I palestinesi lottano contro lo sfratto dalle case di Silwan, Gerusalemme est

Mersiha Gadzo

7 dicembre 2018 Al Jazeera

L’occupazione di Batan al-Hawa a Gerusalemme Est da parte dei coloni è “il più esteso processo di espulsione” degli ultimi anni

Batan al-Hawa, Gerusalemme est occupata – Nel corso degli anni, i coloni israeliani hanno continuato ad offrire milioni di dollari a Zuheir Rajabi e ai suoi vicini per le loro modeste case accatastate sul pendio di Silwan a Batan al-Hawa, un quartiere nella Gerusalemme Est occupata.

Le case si trovano in quello che è noto come il Bacino Storico della Città Vecchia, in prossimità della sacra Moschea di Al-Aqsa, ciò che le rende possedimenti preziosi.

Un colono ebreo una volta offrì a Rajabi un assegno in bianco per la sua casa, chiedendogli di scrivere qualsiasi cifra volesse, da 3 a 30 milioni di shekel (da 800.000 a 8 milioni di dollari).

Ma per Rajabi e gli 700 altri residenti del quartiere – ora minacciati di sfratto – nessuna somma di denaro basterebbe a farli lasciare le loro case.

“Pensavano che in 30 giorni le persone avrebbero abbandonato le loro case”, ha detto Rajabi, dal terrazzo sul tetto del Centro di Comunità del quartiere, che domina la valle.

“La gente qui è molto semplice; hanno una cosa sola, l’onore. Non ci importa di vivere in povertà o in un ambiente malsano, non possiamo sopportare di perdere il nostro onore”, ha detto Rajabi, che è anche il portavoce del comitato Batan al-Hawa.

Gran parte dei residenti di Batan al-Hawa vi abita da oltre 70 anni, molti dopo essere stati espulsi dalle loro ataviche case quando si stava costituendo Israele.

I residenti ora affrontano un’altra espulsione, da parte dell’associazione di coloni ebrei Ateret Cohanim, che sta cercando di lanciare quella che Ir Amim, una ONG israeliana, definisce come la più grande occupazione di quartieri palestinesi a Gerusalemme Est da quando Israele l’ha occupata nella guerra arabo-israeliana del 1967.

La giudaizzazione di Gerusalemme Est

Ateret Cohanim, che ha come obiettivo la giudaizzazione di Gerusalemme est, sostiene che le case di Batan al-Hawa furono costruite su un terreno di proprietà del ‘Jewish Benvenisti Trust’ [cartello religioso ebraico, ndtr.] nel XIX secolo, che lo adibiva all’insediamento in zona degli ebrei yemeniti.

Nel 2002, il Ministero della Giustizia israeliano ha emesso un atto di proprietà del terreno, circa 5,5 dunams (1,4 acri), a favore del Benvenisti Trust, senza informarne i residenti. A quel punto, Ateret Cohanim ha assunto il controllo del Trust.

L’atto è stato utilizzato come fondamento per gli avvisi di sfratto ai residenti, come quello ricevuto dalla famiglia Rajabi nel 2015, che disponeva che le sette famiglie che abitano in quella casa se ne andassero.

Nel giugno di quest’anno, oltre un centinaio di residenti palestinesi in lotta contro gli sfratti ha presentato una petizione, sostenendo che il Trust Benvenisti possedeva solo gli edifici e non il terreno su cui si trovavano.

Dal momento che da allora gli edifici originali erano stati distrutti e ricostruiti, il Trust non poteva rivendicare la terra, sostenevano i residenti.

Lo stesso mese, il governo israeliano ha ammesso che il Ministero della Giustizia non aveva indagato sul Trust prima di emettere l’atto di proprietà.

Tuttavia, il mese scorso l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha respinto l’appello dei residenti di annullare la decisione del 2002, consentendo in effetti ad Ateret Cohanim di proseguire con l’occupazione di Batan al-Hawa.

L’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha detto che la sentenza della Corte ha spianato la via alla pulizia etnica dei palestinesi di Silwan.

“La sentenza dimostra, ancora una volta, che l’Alta Corte israeliana dà il suo beneplacito a quasi tutte le violazioni dei diritti dei palestinesi da parte delle autorità israeliane”.

La “piovra” di Gerusalemme est

Ad oggi, Ateret Cohanim ha sfrattato 17 famiglie e possiede sei edifici nell’area.

Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari, il 45% di tutte le famiglie palestinesi minacciate di sfratto a Gerusalemme Est vive a Batan al-Hawa.

B’Tselem lo ha definito “il più esteso processo di espulsione” in città degli ultimi anni.

Rajabi ha detto che suo padre ha comprato il loro appezzamento di terra nel 1966 dopo che erano stati espulsi dai quartieri ebraici della Città Vecchia, senza alcun risarcimento.

“Sono nato qui, sono cresciuto qui, mi sono sposato qui, ho vissuto qui tutta la mia vita”, ha detto.

Amareggiato dalla sentenza della Corte, ha detto che la società israeliana si sta spostando verso la “estrema destra”.

Rajabi paragona Ateret Cohanim a una piovra i cui tentacoli stanno attanagliando la Città Vecchia e Silwan.

“Ateret Cohanim è un’organizzazione potente, non solo politicamente. Ha anche soldi”, ha detto Rajabi.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, l’organizzazione usa diverse tattiche per costringere i palestinesi a vendere le loro proprietà, tra cui minacce a carattere sessuale e ricatti di vario tipo – come minacciare di rendere pubblica una vendita concordata in segreto così che il venditore, temendo per la propria vita, sarebbe costretto ad abbassare significativamente il prezzo per evitare l’ira della propria comunità.

[L’ONG israeliana] Ir Amim dice che il governo israeliano è stato direttamente coinvolto nell’agevolare gli insediamenti privati illegali nella città vecchia e nei quartieri palestinesi circostanti.

“Il governo ha agito tramite il Custode Generale e il Registro dei Trust (entrambi sotto il Ministero della Giustizia) per agevolare il sequestro di Batan al-Hawa, aumentando il budget per la sicurezza del 119 % per il periodo 2009-2016 in modo da garantire la protezione degli estremisti ebrei che si insediano nel cuore dei quartieri palestinesi a Gerusalemme Est”, ha affermato la ONG.

Consolidare il controllo ebraico

Secondo un rapporto di Ir Amim, l’obiettivo politico di gruppi come Ateret Cohanim è consolidare il controllo ebraico a Gerusalemme Est e contrastare la soluzione dei due stati.

Yacoub al-Rajabi, membro del comitato di Batan al-Hawa, ha affermato che i coloni stanno cercando di acquistare la sua casa dal 2003.

Un anno e mezzo fa, Ateret Cohanim gli ha offerto 2 milioni di dollari per vendere la sua casa e abbandonare la causa in tribunale, ma senza risultato.

“Se ci sfrattano dalle nostre case, costruiremo tende vicino alle case, non andremo da nessuna parte, ci rifiutiamo di andare altrove, rifiutiamo di essere trasferiti [per la terza volta]”, ha detto Yacoub.

Ha descritto il quartiere come una prigione dove i residenti si sentono intrappolati e sono regolarmente attaccati da coloni, polizia, esercito e istituzioni governative israeliane per spingerli ad andarsene.

Dice che, ad ogni festa ebraica, i residenti non possono lasciare le loro case e per ordine militare i bambini non possono andare a scuola.

“Non abbiamo altro che la nostra risolutezza. Cercheremo di difendere noi stessi e i nostri diritti … Abbiamo la proprietà di questa terra ed è nostra per legge”, ha detto.

L’ufficio di Rajabi si trova nel Centro della comunità costruito per i bambini – l’unico posto nel quartiere dove i bambini possano giocare in sicurezza. In un angolo del suo ufficio, uno schermo mostra i filmati dalle telecamere a circuito chiuso installate all’esterno.

Dall’altra parte della strada, una decina di telecamere controllano la sua casa. Le ha fatte installare per documentare gli attacchi dei coloni o delle autorità israeliane, dopo che suo padre è morto per l’inalazione di gas lacrimogeni sparati dalla polizia.

Rajabi afferma che le telecamere sono state estremamente utili a smentire le false affermazioni dei coloni e delle autorità israeliane.

Il destino delle loro case è ora presso la Pretura di Gerusalemme, che deve decidere se il Trust Benvenisti possiede solo gli edifici o anche la terra.

Ma Yacoub ha detto che c’è poca speranza che la giustizia possa essere difesa dai tribunali israeliani.

“Persino durante l’udienza la stessa giudice ha detto che ci sono alcuni problemi legali nel verdetto del tribunale”, ha detto Yacoub, aggiungendo che i residenti cercheranno con tutti i mezzi di rimanere nelle loro case, anche portando il caso alla Corte Penale Internazionale.

“Questa [sentenza del tribunale] non ci spezzerà, continueremo a lottare per i nostri diritti, continueremo a lottare per la nostra proprietà sulla terra e sulle nostre case”, ha affermato.

(traduzione di Luciana Galliano)




IL Nuovo Nuovo Antisemitismo

Richard Falk≡

18 novembre 2018, WordPress

I crimini dello Stato di Israele nascosti dietro false affermazioni di vittimizzazione

In questi giorni io, come anche molti altri, vengo vittimizzato. Siamo etichettati come antisemiti e in alcuni casi anche come ebrei che odiano sé stessi. È un tentativo da parte di sionisti ed israeliani di mettere a tacere le nostre voci e di punire il nostro attivismo nonviolento, con particolare livore nei confronti della campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimenti e Sanzioni, ndtr.) poiché negli ultimi anni è diventata molto efficace. Questa etichetta negativa dell’opposizione è stata chiamata ‘il nuovo antisemitismo’. Il vecchio antisemitismo era semplicemente odio verso gli ebrei espresso attraverso immagini ed atteggiamenti negativi, come anche pratiche discriminatorie, persecuzioni e giustizia sommaria. Il nuovo antisemitismo è la critica contro Israele e il sionismo, ed è stato sostenuto da governi amici di Israele e portato avanti da una serie di importanti organizzazioni ebraiche, incluse alcune collegate ai sopravvissuti e alla memoria dell’Olocausto. Emmanuel Macron, presidente francese, ha espresso abbastanza chiaramente questo rifiuto da parte degli apologeti di Israele, anche se in forma piuttosto malevola: “Non cederemo mai alle espressioni di odio. Non ci arrenderemo mai all’antisionismo, perché esso è la riproposizione dell’antisemitismo.” La falsa premessa pone sullo stesso piano il sionismo e gli ebrei, definendo automaticamente come antisemitismo le critiche e l’opposizione allo Stato sionista di Israele.

Già nel 2008 il Dipartimento di Stato USA si è mosso più velatamente in una direzione simile a quella di Macron, attraverso questa dichiarazione formale: “Le ragioni per criticare Israele alle Nazioni Unite possono derivare da legittime preoccupazioni politiche o da pregiudizi illegittimi. (…) Comunque, a prescindere dalle intenzioni, critiche sproporzionate a Israele in quanto incivile e amorale, e le relative misure discriminatorie adottate dalle Nazioni Unite contro Israele, hanno l’effetto di far sì che il pubblico attribuisca caratteristiche negative agli ebrei in generale, alimentando così l’antisemitismo.” L’errore qui sta nel considerare le critiche come “sproporzionate” senza nemmeno prendere in considerazione la realtà della lunga serie di illegalità da parte di Israele nei confronti del popolo palestinese. Per chi di noi vede la realtà delle politiche e delle pratiche israeliane vi sono pochi dubbi che le critiche che vengono avanzate e le pressioni che vengono esercitate [siano] in ogni senso proporzionate.

Un’argomentazione correlata, che spesso viene avanzata, è che a Israele siano richiesti livelli più alti di altri Stati, e che questo riveli un sottinteso antisemitismo. Questo è un argomento in malafede. Non è una giustificazione suggerire che la criminosità di altri sia più grave. Inoltre, gli USA finanziano Israele con almeno 3,8 miliardi di dollari all’anno, oltre a dare il loro incondizionato appoggio al suo comportamento, determinando una certa responsabilità per imporre dei limiti in base al diritto umanitario internazionale. Anche le Nazioni Unite hanno contribuito al calvario dei palestinesi, non mettendo in pratica la soluzione di partizione e permettendo che per 70 anni milioni di palestinesi subissero le strutture di dominio dell’apartheid. Nessun altro popolo può così giustificatamente condannare forze esterne per la tragedia che ha patito.

Nel 2014 Noam Chomsky, con la sua usuale chiarezza morale ed intellettuale, ha spiegato la falsa logica di una simile affermazione: “In realtà, l’esempio di scuola, la migliore formulazione di ciò, la si deve ad un ambasciatore presso le Nazioni Unite, Abba Eban [politico e diplomatico israeliano, ndtr.] (…). Ha raccomandato alla comunità ebraica americana di assolvere a due compiti. Uno consisteva nel mostrare che le critiche alla politica, che lui definiva antisionismo – che in realtà significa criticare la politica dello Stato di Israele – erano antisemitismo. Questo era il primo compito. Il secondo, nel caso che le critiche provenissero da ebrei, consisteva nel mostrare che si trattava di odio nevrotico verso sé stessi, che necessitava di un trattamento psichiatrico. Quindi forniva due esempi di quest’ultima categoria. Uno era I.F. Stone [giornalista americano progressista, ndtr.]. L’altro ero io. Quindi, noi avremmo dovuto essere curati per i nostri disturbi psichici, e i non ebrei avrebbero dovuto essere condannati per antisemitismo, se criticavano lo Stato di Israele. Si può capire perché la propaganda israeliana prenda questa posizione. Io non critico particolarmente Abba Eban per aver fatto ciò che gli ambasciatori a volte devono fare. Ma dovremmo capire che non è un’accusa sensata. Per niente sensata. Non c’è niente da rispondere. Non è una forma di antisemitismo. È semplicemente una critica delle azioni criminose di uno Stato.”

Una caratteristica di questo nuovo antisemitismo è la sua mancata risposta alle ben comprovate accuse di crimini contro l’umanità avanzate da coloro che sono etichettati come antisemiti. Forse questi ardenti sostenitori di Israele spingono davvero il loro senso di impunità fino al punto di ritenere il silenzio un’adeguata forma di difesa? A sottolineare una tale negazione del concetto di responsabilità legale e morale vi è questo sentimento di eccezionalità di Israele, una concezione del diritto penale internazionale che condivide con l’eccezionalità americana. Coloro che sono d’accordo con questa eccezionalità pretendono di venire offesi persino dall’insinuazione che un tale governo possa essere soggetto alle norme sancite dallo Statuto della Corte Penale Internazionale o dalla Carta dell’ONU. L’eccezionalità di Israele affonda le sue radici nella tradizione biblica, soprattutto nella lettura degli ebrei come “popolo eletto”, ma in realtà si situa in uno spazio rassicurante creato dall’ombrello geopolitico che protegge dal giudizio del mondo la maggior parte dei suoi atti di sfida alle leggi. Queste azioni di protezione sono ben illustrate dalla recente risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU che ha dichiarato nulli e non validi i passi di Israele verso l’annessione delle alture del Golan, con il voto contrario dei soli Israele e Stati Uniti, mentre 151 membri dell’ONU hanno votato a favore.

Se dedichiamo anche solo un minuto ad esaminare il diritto internazionale, scopriremo che la questione è talmente ovvia che non vale la pena di discuterne seriamente. Un principio cardine dell’attuale diritto internazionale, spesso affermato dall’ONU in altri contesti, è il divieto di impadronirsi di un territorio con la forza delle armi. Non c’è dubbio che le alture del Golan facessero parte del territorio sovrano della Siria fino alla guerra del 1967, e che Israele ne abbia preso il controllo, che ha sempre esercitato da allora, attraverso un’occupazione con la forza.

Le ironie del ‘nuovo nuovo’ antisemitismo

Qui è presente un’ironia opportunistica. Il nuovo antisemitismo sembra non avere problemi ad abbracciare i cristiani sionisti, nonostante la loro ostilità verso gli ebrei accompagnata dalla fanatica devozione ad Israele come Stato ebraico. Chiunque abbia assistito ad una conferenza dei cristiani sionisti sa che la loro lettura del Libro della Rivelazione implica l’interpretazione che Gesù ritornerà quando tutti gli ebrei ritorneranno in Israele e verrà ricostruito il tempio più sacro di Gerusalemme. Questo percorso non finirà qui. Gli ebrei saranno di fronte alla scelta tra convertirsi al cristianesimo o essere condannati alla dannazione eterna. Quindi tra questi fanatici amici di Israele è presente una sincera ostilità verso gli ebrei, sia nell’insistere che la fine della diaspora ebraica sia un imperativo religioso per i cristiani, sia per il misero destino che attende gli ebrei che rifiuteranno di convertirsi dopo il Secondo Avvento.

Siamo di fronte ad un’illuminante perversità. A differenza dei nuovi antisemiti che non sono ostili agli ebrei in quanto popolo, i cristiani sionisti danno priorità al loro entusiasmo per lo Stato di Israele, mentre sono disposti a distruggere le vite degli ebrei della diaspora e alla fine anche quelle degli ebrei israeliani e sionisti. Forse si tratta meno di perversità quanto di opportunismo. Israele non ha mai avuto alcuna riluttanza a sostenere i leader più oppressivi e dittatoriali di Paesi stranieri, posto che essi acquistino armi e non adottino una politica diplomatica anti-israeliana. Il messaggio di congratulazioni di Netanyahu a Bolsonaro, il neo eletto presidente del Brasile, è solo l’esempio più recente, e Israele ha ricevuto un immediato ringraziamento con l’annuncio della decisione [del Brasile] di unirsi agli Stati Uniti trasferendo la sua ambasciata a Gerusalemme. In effetti, il nuovo antisemitismo si trova a suo agio sia coi cristiani sionisti che con i leader politici stranieri che mostrano tendenze fasciste. Di fatto, chiudere gli occhi di fronte alla profonda realtà del vero antisemitismo è una caratteristica del nuovo antisemitismo così caldeggiato dai militanti sionisti. Per una esauriente documentazione, si può leggere l’importante libro di Jeff Halper, ‘War against people: Israel, the palestinians and global pacification’ (2015). [‘Guerra contro il popolo: Israele, i palestinesi e la pacificazione globale’, Epoké, Novi Ligure, 2017. Ndtr.].

Di fronte ad un simile contesto abbiamo bisogno di un termine che descriva e identifichi questo fenomeno e respinga le sue accuse insidiose. Propongo la poco elegante dicitura di ‘il nuovo nuovo antisemitismo’. L’idea di una simile definizione vorrebbe suggerire che sono i nuovi antisemiti, non i critici e gli attivisti che criticano Israele, i reali portatori di odio verso gli ebrei in quanto ebrei. Due tipi di argomentazioni sono implicite in questo rifiuto della campagna che cerca di screditare o addirittura criminalizzare i ‘nuovi antisemiti’. Primo, essa impedisce la critica della persistenza di situazione sconcertante, della perdurante tragedia dell’apartheid imposto a tutto il popolo palestinese nel suo complesso, distoglie l’attenzione, deliberatamente o inconsapevolmente, dalle obiezioni al vero antisemitismo, provocando anche confusione, accettando in nome dello Stato di Israele l’abbraccio dei cristiani sionisti (e degli evangelici), oltre a quello dei leader fascisti che predicano messaggi di odio etnico.

In conclusione, nel nostro impegno per la realizzazione dei diritti dei palestinesi, primo tra tutti il loro diritto all’autodeterminazione, noi che veniamo accusati di essere i nuovi antisemiti in realtà stiamo cercando di onorare la nostra umanità e di rifiutare le lealtà tribali o gli schieramenti geopolitici. Come ebrei, rendere Israele responsabile in base agli standard che sono stati utilizzati per condannare i capi politici e militari nazisti sopravvissuti significa onorare l’eredità dell’Olocausto, non infangarla. Al contrario, quando Israele vende armi ed offre addestramento per reprimere le rivolte a governi guidati da fascisti in tutto il mondo, o continua ad accettare l’Arabia Saudita del dopo Khashoggi come un valido alleato, esso oscura la natura malvagia dell’Olocausto in modi che in futuro potrebbero tormentare Israele ed anche gli ebrei della diaspora.

Richard Falk è uno studioso di diritto internazionale e relazioni internazionali, che ha insegnato per 40 anni alla Princeton University. Dal 2002 vive a Santa Barbara, California ed insegna studi globali e internazionali nel locale campus dell’università della California; dal 2005 dirige il consiglio d’amministrazione della Fondazione per la Pace dell’Era Nucleare. Ha dato inizio a questo blog in parte per celebrare il suo 80esimo compleanno.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Perché Israele ha paura di Khalida Jarrar?

Ramzy Baroud

8 novembre, Nena News 

da Dissident Voice

Roma, 8 novembre 2018, Nena News – Quando, il 2 aprile 2015, i soldati israeliani fecero irruzione in casa di Khalida Jarrar, parlamentare e avvocato palestinese, lei era assorta nella sua ricerca. Da mesi, Jarrar guidava l’iniziativa palestinese volta a portare Israele davanti alla Corte Penale Internazionale (ICC). La sua ricerca, proprio quella sera, verteva su quel genere di condotta secondo cui un gruppo di soldati può ammanettare una rispettabile intellettuale palestinese e mandarla in galera senza processo, e non è considerato responsabile di tale azione.

Venne rilasciata nel giugno del 2016, dopo aver passato oltre un anno in prigione, solo per essere nuovamente arrestata il 2 luglio 2017. Si trova tutt’ora in un carcere israeliano.

 Il 28 ottobre di quest’anno, la sua “detenzione amministrativa” è stata rinnovata per la quarta volta.

Ci sono migliaia di prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, la maggior parte dei quali detenuti al di fuori dei Territori Palestinesi Occupati, in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra. Peraltro, circa 500 palestinesi rientrano in una diversa categoria, visto che sono detenuti senza processo per periodi di sei mesi che vengono rinnovati, a volte a tempo indeterminato, dai tribunali israeliani senza alcuna motivazione legale. Jarrar è una di questi detenuti. Non implora la libertà ai suoi carcerieri. Anzi, è impegnata a istruire le sue compagne prigioniere sulla legislazione internazionale, dando lezioni e rilasciando al mondo esterno dichiarazioni che rispecchiano non solo la sua mente raffinata, ma anche la sua risolutezza e forza di carattere.

Jarrar è inarrestabile. Nonostante le sue precarie condizioni di salute, – ha avuto più infarti ischemici, soffre di ipercolesterolemia ed è stata ricoverata a causa di una grave emorragia da epistassi – la dedizione alla causa della suo popolo non si è in alcun modo indebolita, né ha mai ha vacillato.

L’avvocato palestinese cinquantacinquenne ha sostenuto un discorso politico che è sostanzialmente inesistente nella faida in corso tra la fazione di maggioranza dell’Autorità Palestinese, Fatah, in Cisgiordania e Hamas nella Striscia di Gaza sotto assedio.

Come membro del Consiglio Legislativo Palestinese (PLC) e membro attivo all’interno del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP), Jarrar sostiene un tipo di politica non disconnessa dalla gente e, soprattutto, dalle donne, che rappresenta con forza e senza compromessi.

Secondo lei, nessun funzionario palestinese dovrebbe impegnarsi in alcuna forma di dialogo con Israele, perché tale coinvolgimento aiuta la legittimazione di uno Stato che si fonda sul genocidio e sulla pulizia etnica, e che sta tuttora compiendo vari tipi di crimini di guerra; proprio quei crimini che lei ha tentato di denunciare alla Corte Penale Internazionale.

Com’era prevedibile, Jarrar rifiuta il cosiddetto “processo di pace”, un’operazione inutile, priva di qualsiasi intenzione o meccanismo per “l’applicazione di risoluzioni internazionali relative alla causa palestinese e il riconoscimento dei diritti fondamentali dei palestinesi”. Va da sé che una donna con una posizione così sagace e decisa rifiuti fermamente il “coordinamento per la sicurezza” tra l’Autorità Palestinese e Israele, considerando tale iniziativa un tradimento della lotta e dei sacrifici del popolo palestinese.

Mentre i funzionari dell’Autorità Palestinese continuano a godere dei vantaggi della “leadership”, tentando disperatamente  di rianimare l’ormai deceduto dibattito politico su “processo di pace” e “soluzione dei due Stati”, Jarrar, una leader palestinese donna di autentica lungimiranza, sopravvive nel carcere di HaSharon. Lì, insieme a decine di altre donne palestinesi, sperimenta ogni giorno l’umiliazione, la negazione dei diritti e le varie tecniche israeliane volte a piegare la sua volontà.

Ma Jarrar è un’esperta di resistenza a Israele tanto quanto lo è nella sua conoscenza della legge e dei diritti umani.

Nell’agosto 2014, mentre Israele portava avanti uno dei suoi più atroci atti di genocidio a Gaza – uccidendo e ferendo migliaia di persone nell’operazione bellica chiamata “Margine Protettivo” – Jarrar ricevette una visita indesiderata da parte dei soldati israeliani. Pienamente consapevole del lavoro di Jarrar e della sua credibilità come avvocato palestinese di portata internazionale – è la rappresentante palestinese al Consiglio d’Europa – il governo israeliano scatenò la campagna di persecuzione contro di lei, finita con l’incarcerazione. I soldati le consegnarono un decreto militare che le ordinava di lasciare la sua casa ad al-Bireh, vicino a Ramallah, e trasferirsi a Gerico.

Fallito il tentativo di metterla a tacere, venne arrestata nell’aprile dell’anno successivo, dando inizio a un capitolo di sofferenza, ma anche di resistenza, che non è ancora finito. Quando l’esercito israeliano andò a prelevare Jarrar, la sua casa venne circondata da un numero spropositato di soldati, come se l’eloquente attivista palestinese fosse, per Israele, il più grande “pericolo per la sicurezza”.

La scena era piuttosto surreale, e rappresentativa della vera paura di Israele: paura di quei palestinesi, come Khalida Jarrar, capaci di trasmettere un messaggio chiaro, che smaschera Israele agli occhi del mondo. Ricordava la frase iniziale del romanzo di Franz Kafka, “Il Processo”: “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato” (“Il Processo”, F. Kafka, trad. Primo Levi, Einaudi 1983, n.d.t.)

La detenzione amministrativa in Israele è la ricostruzione all’infinito di quella scena kafkiana. Joseph K. è Khalida Jarrar con le migliaia di altri palestinesi che stanno pagando per il semplice fatto di aver rivendicato i diritti e la libertà del loro popolo.

Sotto pressione internazionale, Israele fu costretta a processare Jarrar, sollevando contro di lei dodici capi d’accusa, tra cui l’aver visitato un detenuto liberato e aver partecipato a una fiera del libro. L’altro arresto e le quattro proroghe della sua detenzione sono dimostrazione non solo della mancanza di prove concrete contro di lei, ma anche del fallimento morale di Israele.

Ma perché Israele ha paura di Khalida Jarrar?

La verità è che Jarrar, come molte altre donne palestinesi, rappresenta l’antidoto alla narrativa israeliana preconfezionata che promuove inesorabilmente Israele come un’oasi di libertà, democrazia e diritti umani in contrapposizione a una società palestinese che, presumibilmente, sarebbe l’opposto. Jarrar, avvocato, attivista per i diritti umani, importante esponente politica e sostenitrice delle donne, con la sua eloquenza, il coraggio e la conoscenza profonda dei propri diritti e di quelli del suo popolo, demolisce il castello di bugie israeliano.

È la quintessenza del femminismo: ma il suo “essere femminista” non è mera identità politica, o un’ideologia di facciata che evoca diritti “vuoti” ad uso e consumo delle platee occidentali. Al contrario, Khalida Jarrar lotta per le donne palestinesi, per la loro libertà e il loro diritto a ricevere una formazione adeguata, a cercare opportunità di lavoro e a migliorare la propria vita mentre affrontano gli enormi ostacoli dell’occupazione militare, il carcere e la pressione sociale.

“Khalida” in arabo vuol dire “Immortale”, definizione che calza a pennello per un’autentica combattente, incarnazione dell’eredità di generazioni di grandi donne palestinesi, la cui “sumoud” – determinazione – sarà sempre d’esempio per un’intera nazione. Nena News

Ramzy Baroud, scrittore e giornalista, è l’autore di “The Second Palestinian Intifada: A Chronicle of a People’s Struggle” e del più recente “My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story”.

(traduzione di Elena Bellini)




Nonostante il rinvio, Israele ha deciso di distruggere Khan al-Ahmar

Tamara Nassar

23 ottobre 2018,Electronic Intifada

Sabato Israele ha rimandato la demolizione e deportazione del villaggio palestinese di Khan al-Ahmar.

Secondo il quotidiano israeliano “Haaretz” il ritardo intende “finalizzare una proposta per l’evacuazione volontaria”.

Gli abitanti del villaggio si sono sistematicamente ed energicamente opposti al trasferimento forzato dalla loro terra, che non può essere in nessun caso “volontario” se avviene sotto minaccia.

Khan al-Ahmar sarà evacuato, è un verdetto della corte, è la nostra politica e sarà fatto,” ha detto domenica il primo ministro Benjamin Netanyahu in una conferenza stampa con il ministro del Tesoro USA Steven Mnuchin.

Netanyahu ha aggiunto che il ritardo sarà breve, finché gli abitanti daranno il loro “assenso” a sgomberare e distruggere il loro villaggio.

Alcuni ministri israeliani di Destra, tra cui il ministro dell’Educazione Naftali Bennett, la ministra della Giustizia Ayelet Shaked e il deputato Bezalel Smotrich, si sono opposti alla decisione di Netanyahu.

Tutti e tre sono membri del partito nazionalista di estrema destra “Casa Ebraica”.

Khan al-Ahmar deve essere distrutto. Dobbiamo opporci al mondo,” ha detto Smotrich lunedì da una collina che sovrasta il villaggio, secondo il giornale israeliano “The Jerusalem Post” [giornale israeliano di destra in lingua inglese, ndtr.].

Dobbiamo togliere di mezzo questa comunità dopo aver dato loro un’alternativa,” ha detto la vice-ministra Tzipi Hotovely sulla collina di mattina presto.

Il governo israeliano ha investito milioni per creare questa alternativa e penso che la comunità internazionale sarebbe molto più d’aiuto se non utilizzasse i beduini come strumento politico,” ha detto Hotovely.

Yehuda Glick, parlamentare dello stesso partito di Netanyahu, il Likud, e uno dei dirigenti del movimento estremista ebreo che intende distruggere la moschea di al-Aqsa a Gerusalemme, si è unito a Hotovely nella sua visita a Khan al-Ahmar.

La scelta tra spazzatura e liquami

Le alternative che Israele ha proposto non sono adeguate alla vita nomade dei beduini che vivono a Khan al-Ahmar.

Le alternative che Israele sta proponendo sono nei pressi di una discarica o dello scarico di una fogna,” ha detto all’israeliano “i24 News” [canale televisivo di informazioni in arabo, francese e inglese, ndtr.] Tawfique Jabareen, un avvocato che rappresenta gli abitanti di Khan al Ahmar.

Israele vuole obbligarli a spostarsi in una zona chiamata “al-Jabal ovest”, situata nei pressi della discarica del villaggio palestinese di Abu Dis. Israele ha anche proposto di spostare gli abitanti del villaggio in una zona vicina a un impianto di trattamento dei rifiuti nei pressi della colonia di Mitzpe, vicino alla città di Gerico, nella Cisgiordania occupata.

Jabareen ha aggiunto che gli abitanti hanno proposto all’Alta Corte israeliana di spostarsi di qualche centinaio di metri dalla loro attuale sistemazione, ma rimanendo ancora all’interno [della zona] di Khan al-Ahmar, un’idea che Israele ha rifiutato.

La Corte Penale Internazionale mette in guardia contro crimini di guerra

Il rinvio annunciato da Israele avviene dopo che la procuratrice generale della Corte Penale Internazionale Fatou Bensouda ha manifestato preoccupazione per la situazione a Khan al-Ahmar.

Una vasta distruzione di proprietà senza necessità di carattere militare e il trasferimento di popolazione in un territorio occupato costituiscono crimini di guerra,” ha affermato Bensouda il 17 ottobre.

Di conseguenza mi vedo obbligata a ricordare a tutte le parti che la situazione resta sotto esame preliminare da parte del mio ufficio.”

Secondo Haaretz alla polizia israeliana e all’amministrazione civile – la burocrazia militare che gestisce l’occupazione della Cisgiordania – non sia stato detto di lasciare la zona.

Nelle scorse settimane le autorità israeliane sono arrivate nel villaggio per preparare la demolizione, e talvolta hanno arrestato e ferito i manifestanti. Anche i coloni israeliani maltrattano regolarmente gli abitanti.

Durante la notte attivisti e giornalisti sono rimasti con loro nel villaggio per resistere all’invasione e all’imminente demolizione.

Khan al Ahmar si trova tra le colonie israeliane di Maaleh Adumim e Kfar Adumim.

Questa terra a est di Gerusalemme, la cosiddetta zona E1, si trova dove Israele pianifica di espandere la sua grande colonia di Maaleh Adumim, completando l’isolamento tra loro della parte nord da quella sud della Cisgiordania e circondando Gerusalemme di colonie.

In base alle leggi internazionali tutte le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata sono illegali.

Lunedì la Francia – uno dei numerosi Stati europei che si sono opposti al progetto di Israele di distruggere Khan al-Ahmar sulla base del fatto che in questo modo verrebbe compromessa la soluzione dei due Stati – ha detto di “prendere nota” del rinvio.

Chiediamo alle autorità israeliane di abbandonare definitivamente i progetti di demolire Khan al-Ahmar e di far cessare l’incertezza che circonda il destino di questo villaggio.”

Tuttavia, a parte l’opposizione verbale, gli Stati dell’UE non hanno espresso chiaramente le conseguenze per Israele se dovesse sfidare questi appelli.

Prendere il controllo di Hebron

Nel contempo, all’inizio di questo mese Israele ha approvato un progetto per espandere la colonia esclusivamente ebraica nel cuore della città di Hebron, nella Cisgiordania occupata.

Secondo Haaretz questa sarà la prima costruzione di una colonia nel cuore di Hebron in oltre un decennio.

L’edificazione del progetto da 6 milioni, che è destinato a includere 31 unità abitative, potrebbe iniziare in qualunque momento.

Parte del progetto riguarda una ex-base militare israeliana che, secondo Haaretz, “è stata costruita su terreni che erano di proprietà di ebrei.”

Quando Israele costruisce colonie in Cisgiordania spesso vengono presentate fittizie rivendicazioni di proprietà sul terreno [da edificare].

Incendiare la regione”

Il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha festeggiato il nuovo insediamento.

Un nuovo quartiere ebraico a Hebron per la prima volta in 20 anni,” ha twittato.

Lieberman ha elogiato il governo per aver approvato il suo progetto per il quartiere, il cosiddetto quartiere “Hezekiah”, che ha definito “un’altra importante pietra miliare nell’estesa attività che stiamo conducendo per rafforzare l’insediamento in Giudea e Samaria.”

Ayman Odeh, capo della “Lista Araba Unita” [coalizione di tutti i partiti arabo-israeliani, ndtr.] nel parlamento israeliano, ha condannato l’iniziativa, accusando il governo di “infiammare continuamente la regione e poi gridare che non ci sono partner” per fare la pace, tutto a vantaggio di un “pugno di coloni estremisti.”

Più di 800 coloni vivono in un’area nel cuore di Hebron sotto totale controllo militare israeliano.

I coloni israeliani hanno preso il controllo della maggior parte della moschea di Abramo [o Tomba dei patriarchi, per gli ebrei, ndtr.] nella città, in seguito al massacro nel 1994 da parte di Baroch Goldstein, un colono americano, di 29 fedeli palestinesi nel sito.

A lungo i palestinesi hanno temuto che la divisione della moschea di Abramo potesse servire come modello per una presa di possesso totale o parziale da parte di Israele del complesso di al-Aqsa a Gerusalemme.

Coloni si aggirano liberamente nella zona di Hebron, sotto totale controllo militare israeliano, mentre i palestinesi sono sottoposti a severe restrizioni negli spostamenti, comprese strade segregate, e alle violenze e ai maltrattamenti dei soldati come dei coloni.

Demolizioni a Hebron

Nel frattempo le forze di occupazione israeliane hanno messo in atto demolizioni di case palestinesi nelle zone nei dintorni di Hebron e in altre parti della Cisgiordania occupata.

All’inizio di questo mese le forze israeliane hanno confiscato nel villaggio di Khirbet al-Halawa, sulle colline meridionali di Hebron, nella Cisgiordania occupata, una tenda di una famiglia composta da sei persone.

La famiglia include quattro bambini, che secondo B’Tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndtr.] sono rimasti senza casa.

Khirbet al-Halawa è una frazione dei villaggi chiamati Masafer Yatta.

Il 3 ottobre le forze israeliane sono arrivate a Khirbet al-Mufaqara, sempre a Masafer Yatta, ed hanno confiscato materiale edile per una casa prefabbricata.

Gli abitanti dei villaggi di Masafer Yatta hanno vissuto per vent’anni sotto minaccia di espulsione forzata.

B’Tselem ha affermato: “Dagli anni ’90 Israele ha sistematicamente tentato di cacciare gli abitanti palestinesi di Masafer Yatta dalle loro case.”

Sia Masafer Yatta che Khan al.-Ahmar si trovano nell’area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania occupata.

In base ai termini degli accordi di Oslo, firmati tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina negli anni ’90, l’area C resta sotto il totale controllo militare israeliano.

Israele ha negato praticamente a ogni palestinese il permesso edilizio nell’area C, obbligando i palestinesi a costruire senza permessi e a vivere con la continua paura che le loro case o comunità vengano demolite.

Martedì mattina le forze di occupazione israeliane hanno smantellato e confiscato roulotte utilizzate come aule scolastiche a Ibziq, un villaggio nel nord della valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata.

Un video postato da attivisti mostra le forze israeliane che portano via le strutture su camion.

Pare che le roulotte siano state finanziate dall’Unione Europea e dalla Finlandia, che non hanno fatto niente per chiedere conto ad Israele della distruzione delle decine di milioni di dollari dei progetti per i palestinesi pagate dai contribuenti europei.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’Autorità Nazionale Palestinese e Hamas guidano Stati di polizia paralleli — Human Rights Watch

Annelies Verbeek

23 ottobre 2018, Electronic Intifada

Un nuovo rapporto di Human Rights Watch ritiene sia l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania che Hamas a Gaza colpevoli di fare largo uso di arresti arbitrari e di tortura per reprimere le critiche e l’opposizione politica.

Il rapporto, intitolato “Due autorità, un sistema, zero dissenso”, è il risultato di due anni di ricerca. Si avvale di 86 casi di studio e 147 interviste, la maggior parte di ex detenuti.

Venticinque anni dopo Oslo, le autorità palestinesi hanno ottenuto un potere molto limitato in Cisgiordania e a Gaza, eppure, laddove hanno autonomia, hanno sviluppato stati di polizia paralleli”, ha detto Tom Porteous, un rappresentante di Human Rights Watch.

Gli appelli dei dirigenti palestinesi per salvaguardare i diritti dei palestinesi suonano vuoti dal momento che sopprimono il dissenso.”

Gli arresti arbitrari prendono di mira soprattutto coloro che criticano le autorità o esprimono sostegno per l’opposizione politica sui social media, sui giornali e nei campus universitari. Secondo Human Rights Watch le autorità spesso giustificano gli arresti sulla base di leggi generiche che criminalizzano attività che “provocano tensioni settarie” o “offendono le più alte autorità.”

Il rapporto riferisce numerosi esempi di casi individuali di abuso. Un uomo, precedentemente incarcerato da Israele, è stato in seguito arrestato 15 volte dalle forze di sicurezza dell’ANP per essersi affiliato al gruppo di Hamas quando era in prigione.

Un altro esempio è la detenzione per 15 giorni di un giornalista di Gaza che ha scritto su Facebook: “Mi chiedo se i figli dei nostri dirigenti dormono sul pavimento come i nostri figli”. È stato accusato di “uso scorretto della tecnologia” e definito “un istigatore alla sovversione”.

Tortura “abituale, deliberata e largamente utilizzata.”

Nel rapporto si afferma che la tortura e gli abusi durante la detenzione sono “abituali, deliberati e largamente impiegati”.

Entrambe le autorità utilizzano frequentemente un metodo di tortura chiamato ‘shabeh’, in cui i detenuti sono costretti in posizioni dolorose.

Human Rights Watch descrive i metodi usati come “analoghi alle annose prassi israeliane contro i palestinesi.”

Altri abusi documentati includono l’uso di scosse elettriche e colpi [inflitti] con cavi.

Human Rights Watch chiede agli USA e all’ Unione Europea, che sostengono finanziariamente l’Autorità Nazionale Palestinese, come anche al Qatar, all’Iran e alla Turchia, che sostengono Hamas, di sospendere l’assistenza alle forze di sicurezza coinvolte nei diffusi arresti arbitrari e torture. Inoltre raccomanda che gli arresti arbitrari e gli abusi da parte dell’ANP e di Hamas siano inclusi in ogni futura inchiesta della Corte Penale Internazionale sulla Palestina.

Sia Hamas che l’ANP negano che gli abusi siano sistematici e che vadano oltre casi limitati ed eccezionali. Inoltre entrambe le autorità affermano che tali casi vengono sottoposti ad indagine quando siano portati all’attenzione delle autorità.

Lo staff di Human Rights Watch non ha potuto recarsi a Gaza a parlare con le autorità di Hamas riguardo alle accuse, poiché Israele ha negato l’ingresso ai ricercatori.

Sia l’ANP che Hamas sono dotati di meccanismi interni idonei per presentare denunce contro gli abusi delle autorità. Centinaia di denunce sono state presentate da cittadini e organizzazioni per i diritti umani ma, secondo il rapporto di Human Rights Watch, solo “una esigua minoranza” ha avuto come esito un’azione disciplinare.

Associazioni per i diritti umani in Cisgiordania hanno posto l’Autorità Nazionale Palestinese – guidata da Mahmoud Abbas – sotto attenzione particolare a causa del suo coordinamento sulla sicurezza con Israele. L’ANP trasmette ad Israele le registrazioni dell’intelligence e degli interrogatori e vi sono stati casi documentati in cui gli israeliani che li interrogavano hanno detto ai prigionieri palestinesi di aver ricevuto le registrazioni dei loro interrogatori dall’ANP.

C’è la sensazione che non si possa criticare la leadership palestinese perché questo distoglierebbe l’attenzione dall’occupazione israeliana”, ha detto Yara Hawari del gruppo di esperti palestinese al-Shabaka.

Ma noi dobbiamo parlare degli abusi in modo da fornire il quadro completo. L’ANP e Hamas non stanno nel vuoto. Molte delle violazioni dei diritti umani che commettono avvengono sotto gli occhi di Israele e con l’avallo israeliano.”

Questo abuso di potere dimostra che le leadership palestinesi sono assolutamente deboli ed incapaci di guidare il loro popolo”, ha detto Hawari a ‘The Electronic Intifada’.

Ciò è triste. Ma io penso che questo tipo di rapporti sia importante perché dà ai palestinesi l’opportunità di ragionare su che genere di leadership in realtà vogliono e su che cosa, piuttosto che su chi, verrà dopo Abbas.”

Annelies Verbeek è una giornalista belga che vive a Ramallah.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Venerdì di sangue mentre Gaza segna sei mesi di proteste

Maureen Clare Murphy

29 settembre 2018, The Electronic Intifada

Venerdì ha segnato quella che il ministro della Salute di Gaza ha definito come la singola giornata più sanguinosa delle proteste della “Grande Marcia del Ritorno” dal 14 maggio, quando le forze di occupazione israeliane hanno ferito a morte più di 60 palestinesi.

Venerdì sette palestinesi, tra cui due minori, sono stati uccisi, a due giorni dal compimento di sei mesi dall’inizio delle proteste.

I due bambini sono stati identificati come Nasir Azmi Musbah, 11 anni, colpito alla testa a est di Khan Younis, e Muhammad Nayif Yusif al-Hawm, 14 anni, colpito al petto a est di Bureij.

A Bureij, nel centro di Gaza, è stato ucciso anche un adulto, Muhammad Ashraf al-Awawdeh, 25 anni, colpito al petto da un proiettile vero. E nel sud, a Khan Younis, Muhammad Ali Muhammad Inshasi, 18 anni, è stato colpito allo stomaco.

Altri tre sono stati uccisi a est di Gaza City: Iyad Khalil Ahmad al-Shaer, 18 anni, colpito al petto; Muhammad Bassam Muhammad Shakhsa, 24 anni, colpito alla testa; Muhammad Walid Haniyeh, 32 anni, colpito al volto.

Secondo l’associazione per i diritti umani “Al Mezan”, con sede a Gaza, durante le proteste di venerdì più di 250 palestinesi sono rimasti feriti, 163 dei quali da pallottole vere, compresi 20 minori.

Secondo “Al Mezan” tra i feriti ci sono un paramedico e quattro operatori dei media, compreso il giornalista Haneen Mahmoud Suleiman Baroud, 23 anni, colpito direttamente alla testa da un candelotto lacrimogeno.

Un video pubblicato da mezzi di informazione palestinesi mostra i momenti successivi al ferimento di un uomo alla nuca durante le proteste a est di Gaza City venerdì.

L’uomo era insieme a un gruppo che comprendeva anche donne e bambini che sventolavano bandiere nei pressi della barriera lungo il confine tra Gaza e Israele.

Non è risultato subito chiaro se l’uomo ferito fosse tra quanti sono morti in seguito alle ferite riportate.

I media palestinesi hanno anche reso pubblico un video che mostra un’infermeria che si dispera sul corpo di suo fratello Nasir Azmi Misbah, il bambino ucciso, nella sala mortuaria di un ospedale.

Al Mezan” condanna il “persistente silenzio della comunità internazionale” che incoraggia la prosecuzione delle uccisioni “senza nessun timore di conseguenze.”

Dopo la sua morte, le foto dell’undicenne Nasir Azmi Musbah sono state diffuse nelle reti sociali.

150 uccisi durante le proteste

L’uso di forza letale contro manifestanti disarmati di venerdì da parte di Israele è tipico delle sue azioni nel corso della “Grande Marcia del Ritorno”, durante la quale più di 150 palestinesi sono stati uccisi, compresi 28 minori, 3 persone con disabilità, 3 paramedici e 2 giornalisti.

Oltre a quanti sono morti durante le proteste, dal 30 marzo altri 52 palestinesi di Gaza sono stati uccisi dalle forze di occupazione israeliane e Israele sta trattenendo i corpi di 10 di essi.

Il fuoco letale contro manifestazioni di massa a Gaza è oggetto di una continua indagine avviata dal Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, a cui questa settimana è stato detto da gruppi per i diritti umani che non ci sono prove che neppure un solo dimostrante ucciso da Israele durante la “Grande Marcia del Ritorno” fosse armato.

La violenza israeliana ha anche provocato un avvertimento senza precedenti da parte della procura generale della Corte Penale Internazionale, che ha affermato che i dirigenti israeliani potrebbero dover affrontare un processo per l’uccisione di manifestanti disarmati.

La procuratrice, Fatou Bensouda, questa settimana a New York, durante l’Assemblea Generale dell’ONU, si è incontrata con il ministro degli Esteri dell’Autorità Nazionale Palestinese Riyad al-Maliki.

L’economia di Gaza “in caduta libera”

Questa settimana la Banca Mondiale ha affermato che l’economia di Gaza è “in caduta libera” in seguito a più di un decennio di blocco, ad una serie di attacchi militari israeliani e alla divisione interna tra le fazioni palestinesi.

L’economia di Gaza ha subito una contrazione del 6% nel primo trimestre di quest’anno, “con indicazioni di un ulteriore peggioramento da allora.”

Il risultato è una situazione allarmante, con una persona su due che vive in povertà e il tasso di disoccupazione a più del 70% della sua popolazione giovanile, che rappresenta la maggioranza,” ha aggiunto la Banca Mondiale.

La situazione economica e sociale a Gaza è andata peggiorando per oltre un decennio, ma è crollata negli ultimi mesi ed ha raggiunto un punto critico,” ha sostenuto Marina Wes, direttrice [della Banca Mondiale] per la Cisgiordania e Gaza.

Una crescente frustrazione sta alimentando maggiori tensioni che hanno già iniziato a sfociare in rivolta e a riportare indietro lo sviluppo umano della vasta popolazione giovanile della regione.”

L’inviato dell’ONU per il Medio Oriente Nickolay Mladenov la scorsa settimana ha detto al Consiglio di Sicurezza che “la crisi energetica a Gaza sta arrivando a un punto critico” in quanto le ultime riserve di carburante per tenere in funzione la sanità d’urgenza e le strutture idriche e fognarie fornite a Gaza si sono esaurite, con una mancanza di elettricità di circa 20 ore al giorno.

Ha aggiunto che medicine indispensabili “sono ad un livello minimo critico, con circa metà dei farmaci essenziali con scorte di meno di un mese e il 40% totalmente esaurite.”

Nel contempo il commissario generale dell’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, martedì ha detto che l’ente ha fondi sufficienti per tenere aperti scuole e ambulatori solo fino a metà ottobre.

Abbiamo ancora bisogno di circa 185 milioni di dollari per riuscire a garantire che tutti i nostri servizi, il sistema educativo, le cure mediche, i servizi di sostegno e sociali e il nostro lavoro d’emergenza, soprattutto in Siria e a Gaza, possano continuare fino alla fine dell’anno,” ha aggiunto Pierre Krähenbühl.

Due terzi dei due milioni di abitanti di Gaza sono rifugiati da terre dall’altra parte del confine con Israele. Più di metà degli abitanti di Gaza riceve aiuti alimentari dall’UNRWA, il cui bilancio per questi aiuti entro la fine dell’anno sarà esaurito.

Attualmente l’ONU fornisce aiuti alimentari a 1,3 milioni di persone a Gaza, rispetto alle sole 130.000 del 2005.

Lo scorso mese gli USA hanno annunciato che avrebbero smesso di finanziare l’UNRWA dopo aver congelato 300 milioni di dollari in aiuti a gennaio, facendo precipitare l’agenzia in una crisi finanziaria senza precedenti.

Gli USA hanno anche deciso di tagliare di altri 200 milioni di dollari l’aiuto bilaterale per la Cisgiordania e Gaza.

Nel contempo venerdì è stato avviato un procedimento contro gli USA presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia in merito allo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, che l’Autorità Nazionale Palestinese di Ramallah afferma essere una violazione della Convenzione di Vienna [sulle relazioni diplomatiche e consolari, ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Ashrawi condanna “l’uccisione di 6 palestinesi in 24 ore da parte di Israele”

19 settembre 2018, Ma’an News

Ramallah (Ma’an) – Mercoledì l’esponente del Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) Hanan Ashrawi ha duramente condannato “l’uccisione di 6 palestinesi nelle ultime 24 ore da parte di Israele nell’assediata Striscia di Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme est occupata, ” accusando le forze israeliane di aver preso di mira deliberatamente i palestinesi.

In un comunicato Ashrawi ha affermato: “La deliberata uccisione di sei palestinesi da parte delle forze israeliane nelle ultime ventiquattr’ore è un’ulteriore escalation nella brutalità e inumanità dell’occupazione israeliana.”

Muhammad Zaghlul Rimawi, 24 anni, del villaggio di Beit Rima nella Cisgiordania occupata, è stato brutalmente aggredito e ripetutamente colpito nella sua casa, provocandone la morte qualche ora dopo.

Muhammad Youssef Elayyan, 26 anni, del campo di rifugiati di Qalandiya, è stato colpito ed ucciso dalle forze israeliane perché avrebbe tentato di perpetrare un attacco all’arma bianca a Gerusalemme est occupata.

Ahmad Mahmoud Muhsen Omar, 20 anni, e Muhammad Ahmad Abu Naji, 34 anni, sono stati colpiti ed uccisi dalle forze israeliane nella parte settentrionale della Striscia di Gaza assediata mentre partecipavano ad una protesta pacifica per chiedere la fine dell’assedio israeliano di Gaza durato quasi 12 anni.

Naji Jamil Abu Assi, 18 anni, e Alaa Ziad Abu Assi, 21 anni, sono stati presi di mira e uccisi da un attacco aereo israeliano nel sud di Gaza lunedì notte per essersi avvicinati alla barriera di sicurezza sul confine [con Israele].

Ashrawi ha evidenziato che “incoraggiato dal totale sostegno dell’amministrazione USA, Israele ha intensificato il proprio comportamento criminale e la politica di esecuzioni sommarie prendendo di mira vittime palestinesi innocenti con crudeltà e impunità deliberate.”

“La comunità internazionale è invitata a porre fine al disprezzo israeliano per le vite dei palestinesi e ad abbandonare il doppio standard quando si tratta di perdita di vite umane, indipendentemente dalla nazionalità o dalla religione.” Ashrawi ha chiesto alla Corte Penale Internazionale (CPI) dell’Aiya “di prendere iniziative immediate ed aprire un’inchiesta penale ufficiale su tali diffusi e palesi crimini di guerra e contro l’umanità commessi in tutta la Palestina occupata.”

Ha continuato chiedendo alle Alte Parti contraenti della Quarta Convenzione di Ginevra e all’ONU “di aprire un’indagine sulle gravissime violazioni, le illegalità e le azioni provocatorie da parte di Israele e chiamarlo a risponderne con misure punitive e sanzioni.”

“Gli assassinii sono ulteriori prove che i palestinesi hanno urgentemente bisogno di protezione dalla campagna criminale di Israele e da un’occupazione militare durata decenni,” ha aggiunto Ashrawi, che ha concluso: “La vera soluzione rimane la fine dell’occupazione e consentire al popolo palestinese di esercitare il suo diritto all’autodeterminazione in uno Stato libero e sovrano sulla sua terra con Gerusalemme come capitale.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Khan al-Ahmar: decine di arresti e di feriti nelle proteste contro la demolizione

Redazione di MEE

venerdì 14 settembre 2018,  Middle East Eye

Manifestanti palestinesi ed internazionali hanno cercato di evitare che i bulldozer israeliani ammassassero mucchi di terra per bloccare la strada verso il villaggio.

Venerdì l’esercito israeliano ha arrestato decine di manifestanti palestinesi e un attivista franco-statunitense durante una protesta a Khan al-Ahmar, un villaggio nella Cisgiordania occupata che, nonostante l’indignazione internazionale, si prevede che nei prossimi giorni venga demolito.

Frank Romano, con doppia cittadinanza francese e statunitense, sarebbe rimasto ferito prima del suo arresto insieme a molti altri, dopo che i soldati israeliani hanno usato la forza per reprimere la protesta contro la demolizione del villaggio.

Ex-avvocato, Romano è autore di “Love and Terror in the Middle East” [“Amore e terrore in Medio Oriente”, che racconta delle sue attività di pacifista in Israele/Palestina] e, secondo un profilo in rete, attualmente lavora come docente all’università Paris Ouest [Parigi Ovest] Nanterre La Défense.

La protesta è scoppiata dopo le preghiere del venerdì, quando l’esercito israeliano ha tentato di bloccare le vie di accesso a Khan al-Ahmar con mucchi di terra, lasciando libera solo una strada nel villaggio e impedendo agli attivisti di raggiungerlo.

Video e foto circolate sulle reti sociali mostrano dimostranti in piedi davanti a un bulldozer, controllati dall’esercito israeliano, mentre altre ritraggono soldati che picchiano e trascinano manifestanti e abitanti di Khan al-Ahmar e allontanano giornalisti.

Demolire Khan al-Ahmar

Khan al-Ahmar si trova nella parte centrale della Cisgiordania occupata nei pressi della Route 1, che collega Gerusalemme est occupata alla valle del Giordano.

Il villaggio sorge nei pressi della colonia israeliana illegale di Kfar Adumim, e da molto tempo è stato sottoposto a pressioni israeliane che chiedono che la comunità venga espulsa dalla zona.

La scorsa settimana l’Alta Corte di Giustizia [israeliana] ha respinto un ricorso presentato dagli abitanti di Khan al-Ahmar per bloccare la demolizione, creando le premesse per la deportazione della comunità e la distruzione dell’intero villaggio in qualunque momento dopo il 12 settembre.

Questa settimana Saeb Erekat, segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), ha affermato che è stata presentata una denuncia alla Corte Penale Internazionale (CPI) riguardo alla demolizione prevista, invitando il procuratore generale della CPI a incontrare gli abitanti prima dell’espulsione decisa dalla Corte [israeliana].

Ci auguriamo che un’inchiesta giudiziaria ufficiale possa essere aperta al più presto possibile,” ha detto Erekat.

Gli abitanti di Khan al-Ahmar fanno parte della tribù Jahalin, una famiglia allargata beduina espulsa dal deserto del Naqab – noto anche come Negev – durante la guerra arabo-israeliana del 1948. All’epoca i Jahalin si insediarono sul versante orientale di Gerusalemme.

La comunità di Khan al-Ahmar comprende circa 35 famiglie le cui baracche e scuole, per lo più fatte di lamiera ondulata e legno, negli ultimi anni sono state demolite varie volte dall’esercito israeliano.

Israele intende distruggere il villaggio come parte del cosiddetto piano E1, che prevede la costruzione di centinaia di insediamenti abitativi per unire a Gerusalemme est le colonie Kfar Adumim e Maale Adumim nell’area C della Cisgiordania, controllata da Israele.

Se attuato integralmente, secondo chi lo critica il piano E1 dividerebbe di fatto la Cisgiordania in due parti, isolando Gerusalemme est dalle comunità palestinesi in Cisgiordania e obbligando i palestinesi a fare deviazioni ancora più lunghe per viaggiare da un posto all’altro, mentre le colonie illegali sarebbero in grado di espandersi.

In luglio fonti ufficiali israeliane hanno detto che prevedono di ricollocare i 180 residenti di Khan al-Ahmar in una zona a circa 12 km di distanza, nei pressi del villaggio palestinese di Abu Dis.

Ma il nuovo luogo è vicino a una discarica, e i difensori dei diritti umani affermano che una deportazione forzata degli abitanti violerebbe le leggi internazionali riguardanti i territori occupati.

(traduzione di Amedeo Rossi)




‘Punizione collettiva’ e ‘ricatto’: i palestinesi condannano la decisione di Trump di chiudere l’ufficio dell’OLP a Washington

Allison Deger eYumna Patel

10 settembre 2018 Mondoweiss

Oggi l’amministrazione Trump ha ordinato all’ufficio di rappresentanza palestinese di chiudere, ponendo fine a quasi 25 anni di presenza diplomatica della missione dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) a Washington.

La portavoce del Dipartimento di Stato Heather Nauert stamattina ha detto ai giornalisti che la decisione è stata presa dopo che i dirigenti palestinesi hanno rifiutato di “promuovere l’avvio di negoziati diretti e significativi con Israele”, promossi dal primo consigliere della Casa Bianca e genero del presidente, Jared Kushner, e dall’inviato speciale Jason Greenblatt.

Nauert ha detto che i dirigenti palestinesi hanno respinto il piano di Kushner e Greenblatt, un ampio accordo di pace che era circolato nelle scorse settimane ma non era mai stato reso pubblico dopo il rigetto da parte dei dirigenti arabi.

La dirigenza dell’OLP ha condannato un piano di pace USA che non ha ancora visto ed ha rifiutato di impegnarsi con il governo USA relativamente agli sforzi di pace e in altro modo. Stando così le cose, e recependo le preoccupazioni del Congresso, l’Amministrazione ha deciso che l’ufficio dell’OLP a Washington a questo punto dovrà chiudere”, ha proseguito Nauert.

Il Washington Post ha riferito, citando una copia preliminare del suo discorso, che il consigliere di Trump per la sicurezza nazionale John Bolton dovrebbe annunciare la chiusura in un discorso lunedì prossimo, insieme alle intenzioni del governo USA di imporre sanzioni alla Corte Penale Internazionale (CPI) se procederà con le indagini contro gli USA o Israele.

Non collaboreremo con la CPI. Non forniremo assistenza alla CPI. Lasceremo che la CPI muoia per conto suo. Del resto, all’atto pratico, per noi la CPI è già morta”, reciterebbe il testo della bozza.

L’anno scorso gli USA hanno detto che avrebbero chiuso l’ufficio dell’OLP a Washington come misura punitiva dopo che il presidente palestinese Mahmoud Abbas aveva chiesto alla CPI di indagare e perseguire Israele per presunti crimini di guerra.

Trump alla fine ha fatto marcia indietro, limitando le attività dell’ufficio agli “sforzi per raggiungere la pace con Israele.”

Lista dei desideri” di Israele

Dato che la missione dell’OLP a Washington era stata aperta nel 1994 durante i negoziati con Israele in base agli accordi di pace di Oslo per promuovere una soluzione di due Stati, Nauert ha detto che la chiusura di oggi non pregiudica quel percorso.

Gli Stati Uniti continuano a credere che negoziati diretti tra le due parti siano l’unica strada percorribile. Questa azione non deve essere strumentalizzata da coloro che cercano di agire come guastatori per sviare l’attenzione dall’imperativo di raggiungere un accordo di pace”, ha detto.

La reazione di Ramallah è stata dura. L’ambasciatore dell’OLP negli USA, Husam Zomlot, che lo scorso maggio è stato richiamato in Cisgiordania dopo che è stata aperta l’ambasciata USA a Gerusalemme, oggi ha detto in una dichiarazione che l’iniziativa è “ sconsiderata” e si inchina alla “lista dei desideri” di Israele.

Zomlot ha aggiunto che l’amministrazione Trump ha inteso punire i dirigenti palestinesi per aver perseguito un’ inchiesta per crimini di guerra contro Israele presso la Corte Penale Internazionale, dove sono stati inoltrati documenti su presunti crimini di Israele contro l’umanità.

Restiamo fermi nella nostra decisione di non collaborare con questa continua campagna per eliminare i nostri diritti e la nostra causa. I nostri diritti non sono in vendita e fermeremo ogni tentativo di intimidazione e ricatto affinché rinunciamo ai nostri diritti legittimi e condivisi a livello internazionale”, ha detto Zomlot.

Zomlot ha aggiunto che la chiusura dell’ufficio è un affronto al processo di pace ed ha accusato gli Stati Uniti di “minare il sistema internazionale di legittimità e legalità.” Ha promesso di “intensificare” gli sforzi nella comunità internazionale. “Questo ci conferma che siamo sulla strada giusta”, ha detto.

Il governo palestinese ha sospeso ufficialmente i contatti con i dirigenti USA dopo che Trump a dicembre ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, scatenando vaste proteste tra i palestinesi, che considerano Gerusalemme est occupata come la capitale di un futuro Stato palestinese.

L’Autorità Nazionale Palestinese da allora ha boicottato il piano di pace di Trump – il cosiddetto “accordo del secolo” – stilato principalmente da suo genero Jared Kushner, la cui famiglia è collegata al finanziamento delle colonie israeliane illegali.

In una dichiarazione il portavoce dell’ANP Yousef al-Mahmoud ha detto che la chiusura dell’ufficio dell’OLP “è una dichiarazione di guerra agli sforzi di portare pace nel nostro Paese e nella regione”, e incoraggia ulteriormente le violazioni da parte dell’occupazione israeliana contro i diritti umani dei palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate e nella Striscia di Gaza.

Il ministero degli Esteri palestinese ha definito l’iniziativa “parte della guerra aperta condotta dall’amministrazione USA e dalla sua squadra sionista contro il nostro popolo palestinese, la sua causa e i suoi giusti e legittimi diritti.”

È la continuazione della politica USA di dictat e ricatti contro il nostro popolo per costringerlo ad arrendersi”, continua la dichiarazione.

Punizione collettiva”

L’iniziativa giunge al culmine di una serie di colpi inferti dall’amministrazione ai palestinesi. Nel mese scorso gli USA hanno bloccato tutti gli aiuti all’UNRWA, hanno tagliato 200 milioni di dollari di finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese e aiuti per 25 milioni di dollari agli ospedali palestinesi a Gerusalemme est.

Recentemente, dirigenti dell’amministrazione Trump hanno anche messo pubblicamente in questione il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, che è sancito dal diritto internazionale.

I palestinesi hanno già cominciato a sentire gli effetti dei massicci tagli del budget USA, soprattutto a Gaza, dove una crescente crisi umanitaria si è aggravata nei mesi scorsi.

A luglio centinaia di dipendenti dell’UNRWA sono stati licenziati come diretta conseguenza dei tagli dei finanziamenti USA. Il mese scorso migliaia di malati di tumore a Gaza sono stati lasciati in un limbo, quando gli ospedali hanno chiuso i propri dipartimenti di oncologia, a causa di pesanti carenze di farmaci chemioterapici in seguito all’assedio israeliano contro Gaza, in continuo peggioramento.

Questa è un’altra dimostrazione della politica dell’amministrazione Trump di punizione collettiva del popolo palestinese, anche attraverso il taglio agli aiuti finanziari per i servizi umanitari, comprese salute e educazione”, ha dichiarato l’alto dirigente dell’OLP Saeb Erekat.

Questa pericolosa escalation dimostra che gli Stati Uniti intendono smantellare l’ordine internazionale per proteggere i crimini israeliani e gli attacchi contro la terra ed il popolo della Palestina, come anche contro la pace e la sicurezza nel resto della regione”, ha detto Erekat.

Inoltre ha detto: “Ammainare la bandiera della Palestina a Washington significa molto più che un nuovo schiaffo da parte dell’Amministrazione Trump alla pace e alla giustizia; rappresenta l’attacco degli USA al sistema internazionale nel suo complesso, compresi tra gli altri la convenzione di Parigi [che ha istituito l’UNESCO, agenzia dell’ONU, ndtr.], l’UNESCO e il Consiglio [ONU] per i Diritti Umani.”

Allison Deger è vice caporedattore di Mondoweiss.net

Yumna Patel è giornalista multimediale con sede a Betlemme, Palestina.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’ANP, la CPI e Israele

Richard Silverstein

Lunedì 23 luglio 2018 Middle East Eye

La Corte Penale Internazionale sta finalmente avviando le procedure preliminari nella causa dei crimini di guerra israeliani.

La settimana scorsa la Corte Penale Internazionale (CPI) ha comunicato che avrebbe avviato la fase preliminare di una causa per crimini di guerra presentata dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) contro Israele.

Un rapporto informativo israeliano ha definito l’iniziativa “quasi senza precedenti”. E’ stata nominata una giuria di tre giudici per l’istruzione della causa: Peter Kovacs (presidente), Marc Perrin de Brichambaut e Reine Adelaide Sophie Alapini-Gansou.

La causa ne richiama alla memoria un’altra: nell’originaria sentenza della CPI che ha ordinato alla procuratrice capo Fatou Bensouda di riaprire il caso della nave Mavi Marmara, Kovacs è stato l’unico giudice a votare contro la riapertura. La procuratrice ha archiviato il caso definitivamente, reputando che la gravità dell’incidente non fosse sufficiente per portarlo di fronte alla corte.

Il 31 maggio 2010 dieci attivisti turchi a bordo della Mavi Marmara, una nave componente di una flottiglia che cercava di rompere l’assedio di Gaza, sono stati uccisi da commandos della marina israeliana. Questo numero non è stato ritenuto sufficientemente alto per una corte che si occupa di “uccisioni di massa.”

Già respinta?

La sensazione è che per quest’ultima causa, la soluzione ci sia già. Con la nomina di Kovacs, un giudice che ha già stabilito che l’uccisione di 10 cittadini turchi da parte delle forze armate israeliane non debba essere indagata, la corte potrebbe aver già rigettato la causa dell’ANP.

Benché l’attuale causa sia stata presentata inizialmente nel 2015, molti osservatori ritengono che il massacro degli ultimi due mesi da parte delle forze israeliane a Gaza abbia spinto la CPI verso un atteggiamento più attivo. La tempistica della CPI nell’annunciare il processo preliminare rivela che l’ANP ha depositato una denuncia alla fine di maggio, chiedendo alla Corte di esaminare le attuali violazioni israeliane del diritto internazionale.

Sembra evidente che la ‘Grande Marcia del Ritorno’ e la risposta vendicativa di Israele – con l’uccisione di 130 palestinesi a Gaza, quasi tutti civili disarmati – sia ciò che ha spinto la Corte Internazionale ad agire.

Nei giorni scorsi i cecchini israeliani hanno ucciso un ragazzino che cercava di scavalcare la barriera installata da Israele. Israele sostiene di dover difendere la sua sovranità territoriale, ma non è chiaro come un ragazzino disarmato metta qualcuno in pericolo, tanto meno la sovranità israeliana. Non riconosce Hamas ed ha rifiutato di definire il proprio confine con la Palestina, inclusa Gaza.

Perché venga riconosciuta e rispettata la sovranità di una Nazione, essa deve negoziare i confini con i suoi vicini. Israele ha ripetutamente rifiutato di farlo, non solo con la Palestina, ma anche con il Libano e la Siria. Nessuno Stato riconosce l’occupazione di Israele della Cisgiordania, di Gaza o delle Alture del Golan. Quindi, non può essere negoziato nessun confine internazionale e la sovranità di Israele non può essere garantita.

Attacco brutale

Dopo la morte del ragazzino Hamas ha lanciato decine di razzi su Israele, ferendo parecchi israeliani, e Israele ha inviato gli F16 di costruzione americana a bombardare Gaza. Israele lo ha descritto come il più brutale attacco sull’enclave dall’ultima vasta invasione, nel 2014.

Due ragazzi che giocavano in un parco pubblico sono stati uccisi dopo che un aereo da guerra ha sganciato una bomba su un vicino grattacielo. L’esercito israeliano ha sostenuto di avere avvertito i civili dell’attacco, come per assolversi da ogni responsabilità, ma non ha fornito prove di questo, anche dopo una richiesta in merito.

E’ strano che pochi mezzi di informazione – come questo israeliano – abbiano riferito dell’importante sviluppo legale che coinvolge la CPI. Il rapporto israeliano ha affermato che se venisse aperta un’inchiesta formale, si tratterebbe di “un passo drammatico che avrebbe conseguenze sullo status di Israele nella comunità internazionale.”

Il comunicato della Corte, di 11 pagine, invita ad informare la popolazione palestinese circa la CPI ed il ruolo che è destinata a giocare nel giudicare il caso, indirizzando il proprio staff a impostare “un sistema di informazione pubblica e attività di sensibilizzazione a beneficio delle vittime e delle comunità palestinesi colpite nella situazione della Palestina e riferire all’Aula, conformemente ai principi stabiliti nella presente decisione.”

Secondo il rapporto informativo israeliano, esso inoltre invita le vittime palestinesi a presentarsi e fornire testimonianza sulle loro sofferenze.

Ostacolo iniziale

Questo è un giorno che Israele ha paventato per anni. Questo è un giorno che ha cercato di evitare come la peste. Ha fatto di tutto per cooptare la CPI.

Il predecessore di Bensouda nel ruolo di procuratore capo, Luis Ocampo, si è venduto al miglior offerente. Ha anche detto che la Corte Suprema israeliana potrebbe legalizzare le colonie ed ha pubblicamente respinto la causa palestinese. La stessa Bensouda ha rifiutato di portare avanti questa causa, ma è stata costretta a farlo dalla giuria sopra menzionata.

Questa notizia non significa che la CPI stia realmente avviando una causa formale contro Israele. Si tratta di una fase processuale preliminare; il caso ha incontrato un iniziale ostacolo sulla strada dell’azione penale formale.

Ma se Israele continua a perseguire i propri interessi con metodi di massacro di massa, come ha fatto per anni, allora il caso potrà superare con successo ogni ostacolo che si troverà di fronte.

Richard Silverstein scrive sul blog Tikun Olam, che si occupa di rivelare gli eccessi dello stato di sicurezza nazionale israeliano. I suoi lavori sono stati pubblicati su Haaretz, the Forward, the Seattle Times e the Los Angeles Times. Ha contribuito alla raccolta di saggi dedicata alla guerra del Libano del 2006, ‘E’ tempo di parlare’ (Verso), e ha scritto un altro saggio nella raccolta ‘Israele e Palestina: prospettive alternative sullo Stato’ (Rowman &Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)