’intento, tutto ciò che Israele avrebbe dovuto fare sarebbe stato seguire l’esempio di Hamas e rispettare il cessate il fuoco. Hamas non solo l’aveva fatto, ma si era attivato per imporlo ai gruppi più radicali che operano nella Striscia di Gaza, come la Jihad Islamica. Di fatto la maggior parte della potenza di fuoco delle IDF venne diretta contro quartieri residenziali.

Il rapporto concluse che “ciò che avvenne in sole tre settimane tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009 fu un attacco deliberatamente sproporzionato inteso a punire, umiliare e terrorizzare una popolazione civile…e a imporle una ancor più accentuata sensazione di dipendenza e vulnerabilità.”

L’affermazione secondo cui l’operazione era destinata a “terrorizzare una popolazione civile” è ormai evidente. Il terrorismo è l’uso della forza contro civili per scopi politici. In base a questa definizione l’operazione Piombo Fuso fu un atto di terrorismo di Stato. Così è stato per gli attacchi israeliani del 2012, del 2014 e del 2021.

Nel 2017 Hamas rese pubblico un documento politico che ammorbidì le sue precedenti posizioni politiche contro Israele e fece ricorso a un linguaggio più misurato riguardo al popolo ebraico. Non arrivò fino al riconoscimento ufficiale di Israele, ma accettò formalmente uno Stato palestinese nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania con Gerusalemme est come capitale.

In altre parole accettò uno Stato palestinese vicino a Israele invece che al posto di Israele. Il documento sottolineò anche che la lotta di Hamas non era contro gli ebrei ma contro gli “aggressori sionisti occupanti.”

Quindi perché il governo britannico sceglie questo momento per mettere fuorilegge l’ala politica di Hamas, dopo aver definito criminale quella militare 20 anni fa? Parte della risposta è che ciò è stato fatto in conseguenza delle pressioni della lobby israeliana. Lo Stato di Israele ha il diritto e anzi il dovere di difendere i suoi civili dagli attacchi palestinesi. Il modo più semplice e sicuro per farlo è attraverso accordi di cessate il fuoco a lungo termine con la dirigenza politica di Hamas.

Etichettando i suoi oppositori politici come terroristi, Israele si autoassolve dalla necessità di parlare con loro ed ottiene il via libera dai suoi alleati occidentali per far ricorso al modus operandi a cui è abituato: la forza bruta militare. Chi paga il prezzo sono i civili di entrambe le parti, e soprattutto gli indifesi abitanti di Gaza, la più grande prigione a cielo aperto del mondo.

Una serie di tradimenti britannici

I veri amici non assecondano la tossicodipendenza dei propri amici, ma cercano di disintossicarli. Boris Johnson non potrebbe essere più indulgente. La sua parzialità arriva fino ad opporsi ad ogni tentativo di chiamare Israele a rispondere delle sue azioni aggressive e dei suoi comportamenti illeciti. Per esempio si è opposto all’indagine della Corte Penale Internazionale su possibili crimini di guerra nei territori palestinesi occupati.

In una lettera agli Amici Conservatori di Israele egli ha affermato che il suo governo, pur rispettando l’indipendenza della Corte, si oppone a questa particolare inchiesta. “Questa indagine dà l’impressione di essere un attacco di parte e preconcetto contro un amico e alleato del Regno Unito,” ha scritto. La logica perversa della dichiarazione è che il fatto di essere amico e alleato del Regno Unito colloca Israele al di sopra delle leggi internazionali.

Una domanda conclusiva: perché quest’ultima svolta politica antipalestinese è stata annunciata dal ministro degli Interni invece che da quello degli Esteri? Patel sostiene che indicare tutta Hamas come un’organizzazione terroristica dovrebbe essere vista attraverso una lente di politica interna: aiuterà a proteggere gli ebrei di questo Paese. Ciò è pretestuoso: in base alle leggi internazionali Hamas esercita il proprio diritto di resistere all’occupazione israeliana, la più lunga e brutale occupazione militare dei tempi moderni. Diffondere il panico e criminalizzare l’ala politica di Hamas non renderà affatto più sicuri gli ebrei britannici.

In maggio, con un uso assolutamente sproporzionato della forza, Israele ha portato avanti un bombardamento aereo di Gaza che ha provocato la morte di 256 palestinesi, tra cui 66 minorenni. Il Community Security Trust, un’associazione benefica che si occupa della sicurezza degli ebrei in Gran Bretagna, ha registrato durante quel mese un’“orribile aumento” degli attacchi razzisti che “ha superato qualunque cosa abbiamo visto in precedenza.”

Se realmente il governo britannico voleva fare in modo che gli ebrei di questo Paese si sentissero più sicuri avrebbe dovuto smettere di accusare le vittime palestinesi della loro stessa sventura. Dovrebbe esortare il suo alleato israeliano a rispettare le leggi umanitarie internazionali, ad attenersi agli accordi di cessate il fuoco, a ridurre l’uso della forza militare e a parlare con la dirigenza politica di Hamas.

L’ultima mossa di Patel servirà solo ad evidenziare la totale bancarotta della politica del governo conservatore nei confronti di Israele-Palestina. Il governo sostiene di appoggiare la soluzione a due Stati del conflitto. Eppure, nonostante ripetuti voti del parlamento a favore del riconoscimento della Palestina, il governo rifiuta di cambiare idea.

Quando era ministro degli Esteri Boris Johnson ha detto alla Camera dei Comuni che il governo conservatore avrebbe riconosciuto la Palestina a tempo debito. Ma per il governo che ora egli guida quel tempo non sarà mai arrivato. Il tempo è solo una scusa per rimandare continuando contemporaneamente a compiacere Israele.

Di sicuro il riconoscimento britannico della Palestina non riequilibrerà l’enorme asimmetria di potere tra le due parti, ma darà ai palestinesi parità di trattamento. É il meno che la Gran Bretagna possa fare oggi per i palestinesi, dati i suoi lunghi precedenti di tradimenti che risalgono alla dichiarazione Balfour, oltre un secolo fa.

Nel suo libro del 2014 “The Churchill Factor” [Il fattore Churchill] Johnson ha scritto che la dichiarazione Balfour fu “stravagante”, “un documento tragicamente incoerente” e “una pregevole opera di intollerabile politica estera.”

Oggi dalla sua posizione di potere Johnson ha un’opportunità unica di modificare questo enorme errore storico. Criminalizzare Hamas può compiacere Israele e la destra del suo partito, ma non farà che infangare ulteriormente la già oscura serie di tradimenti britannici del popolo palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Avi Shlaim è professore emerito in Relazioni internazionali all’università di Oxford e autore di The Iron Wall: Israel and the Arab World (2014) [ed. italiana: “Il muro di ferro: Israele e il mondo arabo”, Il Ponte editrice] e di Israel and Palestine: Reappraisals, Revisions, Refutations (2009) [“Israele e Palestina: riesami, revisioni, confutazioni”].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il medico di Gaza alla ricerca di giustizia per le sue figlie massacrate non la troverà in Israele

Gideon Levy

28 novembre 2021 – HAARETZ

Anche il dottor Izzeldin Abuelaish ha provato a muoversi nel solco della giustizia. Per 13 anni, dal massacro delle figlie nella Striscia di Gaza, ha girato il mondo parlando di speranza, pace, perdono e convivenza. L’ho visto al Parlamento Europeo e a Tel Aviv. Ha detto di non essere arrabbiato. Durante i suoi interventi era quasi imperturbabile. Era difficile credergli. Un uomo, tre delle cui figlie sono state uccise dall’esercito israeliano, che parla di errore e perdono. Ora è arrivato il momento della rabbia. Anche la Corte Suprema gli ha dato vergognosamente il benservito. Forse ora si renderà conto che la strada che ha scelto non lo porterà da nessuna parte.

Izzeldin, lei non è il primo palestinese che ha tentato la strada della giustizia, arrivando alla disperazione in ogni caso. Marwan Barghouti, ad esempio, ha provato la via della speranza e del dialogo prima di dedicarsi alla resistenza violenta. È finita male per tutti. Quindi si fermi, dottor Abuelaish. Lasci perdere. La smetta di parlare di speranza, giustizia e pace. Non c’è nessuno con cui parlarne. Non c’è nessun interlocutore.

Israele non capisce quella lingua, che è estranea allo Stato. Israele conosce solo una lingua diversa, una lingua alla quale lei deve ricorrere se vuole raggiungere anche una piccola parte dei suoi obiettivi: una [pur] ritardata giustizia per le sue figlie morte; un’ammissione dell’ingiustizia; una riparazione e la prevenzione di tali atti in futuro.

Il caso del medico non sarebbe mai dovuto arrivare in tribunale. Il giorno dopo che le sue figlie sono state uccise, Israele avrebbe dovuto contattare il dottor Abuelaish, che all’epoca faceva parte del personale dello Sheba Medical Center, a Tel Hashomer, nella periferia di Tel Aviv. Il governo israeliano avrebbe dovuto chiedergli perdono e offrirgli la sua assistenza, senza il coinvolgimento di nessun tribunale.

Forse i soldati che hanno ucciso le sue figlie non avevano intenzione di farlo, ma di certo non sono stati abbastanza attenti a non ucciderle. E ‘necessario che qualcuno sia punito e paghi per tale negligenza criminale.

Un precedente? Proprio così. Questo è esattamente lo scopo. Quando Israele comincerà a pagare per i crimini e la negligenza dei suoi soldati, l’esercito comincerà a prendersi maggiormente cura della vita umana. In un raro caso Israele ha dimostrato generosità e umanità. È stato lo straordinario caso di una ragazza di nome Maria Aman, rimasta paralizzata dalla testa ai piedi a causa di un missile israeliano che nel 2006 a Gaza uccise metà della sua famiglia, e non è crollato il mondo. Vive tra noi con tutti i servizi di riabilitazione che le spettano. Non è un precedente e non è pericoloso. È semplicemente un comportamento umano.

Non è difficile immaginare cosa sarebbe successo se Hamas avesse ucciso tre sorelle ebree. La ripugnante organizzazione ultranazionalista di assistenza legale Shurat Hadin l’avrebbe citata in giudizio, urlando al terrorismo, in metà dei paesi del mondo, e avrebbe vinto.

Abuelaish credeva nel sistema legale israeliano. Il capo della giuria della Corte Suprema che ha ascoltato il suo caso, il giudice Isaac Amit, si è profuso in maniera repellente in manifestazioni sdolcinate di rammarico e gentilezza – “I nostri cuori sono con il ricorrente” – prima di ordinare al medico in lutto di sparire dalla sua vista.

Questa è la corte del cui futuro si preoccupano tanto i progressisti, il faro del quale dovremmo seguire la luce. Ci è stato detto che il tentativo da parte di qualcuno di danneggiarlo provocherebbe alla democrazia israeliana un disastro esistenziale. In effetti, non sarebbe un grande disastro. Nessun danno sarebbe provocato se non alla falsa reputazione di giustizia di Israele.

Ora, caro dottor Abuelaish, prenda una strada diversa. Se non la ascoltano a Gerusalemme, vada all’Aia. È vero che secondo il protocollo anche lì le sue prospettive sono scarse. La Corte penale internazionale non si occupa di singoli casi di negligenza e non ha giurisdizione in merito a tutto ciò che è accaduto qui prima del 2014.

Ma può presentare all’Aia una denuncia contro il sistema giudiziario israeliano per l’immunità automatica che garantisce per tutti i crimini di guerra commessi dallo Stato. Che la ascoltino o meno, questa ingiustizia deve avere un’eco mondiale. E poi, dottor Abuelaish, adotti un altro sistema, uno che potrebbe un giorno privare Israele di un po’ delle armi distruttive che hanno ucciso le sue figlie.

Invece di parlare di convivenza, parli di boicottaggi. Invece che di pace, parli di sanzioni. Si unisca al movimento BDS. Soltanto queste misure potrebbero portare al cambiamento per il quale sta combattendo. Questo è ciò che le ha insegnato la Corte Suprema di Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Non si paga nessun prezzo per la distruzione di un villaggio palestinese?

Sarit Michaeli

26 luglio 2021 +972 Magazine

I diplomatici vedono che il nuovo governo israeliano continua ad espellere i palestinesi. Per quale motivo gli Stati continuano a tributare onori a chi compie questi crimini?

Negli annali dei tentativi israeliani di espellere comunità di pastori palestinesi nella Cisgiordania occupata, un ruolo centrale è svolto dalla burocrazia, coi suoi uffici dotati di aria condizionata, e dalle aule di tribunali. Le udienze della Corte Suprema di Israele, che quotidianamente autorizza la politica di espulsione del governo e le ordinanze di demolizione dell’Amministrazione Civile, forse non sono spettacolari come la vista del bulldozer che distrugge tende e cisterne, o della gru che solleva le macerie per depositarle in un camion. Ma è su questi magistrati, politici, e generali che ricade la maggiore responsabilità di queste distruzioni e sofferenze.

Eppure a volte basta un’immagine sola presa sul campo per ottenere il quadro globale della politica condotta da Israele per perseguitare alcune delle comunità palestinesi più svantaggiate della Cisgiordania con l’unico obiettivo di portarle alla disperazione, cacciarle via dalle loro case e comunità, per impadronirsi delle loro terre. E’ un momento topico che mette in luce tutto, chiaro come il sole che in estate picchia cocente sulla Valle del Giordano.

Lo scorso 7 luglio camion, bulldozer e altri mezzi pesanti israeliani sono arrivati in località Khirbet Humsa, un borgo di pastori formato da quattro gruppi di tende e catapecchie in cui vivono 61 persone, di cui 34 sono minori. I soldati, gli agenti della polizia di frontiera e gente assoldata dall’Amministrazione Civile – il ramo dell’esercito israeliano che controlla la vita quotidiana di milioni di palestinesi sotto occupazione – hanno iniziato senza perdere tempo la loro opera di distruzione.

Le donne delle famiglie Abu al-Kabash e Awawdeh, che si trovavano a casa mentre gli uomini erano fuori a pascolare le greggi, hanno visto i bulldozer che dopo aver tirato e strappato i pali metallici e i rivestimenti di plastica delle tende li trasferivano nei camion. Stavano a guardare mentre il conducente del bulldozer spaccava prima i serbatoi delle acque nere e poi ne buttava giù uno di acque bianche prima di colpirlo ripetutamente sul terreno arido, attento che non ne restasse più niente.

Parte degli avvenimenti è stato ripreso da una donna della comunità con un cellulare avuto in precedenza dagli attivisti di Machsom Watch [associazione di volontarie israeliane che monitora la vita dei palestinesi sotto occupazione, ndtr] prima che la batteria si esaurisse. Più in là c’erano attivisti palestinesi provenienti da altre parti della Valle del Giordano, ricercatori di B’Tselem [Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati, ndtr], operatori umanitari, personale ONU e diplomatici europei che documentavano. I soldati non li hanno lasciati avvicinare.

Dopo che i bulldozer hanno finito di schiacciare le tende e i recinti degli animali del villaggio, i lavoratori a contratto si sono dedicati agli effetti personali dei residenti. Per ore hanno caricato sui camion tutto ciò che si trovava nelle case appena distrutte: mobili, materassi, abiti, fornelli, cibo. Poi i camion si sono diretti in località Ein Shibli, ai margini dell’Area C della Cisgiordania, quella sotto totale controllo militare israeliano, dove hanno scaricato il tutto. Israele sta cercando di spostare i residenti espulsi proprio qui, nonostante essi rifiutino strenuamente di spostarsi da nessuna parte, men che meno a Ein Shibli, dove la mancanza di pascoli gli impedirebbe di continuare a vivere secondo le loro tradizioni.

Gli abitanti di Humsa hanno dovuto trascorrere la notte solo con i vestiti che avevano indosso, privi dei servizi basilari e di un riparo. Era la sesta volta nell’ultimo anno che la comunità ha dovuto opporre resistenza per non essere espulsa da Israele. Anche se questa demolizione è stata forse più spudorata delle altre, la giustificazione è rimasta invariata: negli anni Settanta Israele aveva designato l’area come “zona di tiro” – poco importa se ciò violava le leggi internazionali.

Nessuna ripercussione

La distruzione di Humsa non è un’aberrazione. E’ la norma che Israele ha stabilito. E’ parte dell’ininterrotta politica dei governi israeliani che creano condizioni di vita insostenibili per i palestinesi con l’obiettivo di cacciarli dalle loro case, concentrarli in enclave, ed impadronirsi delle loro terre senza problemi. Cercare di trasferire con la forza persone prive di protezione costituisce crimine di guerra per il diritto internazionale umanitario, ed è tale per lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale dell’Aia.

La responsabilità di questo crimine è di chi lo ordina, approva e controlla: i funzionari del governo, i comandanti militari di alto livello, le alte cariche nell’Amministrazione Civile, e i magistrati della Corte Suprema che forniscono l’approvazione legale. In effetti, quando la Corte Penale Internazionale prenderà in considerazione i trasferimenti forzati [di popolazione] come parte della sua indagine sui potenziali crimini di guerra israeliani, dovrà accertare tutte le responsabilità di chi ha reso possibile tale crimine.

Alle precedenti demolizioni della comunità sono seguite visite da parte di delegazioni di alti diplomatici dell’Unione Europea. Questi hanno detto ai residenti che la UE sostiene la loro lotta per la terra e si oppone alla politica di Israele. Gli ambasciatori della UE hanno ripetuto questo messaggio tramite un’iniziativa formale presso il governo di Israele, che ha scelto di ignorarlo e di andare avanti – scelta che non ha provocato alcuna ripercussione da parte europea.

Anzi, è vero il contrario. Dopo l’ultima demolizione in ordine di tempo di Humsa, il ministro degli esteri Yair Lapid è stato accolto con ogni onore al Consiglio Affari Esteri della UE, composto dai ministri degli esteri degli Stati membri. Secondo quanto riferito, l’Unione Europea ha convenuto di accettare Israele in “Creative Europe”, uno strumento finanziario europeo per sostenere l’arte, che proibisce di finanziare le colonie, quando Israele dichiara pubblicamente di respingere la posizione UE sull’illegalità delle colonie. Gli Stati Uniti, che con la presidenza di Joe Biden hanno ripreso a parlare della soluzione dei due Stati e di diritti umani, non hanno detto alcunché sugli eventi di Humsa.

La notte del sette luglio, dopo una giornata di distruzioni, un bulldozer militare è ritornato in zona per seppellire i rottami e detriti abbandonati. Khirbet Humsa è stato cancellato dalla faccia della terra. Ai margini della zona, i residenti cercano di aggrapparsi alla loro terra in ripari di fortuna. Dopo la distruzione, di tanto in tanto arrivano in zona attivisti palestinesi ed israeliani, oltre ad operatori umanitari. I soldati che pattugliano con i loro fuoristrada li avvisano di non entrare nella zona chiusa.

I residenti di Humsa non riusciranno a sopportare le condizioni attuali ancora a lungo. Con i loro atti i responsabili di governo della cosiddetta “coalizione del cambiamento” di Israele hanno reso ampiamente chiaro di non avere alcuna intenzione di rinunciare alla politica di espulsioni e distruzioni. La chiave ce l’ha soltanto la comunità internazionale. Farà capire ad Israele che danneggiare Humsa e le altre comunità palestinesi ha un prezzo, oppure i suoi richiami ancora una volta non saranno altro che vuota retorica?

Questo articolo è stato pubblicato originariamente in ebraico su Local Call. Clicca qui per leggerlo.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Le colonie sono crimini di guerra: è ora di mettere l’Organizzazione Sionista Mondiale del Sudafrica davanti alle sue responsabilità.

Iqbal Jassat

12 luglio 2021 The Palestine Chronicle

Michael Lynk, relatore speciale dell’ONU per i diritti umani nei TPO (Territori Palestinesi Occupati) è giunto a conclusioni incriminanti sulle colonie illegali di Israele.

Nella sua relazione di venerdì al Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, ha presentato ragioni valide per classificare le colonie quali crimini di guerra.

Nella sua dichiarazione Lynk ha affermato che le colonie rappresentano una violazione dell’assoluto divieto di “insediamento di coloni”, e ha chiesto agli stati membri dell’ONU di non ignorare le violazioni israeliane.

Che Israele in qualità di potenza occupante trasferisca la propria popolazione nei TPO, non solo è contro le leggi internazionali, ma danneggia direttamente i palestinesi, che subiscono brutalità da parte dei coloni, compresa la pulizia etnica.

Le ingiustizie derivanti dalla costruzione delle colonie sono biasimevoli, immorali e dissennate. Tuttavia, nonostante questo rappresenti ovviamente una deviazione dai valori civili, Israele persiste a prescindere.

Anche se Lynk usa un’argomentazione convincente quando sostiene che tali constatazioni obbligano la comunità internazionale a valutare quali adottare fra le numerose misure di responsabilità previste dalle vigenti disposizioni in materia diplomatica e legale, resta da vedere se il Consiglio di Sicurezza dell’ONU agirà in conseguenza.

Secondo lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale [CPI], la pratica da parte di una potenza occupante di trasferire parte della sua popolazione civile in un territorio occupato è un crimine di guerra.

E dato che il regime coloniale continua a perpetrare crimini di guerra, per Lynk è importante e urgente dichiarare che è ora di far capire ad Israele che la sua occupazione illegale e il suo disprezzo per la legge e l’opinione internazionale “non possono rimanere senza conseguenze.”

Se Israele è colpevole e oltraggia varie risoluzioni dell’ONU che definiscono illegale la sua attività coloniale, è inaccettabile che tale status quo rimanga senza risposta. Secondo Lynk, “è un tragico paradosso che anche se le colonie israeliane sono chiaramente vietate dalla legge internazionale, la comunità internazionale abbia dimostrato una notevole riluttanza a far rispettare le sue stesse leggi.”

Nel suo studio “The One State Solution” [“La Soluzione di un Unico Stato”, ndtr], l’autrice Virginia Tilley spiega che le colonie israeliane hanno invaso i TPO in tale misura da rendere impraticabile qualsivoglia Stato palestinese. Spiega in modo estremamente dettagliato che l’impatto della struttura coloniale è stato enorme dal punto di vista geografico, demografico, economico e politico.

Quando il libro venne pubblicato nel 2005, la Tilley pronosticò che, visto che la struttura coloniale diventava parte permanente del contesto, la maggior parte della Cisgiordania sarebbe stata formalmente “incorporata in Israele più o meno nell’arco di un decennio”.

Fece inoltre notare che è fondamentalmente sbagliato credere che le colonie ebraiche equivalgano a qualche conglomerato di roulotte. Al contrario, le colonie sono città vere e proprie, che comprendono centri commerciali e cinema, scuole di ogni grado, centri ricreativi e parchi, sinagoghe e centri culturali, nonché aree industriali con fabbriche da centinaia di milioni di dollari in investimenti.

Fenomeno noto come creazione di “fatti compiuti”, che è parte integrante del progetto di espansione sionista, le colonie nella Cisgiordania e Gerusalemme Est occupate sono salite dalle 230 del 2005 a quasi 300. E si è passati da 400.000 a oltre 680.000 coloni ebrei.

Lynk sostiene correttamente che le colonie sono diventate “il motore della occupazione israeliana che dura da 54 anni, la più lunga dunque in epoca moderna.”

E a proposito delle solite condanne retoriche da parte di Stati membri dell’Assemblea Generale dell’ONU, compreso il Sudafrica, è opportuno tenere presente che, come ci ricorda Lynk, le parole sono vane se non si traducono in azioni.

“Fintanto che la comunità internazionale criticherà Israele senza chiamarlo a rispondere delle proprie azioni e subirne le conseguenze, dovremo scomodare fate e folletti per convincerci che 54 anni di occupazione finiranno e che i palestinesi realizzeranno il proprio diritto all’auto-determinazione.”

La serietà del rapporto che chiede di classificare le colonie come crimini di guerra non può essere presa alla leggera nè ignorata.

In Sudafrica è ragionevole aspettarsi che il governo dell’ANC [ANC, Congresso Nazionale Africano, è il più importante partito politico sudafricano. Fondato all’epoca della lotta all’apartheid, è al governo del Paese dal 1994, ndtr] non soltanto dia pieno sostegno al rapporto Lynk, ma si adoperi affinché la missione dell’ONU abbia i mezzi per tradurre in azioni significative le conclusioni a cui è pervenuta.

E soprattutto, il Sudafrica ha la fantastica opportunità di indagare le attività dei gruppi di pressione pro-Israele locali, alcuni dei quali risulterebbero sicuramente coinvolti nel finanziamento dei crimini di guerra delle colonie.

Uno dei promotori chiave della struttura delle colonie illegali è la World Zionist Organization (WZO) [Organizzazione Sionista Mondiale, fondata nel 1897 da Theodor Herzl per promuovere la causa sionista, ndtr]. Lo studio della Tilley rivela che nel piano generale pubblicato nel 1978, la WZO definiva la strategia di base di incorporare “Giudea e Samaria” [la Cisgiordania, ndtr] quale “missione nazionale fondamentale.”

Se è vero che tutte le organizzazioni sioniste in Sudafrica sono affiliate alla WZO, il governo Ramaphosa [Matamela Cyril Ramaphosa è capo di Stato del Sudafrica dal 2018, ndtr] deve assolutamente autorizzare le autorità competenti ad indagare tali organizzazioni e se scopriranno che esse hanno qualche responsabilità nel favoreggiamento delle colonie illegali, a incriminarle per fomentare crimini di guerra.

Iqbal Jassat è membro esecutivo del Media Review Network [la cui missione è sfatare i pregiudizi nei confronti dei musulmani e favorire il dialogo fra i gruppi diversi che vivono in Sudafrica, ndtr], che ha sede in Sudafrica. Ha scritto questo articolo per The Palestine Chronicle. Vedi: www.mediareviewnet.com

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Questa volta potrebbe andare diversamente: sulla commissione d’inchiesta ONU che deve indagare le violazioni nei territori palestinesi occupati

Lori Allen

1 giugno 2021 – Mondoweiss

Grazie a un contesto politico in rapido cambiamento la nuova commissione ONU per i diritti umani annunciata il 27 maggio potrebbe essere diversa da tutte le altre del passato – questa potrebbe effettivamente chiamare Israele a rispondere delle sue azioni.

Il voto della Commissione ONU per i Diritti Umani del 27 maggio per la creazione di una commissione d’inchiesta permanente che riferisca sulle violazioni dei diritti in Israele, nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza è molto simile alle molte commissioni che sono state create in precedenza. Formata con un voto a maggioranza in favore della risoluzione A/HRC/S-30/L.1, questa commissione riafferma le responsabilità dello Stato nella protezione dei diritti umani e delle leggi internazionali umanitarie come base per la pace.

L’ONU e altre organizzazioni internazionali hanno già varato decine di commissioni simili in precedenza. Molte sono state motivate da un aumento straordinario della violenza nella Striscia di Gaza. Quest’ultima commissione giunge come risposta a 11 giorni di attacchi israeliani contro la Striscia di Gaza, iniziati il 10 maggio, che hanno ucciso almeno 253 palestinesi, tra cui 66 minori, e ferito più di 1.900 persone, con 13 vittime in Israele. Tra le altre recenti inchieste dell’ONU ve ne fu una nel 2014 e un’altra, nota come la Missione Goldstone, nel 2009, che svolse un’inchiesta sui combattimenti del 2008-09 nella Striscia di Gaza che avevano ucciso 1.400 palestinesi.

Tuttavia di questa più recente commissione è unico il contesto in cui è nata, segnato da un risorgente tentativo legale e degli attivisti a livello internazionale, anche tra gli ebrei, per sfidare la sistematica violenza e spoliazione dei palestinesi nei territori palestinesi occupati, in Israele e nella diaspora. Sebbene una commissione ONU di per sé possa fare poco per cambiare le azioni di Israele, all’interno delle attuali dinamiche sociali e politiche in movimento essa può giocare un ruolo nel concentrare l’attenzione e una significativa azione di mobilitazione per fermare e contrastare il progetto colonialista d’insediamento di Israele.

Specificando che questa inchiesta dovrebbe raccogliere prove delle violazioni “per ottimizzare le possibilità della loro ammissibilità in procedimenti legali”, il testo di quest’ultima risoluzione ONU evidenzia un nuovo importante fatto di contesto, ossia che il 5 febbraio 2021 la Corte Penale Internazionale (CPI) ha deciso di avere la giurisdizione sui territori palestinesi occupati, consentendo alla procura di indagare su crimini di guerra e contro l’umanità avvenuti nei territori palestinesi occupati.

Aprendo la sessione speciale a Ginevra la scorsa settimana Michelle Bachelet, alta commissaria ONU per i Diritti Umani, si è riferita agli attacchi israeliani contro Gaza di questo mese come possibili crimini di guerra.

Anche nei risultati della missione Goldstone l’attenzione nei confronti di possibili crimini di guerra era centrale e il rapporto di quella missione si concentrava sulla fine dell’impunità. Tuttavia, come ho evidenziato nel mio libro A History of False Hope: Investigative Commissions in Palestine [Una storia di vane speranze: commissioni d’inchiesta in Palestina], ciò ha segnato un punto di svolta nel linguaggio giuridico internazionale utilizzato per analizzare il conflitto israelo-palestinese, ma non ha portato ad azioni concrete per porre fine all’impunità israeliana. Gli abitanti della Striscia di Gaza continuano a soffrire, soggetti a restrizioni e a un assedio imposto dagli anni ’90 e intensificatosi nel 2007, e questo lembo di terra è gestito [da Israele] come una prigione a cielo aperto per il milione 800mila palestinesi che vi vivono. Se quest’ultima commissione d’inchiesta “identificherà, ove possibile, i responsabili con l’obiettivo di garantire che gli autori delle violazioni vengano chiamati a risponderne,” la CPI potrebbe essere in grado di utilizzare queste prove.

Un secondo elemento distintivo del contesto in cui questa commissione è nata è il coro di analisi che individuano Israele come uno Stato di apartheid. Diffuso nell’aprile 2021, il rapporto dell’ong internazionale Human Rights Watch (HRW) condanna Israele in quanto responsabile dei crimini di apartheid e persecuzione. È solo l’ultimo di una serie di rapporti simili. Nel 2017 l’ESCWA, un’agenzia dell’ONU, ha reso pubblico un rapporto sulle pratiche di apartheid contro i palestinesi da parte di Israele. Anche molte organizzazioni palestinesi hanno partecipato a questo coro. Nel 2019 otto associazioni palestinesi, regionali e internazionali, tra cui Al-Haq, BADIL e Addameer, hanno presentato un rapporto alla Commissione ONU per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali in cui dettagliano le pratiche israeliane che in base alle leggi internazionali costituiscono il crimine di apartheid. Come quello di Human Rights Watch il rapporto del gennaio 2021 dell’ong israeliana B’Tselem suggerisce che il riconoscimento internazionale di Israele come Stato dell’apartheid sta diventando molto diffuso. Dato che la nuova commissione permanente d’inchiesta intende indagare “ogni problema fondamentale sotteso alle continue tensioni, instabilità e prosecuzione del conflitto”, comprese “discriminazione e repressione in base all’identità nazionale, etnica, razziale o religiosa,” potremmo vedere altre prove autorevoli dei crimini di apartheid da parte di Israele che portino a far pressione sugli Stati perché vi pongano fine.

Come ciò che avvenne in risposta al regime di apartheid sudafricano, un movimento di boicottaggio internazionale ha spinto accademici, attivisti e artisti a sostenere libertà, giustizia e uguaglianza per i palestinesi. Il BDS, movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni, è la terza caratteristica dell’attuale contesto. Il BDS promuove formazione pubblica sulla condizione dei palestinesi, facendo nel contempo pressione sulle istituzioni israeliane perché pongano fine alla loro complicità con l’oppressione dei palestinesi da parte dello Stato e chiedendo che il governo israeliano rispetti le leggi internazionali.

Oltre al BDS, sono da rilevare nuove attività di solidarietà, soprattutto in risposta alla violenza di maggio, compreso l’appoggio del Consiglio Internazionale dei Lavoratori Portuali- IDC allo sciopero generale palestinese, azioni da parte di lavoratori israeliani e palestinesi che hanno rifiutato di considerarsi nemici e cortei di protesta in tutto il mondo.

Dinamiche più persistenti che suggeriscono l’aumento di un appoggio diverso a favore dei palestinesi includono una rinascita dell’internazionalismo dei neri, [il movimento] Black Lives Matter e di altri gruppi progressisti neri che hanno rivitalizzato la solidarietà tra neri e palestinesi, dichiarazioni in appoggio ai diritti dei palestinesi da parte di importanti figure ebraiche e l’allontanamento dei giovani ebrei progressisti dal sionismo e la loro simpatia per la causa palestinese.

Ciò che non cambia sono il continuo rifiuto da parte di Israele di confrontarsi con i procedimenti giudiziari internazionali, come la commissione di inchiesta e la CPI, e i tentativi USA di difendere Israele dall’essere giudicato. Spesso gli USA giustificano il loro rifiuto di inchieste giudiziarie internazionali su Israele con l’affermazione secondo cui esse minerebbero i progressi per la risoluzione del conflitto. Non ci sono stati progressi su questo fronte da moltissimo tempo. Se le persone di coscienza coglieranno l’opportunità offerta dall’ultimo tentativo dell’ONU di far crescere la consapevolezza dell’opinione pubblica riguardo al modo in cui Israele tratta i palestinesi, questa potrebbe essere una delle rarissime commissioni che contribuirà a smuovere Israele e Palestina dalla palude in cui sono rimasti bloccati per così tanto tempo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Perché il raid israeliano contro la moschea di al-Aqsa potrebbe configurarsi come un crimine di guerra.

Ian Cobain

10 maggio 2021 – Middle East Eye

È ben noto che le leggi internazionali proibiscono attacchi a siti religiosi e culturali, anche se nessun governo nazionale è mai stato chiamato a risponderne.

Se gli attacchi delle forze di sicurezza israeliane contro la moschea di al-Aqsa continueranno, l’attenzione della comunità internazionale potrebbe iniziare a concentrarsi sulla domanda se essi costituiscano un crimine di guerra.

In base a diverse leggi e trattati internazionali gli attacchi ai siti culturali durante i conflitti armati sono considerati crimini di guerra.

Lo Statuto di Roma del 1998, che istituì la Corte Penale Internazionale (ICC) all’Aia, dichiarò che chiunque “diriga intenzionalmente attacchi contro edifici dedicati al culto, all’educazione, all’arte, alla scienza o a scopi umanitari [oppure] a monumenti storici” commette un crimine di guerra.

Non è necessario che si riscontrino danni significativi – lo statuto considera un crimine l’attacco in sé, non le conseguenze.

All’inizio di quest’anno l’ICC ha annunciato di avere avviato un’indagine su crimini presumibilmente commessi sia dagli israeliani sia dai palestinesi nei territori palestinesi occupati.

La Palestina ha sottoscritto lo statuto di Roma. Anche il governo israeliano aveva firmato, ma in seguito decise che non intendeva diventare Stato membro, e oggi nega che l’ICC abbia alcun diritto di indagare su crimini che è accusato di avere commesso.

In aggiunta allo Statuto di Roma, la Convenzione dell’Aia del 1954 – il primo trattato internazionale dedicato interamente alla protezione di siti di interesse culturale durante i conflitti armati – fa obbligo alle forze di occupazione di tutelare il patrimonio culturale.

La convenzione – che è stata sottoscritta da Israele – è finalizzata a preservare i siti di rilevante interesse culturale dalla distruzione, dal saccheggio o da un uso militare immotivato.

Alla base della convenzione sta il principio che “danneggiare la proprietà culturale appartenente a qualsiasi popolazione equivale a danneggiare il patrimonio culturale dell’umanità intera”.

La convenzione è diventata parte del diritto consuetudinario internazionale, il che comporta che le sue clausole sono vincolanti per tutte le parti coinvolte in conflitti, ma nessun governo nazionale è mai stato perseguito per averle infrante.

Nel 1972 si aggiunse un’altra convenzione, quella sul Patrimonio dell’Umanità. Alla richiesta della Giordania, la città vecchia di Gerusalemme e le sue mura furono dichiarate sito appartenente al patrimonio mondiale.

Nel 1982 il sito venne incluso nell’elenco dell’Unesco riguardo ai siti in pericolo a causa delle tensioni interne alla città.

Infine, nel 2017, con la risoluzione 2347, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU condannò “la distruzione illecita del patrimonio culturale … particolarmente da parte di gruppi terroristici”.

I Talibani, dunque, commisero un crimine quando distrussero le statue monumentali del Buddha nella valle di Bamiyan in Afghanistan nel marzo 2001.

Lo stesso si applica allo Stato Islamico (ISIS) per avere devastato l’antica città di Palmira in Siria e numerosi altri siti fra il 2014 e il 2016.

Nel 2016 Ahmad al-Faqi al-Mahdi, membro di spicco di un gruppo associato ad al-Qaeda, venne condannato dalla Corte Penale Internazionale a nove anni di carcere dopo avere confessato il crimine di guerra di avere intenzionalmente guidato un attacco contro monumenti storici.

Faceva parte di un gruppo che quattro anni prima aveva distrutto nove mausolei e una moschea a Timbuctu, nel Mali.

Un altro caso che include accuse relative alle distruzioni avvenute a Timbuctu è attualmente in corso all’Aia.

E nel gennaio dell’anno scorso l’allora presidente degli USA Donald Trump venne avvisato che avrebbe commesso un crimine di guerra se avesse dato seguito alla minaccia – fatta via Twitter – di prendere di mira siti di rilevante interesse culturale in Iran.

Trump ammonì che gli USA avevano individuato 52 siti in Iran, “alcuni estremamente significativi ed importanti per l’Iran e la cultura iraniana, e quegli obiettivi, e l’Iran stesso, SARANNO COLPITI MOLTO RAPIDAMENTE E DURAMENTE”.

Il Pentagono prese subito le distanze da quella minaccia, assicurando che avrebbe “rispettato le leggi relative ai conflitti armati”.

La Convenzione dell’Aia

Un riconoscimento della necessità di proteggere i siti di valore religioso o culturale si affermò a seguito delle enormi devastazioni causate dalla prima guerra mondiale, ma la prima convenzione nata con questo scopo, il Roerich Pact [firmato a Washington nel 1935, ndtr.], venne ratificato solo da dieci Stati circoscritti al continente americano.

Durante la guerra civile spagnola la necessità di un trattato internazionale si fece più urgente, e nel 1938 venne redatta la convenzione dell’Aia, ma la seconda guerra mondiale ne impedì la ratifica.

La guerra vide il saccheggio e la distruzione da parte dei nazisti di siti in Russia e nell’Europa orientale, il lancio di bombe incendiarie ad opera dell’aviazione militare britannica su Lubecca, città tedesca con costruzioni medievali prevalentemente di legno, e la ritorsione con il cosiddetto blitz Baedeker, in cui si usò la celebre guida turistica per individuare cinque città storiche inglesi da bombardare con l’aviazione tedesca.

Quando nel 1956 entrò in vigore la Convenzione dell’Aia, il timore era che una guerra nucleare potesse causare persino più distruzioni di quelle avvenute in passato.

Durante una conferenza diplomatica tenutasi all’Aia nel 1999 venne adottato un secondo protocollo alla Convenzione che conferiva una tutela maggiore ai beni culturali. Questo protocollo non è stato sottoscritto da Israele.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




Superato il limite. Le autorità israeliane e i crimini di apartheid e persecuzione

27 aprile 2021 – Human Rights Watch

(Gerusalemme) – In un rapporto reso noto oggi, Human Rights Watch [notissima Ong per i diritti umani con sede negli USA, ndtr.] afferma che le autorità israeliane stanno commettendo i crimini contro l’umanità di apartheid e persecuzione. Queste conclusioni si fondano su una politica complessiva del governo israeliano per mantenere il dominio degli ebrei israeliani sui palestinesi e su gravi violazioni commesse contro i palestinesi che vivono nei territori occupati, compresa Gerusalemme est.

Il rapporto di 213 pagine, “Superata la soglia. Le autorità israeliane e i crimini di apartheid e persecuzione”, esamina il trattamento dei palestinesi da parte di Israele. Presenta la situazione attuale di un’autorità unica, il governo israeliano, che è il potere dominante nell’area tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo, popolata da due gruppi più o meno delle stesse dimensioni numeriche, e che privilegia metodicamente gli ebrei israeliani reprimendo i palestinesi, in modo più pesante nei territori occupati.

“Per anni voci autorevoli hanno avvertito che l’apartheid sarebbe stato proprio dietro l’angolo se la traiettoria del dominio di Israele sui palestinesi non fosse cambiata,” afferma Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch. “Questo studio dettagliato mostra che le autorità israeliane sono già andate oltre quell’angolo e oggi stanno commettendo i crimini contro l’umanità di apartheid e persecuzione.” La conclusione che si tratta di apartheid e persecuzione non muta lo status giuridico dei territori occupati, costituiti da Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e Gaza, né la situazione concreta dell’occupazione.

Originariamente coniato riguardo al Sud Africa, oggi “apartheid” è un termine giuridico universale. La proibizione contro discriminazioni e oppressione istituzionalizzati particolarmente gravi, o apartheid, costituisce un principio fondamentale del diritto internazionale. La Convenzione Internazionale sulla Soppressione e Punizione del Crimine di Apartheid e lo Statuto di Roma del 1998 che ha creato la Corte Penale Internazionale (CPI) definiscono l’apartheid un crimine contro l’umanità che consiste in tre elementi fondamentali:

1. L’intenzione di conservare la dominazione di un gruppo razziale su un altro.

2. Un contesto di oppressione sistematica del gruppo dominante sul gruppo emarginato.

3. Atti disumani.

Il riferimento a un gruppo razziale è inteso oggi come relativo non solo a modalità di trattamento sulla base di tratti genetici, ma anche di discendenza e origine nazionale o etnica, come definita nella Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione Razziale. Human Rights Watch applica questa interpretazione più ampia di razza.

Il crimine contro l’umanità di persecuzione, come definito dallo Statuto di Roma e dal diritto consuetudinario internazionale, consiste in una grave privazione di fondamentali diritti di un gruppo razziale, etnico o altro con intenti discriminatori.

Human Rights Watch ha rilevato che gli elementi di questi crimini si ritrovano nel territorio occupato come parte di un’unica politica del governo israeliano. Questa politica intende conservare la dominazione degli ebrei israeliani sui palestinesi in Israele e nei territori occupati, dove è accompagnata da oppressione sistematica e azioni inumane contro i palestinesi che vi vivono.

Avvalendosi di anni di documentazione sui diritti umani, studi di caso e dell’esame di documenti programmatici del governo, di affermazioni di politici e di altre fonti, Human Rights Watch ha messo a confronto politiche e prassi nei confronti dei palestinesi nei territori occupati e in Israele con quelli riguardanti ebrei israeliani che vivono nelle stesse zone. Nel luglio 2020 Human Rights Watch ha scritto al governo israeliano, sollecitando il suo punto di vista su questi problemi, ma non ha ricevuto alcuna risposta.

In Israele e nei territori occupati le autorità israeliane hanno cercato di estendere il più possibile la terra a disposizione delle comunità ebraiche e di concentrare la maggior parte dei palestinesi in centri densamente popolati. Le autorità hanno adottato politiche per contenere quello che hanno descritto esplicitamente come una “minaccia demografica” da parte dei palestinesi. A Gerusalemme, per esempio, i progetti del governo per il Comune, comprese sia la parte occidentale che quella orientale occupata della città, hanno fissato l’obiettivo di “conservare una solida maggioranza ebraica in città” e persino specificato la percentuale demografica che sperano di preservare.

Per mantenere la loro dominazione le autorità israeliane discriminano sistematicamente i palestinesi. La discriminazione istituzionale che i cittadini palestinesi di Israele devono affrontare include leggi che consentono a centinaia di cittadine ebraiche di escludere di fatto i palestinesi e stanziamenti che destinano solo una quota ridotta alle scuole palestinesi rispetto a quelle che accolgono bambini ebrei israeliani. Nel territorio occupato la durezza della repressione, compresa l’imposizione di un regime militare draconiano sui palestinesi, accordando nel contempo agli ebrei israeliani che vivono in modo segregato nello stesso territorio pieni diritti in base alla legge civile israeliana che ne rispetta i diritti, rappresenta la sistematica oppressione inerente all’apartheid.

Le autorità israeliane hanno commesso una serie di abusi contro i palestinesi. Molti di quelli commessi nel territorio occupato costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali e azioni inumane relative di nuovo all’apartheid, tra cui: vaste restrizioni agli spostamenti nella forma del blocco di Gaza e di un regime di permessi, la confisca di più di un terzo della terra in Cisgiordania, dure condizioni in parti della Cisgiordania che hanno portato al trasferimento forzato di migliaia di palestinesi fuori dalle loro case, negazione dei diritti di residenza a centinaia di migliaia di palestinesi e dei loro familiari e la sospensione dei diritti civili fondamentali di milioni di palestinesi. Molte delle violazioni che sono al centro della perpetrazione di questi crimini, come la quasi totale negazione dei permessi edilizi ai palestinesi e la demolizione di migliaia di case con il pretesto della mancanza di permessi, non hanno alcuna giustificazione riguardante la sicurezza. Altre, come l’effettivo congelamento dell’anagrafe che Israele controlla nei territori occupati, che non ha altro scopo che impedire la riunificazione della famiglia per i palestinesi che vi vivono e impedisce agli abitanti di Gaza di vivere in Cisgiordania, utilizzano la sicurezza come pretesto per ulteriori obiettivi demografici. Anche quando la sicurezza fa parte della motivazione, essa non giustifica l’apartheid e la persecuzione più di quanto lo facciano la forza eccessiva o la tortura, afferma Human Rights Watch.

“Negare a milioni di palestinesi i diritti fondamentali senza alcuna legittima giustificazione riguardo alla sicurezza ed esclusivamente perché sono palestinesi e non ebrei non è solo una questione di occupazione illegittima,” scrive Roth. “Queste politiche, che concedono agli ebrei israeliani gli stessi diritti e privilegi ovunque vivano e discriminano i palestinesi a vari livelli ovunque essi vivano riflette una politica che privilegia un popolo a spese di un altro.”

Negli ultimi anni affermazioni e azioni delle autorità israeliane, compresa l’approvazione nel 2018 di una legge con valenza costituzionale che definisce Israele “lo Stato-Nazione del popolo ebraico”, il crescente insieme di leggi che privilegiano ulteriormente i coloni israeliani in Cisgiordania e non si applicano ai palestinesi che vivono sullo stesso territorio, così come negli ultimi anni la massiccia espansione di colonie e relative infrastrutture che le collegano a Israele hanno chiarito l’intenzione di conservare la supremazia degli ebrei israeliani. La possibilità che un futuro leader israeliano possa un giorno definire un accordo con i palestinesi che smantelli il sistema discriminatorio non smentisce la situazione attuale.

Le autorità israeliane dovrebbero eliminare ogni forma di repressione e discriminazione che privilegi gli ebrei israeliani a spese dei palestinesi, anche per quanto riguarda la libertà di movimento, la destinazione di terre e risorse, l’accesso all’acqua, all’elettricità e ad altri servizi e la concessione di permessi di costruzione. La procura generale della Corte Penale Internazionale (CPI) dovrebbe indagare e perseguire quanti sono verosimilmente implicati nei crimini contro l’umanità di apartheid e persecuzione. Dovrebbero farlo anche i Paesi in accordo con le proprie leggi nazionali in base al principio della giurisdizione universale e imporre sanzioni individuali, compreso il divieto di viaggiare e il blocco dei beni, contro funzionari pubblici responsabili di aver commesso questi crimini.

Le prove di crimini contro l’umanità dovrebbero indurre la comunità internazionale a rivedere la natura del proprio impegno in Israele e Palestina e adottare un approccio centrato sui diritti umani e sulla responsabilizzazione invece che esclusivamente sul “processo di pace” in fase di stallo. I Paesi dovrebbero formare una commissione d’inchiesta ONU per indagare la discriminazione e repressione sistematiche in Israele e Palestina e [nominare] un inviato internazionale dell’ONU per i crimini di persecuzione e apartheid con il mandato di mobilitare un’azione internazionale per porre fine a persecuzione e apartheid in tutto il mondo. I Paesi dovrebbero condizionare la vendita di armi e l’assistenza militare e per la sicurezza a Israele al fatto che le autorità israeliane prendano iniziative concrete e verificabili e smettano di commettere questi crimini. I Paesi dovrebbero vietare accordi, programmi di cooperazione e ogni tipo di commercio e trattati con Israele per individuare quanti contribuiscono direttamente a commettere questi crimini, ridurre l’impatto sui diritti umani e, ove non fosse possibile, porre fine ad attività e finanziamenti destinati ad agevolare questi gravi crimini.

“Mentre la maggior parte del mondo considera la cinquantennale occupazione come una situazione temporanea che il pluridecennale “processo di pace” presto risolverà, l’oppressione dei palestinesi ha raggiunto là un livello e una persistenza che corrispondono alla definizione di crimini di apartheid e persecuzione,” afferma Roth. “Quanti si impegnano per la pace tra israeliani e palestinesi, che sia una soluzione a uno Stato unico o a due Stati o una confederazione, dovrebbero nel contempo riconoscere questa situazione per quello che è e attivare gli strumenti per la difesa dei diritti umani necessari per porvi fine.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Se Israele non ha commesso crimini di guerra, perché rifiuta l’inchiesta della CPI?

Kamel Hawwash

10 aprile 2021 – Days Of Palestine

Il 5 febbraio i palestinesi hanno visto brillare in fondo ad un lungo tunnel una debole luce di giustizia. La Prima Camera Preliminare della Corte Penale Internazionale (CPI) “ha deciso a maggioranza che la giurisdizione territoriale della Corte sulla situazione in Palestina, uno Stato aderente allo Statuto di Roma della CPI, si estende ai territori occupati da Israele dal 1967.” Ora la CPI ha giurisdizione per investigare sui crimini che i palestinesi affermano essere stati commessi da Israele in Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza. La procuratrice della Corte, Fatou Bensouda, aveva precedentemente chiesto le indagini, affermando che vi era “una ragionevole base per ritenere” che si fossero verificati crimini di guerra.

Le reazioni in Palestina e in Israele sono state quelle previste. I palestinesi hanno accolto con favore la decisione. Il Ministro della Giustizia palestinese Mohammed Al-Shalaldeh ha plaudito alla decisione della CPI definendola “storica”.

La decisione della Corte Penale Internazionale è storica e rappresenta l’inizio immediato delle indagini sulle gravi violazioni nei territori occupati palestinesi”, ha detto Al-Shalaldeh. Ha poi aggiunto che la Corte darà priorità a tre dossier: la guerra israeliana contro Gaza del 2014, le colonie israeliane e i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane.

Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha denunciato la decisione in una dichiarazione scritta. “Oggi la Corte Penale Internazionale ha dimostrato ancora una volta di essere un ente politico e non un’istituzione giudiziaria”, ha detto Netanyahu. “Con questa sentenza il tribunale ha violato il diritto delle democrazie a difendersi contro il terrorismo ed è stato manipolato da coloro che minano gli sforzi per estendere l’ambito della pace”, ha aggiunto.

Chiunque si aspettasse un cambio nella posizione americana dalla nuova amministrazione Biden è stato subito deluso. In una telefonata a Netanyahu la vicepresidente americana Kamala Harris gli ha detto che secondo la Casa Bianca gli USA sono contrari all’inchiesta della CPI su possibili crimini di guerra nei territori palestinesi.

Ciò ha fatto seguito ad un annuncio del Segretario di Stato USA Antony Blinken che diceva che Washington “è fermamente contraria e profondamente delusa” dalla decisione della CPI. Ha sottolineato che “Israele non è membro della CPI e non ha accettato la giurisdizione della Corte e siamo molto preoccupati per i tentativi della CPI di esercitare la propria giurisdizione sul personale israeliano”, ha affermato Blinken in un comunicato.

Israele deve essere rimasto un po’ sconcertato, ma certamente deluso, per il fatto che la stessa amministrazione (USA) recentemente ha tolto le sanzioni sul personale della CPI imposte dal predecessore di Biden, Trump, nel dicembre 2020. Il team di Blinken ha affermato: “Quella decisione rispecchia la nostra valutazione secondo cui le misure adottate erano inappropriate e inefficaci” prosegue l’amministrazione, “riguardo all’obiettivo di dissentire fortemente dalle azioni della CPI relative alle situazioni di Afghanistan e Palestina” ed opporsi agli “sforzi della CPI di rivendicare la giurisdizione sul personale di Stati non membri, quali gli Stati Uniti e Israele.”

Gli USA hanno preso questa decisione nonostante le indagini, che potrebbero prendere di mira personale militare USA per crimini commessi in Afghanistan. Ci si sarebbe potuti aspettare che Israele seguisse l’esempio e riconoscesse che la CPI è un tribunale indipendente e che il procuratore capo abbia condotto scrupolose consultazioni prima di sentenziare che la Corte ha giurisdizione sui Territori Palestinesi Occupati e che avrebbe condotto indagini su crimini commessi da entrambe le parti, compresi i palestinesi, a partire dal 2014. Tuttavia chi ben conosce l’atteggiamento di Israele nei confronti di un necessario esame esterno non si sarebbe sorpreso per il suo rigetto formale della decisione della CPI di indagare i crimini dei suoi dirigenti.

Israele è chiaramente preoccupato per la decisione della CPI. Dopo una riunione dei suoi vertici ha deciso di inviare una lettera alla Corte per comunicare il proprio rifiuto a collaborare. Alla riunione erano presenti, tra gli altri, il Primo Ministro, il Ministro della Difesa, il Ministro per gli Affari Strategici, il Ministro dell’Educazione, il Ministro dell’Acqua, il Procuratore Generale, il capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale e il Capo di Stato Maggiore.

Coerentemente con la sua consolidata posizione Israele non collaborerà all’inchiesta della Corte Penale Internazionale su presunti crimini di guerra e sosterrà che la Corte non ha giurisdizione per avviare l’indagine. Durante la riunione Netanyahu ha sostenuto che “mentre i soldati dell’IDF (l’esercito israeliano) combattono con estrema moralità contro terroristi che commettono quotidianamente crimini, la Corte dell’Aja ha deciso di accusare Israele.” “Non vi è altro termine per questo, se non ipocrisia. Un’istituzione creata per lottare per i diritti umani si è trasformata in un’istituzione ostile che difende chi calpesta i diritti umani.”

Nella lettera da inviare alla CPI Israele sosterrà di avere la propria “magistratura indipendente” in grado di giudicare i soldati che commettano crimini di guerra.

I palestinesi chiederanno di fare diversamente, dato che le indagini di Israele sui propri crimini non hanno fatto giustizia. Prendiamo per esempio l’inchiesta sull’uccisione, nel 2018, dell’infermiera palestinese ventunenne Razan Al-Najjar vicino alla barriera di Gaza. Un’inchiesta israeliana ha affermato che “nel corso di un esame preliminare dell’incidente che ha avuto luogo il primo giugno 2018, in cui è stata uccisa una donna palestinese di 22 anni, è stato riscontrato che durante l’incidente sono stati sparati pochi proiettili e che nessuno sparo è stato deliberatamente o direttamente indirizzato a lei.” Commentando l’inchiesta, l’organizzazione per i diritti umani Al-Haq ha affermato: “L’esame preliminare frettolosamente concluso mette in luce l’incapacità di Israele di condurre un’indagine indipendente, efficace ed imparziale su presunti crimini di guerra.” Ha inoltre affermato:

Di fatto l’esercito israeliano agisce impunemente. Tra il 2005 e il 2009, su 800 denunce presentate per crimini di guerra, solo 49 indagini hanno portato ad incriminazioni.

Perciò Israele non può essere ritenuto affidabile nel condurre in modo imparziale proprie indagini, e questo è il motivo per cui è necessaria un’indagine esterna. Inoltre, ha una storia decennale di rifiuti di concedere accesso a squadre investigative internazionali per indagare su potenziali crimini di guerra.”

Nel 2002 è stato negato l’ingresso al campo al team di Amnesty International che indagava su potenziali crimini commessi dalle truppe israeliane nel campo profughi di Jenin. Il professor Derrick Pounder, che faceva parte del team di 3 persone inviato ad indagare su violazioni dei diritti umani, ha detto: “Il rifiuto di consentirci di svolgere o anche di aiutare altri a svolgere tali indagini è molto grave e solleva dubbi sulle motivazioni delle autorità.”

Nel 2009 al team guidato dal giudice Goldstone per indagare su possibili crimini commessi durante la guerra contro Gaza del 2008/09 Israele ha negato i visti, e il team ha dovuto entrare a Gaza attraverso l’Egitto. Alla fine il suo rapporto ha concluso che Israele e gruppi armati palestinesi erano colpevoli di crimini di guerra. Il rapporto ha inoltre riferito che ad Amnesty International, Human Rights Watch e B’Tselem era stato vietato di entrare a Gaza per condurre le proprie indagini.

Nel 2014 Israele ha nuovamente negato l’ingresso ai team che erano incaricati di indagare su potenziali violazioni dei diritti umani. La commissione investigativa dell’UNHCR [Alto Commissariato Nazioni Unite per i Rifugiati, ndtr.] ha rilevato che sia Israele che gruppi armati palestinesi avevano commesso crimini di guerra.

Israele ha anche negato l’ingresso ai relatori dell’ONU Richard Falk e Michael Link, relatore speciale ONU per i Territori palestinesi.

Forse Israele ha qualcosa da nascondere? Certo, sicuramente sì. Le sue violazioni dei diritti umani riempiono pagine su pagine di ogni dossier. Che riguardino i crimini di guerra nel corso delle ripetute guerre contro la popolazione palestinese indifesa e intrappolata a Gaza, o la sua illegale impresa coloniale, o il trasferimento della sua popolazione in aree illegalmente occupate, o il trasferimento di prigionieri palestinesi dai territori occupati nel proprio territorio. E le demolizioni di case, gli sgomberi delle famiglie?

Con questi foschi precedenti, giustizia impone che le violazioni israeliane vengano indagate e che Israele ne renda conto. I suoi dirigenti devono rispondere di persona dei loro presunti crimini di guerra e devono comparire di fronte al tribunale dell’Aja. Altrimenti continueranno a commettere crimini, con la consapevolezza di non doverne pagare le conseguenze. Le ruote della giustizia devono girare più veloci e allora i criminali di guerra israeliani non potranno più dormire tranquillamente la notte pensando che possono alzarsi al mattino e commettere impunemente altri crimini.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Days of Palestine.

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(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)