L’ANP prospetta uno Stato demilitarizzato come controproposta al piano Trump

Ali Younes

9 giugno 2020 – Al Jazeera

I palestinesi inviano una risposta ai mediatori sul piano americano, il quale favorisce Israele con l’annessione di parti della Cisgiordania occupata.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) afferma di aver inviato ai mediatori internazionali una controproposta al piano mediorientale del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, proponendo l’istituzione di uno Stato palestinese demilitarizzato e sovrano nella Cisgiordania occupata, Gerusalemme est e Gaza.

Martedì, nel corso di una conferenza stampa con giornalisti stranieri, il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha affermato che la proposta è stata presentata al Quartetto, un organo internazionale composto da Nazioni Unite, Unione Europea, Stati Uniti e Russia che ha il compito di mediare i colloqui di pace tra Israele e i palestinesi.

Secondo Shtayyeh, la proposta palestinese mira alla creazione di uno “Stato palestinese sovrano, indipendente e demilitarizzato”, con Gerusalemme est come capitale. Inoltre lascia aperta la porta a modifiche dei confini tra lo Stato proposto e Israele, così come a scambi di aree di territorio uguali “per dimensioni, volume e valore – uno contro uno”.

Nessun altro dettaglio è al momento disponibile.

La proposta palestinese è arrivata in risposta al controverso piano di Trump che dà il via libera all’annessione da parte di Israele di ampie zone della Cisgiordania occupata, comprese le colonie illegali e la Valle del Giordano.

Presentato alla fine di gennaio, il piano di Trump propone l’istituzione di uno Stato palestinese demilitarizzato sul restante mosaico di parti sconnesse dei territori palestinesi senza Gerusalemme est, che i palestinesi vogliono come capitale del loro Stato.

I palestinesi hanno respinto il piano di Trump in quanto del tutto fazioso a favore di Israele e hanno minacciato di ritirarsi dagli accordi di Oslo.

La leadership palestinese aveva già tagliato i rapporti con l’amministrazione Trump nel 2017 a proposito della sua posizione pro-Israele, compreso il suo riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e il trasferimento lì dell’ambasciata americana nel maggio 2018.

La prevista annessione da parte israeliana priverebbe i palestinesi delle principali risorse agricole di terra e acqua, specialmente nella regione della Valle del Giordano. Inoltre affosserebbe definitivamente la soluzione dei due Stati al conflitto arabo-israeliano basata sull’idea di terra in cambio della pace.

Shtayyeh ha avvertito che se il governo israeliano andasse avanti con la prevista annessione, “il governo palestinese annuncerà la costituzione dello Stato [previsto] e l’istituzione di un Consiglio” che svolgerebbe le funzioni di Parlamento.

Questi sforzi, ha detto ad Al Jazeera, mirano a contrastare le politiche sia israeliane che statunitensi volte a minare il “diritto” palestinese ad uno Stato indipendente e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi che furono espulsi con la forza dalle loro case e città quando fu fondato Israele nel 1948.

Wasel Abu Yousef, alto dirigente e membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), ha descritto l’annuncio di martedì come “parte di diversi passi su cui sta lavorando la leadership palestinese, come raggiungere l’unità palestinese, boicottare i prodotti israeliani e portare avanti presso la Corte Penale Internazionale (CPI) le incriminazioni per crimini di guerra di Israele per la sua guerra contro Gaza del 2014”.

Abu Yousef ha affermato che la leadership palestinese non ha altra scelta se non quella di controbattere agli obiettivi statunitensi e israeliani di negare ai palestinesi i loro diritti e di respingere le attuali proposte di “pace” che vanno ben al di sotto delle richieste dei palestinesi.

“Nessun leader palestinese – ha detto – può essere d’accordo con le condizioni poste da americani e israeliani di dover rinunciare ai diritti o al ritorno dei rifugiati palestinesi, accettando l’annessione di Gerusalemme o permettendo a Israele di annettere parti della Cisgiordania dove ha costruito le sue illegali colonie ebree”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La Corte Penale Internazionale non rappresenta una “minaccia strategica” per Israele

Ramona Wadi

19 maggio 2020. MiddleEastMonitor

Da quando la Corte Penale Internazionale (CPI) ha stabilito che la Palestina è uno Stato in cui svolgere indagini sui crimini di guerra commessi da Israele contro civili palestinesi, una nuova serie di minacce è stata mossa contro l’istituzione. Il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha messo in guardia dalle conseguenze di ciò che il suo governo ritiene costituisca uno Stato palestinese. “Gli Stati Uniti ribadiscono la loro continua obiezione a qualsiasi illegittima indagine della CPI. Se la Corte continuerà per la strada presa ne trarremo le dovute conseguenze” ha detto Pompeo.

L’opposizione degli Stati Uniti a uno Stato palestinese è stata ulteriormente ribadita dal cosiddetto “accordo del secolo”, che finge di sostenere uno Stato palestinese dando invece priorità all’agenda coloniale di Israele – in cui non cè spazio per la formazione di uno Stato palestinese. L’opposizione degli Stati Uniti alle indagini della CPI, dunque, è continua e convinta.

Intanto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha bollato le possibili inchieste sui crimini di guerra come “minaccia strategica”. Intervenendo durante la prima riunione del governo e sostenendo di usare raramente l’aggettivo “strategico” che invece è la normale definizione quando si tratti dell’Iran o del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), Netanyahu ha dichiarato: “Questa è una minaccia strategica per lo Stato di Israele – ai soldati dell’esercito, ai comandanti, ai ministri, ai governi, a tutto.”

Israele ha a lungo approfittato delle eccezioni per mantenere la sua colonizzazione della Palestina e rafforzare ulteriormente la sua occupazione militare. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha beneficiato Israele di unimpunità senza precedenti e dell’accettazione delle violazioni del diritto internazionale, al punto che, rafforzato anche dal tacito silenzio della comunità internazionale, Israele sta politicizzando le indagini della CPI allo scopo di mantenere lo stato di eccezione.

Le imminenti indagini sui crimini di guerra di Israele contro il popolo palestinese non sono una minaccia strategica, ma una risposta tardiva che potrebbe offuscare temporaneamente l’immagine di Israele. La collusione fra Israele e la comunità internazionale è un grave ostacolo: non bisogna dimenticare che a livello internazionale Israele gode di un tacito sostegno che gli permette di costituire lui stesso una minaccia strategica per i palestinesi.

La retorica di Netanyahu è un diversivo. Israele non è perseguitato dalla CPI; è possibile che i suoi funzionari siano perseguiti per crimini di guerra, che è la procedura standard. La violenza di Israele ne sostiene la politica coloniale – l’una non può esistere senza l’altra. I palestinesi hanno subìto questa minaccia strategica per decenni. Il tentativo di invertire i ruoli nonostante le prove dei crimini di guerra è una manovra politica che dovrebbe ritorcersi contro Israele se solo la comunità internazionale rimuovesse la sua faziosità pro-Israele e prendesse posizione a favore della decolonizzazione.

Mentre Netanyahu tenta di stringere alleanze contro la CPI, che cosa farà la comunità internazionale? Se la CPI ha stabilito che Israele ha commesso crimini di guerra, il minimo che la comunità internazionale possa fare è sbarazzarsi della retorica dei “presunti crimini di guerra” per sostenere il diritto internazionale e decostruire l’impunità che ha protetto Israele. Se ritenere prioritarie le richieste coloniali di Israele viene prima della legislazione che regola ciò che costituisce i crimini di guerra, la comunità internazionale renderà possibili ulteriori violazioni come nuovi piani di annessione e le prossime indagini saranno eclissate da una nuova ondata di impunità tale per cui ci potrebbero volere decenni prima che siano sottoposte ad attenzione giuridica.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Quello che c’è da sapere sull’indagine della Corte Penale Internazionale sui crimini di guerra israeliani nella Palestina occupata

Ramzy Baroud e Romana Rubeo

12 maggio 20202 – Palestine Chronicle

Fatou Bensouda, procuratrice capo della Corte Penale Internazionale (CPI), ha definitivamente risolto i dubbi sulla giurisdizione della Corte per indagare sui crimini di guerra commessi nella Palestina occupata.

Il 30 aprile Bensouda ha diffuso un documento di 60 pagine che stabilisce diligentemente le basi giuridiche per tale decisione, concludendo che “la Procura ha esaminato attentamente le osservazioni delle parti e rimane dell’opinione che la Corte abbia giurisdizione sul Territorio palestinese occupato”.

La spiegazione legale di Bensouda era di per sé una decisione preventiva, risalente al dicembre 2019, in quanto la procuratrice della CPI ha anticipato una reazione coordinata da Israele contro le indagini sui crimini di guerra commessi nei territori occupati.

Dopo anni di trattative, nel dicembre 2019 la CPI aveva deciso che “ai sensi dell’articolo 53 paragrafo 1 dello statuto [di Roma, che ha istituito la Corte, ndtr.] esiste una base ragionevole per procedere a un’indagine sulla situazione in Palestina.”

L’articolo 53, paragrafo 1, descrive semplicemente le fasi procedurali che in genere conducono, o non conducono, a un’indagine della Corte.

Tale articolo è soddisfatto quando la quantità di prove fornite alla Corte è così convincente da non lasciare alla CPI nessun’altra opzione se non quella di procedere con un’indagine.

Infatti Bensouda aveva già dichiarato alla fine dell’anno scorso di aver “accertato il fatto che “primo, i crimini di guerra siano stati commessi o siano in corso in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza; secondo, i casi potenziali derivanti dalla situazione sarebbero ammissibili; terzo, non vi sono motivi sostanziali per ritenere che un’indagine non sia utile agli interessi della giustizia”.

Naturalmente, Israele e il suo principale alleato occidentale, gli Stati Uniti, si sono infuriati. Israele non è mai stato ritenuto responsabile dalla comunità internazionale per crimini di guerra e altre violazioni dei diritti umani in Palestina. La decisione della CPI, specialmente se l’indagine andasse avanti, sarebbe un precedente storico. Ma, cosa avrebbero dovuto fare Israele e gli Stati Uniti, dato che nessuno dei due è uno Stato aderente alla CPI, e non hanno quindi alcuna effettiva influenza sul procedimento interno del tribunale? Bisognava trovare una soluzione.

Per ironia della storia, la Germania, che ha dovuto rispondere a numerosi crimini di guerra commessi dal regime nazista durante la seconda guerra mondiale, è intervenuta per fungere da principale difensore di Israele presso la CPI e per proteggere i criminali di guerra israeliani accusati della responsabilità legale e morale.

Il 14 febbraio la Germania ha presentato un ricorso alla CPI chiedendo che le fosse assegnato il ruolo di “amicus curiae”, che significa “amico della corte”. Ottenendo questo status speciale, la Germania ha potuto presentare obiezioni a sostegno di Israele contro la precedente decisione della CPI.

La Germania, tra gli altri argomenti, ha poi sostenuto che la CPI non aveva alcuna autorità legale per discutere i crimini di guerra israeliani nei territori occupati. Questi sforzi, tuttavia, alla fine non hanno prodotto alcun risultato.

La questione è ora di competenza della camera pre-processuale della CPI.

La camera pre-processuale è composta da giudici che autorizzano l’apertura di indagini. Solitamente, una volta che il procuratore decide di prendere in considerazione un’indagine, deve informare la Camera pre-processuale della sua decisione.

Secondo lo Statuto di Roma, articolo 56, lettera b), “la Camera pre-processuale può, su richiesta del procuratore, adottare le misure necessarie per garantire l’efficacia e la correttezza dei procedimenti e, in particolare, la tutela dei diritti della difesa”.

Il fatto che il caso palestinese sia stato portato fino a questo punto può e deve essere considerato una vittoria per le vittime palestinesi dell’occupazione israeliana. Tuttavia, se l’indagine della CPI procederà secondo il mandato originario richiesto da Bensouda, rimarranno gravi lacune legali e morali che scoraggiano chi chiede giustizia per la Palestina.

Per esempio, i rappresentanti legali delle vittime palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza hanno espresso la propria preoccupazione, a nome delle vittime, in merito “alla portata apparentemente limitata dell’indagine sui crimini subiti dalle vittime palestinesi che si trovano in questa situazione.”

La “portata limitata dell’indagine” ha finora escluso crimini gravi come i crimini contro l’umanità. Secondo l’equipe giuridica che si occupa di Gaza, l’uccisione di centinaia e il ferimento di migliaia di manifestanti disarmati che partecipano alla “Grande marcia del ritorno” è un crimine contro l’umanità che deve essere indagato.

La giurisdizione della CPI, naturalmente, va oltre la decisione di Bensouda di indagare solo i “crimini di guerra”.

L’articolo 5 dello Statuto di Roma, il documento istitutivo della CPI, estende la giurisdizione della Corte per indagare sui seguenti “reati gravi”: (a) crimine di genocidio; (b) crimini contro l’umanità; (c) crimini di guerra; (d) crimine di aggressione.

Non dovrebbe sorprendere che Israele sia indagato su tutti e quattro i punti e che la natura dei crimini israeliani contro i palestinesi tenda spesso a costituire un insieme di due o più di questi punti contemporaneamente.

L’ex relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani dei palestinesi (2008-2014), il prof. Richard Falk, ha scritto nel 2009, subito dopo una micidiale guerra israeliana contro la Striscia di Gaza assediata, che:

Israele ha avviato la campagna di Gaza senza un’adeguata base legale o una giusta causa, ed è stato responsabile della stragrande maggioranza delle devastazioni e della sofferenza dei civili nel suo complesso. Il fatto che Israele si sia basato su un approccio militare per sconfiggere o punire Gaza è stato intrinsecamente ‘criminale’ e come tale ha dimostrato sia violazioni della legge di guerra che la perpetrazione di crimini contro l’umanità”.

Oltre ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità, Falk estese la sua argomentazione legale a una terza categoria. “C’è un altro elemento che rafforza l’accusa di aggressione. La popolazione di Gaza era stata sottoposta a un blocco punitivo per 18 mesi quando Israele ha lanciato i suoi attacchi”.

Che dire del crimine di apartheid? Rientra, ovunque sia commesso, nelle precedenti definizioni e nelle prerogative giurisdizionali della CPI?

La Convenzione internazionale del novembre 1973 sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid lo definisce come “un crimine contro l’umanità, e gli atti disumani derivanti dalle politiche e pratiche di apartheid e politiche e pratiche analoghe in materia di segregazione razziale e discriminazione, come definite nell’articolo 2 della Convenzione, sono reati che violano i principi del diritto internazionale, in particolare gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite, e costituisce una grave minaccia per la pace e la sicurezza internazionale”.

La Convenzione è entrata in vigore nel luglio 1976, quando è stata ratificata da venti Paesi. Per lo più potenze occidentali, tra cui gli Stati Uniti e Israele, vi si opposero. Particolarmente importante riguardo alla definizione di apartheid, come enunciato nella Convenzione, è che il crimine di apartheid è stato svincolato dal contesto specifico sudafricano e reso applicabile a politiche razziali discriminatorie in qualsiasi Stato.

Nel giugno 1977 il Protocollo 1 aggiunto alle Convenzioni di Ginevra dichiarò l’apartheid “una grave violazione del Protocollo e un crimine di guerra”.

Ne consegue che esistono basi giuridiche per sostenere che il crimine di apartheid può essere considerato sia un crimine contro l’umanità che un crimine di guerra.

L’ex relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani dei palestinesi (2000-2006), il prof. John Dugard, lo ha affermato subito dopo l’adesione della Palestina alla CPI nel 2015:

Per sette anni, ho visitato il territorio palestinese due volte all’anno. Ho anche condotto una missione conoscitiva dopo l’operazione “Piombo Fuso” a Gaza nel 2008-09. Quindi ho familiarità con la situazione e con l’apartheid. Ero un avvocato per i diritti umani nel Sudafrica dell’apartheid. E io, come praticamente ogni sudafricano che visiti il territorio occupato, ho una terribile sensazione di déjà vu. Abbiamo già visto tutto questo, a parte il fatto che è infinitamente peggiore. Quello che è successo in Cisgiordania è che la creazione di un’impresa di colonizzazione si è tradotta in una situazione molto simile a quella dell’apartheid, in cui i coloni sono l’equivalente dei bianchi sudafricani. Godono di diritti superiori ai palestinesi, e li opprimono. Quindi si ha un sistema di apartheid nel territorio palestinese occupato. E potrei dire che l’apartheid è anch’esso un crimine di competenza del Tribunale Penale Internazionale”.

Considerando il numero di risoluzioni ONU che Israele ha violato nel corso degli anni, l’occupazione perpetua della Palestina, l’assedio di Gaza e l’elaborato sistema di apartheid imposto ai palestinesi attraverso un grande insieme di leggi razziste, (culminato nella cosiddetta legge dello Stato-Nazione del luglio 2018) dichiarare Israele colpevole di crimini di guerra, tra cui “crimini gravi”, dovrebbe essere una questione scontata.

Ma la CPI non è esclusivamente una piattaforma legale. È anche un’istituzione politica che è soggetta agli interessi e ai capricci dei suoi membri. L’intervento della Germania, a nome di Israele, per dissuadere la CPI dall’indagare i crimini di guerra di Tel Aviv è un esempio emblematico.

Il tempo dirà fino a che punto la CPI è disposta a spingersi nel suo tentativo storico e senza precedenti, volto finalmente a indagare sui numerosi crimini che sono stati commessi in Palestina senza ostacoli, senza conseguenze e senza senza doverne rispondere.

Per il popolo palestinese, la giustizia a lungo negata non arriverà mai troppo presto.

Ramzy Baroud è giornalista ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è “Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane” (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), Istanbul Zaim University (IZU).

Romana Rubeo è una giornalista italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito un Master in Lingue e letterature straniere ed è specializzata nella traduzione audiovisiva e giornalistica.

Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org




La Procuratrice della CPI ha sferrato un colpo contro i tentativi di pressione di Israele, dichiarando la propria giurisdizione sullo Stato di Palestina

Redazione di Palestine Chronicle

1 maggio 2020 – Palestine Chronicle

Giovedì 30 aprile la procuratrice generale della Corte Penale Internazionale (CPI) Fatou Bensouda ha ribadito che la Palestina è uno Stato, e quindi la CPI può esercitare la propria giurisdizione per procedere contro presunti crimini di guerra ivi commessi.

La dichiarazione è stata una ferma risposta ai fortissimi tentativi di pressione da parte di Israele e dei suoi sostenitori, in particolare la Germania, per delegittimare l’intero processo.

Il documento di 60 pagine si intitola: “Una risposta alle ‘Osservazioni degli Amici Curiae [figura giuridica che definisce i soggetti che collaborano con la Corte a titolo di amici, ndtr.], dei legali rappresentanti delle vittime e degli Stati’.”

Il documento afferma infatti: “Una volta che uno Stato ratifica lo Statuto, la Corte è automaticamente competente ad esercitare giurisdizione riguardo ai crimini previsti dall’articolo 5 commessi sul suo territorio,” senza alcun ulteriore “giudizio separato” da parte degli organi della Corte riguardo alla statualità dello Stato membro.”

Il documento inoltre asserisce: “La possibilità di creare la Palestina come Stato – e l’esercizio del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese – è stata impedita dall’espansione delle colonie e dalla costruzione della barriera (di separazione) e dal relativo regime in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, fatti che sono stati ritenuti costituire una violazione del diritto internazionale.”

La camera istruttoria preliminare della CPI deciderà ora come procedere con l’inchiesta.

Il dott. Triestino Mariniello, membro dell’ufficio legale che rappresenta le vittime di Gaza presso la CPI, ha dichiarato a Palestine Chronicle: “La Procuratrice ha esposto argomentazioni del tutto convincenti ed ha preso correttamente in considerazione le istanze tese a persuadere la Corte a non procedere.”

Mariniello ha anche detto al Chronicle che, nonostante le “osservazioni di Bensouda fossero inoppugnabili”, la sua decisione di far intervenire la camera istruttoria preliminare non era una procedura legalmente vincolante e “ha solo causato inutili ritardi.”

Dal momento che la Palestina ha presentato una denuncia alla Corte, la CPI aveva il potere di avviare un’inchiesta senza chiedere che la camera istruttoria preliminare si esprimesse sulla questione [della competenza della CPI in materia, ndtr.]”, ha detto.

Le vittime che noi rappresentiamo sono preoccupate riguardo ad ulteriori rinvii e anche relativamente al cosiddetto ‘limitato ambito di indagine’, che è di fatto un’esclusione dei crimini commessi contro civili palestinesi dal 2015 in poi.”

(traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele non ha bisogno di “avvertimenti” contro l’annessione, ma di misure conseguenti

Hagai El-Ad

30 aprile 2020 – +972

Mezzo secolo di occupazione è un ampio margine di tempo perché potenti Stati come la Germania imparino che le parole senza i fatti non fanno altro che rafforzare l’impunità di Israele

La scorsa settimana nell’ultima seduta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sulla situazione in Medio Oriente, in seguito alle notizie secondo cui l’accordo di coalizione tra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo rivale Benny Gantz include l’impegno a portare avanti l’annessione della Cisgiordania a partire dal primo luglio, l’ambasciatore tedesco Jürgen Schulz ha rilasciato quello che potrebbe essere frainteso come un forte avvertimento.

Sconsigliamo fermamente un qualunque governo israeliano dall’annettere territori palestinesi occupati,” ha detto l’ambasciatore. “Ciò costituirebbe una chiara violazione delle leggi internazionali e non avrebbe solo gravi ripercussioni negative per la realizzazione della soluzione dei due Stati e dell’intero processo di pace, ma potenzialmente anche per la stabilità regionale e per la posizione di Israele nella comunità internazionale.”

Perché definirla come erroneamente, ma non realmente forte? In breve: perché questo “avvertimento” non è –né lo è mai stato – sostenuto dall’azione. Se “una chiara violazione delle leggi internazionali” non viene contrastata con azioni conseguenti, e se quelli che ne sono responsabili non ne devono mai rispondere, quale impatto hanno tali parole?

Dopo questa vuota esibizione di spavalderia, la Germania ha ripetuto la sua posizione, secondo cui “le attività israeliane di insediamento nei territori palestinesi occupati sono illegali in base alle leggi internazionali.” Eppure queste attività di colonizzazione sono continuate indisturbate per oltre mezzo secolo – un ampio margine di tempo per imparare che i suoi “avvertimenti”, indipendentemente da quanto severamente pronunciati, non hanno alcun potere su Gerusalemme.

Josep Borrell, alto rappresentante e vice presidente dell’Unione Europea, ha riconosciuto questo aspetto quando in febbraio ha scritto che “gli europei devono affrontare il mondo per come è, non per come sperano che sia,” il che a sua volta richiede “reimparare il linguaggio della forza.”

Sicuramente la Germania, uno degli attori politici fondamentali dell’Europa, se lo volesse potrebbe esercitare questa forza. Ma quando si tratta di schierarsi con i diritti dei palestinesi, la Germania si rifiuta di affrontare “il mondo per come è”. Israele sa tutto ciò troppo bene, e quindi può facilmente ignorare l’avvertimento della Germania continuando in modo altrettanto con totale indifferenza ad opprimere un intero popolo.

L’inazione su questo fronte è piuttosto sorprendente, dato che recentemente la Germania ha dimostrato che, se lo decide, può dispiegare il suo considerevole peso. Quando i giudici della camera preliminare della Corte Penale Internazionale hanno invitato le parti a presentare le loro considerazioni sulla giurisdizione della Corte riguardo allo Stato di Palestina, la Germania è stata tra i pochi Paesi che hanno obiettato riguardo alla giurisdizione della CPI.

Nell’argomentazione che ha presentato, la Germania ha affermato formalmente di “rimanere una fervente sostenitrice della lotta contro l’impunità.” Eppure la Germania ha deciso di sostenere che la CPI non abbia “una solida base giurisdizionale” perché lo Stato di Palestina non è “sovrano”. Non importa che questa precondizione non si trovi da nessuna parte nello Statuto di Roma [che ha istituito la CPI, ndtr.], né che la procuratrice generale [della CPI] Fatou Bensouda non abbia sostenuto una cosa simile. I palestinesi, ovviamente, devono ancora ottenere la sovranità proprio perché Israele ha occupato la loro terra. Tuttavia, con il suo non-argomento, la Germania ha continuato ad opporsi a un’inchiesta.

Se fosse stata solo una questione tecnica a bloccare la Germania, avrebbe potuto far valere la sua posizione come membro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU almeno per cercare di fare in modo che il Consiglio rinviasse il caso della Palestina alla CPI per concedere quindi la giurisdizione alla Corte.

Certamente un “fervido sostenitore della lotta contro l’impunità” avrebbe fatto pesare la propria forza giuridica per difendere le leggi internazionali. Invece la Germania ha scelto di dire semplicemente, ancora una volta, che le colonie sono illegali, e ha solo espresso a parole, di nuovo, il suo presunto appoggio al fatto che i responsabili vengano chiamati a risponderne.

Di fronte alle infinite violazioni israeliane la Germania ha mantenuto significativamente silenzioso il suo “linguaggio della forza”. Questo linguaggio ha molte articolazioni – la CPI è solo una di esse -, ma la Germania ha deciso di non utilizzarne nessuna, salvo la vuota retorica. Nel frattempo Israele continua a violare le fondamenta del diritto internazionale davanti agli occhi del mondo, compresi quelli della Germania. Sostenere continuamente che qualcosa è sbagliato senza agire per fermarlo non è un “forte avvertimento”, è complicità.

Hagai El-Ad è direttore esecutivo di B’Tselem: Centro di Informazione Israeliano per i Diritti Umani nei Territori Occupati.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Per Angela Merkel, «Israele uber alles !»

Iqbal Jassat

19 febbraio 2020Palestine Chronicle

Poco tempo dopo la sua visita in Sudafrica, il governo della Cancelliera tedesca Angela Merkel ha fatto un nuovo annuncio scioccante difendendo l’insieme delle azioni criminali di Israele e le sue gravi violazioni dei diritti umani.

La Germania ha preso la decisione vergognosa di minare il diritto internazionale contestando la competenza dell’Aja, affermando che la Corte Penale Internazionale (CPI) non ha il potere di indagare sui crimini di guerra di Israele contro i palestinesi.

In un’istanza depositata presso la CPI il governo Merkel ha chiesto di essere considerato « amicus curiae » (collaboratore non coinvolto nella causa giudiziaria) per impedire all’Aja di perseguire il regime di Netanyahu.

Dopo lunghi periodi di rinvii, a dicembre la procuratrice della CPI Fatou Bensouda ha finalmente annunciato che sussistono ragionevoli presupposti per indagare sulle azioni di Israele.

Ha tuttavia lasciato aperta una voragine che viene sfruttata da Israele e dai suoi alleati come la Germania. Bensouda ha chiesto all’Aja di pronunciarsi sulla questione della sua competenza, cosa che potrebbe inficiare e compromettere ogni possibilità di perseguire e punire i criminali di guerra del regime colonialista.

E questo nonostante che l’Ufficio della Procura abbia insistito sul fatto che Israele ha distrutto proprietà palestinesi, espulso con la forza palestinesi dalla Cisgiordania occupata e da Gerusalemme est. Bensouda ha anche incluso nel suo atto d’accusa crimini di guerra commessi nella Striscia di Gaza occupata durante l’operazione ‘Margine protettivo’ del 2014, oltre all’operazione israeliana di espulsione degli abitanti palestinesi del villaggio beduino di Khan al-Ahmar e alla costruzione di colonie in Cisgiordania.

La decisione poco accorta di Merkel di prendere le parti di Israele rafforza l’attacco di Netanyahu contro la CPI. In una recente intervista rilasciata ad una catena televisiva cristiana, il dirigente israeliano, che è stato incriminato per frode e corruzione [in Israele], ha falsamente affermato che la CPI sta conducendo un “attacco frontale” contro gli ebrei ed ha sfacciatamente invocato sanzioni contro l’Aja.

L’argomentazione della Germania nella sua istanza sembra un «copia e incolla» delle dichiarazioni di Israele, che sostiene che la competenza della CPI non si estende ai territori palestinesi occupati perché la Palestina non è uno Stato. Incredibilmente, in questo modo la Germania ignora il fatto che la Palestina è firmataria dello Statuto di Roma della CPI.

Non solo è disonesto da parte tedesca non rispettare i diritti della Palestina, ma, tentando di indurre in errore la CPI, il governo Merkel legittima settant’anni di disumanizzazione dei palestinesi da parte di Israele.

Mentre la vergognosa collusione di Merkel con Netanyahu da alcuni può essere vista come un colpo di fortuna per lui in un momento in cui rischia il carcere, per i palestinesi è chiaro che la Germania ha tradito la loro giusta e legittima causa per la giustizia. Come possono le famiglie dei martiri interpretare in altro modo l’istanza scioccante e ingiusta di Merkel, che sostiene che la CPI non ha nemmeno il potere di discutere se Israele ha commesso dei crimini di guerra?

Essendo la Germania uno dei principali membri del Tribunale dell’Aja, ha l’ingiustificato vantaggio di poter influenzare un risultato che nuocerà alle rivendicazioni di giustizia dei palestinesi. La decisione così spudorata di Merkel di schierarsi al fianco di Netanyahu è quindi un abuso di potere a causa della sua posizione privilegiata al momento delle udienze.

Gli ultimi rapporti indicano che, oltre alla Germania, Israele è attivamente impegnato nel reclutamento di diversi Paesi che appoggino la sua causa in quanto “rappresentanti non ufficiali”, poiché esso stesso ha deciso di non partecipare in modo da “evitare di dare legittimità” alla CPI.

L’Ungheria e la Repubblica Ceca, come anche l’Austria, l’Australia e il Canada si sono uniti per sostenere l’impunità di Israele.

Benché la Procuratrice Bensouda ritenga che la Palestina sia «sufficientemente uno Stato » perché all’Aja venga trasferita la giurisdizione penale sul suo territorio, la sua richiesta di verifica di questo punto di vista può far fallire l’inchiesta, essendoci una battaglia giuridica riguardo alla definizione di ciò che costituisca uno “Stato”. 

L’attacco contro la CPI – con gli appelli di Netanyahu a sottoscriverlo – arriva proprio dopo la pubblicazione da parte dell’ONU di un elenco di 112 imprese legate alle colonie illegali di Israele. E, nello stesso spirito contrario all’etica, il regime di apartheid ha attaccato il commissario delle Nazioni Unite definendolo partigiano e strumento del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).

Schierarsi dalla parte di Netanyahu per mascherare i suoi terribili crimini contro i palestinesi può consentire alla Merkel di evitare la collera di Israele, ma questo pone la Germania dalla parte sbagliata della storia – ancora una volta !

Anche se appare incongruo che la Germania ed una manciata di Paesi vogliano impedire l’esercizio della giustizia da parte dell’Aja – cosa che peraltro si sforzano di fare – è vero che, per quanto riguarda i palestinesi, il fatto di schierarsi a fianco di Israele permette a questo Stato delinquente di continuare a commettere crimini di guerra e violazioni del diritto umanitario internazionale.

Alcuni commentatori hanno sostenuto a giusto titolo che questa assurda difesa della sistematica condotta criminale di Israele possa rappresentare un colpo mortale per la CPI.

Il timore che viene espresso è che l’azione della Cancelliera Merkel sia miope, creando un buco nero legale nei territori palestinesi occupati che potrebbe comportare la distruzione di una CPI già fortemente screditata.

Israele spera che, distorcendo i fatti e sviando gli obbiettivi della CPI, ne uscirà indenne. Le sue speranze poggiano sulla Cancelliera Merkel in quanto principale dirigente europeo che può distogliere l’Aja dalle sue responsabilità impegnandola in una battaglia giuridica semantica priva di senso, come è la questione della “giurisdizione”, e contestando la ratifica da parte della Palestina dello Statuto di Roma.

Mentre i giuristi internazionali saranno impegnati (si fa per dire) nella discussione sui concetti giuridici, spetta a Paesi come il Sudafrica alzare la voce contro i diversivi giuridici.

Il silenzio a fronte di questo ostacolo giuridico inventato di sana pianta sarà interpretato come una rinuncia a far rispettare e a difendere i diritti umani dei palestinesi.

Iqbal Jassat è membro esecutivo di Media Rewiew Network, con sede in Sudafrica.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Lo scrittore ospite: Testimonianza al Tribunale Russell sulla Palestina: Apartheid nei Territori palestinesi occupati

John Dugard

29 gennaio 2014 – Middle East Monitor

Nel novembre 2011 il Tribunale Russell sulla Palestina [fondato nel 1966 da Bertrand Russell per indagare sui crimini commessi in Vietnam; il Tribunale Russell sulla Palestina è stato istituito nel marzo del 2009 per promuovere e sostenere iniziative per i diritti del popolo palestinese, ndtr.] terrà una sessione a Città del Capo [Sudafrica, ndtr.] sulla questione se Israele sia o meno colpevole di aver commesso il crimine internazionale di apartheid nel trattamento dei palestinesi. Ho accettato di testimoniare davanti al Tribunale. In questo articolo spiegherò perché credo che il Tribunale Russell abbia un ruolo da svolgere nel promuovere l’attribuzione di responsabilità in Medio Oriente. Descriverò anche la natura della mia testimonianza.

Israele ha violato molte regole fondamentali del diritto internazionale. Si è impadronito della terra palestinese costruendo colonie nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est e costruendo un muro di sicurezza all’interno del territorio palestinese. Ha violato i diritti umani fondamentali dei palestinesi attraverso un regime repressivo di occupazione che ignora le regole contenute nei trattati internazionali in materia di diritti umani e gli strumenti del diritto internazionale umanitario. Si è rifiutato di riconoscere la sua responsabilità nei confronti di diversi milioni di rifugiati palestinesi in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e nella diaspora.

Tuttavia non esiste un tribunale internazionale in grado di valutare la responsabilità di Israele e di perseguirlo penalmente per i suoi crimini. La Corte internazionale di Giustizia ha espresso un eccellente parere consultivo sull’argomento, ma le Nazioni Unite non possono attuarlo a causa dell’opposizione degli Stati Uniti. Alla Corte Penale Internazionale è stato chiesto di indagare sulla condotta di Israele nel corso dell’operazione Piombo Fuso, ma per quasi tre anni il pubblico ministero della CPI ha rifiutato di rispondere a questa richiesta, probabilmente a causa dell’opposizione degli Stati Uniti e della UE [solo nel dicembre 2020 la procuratrice della CPI ha chiesto di aprire un’indagine contro Israele per presunti crimini di guerra nei territori palestinesi, ndtr.] Ai tribunali nazionali nell’esercizio della loro giurisdizione a livello internazionale è stato impedito dall’intervento dei loro governi di procedere penalmente verso politici e soldati israeliani per i loro crimini. Pertanto non esiste un tribunale competente in grado di pronunciarsi sulla condotta di Israele o di procedere penalmente.

L’opinione pubblica internazionale, indignata per l’assenza di un intervento penale nei confronti di Israele per i suoi crimini, non ha quindi a disposizione una soluzione giudiziaria. È qui che entra in gioco il Tribunale Russell per la Palestina. Esso cerca di dare spazio all’opinione pubblica internazionale esaminando le azioni di Israele attraverso un processo simile a quello di un tribunale. Testimoni depongono sull’illegalità della condotta di Israele davanti a una giuria di personalità illustri che rappresentano l’opinione pubblica di molti Paesi.

La sessione del Tribunale Russell di Città del Capo si concentrerà sulla domanda se le politiche e le pratiche di Israele nei territori palestinesi occupati possano o meno rappresentare un crimine di apartheid ai sensi della Convenzione internazionale del 1973 sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid [testo adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 3068 (XXVIII) del 30 novembre 1973 ed entrato in vigore il 18 luglio 1976, ndtr.]. Gli avvocati presenteranno argomentazioni sul campo di applicazione della suddetta Convenzione e i testimoni deporranno sull’apartheid in Sudafrica e sui comportamenti di Israele nei territori occupati. Verranno effettuati dei confronti e saranno prese in esame le somiglianze.

La mia testimonianza si concentrerà sulle somiglianze tra i sistemi sudafricano e israeliano in base alla mia conoscenza personale e la mia esperienza dell’apartheid e alla condotta di Israele nella Palestina occupata. Non tenterò di confrontare l’apartheid con il trattamento degli israeliani arabi all’interno di Israele. Non rivendico alcuna competenza in materia.

Nella mia testimonianza esporrò prima la mia esperienza e poi passerò al mio pensiero sulle affinità o somiglianze nei due sistemi.

La mia vita in Sudafrica

Ho trascorso gran parte della mia vita adulta in Sudafrica come testimone dell’apartheid. Mi sono opposto all’apartheid, come comune cittadino, avvocato, studioso e responsabile di ONG. Ho avuto una vasta esperienza e conoscenza dei tre pilastri della condizione dell’apartheid: discriminazione razziale, repressione e frammentazione territoriale.

Scrivendo proficuamente sull’apartheid, ho pubblicato un importante lavoro sull’argomento, Human Rights and the South African Legal Order [Diritti umani e ordinamento giuridico sudafricano] (1978), che fornisce il resoconto più completo pubblicato finora sulla struttura giuridica dell’apartheid. Nel libro prendo in esame le ingiustizie dell’apartheid e metto a confronto l’apartheid con le norme internazionali sui diritti umani.

Ho partecipato attivamente al lavoro di ONG contrarie all’apartheid, come il South African Institute of Race Relations [Istituto sudafricano per le relazioni razziali] e Lawyers for Human Rights [Avvocati per i diritti umani]. Dal 1978 al 1990 sono stato direttore del Center for Applied Legal Studies [Centro per gli studi legali applicati, ndtr.] (CALS) presso l’Università del Witwatersrand, che si occupava di patrocini e contenziosi nel campo dei diritti umani. Come avvocato ho rappresentato famosi oppositori dell’apartheid, come Robert Sobukwe e l’arcivescovo Desmond Tutu, e vittime non note del sistema; ho portato avanti campagne legali contro lo sfratto di persone di colore dai quartieri riservati esclusivamente ai bianchi in seguito alla Group Areas Act [insieme di tre provvedimenti del parlamento del Sudafrica emanati sotto il governo dell’apartheid. I provvedimenti assegnavano gruppi razziali a diverse zone residenziali e commerciali nelle aree urbane sulla base di un sistema di apartheid urbano, ndtr.] e contro le famigerate “pass laws” [leggi che hanno istituito una specie di passaporto interno progettato per separare la popolazione, gestire l’urbanizzazione e allocare il lavoro migrante con logiche segreganti, ndtr.] che hanno fatto diventare un reato la presenza di neri nelle cosiddette “aree bianche” senza un documento che lo consentisse. Queste campagne hanno assunto la forma di una difesa legale gratuita per tutti gli arrestati, il che ha reso i sistemi ingovernabili. Attraverso il Center for Applied Legal Studies mi sono impegnato in sfide legali contro l’attuazione delle leggi sulla sicurezza e sull’emergenza, che hanno reso possibili le detenzioni senza processo, gli arresti domiciliari e, in pratica, le torture. Ho anche combattuto l’istituzione dei Bantustan, nei miei scritti, nei tribunali e attraverso interventi pubblici. Se ero esperto di qualcosa, questo erano le leggi dell’ apartheid.

Il mio incontro con Israele e Palestina

Ho visitato Israele e la Palestina ripetutamente dopo il 1982. Nel 1984 ho fatto uno studio comparato sulla posizione israeliana e sudafricana nei confronti del diritto internazionale e nel 1988 ho partecipato a una conferenza organizzata da Al Haq [organizzazione palestinese indipendente per i diritti umani che monitora e documenta le violazioni dei diritti umani di tutte le parti del conflitto israelo-palestinese, ndtr.] a Gerusalemme est durante la Prima Intifada. I quaccheri mi hanno chiesto nel 1992 di revisionare un progetto di assistenza legale a Gerusalemme est durante il quale ho viaggiato molto in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Nel 2001 sono stato nominato presidente di una commissione d’inchiesta istituita dalla Commissione per i diritti umani [organo dell’ONU istituito nel 1946, ndtr.] per indagare sulle violazioni dei diritti umani durante la seconda Intifada. Nel 2001 sono stato nominato relatore speciale della Commissione per i diritti umani (in seguito Consiglio dei diritti umani) sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO). In tale veste visitavo i TPO due volte all’anno e presentavo un rapporto alla Commissione e al terzo comitato dell’Assemblea generale sia per iscritto che verbalmente. Il mio rapporto del 2003, che ha messo in guardia la comunità internazionale sull’annessione di fatto da parte di Israele della terra palestinese con il pretesto del “Muro”, ha portato alla richiesta di un parere consultivo alla Corte Internazionale di Giustizia ed è stato ampiamente citato dalla Corte nel suo Parere consultivo del 2004. Il mio mandato è scaduto nel 2008. Nel febbraio 2009, tuttavia, ho guidato una missione conoscitiva istituita dalla Lega degli Stati Arabi per indagare e riferire sulle violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario nel corso dell’operazione israeliana “Piombo fuso” contro Gaza.

Dalla mia prima visita in Israele / Palestina sono stato colpito dalle somiglianze tra l’apartheid in Sudafrica e le pratiche e le politiche di Israele nei territori palestinesi occupati. Queste somiglianze sono apparse più evidenti man mano che mi sono informato meglio sulla situazione. Come relatore speciale, mi sono deliberatamente astenuto dal fare simili confronti fino al 2005, poiché temevo che avrebbero impedito a molti governi occidentali di prendere sul serio le mie relazioni. Tuttavia, dopo il 2005, ho deciso che non potevo in buona coscienza astenermi dal fare tali confronti.

Osservazioni personali

Naturalmente i regimi di apartheid e di occupazione sono molto diversi, in quanto il Sud Africa dell’apartheid praticava discriminazioni contro la propria gente; ha cercato di frammentare il Paese in un Sudafrica bianco e bantustan neri per evitare di estendere il diritto di voto ai sudafricani neri. Le sue leggi sulla sicurezza sono state usate per reprimere brutalmente l’opposizione all’apartheid. Israele, invece, è una potenza occupante che controlla un territorio straniero e il suo popolo sotto un regime la cui natura è riconosciuta dal diritto umanitario internazionale come una forma di occupazione bellica. In pratica, tuttavia, c’è poca differenza. Entrambi i regimi erano e sono caratterizzati da discriminazione, repressione e frammentazione territoriale. La differenza principale è che il regime dell’apartheid era più onesto: le leggi sull’apartheid sono state legalmente approvate in Parlamento ed erano chiare a tutti, mentre le leggi che governano i palestinesi nei TPO sono contenute in oscuri decreti militari e hanno perpetuato regolamenti di emergenza praticamente inaccessibili. Nel Sudafrica dell’apartheid cartelli rozzi e razzisti indicavano quali servizi fossero riservati ad uso esclusivo dei bianchi. Nell’OPT non esistono tali cartelli, ma le Forze di Difesa israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] (IDF) assicurano in molte aree ai coloni i loro diritti esclusivi. In nessun settore ciò è evidente quanto nel caso dell'”apartheid stradale”. In Cisgiordania le strade in buone condizioni sono riservate all’uso esclusivo dei coloni senza che alcun segnale indichi tale prerogativa, ma l’IDF assicura che i palestinesi non utilizzino queste autostrade. (Per inciso, va sottolineato che l’apartheid in Sudafrica non si è mai esteso alle strade!)

Nel mio lavoro di commissario (2001) e relatore speciale (2001-2008) ho assistito ad ogni aspetto dell’occupazione dei TPO; la mia posizione era molto privilegiata. Accompagnato e sotto la guida di un autista palestinese e in compagnia di leader della comunità palestinese ed esperti delle Nazioni Unite, ho viaggiato molto in Cisgiordania e Gaza, visitando ogni città, molti villaggi, fattorie, scuole, ospedali, università e fabbriche. Nel corso degli anni ho anche visitato colonie come Ariel, Ma’ale Adummim, Betar Illit e Kirya Arba, che assomigliano ai sobborghi di lusso sudafricani di Sandton e Constantia con le loro belle case, supermercati, scuole e ospedali.

Ho visto gli umilianti posti di controllo, con lunghe file di palestinesi che aspettavano pazientemente sotto il sole e la pioggia che i soldati dell’IDF esaminassero i loro documenti di viaggio. Inevitabilmente ciò ha riportato alla memoria le lunghe file negli “uffici per il pass” dell’apartheid e il trattamento dei sudafricani neri da parte di agenti di polizia e burocrati. Ho visitato case che erano state distrutte dall’IDF per “ragioni amministrative” (cioè, erano state costruite senza un permesso della potenza occupante israeliana, quando i permessi di costruzione non sono praticamente mai concessi). Mi sono tornati alla mente i ricordi delle case demolite nel Sud Africa dell’apartheid nelle “aree nere” di un tempo, [perché] riservate all’esclusiva presenza abitativa da parte di bianchi. Ho visitato la maggior parte del muro che si estende lungo il lato ovest della Palestina, ho visitato fattorie che erano state confiscate per la costruzione del muro e ho parlato con gli agricoltori che avevano perso i loro mezzi di sostentamento. Ho anche parlato con i proprietari di fabbriche i cui locali erano stati distrutti dalle IDF come “danno collaterale” nel corso delle loro incursioni e con i pescatori di Gaza a cui non era permesso pescare per ragioni di “sicurezza”.

Nel 2003 ho visitato Jenin poco dopo la devastazione da parte dell’IDF e ho visto le case rase al suolo dai bulldozer. Ho visto i danni causati alle infrastrutture di Rafah dai bulldozer Caterpillar costruiti appositamente allo scopo di distruggere strade e case; ho parlato con le famiglie in un campo profughi vicino a Nablus le cui case erano state saccheggiate e vandalizzate dai soldati israeliani con la compagnia di cani aggressivi; ho parlato con gli adulti e i più giovani che erano stati torturati dalle IDF; e ho visitato gli ospedali per incontrare coloro che erano stati feriti dall’IDF. Ho visitato scuole che erano state distrutte dalle IDF, con squallidi graffiti anti-palestinesi scritti sui muri; ho parlato con bambini traumatizzati i cui amici erano stati uccisi dal fuoco a casaccio dalle IDF e che venivano curati da psicologi; sono stato esposto agli assalti dei coloni a Hebron e ho visitato le comunità a sud di Hebron, che vivevano nella paura degli stessi coloni illegali. Ho visto ulivi distrutti dai coloni e ho viaggiato attraverso la Valle del Giordano osservando campi beduini distrutti (che mi hanno ricordato ancora la distruzione dei “settori neri” nel Sudafrica dell’apartheid) e posti di controllo progettati per servire gli interessi dei coloni. Ho incontrato membri delle IDF nei posti di controllo e nei valichi di frontiera e ho avuto un forte senso di déjà vu: avevo già visto quel genere di individui in una vita precedente.

Durante la visita in Palestina, ho soggiornato a Gerusalemme est occupata. Lì ho visto insediamenti coloniali israeliani nel cuore della Città Vecchia e ho visitato case che erano state distrutte da Israele o individuate per la distruzione (ad esempio a Silwan). Ho parlato con famiglie che erano state separate dai misteri amministrativi dell’occupazione israeliana che permetteva ad alcuni palestinesi di vivere a Gerusalemme, ma confinava altri in Cisgiordania. Ho ricordato le leggi dell’apartheid che separavano le famiglie in questo modo.

Ho avuto un’esperienza di prima mano della “frammentazione territoriale” della Palestina, ovvero il sequestro, la confisca e l’appropriazione della terra palestinese da parte di Israele. Ho esplorato la terra annessa de facto da Israele tra la Linea Verde (il confine generalmente accettato del 1948/49 tra Israele e Palestina) e il Muro; ho visto e visitato gli insediamenti tentacolari che hanno sottratto ampi tratti di terra palestinese in Cisgiordania e Gerusalemme est; ho visto le vaste aree di terra dichiarate zone militari israeliane nella Valle del Giordano e altrove.

Tutto ciò che dirò delle mie indagini a Gaza nel febbraio 2009, poco dopo l’Operazione Piombo Fuso, è che credo che la Striscia di Gaza si trova ancora sotto occupazione e l’operazione Piombo Fuso sia stata un’operazione di polizia progettata per punire collettivamente una popolazione sotto occupazione che si ribella, visione condivisa dal cosiddetto rapporto Goldstone commissionato dal Consiglio dei diritti umani. Sono rimasto sconvolto e rattristato da ciò che ho visto. Non ho dubbi sul fatto che sia stato un atto di punizione collettiva in cui le IDF hanno attaccato intenzionalmente civili e obiettivi civili. Le prove non hanno fornito spiegazioni diverse.

Un commento finale basato sulla mia esperienza personale. C’era un elemento positivo nel regime dell’apartheid, sebbene motivato dall’ideologia dello sviluppo separato, che mirava a rendere i Bantustan degli Stati vivibili. Sebbene non legalmente obbligato a farlo, il regime dell’apartheid ha costruito scuole, ospedali e buone strade per i neri sudafricani. Ha costruito industrie nei Bantustan per fornire lavoro ai neri. Israele non arriva minimamente a farlo per i palestinesi. Sebbene per legge, ai sensi delle Convenzioni di Ginevra del 1949, sia tenuto a soddisfare i bisogni materiali delle persone sotto occupazione, lascia questa responsabilità ai donatori stranieri e alle agenzie internazionali. Israele pratica nei TPO il peggior tipo di colonialismo. La terra e l’acqua sono sfruttate da una comunità di coloni aggressivi che non si preoccupano del benessere del popolo palestinese, tutto ciò con la benedizione del governo dello Stato di Israele.

I comportamenti di Israele nei TPO assomigliano a quelli dell’apartheid. Sebbene ci siano differenze, queste sono compensate dalle somiglianze. Qual è, ed era, peggio, l’apartheid o l’occupazione israeliana della Palestina? Sarebbe un errore, da parte mia, dare un giudizio. Come bianco sudafricano non potevo condividere il dolore intenso e l’umiliazione dell’apartheid con i miei compagni sudafricani neri. Ho capito la loro rabbia e frustrazione e ho cercato di identificarmi con loro e di oppormi al sistema che li ha relegati allo status di sub-umani. Allo stesso modo, non riesco a sentire pienamente il dolore e l’umiliazione che i palestinesi provano sotto l’occupazione di Israele. Ma osservo il sistema al quale sono sottoposti e provo lo stesso senso di rabbia che ho provato nel Sudafrica dell’apartheid.

Al Tribunale Russell gli avvocati e i giurati esamineranno, discuteranno e terranno delle conclusioni riguardo la questione se il comportamento di Israele nei TPO rientri o meno nei comportamenti penalmente perseguibili in base alla Convenzione internazionale del 1973 sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid. Questo è importante per determinare la responsabilità di Israele. Ma per me c’è una domanda più grande che si pone dinnanzi al giudizio morale della gente nel mondo, e in particolare degli occidentali. Come possono coloro, sia ebrei che gentili, che si sono opposti così energicamente all’apartheid per motivi morali rifiutarsi di opporsi a un sistema simile imposto da Israele alla popolazione palestinese?

John Duggard è presidente del comitato indipendente di accertamento dei fatti di Gaza; ed ex relatore speciale del Consiglio per diritti umani sui diritti umani in Palestina.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dal’inglese di Aldo Lotta)




L’accordo ‘di pace’ di Trump calpesta palesemente i diritti e le libertà dei palestinesi

Yara Hawari

30 gennaio 2020 The Guardian

Questo piano è semplicemente una continuazione della politica USA-Israele. I palestinesi lo hanno già sentito e non lo accetteranno

Martedì alla Casa Bianca Donald Trump ha rivelato il suo “accordo del secolo”: un piano per la totale capitolazione palestinese. Esso invita i palestinesi a riconoscere Israele come Stato ebraico con l’intera Gerusalemme come capitale, a rinunciare al diritto al ritorno che consentirebbe ai rifugiati palestinesi di vivere in Israele, ad accettare l’annessione della Valle del Giordano e le relative colonie illegali israeliane e a vivere in una serie di bantustan collegati da strade e tunnel che sarebbero tutti sostanzialmente controllati da Israele.

Nulla di tutto ciò dovrebbe sorprendere. Non solo il piano è una continuazione della politica dell’amministrazione Trump verso Israele e Palestina fin dal giorno in cui egli è entrato in carica, ma giunge dopo decenni di disprezzo per le aspirazioni palestinesi di libertà e sovranità.

Quando nel 1993 furono firmati gli Accordi di Oslo, vennero acclamati come la base per una pace negoziata tra Israele e Palestina – una posizione che la maggior parte degli attori e delle istituzioni internazionali hanno continuato a mantenere nei decenni successivi. All’epoca tuttavia lo studioso palestinese Edward Said definì il tanto celebrato accordo “una Versailles palestinese”, uno spettacolo umiliante che minava la lotta di liberazione e ogni speranza di una futura sovranità palestinese. Purtroppo aveva ragione. La divisione della Cisgiordania in aree A, B e C in base agli accordi ha consentito a Israele di dominare le ultime due mentre la prima è diventata una sacca di limitata autonomia palestinese. In altre parole, ha facilitato la completa bantustanizzazione della Cisgiordania e l’isolamento di Gaza.

Nel frattempo gli accordi non sono riusciti ad affrontare correttamente le questioni fondamentali di Gerusalemme, dei rifugiati, delle colonie, dei confini e della sicurezza; esse sono state invece considerate “questioni inerenti allo status finale”, da risolvere come parte di qualche futuro accordo di pace. Inavvedutamente allora l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), guidata da Yasser Arafat, ha permesso che esse diventassero questioni in discussione, piuttosto che centrali per la lotta palestinese e chiaramente definite dalle leggi internazionali. Questo è risultato chiaro ieri alla Casa Bianca quando, accanto a Trump, Benjamin Netanyahu ha detto che parlare dell’occupazione come “illegale” è oltraggioso.

Non c’erano palestinesi alla Casa Bianca; certamente Jared Kushner, genero di Trump e architetto di questo piano, difficilmente si è dato la pena di parlare ai palestinesi. E nel piano di Trump non vi è menzione dei diritti dei palestinesi. Invece vengono loro promessi incentivi economici, per la precisione 50 miliardi di dollari di investimenti nei prossimi 10 anni, in cambio dei loro diritti sanciti a livello internazionale – un’altra fin troppo conosciuta componente dei precedenti piani di “pace”. Come se dare denaro ai palestinesi potesse far loro dimenticare i diritti a Gerusalemme, al ritorno ai propri villaggi e città di origine o alla possibilità di vivere come esseri umani uguali e con pieni diritti.

È chiaro quindi che il piano di Trump non solo è un attacco ai diritti e alla libertà dei palestinesi, ma anche un tentativo di promuovere un nuovo ordine mondiale che compromette del tutto il diritto internazionale. Qualunque cosa possa dire la Casa Bianca, non si è mai aspettata che la leadership palestinese avrebbe accettato questo piano né avrebbe nemmeno preso in considerazione qualche suo articolo e condizione. E ciò significa che può continuare ad investire sulla pluridecennale narrazione totalmente razzista secondo cui il popolo palestinese rifiuta e non intende negoziare. Questo è stato evidente nei commenti di Kushner: se i palestinesi non accettano questo accordo, ha sostenuto, “stanno gettando via un’altra opportunità come hanno fatto con tutte le altre che hanno avuto nella loro esistenza”.

Per quanto il piano di Trump possa essere scoraggiante, esso suggerisce una possibile opportunità. Stabilisce che, mentre hanno luogo i negoziati, l’OLP non partecipi ad alcuna iniziativa contro Israele presso la Corte Penale Internazionale – con riferimento alla recente inchiesta su crimini di guerra avviata dalla capo procuratrice della Corte. Questo rivela che Israele è veramente spaventato da una simile mossa, se qualche soggetto internazionale fosse così coraggioso da tentarla.

Comunque nulla di tutto ciò modifica la realtà sul campo: c’è effettivamente un’unica entità che va dal fiume Giordano al mar Mediterraneo, dove due popoli vivono vite ampiamente ineguali e separate. Israele e gli USA stanno lavorando sodo per consolidare e portare a termine questa situazione – e, con l’aiuto di una comunità internazionale paralizzata e codarda, ci riusciranno. Ma l’altra faccia della realtà è che i palestinesi non andranno da nessuna parte. Continueranno a vivere a milioni a Haifa, Giaffa, Gerusalemme, Ramallah, Hebron e altrove. Dovranno cambiare drasticamente la loro situazione attuale, mobilitandosi e chiedendo di più alla loro dirigenza e immaginando un futuro radicalmente diverso anche quando questo sembra impossibile.

Yara Hawari è un’autorevole collaboratrice su questioni politiche di Al Shabaka, la rete di politica palestinese.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Sulla via di Gaza: La Freedom Flotilla salperà ancora

Ramzy Baroud

23 dicembre 2019 – Middle East Monitor

Che cosa è Gaza per noi se non un missile israeliano, un razzo rudimentale, una casa demolita, un bambino ferito che viene portato via dai suoi coetanei sotto una grandinata di pallottole? Ogni giorno, Gaza ci viene presentata sotto forma di un’immagine di sangue o un video drammatico, nessuno dei quali può davvero cogliere la realtà quotidiana della Striscia – la sua formidabile risolutezza, gli atti quotidiani di resistenza e il genere di sofferenza che non potrebbe mai essere realmente compreso attraverso un’abituale occhiata ad un post dei social media.

Finalmente la procuratrice capo della Corte Penale Internazionale (CPI) Fatou Bensouda, ha dichiarato la propria “convinzione” che “in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza sono stati commessi, o vengono commessi, crimini di guerra”. Appena è stata fatta la dichiarazione della CPI il 20 dicembre, le organizzazioni filo palestinesi hanno vissuto un raro momento di gioia. Alla fine Israele verrà messo sotto accusa, pagando potenzialmente per i continui bagni di sangue nella isolata ed assediata Striscia di Gaza, per l’occupazione militare e l’apartheid in Cisgiordania e per molto altro ancora.

Però potrebbero volerci anni perché la CPI inizi le sue procedure legali ed emetta la sentenza. Inoltre non ci sono garanzie politiche che una sentenza della CPI che incrimina Israele sarà mai rispettata, tanto meno applicata.

Nel frattempo l’assedio di Gaza continua, per essere interrotto solo da una guerra massiccia, come quella del 2014, o da una meno devastante, simile all’ultimo attacco di Israele in novembre. E ad ogni guerra vengono prodotte ulteriori terribili statistiche, altre vite vengono stroncate ed altre storie dolorose vengono nuovamente raccontate.

Per anni le associazioni della società civile in tutto il mondo hanno faticosamente lavorato per destabilizzare questo orrendo status quo. Hanno organizzato e svolto veglie, scritto lettere ai propri rappresentanti politici e via dicendo. Non è servito a niente. Frustrato dall’inazione dei governi, nell’agosto 2008 un piccolo gruppo di attivisti è salpato per Gaza su una piccola imbarcazione, riuscendo in ciò che le Nazioni Unite non sono riuscite a fare: hanno spezzato, seppur fugacemente, l’assedio israeliano dell’impoverita Striscia.

Questa azione simbolica del movimento ‘Liberare Gaza’ ha avuto un enorme impatto. Ha inviato un chiaro messaggio ai palestinesi nella Palestina occupata: che il loro destino non è determinato solo dal governo israeliano e dalla macchina militare; che ci sono altri soggetti capaci di sfidare il tremendo silenzio della comunità internazionale; che non tutti gli occidentali sono complici come i propri governi delle interminabili sofferenze del popolo palestinese.

Da allora molte altre missioni di solidarietà hanno tentato di seguire questo esempio, giungendo attraverso il mare a bordo di flottiglie o attraverso il deserto del Sinai con grandi convogli. Alcune sono riuscite a raggiungere Gaza, distribuendo medicinali ed altri prodotti. Tuttavia in maggioranza sono state respinte o hanno avuto le loro navi sequestrate in acque internazionali da parte della marina israeliana.

Il risultato di tutto ciò è stato aver scritto un nuovo capitolo della solidarietà con il popolo palestinese che è andato oltre le occasionali manifestazioni e le classiche firme su una petizione.

La seconda Intifada palestinese, la rivolta del 2002, aveva già ridefinito il ruolo dell’“attivista” in Palestina. La creazione dell’“International Solidarity Movement” (ISM) ha permesso a migliaia di attivisti internazionali da tutto il mondo di partecipare all’“azione diretta” in Palestina – ricoprendo così, seppur simbolicamente, il ruolo tipicamente svolto da una forza di protezione delle Nazioni Unite.

Gli attivisti dell’ISM tuttavia usavano i mezzi non violenti di testimonianza del rifiuto della società civile dell’occupazione israeliana. Prevedibilmente, Israele non ha rispettato il fatto che molti di questi attivisti provenissero da Paesi considerati “amici” in base agli standard di Tel Aviv. Le uccisioni di cittadini come l’americana Rachel Corrie e il britannico Tom Hurndall a Gaza, rispettivamente nel 2003 e 2004, è stata solo un prodromo della violenza israeliana che sarebbe seguita.

Nel maggio 2010 la marina israeliana ha attaccato la Freedom Flotilla formata dalla nave di proprietà turca ‘MV Mavi Marmara’ ed altre, uccidendo dieci operatori umanitari disarmati e ferendone almeno altri 50. Come nei casi di Rachel e Tom, non vi è stata una vera attribuzione di responsabilità per l’attacco israeliano alle navi della solidarietà.

Occorre capire che la violenza israeliana non è casuale né è solo un riflesso del noto disprezzo israeliano per il diritto internazionale ed umanitario. Con ogni episodio di violenza Israele spera di dissuadere i soggetti esterni dall’occuparsi degli “affari israeliani”. Eppure, di volta in volta il movimento di solidarietà ritorna con un messaggio di sfida, ribadendo che nessun Paese, nemmeno Israele, ha il diritto di commettere impunemente crimini di guerra.

Dopo un recente incontro nella città olandese di Rotterdam, la coalizione internazionale della Freedom Flotilla, che consta di molti gruppi internazionali, ha deciso di salpare ancora una volta per Gaza. La missione di solidarietà è prevista per l’estate del 2020 e, come nella maggior parte dei 35 tentativi precedenti, è probabile che la Flotilla venga intercettata dalla marina israeliana. Ma probabilmente seguirà un altro tentativo, ed altri ancora, fino a quando l’assedio di Gaza sarà completamente tolto. È diventato chiaro che lo scopo di queste missioni umanitarie non è di consegnare un po’ di farmaci ai circa due milioni di gazawi sotto assedio, ma di sfidare la narrazione israeliana che ha riportato l’occupazione e l’isolamento dei palestinesi allo status quo precedente, cioè un “affare israeliano”.

Secondo l’ufficio delle Nazioni Unite nella Palestina occupata, il tasso di povertà a Gaza sembra si stia incrementando alla velocità allarmante del 2% all’anno. Alla fine del 2017 il 53% della popolazione di Gaza viveva in stato di povertà, e due terzi di essa in “povertà assoluta”. Questo terribile dato include oltre 400.000 bambini.

Una fotografia, un video, un grafico o un post sui social media non potranno mai trasmettere la sofferenza di 400.000 bambini che soffrono la fame ogni giorno della loro vita, affinché il governo israeliano possa soddisfare i suoi scopi militari e politici a Gaza. Certo, Gaza non è soltanto un missile israeliano, una casa demolita ed un bimbo ferito. È una nazione intera che sta soffrendo e resistendo, nel quasi totale isolamento dal resto del mondo.

La vera solidarietà dovrebbe avere l’obbiettivo di costringere Israele a porre fine alla protratta occupazione e all’assedio del popolo palestinese, navigando in alto mare, se necessario. Per fortuna i bravi attivisti della Freedom Flotilla stanno facendo proprio questo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




“Israele congela il progetto di annessione della Valle del Giordano dopo la decisione della CPI di avviare un’inchiesta per crimini di guerra.

Mercoledì 25 dicembre 2019 - Press TV

Israele avrebbe congelato il progetto del primo ministro Benjamin Netanyahu di annettere la Valle del Giordano a seguito della decisione della Corte Penale Internazionale (CPI) di iniziare un’indagine su crimini di guerra del regime nei territori palestinesi occupati.

Martedì [17 dic.] il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth ha scritto che la scorsa settimana la prima riunione di una commissione interministeriale sull’applicazione della “sovranità” israeliana sulla valle del Giordano è stata annullata, poche ore prima dell’inizio previsto.

La riunione della commissione, presieduta da Ronen Peretz, direttore generale ad interim dell’ufficio del primo ministro, è stata annullata dopo che è diventato chiaro che era in arrivo un annuncio della CPI su un’approfondita indagine su crimini di guerra israeliani.

“A causa della decisione del pubblico ministero dell’Aja, la questione dell’annessione della Valle del Giordano verrà a lungo congelata”, ha detto una fonte anonima al quotidiano israeliano.

La commissione interministeriale era stata incaricata di formulare la procedura di annessione del regime di Tel Aviv e [di stilare] un disegno di legge della Knesset.

Venerdì [20 dic.], il procuratore capo della CPI Fatou Bensouda ha dichiarato che l’esame preliminare dei crimini di guerra, aperto nel 2015, ha fornito informazioni sufficienti per soddisfare tutti i criteri per l’apertura di un’inchiesta.

C’è una “base ragionevole” per indagare sulla situazione in Palestina, ha detto. “Sono persuasa che … crimini di guerra siano stati commessi o si stiano commettendo in Cisgiordania, comprese Gerusalemme est (al-Quds)] e la Striscia di Gaza.”

A settembre Netanyahu ha promesso che se fosse stato rieletto, avrebbe immediatamente annesso la Valle del Giordano, un territorio fertile che rappresenta circa un quarto della Cisgiordania.

Attualmente nella Valle del Giordano vivono circa 70.000 palestinesi e 9.500 coloni israeliani

Il commentatore politico israeliano Barak Ravid ha scritto sabato in un tweet che il piano di annessione della Cisgiordania di Netanyahu è stato una delle cause dell’indagine della CPI.

“Ecco cosa ha scritto la procuratrice nell’articolo 177: “Nonostante gli espliciti e continui richiami a Israele di porre fine ad interventi nei territori palestinesi occupati ritenuti contrari al diritto internazionale, non vi è alcuna indicazione che possano cessare. Al contrario, ci sono indicazioni che potrebbero non solo continuare ma che Israele potrebbe cercare di annettere questi territori”, ha scritto.

Il giorno prima dell’annuncio della CPI, Netanyahu ha promesso di ottenere il sostegno degli Stati Uniti all’annessione della Valle del Giordano e di altre colonie in Cisgiordania.

“La prima cosa che faremo”, ha detto Netanyahu, “è instaurare la nostra sovranità sulla Valle del Giordano e anche sulle colonie, e lo faremo con il riconoscimento americano”.

Da quando è entrato in carica nel 2017, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha ricoperto Netanyahu di regali politici, tra cui il riconoscimento di Gerusalemme al-Quds quale “capitale” di Israele e il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv alla città occupata, nonché il taglio degli aiuti ai palestinesi e la chiusura dell’ufficio dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina a Washington.

Prima delle elezioni generali israeliane di aprile, Trump ha firmato un decreto che riconosce la “sovranità” israeliana sulle alture del Golan siriane occupate .

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)