Khan al-Ahmar: peggio di un crimine di guerra

Nota redazionale: pubblichiamo solo ora questo articolo del 9 luglio 2018 relativo alla minaccia di demolizione del villaggio di Khan al-Ahmar. All’epoca la distruzione e la deportazione degli abitanti vennero bloccate da un ricorso all’Alta corte israeliana. Lo abbiamo tradotto ora, dopo che la corte ha deciso di dare il via libera alla demolizione, in quanto riteniamo che i punti affrontati nell’articolo siano molto utili per capire le ragioni di questo accanimento e perché l’UE si sia finora mobilitata in difesa del villaggio.

 

La demolizione di Khan al-Ahmar è più di un semplice crimine di guerra

Mentre l’imminente distruzione di Khan al-Ahmar è un gravissimo problema umanitario e molto probabilmente un crimine di guerra, molti hanno trascurato l’importanza strategica di questo piccolo villaggio per il futuro del conflitto israelo-palestinese

+972

 Edo Konrad – 9 luglio 2018

 

Gli abitanti di Khan al-Ahmar hanno passato le ultime settimane in attesa dell’arrivo dei bulldozer israeliani per demolire completamente il loro villaggio e deportare tutte le 170 persone che vi abitano, un’iniziativa che secondo organizzazioni dei diritti umani e qualche governo europeo rappresenterebbe un crimine di guerra.

Ma mentre la situazione umanitaria e la legalità della demolizione e della deportazione rappresentano un grave problema, la maggior parte delle informazioni mediatiche e dell’attivismo relativo a Khan al-Ahmar ha trascurato l’importanza strategica di questo piccolo villaggio.

Khan al-Ahmar si trova nella E1, nome di un’area di 12 km2  situata tra Gerusalemme e la colonia di Ma’ale Adumim, in Cisgiordania. Per decenni Israele ha sperato di costruire delle colonie in quell’area per collegare le due città. Così facendo dividerebbe in due la Cisgiordania, portando a quello che nel corso degli anni è stato descritto come il colpo di grazia alla soluzione dei due Stati.

In una dichiarazione pubblicata alla fine della scorsa settimana, la missione locale dell’Unione Europea ha condannato duramente i progetti israeliani di demolire Khan al-Ahmar, insieme alla progettata costruzione di una colonia nella E1, affermando che “aggravano le minacce per la praticabilità della soluzione dei due Stati e danneggiano ulteriormente le prospettive di una pace definitiva.”

“Questo è un campanello d’allarme per i membri più importanti dell’Unione Europea,” ha spiegato Daniel Seidemann, avvocato e attivista che dirige l’Ong israeliana “Gerusalemme terrestre”, e che ha passato gli ultimi 20 anni a monitorare come il cambiamento del paesaggio della città stia rendendo sempre più difficile una soluzione politica. “Se dovesse distruggere il villaggio nonostante l’impegno europeo, probabilmente Israele ne patirà le conseguenze.”

+972 ha parlato lunedì [9 luglio 2018, ndtr.] con Seidemann del perché Netanyahu voglia correre un tale rischio per un piccolo villaggio, delle implicazioni geopolitiche della E1 e di come probabilmente l’amministrazione Trump gestirà la crisi.

 

Nelle scorse settimane Khan al-Ahmar è stato la centro dell’attenzione mondiale. Perché il governo israeliano è così deciso a deportare una comunità talmente piccola?

“È una domanda da un milione di dollari. Khan al-Ahmar recentemente è finito sulle prime pagine dei giornali, ma è rimasto latente e oggetto di grande attenzione per molti anni, a tal punto che se svegli capi di Stato europei alle 3 del mattino e gli chiedi cos’è Khan al-Ahmar, sono in grado di risponderti. Quello che questi capi di Stato hanno continuato a dire ai dirigenti israeliani è che deportare con la forza la popolazione civile sotto occupazione è un crimine di guerra. Non lo avete ancora fatto, quindi non fatelo. Non vi possiamo difendere se lo fate, quindi lasciate stare.”

“La domanda è perché Israele voglia esporsi in questo modo. La scorsa settimana 12 consoli generali sono stati nel villaggio. Perché rischiare così tanto per un piccolo accampamento? È chiaro che si tratta di un’ossessione partita dai più alti livelli in Israele. Che viene da Netanyahu. [La minaccia di distruzione di] Khan al-Ahmar non avrebbe potuto avvenire senza il consenso e l’appoggio del primo ministro.”

 

Khan al-Ahmar si trova nell’area estremamente delicata nota come E1, tra Gerusalemme e la colonia di Ma’ale Adumim. Perché è così importante?

“Per quanto disperata e notevolmente problematica sia la situazione di Khan al-Ahmar, non avrebbe ricevuto l’attenzione che ha sollevato se non fosse nella E1, la zona che determinerà se potrà esistere o meno uno Stato palestinese sostenibile e con continuità territoriale. Khan al-Ahmar è diventato il problema umanitario del giorno. L’E1 è diventata il problema geopolitco degli ultimi 23 anni.

“Considera che Gerusalemme è al centro, e immediatamente a est di Gerusalemme, in Cisgiordania, a metà strada dal Mar Morto, c’è Ma’ale Adumim, la terza più grande colonia in Cisgiordania con circa 40.000 abitanti. Fin da metà degli anni ’90, quando Netanyahu è andato per la prima volta al potere, è stata intenzione del governo israeliano costruire un enorme collegamento verso Ma’ale Adumim con decine di migliaia di unità abitative. L’E1 è il settore tra Gerusalemme e Ma’ale Adumim.

 

In un documento del 2012 la sua organizzazione ha affermato che l’E1, “se edificata, è un punto di svolta, forse il punto finale” per la soluzione dei due Stati. Ce lo può spiegare?

“Fin dal momento in cui Ma’ale Adumim è stata fondata, è stata vista come una colonia da giorno del giudizio, in quanto può distruggere la sostenibilità della soluzione dei due Stati, perché smembrerebbe, frammenterebbe e spezzerebbe qualunque possibile Stato palestinese, e dividerebbe la Cisgiordania in un cantone settentrionale di Ramallah e uno meridionale di Betlemme ed Hebron.

“C’è una ragione per cui ogni amministrazione prima di Trump si è opposta a edificare lì. Quando Ariel Sharon iniziò la costruzione nel 2004, il presidente Bush e la segretaria di Stato Condoleeza Rice lo bloccarono dopo un grave conflitto all’interno della Casa Bianca sulla scelta di intervenire.”

 

Qualche anno fa Netanyahu tentò di costruirvi ma si piegò alle pressioni internazionali. Ora che c’è Trump alla Casa Bianca il governo sta preparando il terreno per l’operazione?

“Netanyahu ha proceduto nella E1 dal 30 novembre 2012 come rappresaglia per l’accettazione della Palestina come Stato osservatore non-membro all’Assemblea Generale dell’ONU. Le pressioni internazionali sono riuscite a bloccare le costruzioni, e da allora non è andata avanti. Ora credo che ci siano pressioni da parte del suo governo per procedere nella E1, e quello a cui stiamo assistendo è che Netanyahu sta facendo di tutto tranne andare avanti. Invece stiamo vedendo ogni possibile fase preliminare.

“Dal punto di vista di Israele la E1 è un’importante terreno edificabile. Per i palestinesi è un terreno edificabile devastante. Ma a prescindere, è il terreno più conteso della Cisgiordania, soprattutto perché riguarda i confini di un futuro status permanente. Così quando gli americani sono intervenuti non hanno detto ‘Questo non è Palestina, giù le mani.’ Hanno detto: ‘Volete la E1? Bene. È una questione che riguarda lo status permanente, negoziatelo e non imponete il risultato finale.’”

“La gente di Khan al-Ahmar è finita nel mirino di Netanyahu in quanto si trova in un’area su cui c’è una disputa titanica. E’ anche la più evidente esemplificazione di un crimine di guerra, e c’è anche una popolazione particolarmente vulnerabile. Per cui prendi le implicazioni geopolitiche della E1 e le crude implicazioni umanitarie di Khan al-Ahmar, le metti insieme e hai la miscela perfetta per il BDS [movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, ndtr.].”

 

L’attuale iniziativa è il risultato della completa mancanza di impegno di Trump in merito? Cos’altro ci si può aspettare come conseguenza?

“Personalmente ho sentito dire due cose da membri di alto livello del governo. Un’opinione è che la E1 non preoccupa i palestinesi, possono aggirarla. La seconda è che Trump non ha cambiato la politica USA sulla E1.”

“Riguardo a Khan al-Ahmar è impossibile sapere se la demolizione avrà luogo o no. Quello che posso dirti è il presentimento che in un modo o nell’altro Khan al-Ahmar stia per diventare un punto di svolta. Se la demolizione viene bloccata, è chiaro che l’unica ragione sarà il serio, conseguente, articolato impegno internazionale da parte delle principali capitali europee. Questa è una lezione che sarà presa in considerazione sia a Gerusalemme che in Europa. Per quanto possa essere un personaggio problematico, Netanyahu può essere affrontato e può essere dissuaso.

Il secondo scenario è che vada comunque avanti con la demolizione, nel cui caso il messaggio sarà forte e chiaro: ‘Chi ha bisogno di Londra, Parigi, Berlino e Bruxelles quando abbiamo Varsavia e Budapest?’”

 

Perché è diverso da Susya, per esempio, il villaggio che è riuscito a evitare un’imminente demolizione con il sostegno della comunità internazionale?

“Penso che Susya fosse una prova generale per Khan al-Ahmar. Ma annettere Susya, cosa che in ogni caso non auspico, non avrebbe impedito la praticabilità di uno Stato palestinese. Con Khan al-Ahmar c’è l’alchimia di avere un problema umanitario molto grave, che ti obbliga a vedere le cose in bianco e nero, strettamente connesso al dramma geopolitico della E1, che sta chiaramente diventando uno dei problemi più controversi di qualunque futuro negoziato. Unire la questione geopolitica a quella umanitaria all’apice della loro gravità è un’atto da esplosione nucleare.”

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Alta Corte israeliana autorizza crimine di guerra

I giudici israeliani danno l’approvazione definitiva a un crimine di guerra a Khan al-Ahmar

The Electronic Intifada

Tamara Nassar – 5 settembre 2018

 

 

L’Alta Corte israeliana ha dato l’approvazione definitiva alla deportazione della comunità palestinese di Khan al-Ahmar, nella Cisgiordania occupata.

Il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem afferma che la decisione renderà i giudici complici di un crimine di guerra se la demolizione – che dovrebbe avvenire a giorni – avrà luogo.

Inizialmente la corte a maggio aveva approvato la demolizione dell’intero villaggio, ma l’azione era stata temporaneamente sospesa a luglio, dopo che gli avvocati dei circa 200 abitanti di Khan al-Ahmar avevano presentato due ricorsi all’Alta Corte.

I giudici hanno accettato uno dei ricorsi ed hanno tenuto un’udienza in agosto.

Mercoledì l’Alta Corte l’ha respinto, ha revocato la sospensione provvisoria e ha dato alle autorità israeliane il via libera per espellere gli abitanti entro una settimana.

Il giornale israeliano “Haaretz” [di centro sinistra, ndtr.] ha affermato che i giudici “hanno detto che il principale problema di questo caso non era se si dovesse portare a termine l’espulsione, ma dove sarebbero stati risistemati gli abitanti.”

Israele vuole deportare a forza gli abitanti di Khan al-Ahmar in una zona nei pressi di una discarica nota come al-Jabal ovest.

Uno dei giudici ha respinto la richiesta degli abitanti di sospendere l’evacuazione finché non avranno trovato un luogo alternativo per andare a vivere ed ha criticato il loro rifiuto di vivere nei pressi della discarica.

Molto prima della decisione della corte di mercoledì Israele ha iniziato i preparativi per la demolizione del villaggio.

 

Non c’è giustizia nei tribunali israeliani

Nella loro sentenza, i giudici dell’Alta Corte israeliana “hanno descritto un mondo immaginario con un sistema di pianificazione uguale per tutti che prende in considerazione le necessità dei palestinesi, come se non ci fosse mai stata un’occupazione,” ha detto mercoledì B’Tselem.

“La realtà è diametralmente opposta a questa fantasia: i palestinesi non possono costruire legalmente e sono esclusi dai meccanismi decisionali che determinano come saranno le loro vite,” ha aggiunto l’associazione. “I sistemi di pianificazione sono esclusivamente destinati a beneficiare i coloni.”

“Questa sentenza mostra ancora una volta che chi è sotto occupazione non può chiedere giustizia nei tribunali dell’occupante,” ha affermato B’Tselem.

 

I dirigenti israeliani festeggiano un crimine di guerra

I dirigenti israeliani hanno lodato i giudici per aver approvato la deportazione della comunità, che in base alle leggi internazionali è un crimine di guerra.

Secondo le leggi che governano un’occupazione militare, un occupante può spostare persone in caso di necessità militari. Ma Israele vuole espellere gli abitanti di Khan al-Ahmar dalla zona est di Gerusalemme, dove è impegnato in un’intensa colonizzazione – anche questa in violazione delle leggi internazionali.

Yuli Edelstein, il presidente del parlamento israeliano e membro del partito di governo Likud, si è vantato su twitter che “la pressione” da parte dell’Unione Europea non sia riuscita a bloccare la decisione della corte.

“In Israele c’è una legge e chiunque è uguale di fronte ad essa,” ha affermato Edelstein – l’esatto contrario della realtà.

Diplomatici europei hanno fatto visita a Khan al-Ahmar nello scorso anno per mostrare il proprio sostegno alla comunità, ma, a parte un tale atto simbolico, l’Unione Europea – che fornisce ad Israele notevoli somme in aiuti e commercio – non ha preso nessuna iniziativa per chiedere conto ad Israele.

Allo stesso modo l’UE non ha fatto niente quando Israele ha demolito o confiscato scuole o altri edifici per i palestinesi che essa o suoi Stati membri hanno finanziato.

Pare che diplomatici europei abbiano detto a media israeliani che continuare con la demolizione di Khan al-Ahmar “innescherebbe una reazione da parte di Stati membri dell’UE.”

Ma, visto il lungo elenco di mancate reazioni dell’UE, simili avvertimenti dovrebbero essere presi con una notevole dose di scetticismo.

Anche il ministro della Difesa Avigdor Lieberman si è rallegrato per la decisione della corte, twittando che “Khan al-Ahmar sarà evacuato.”

Ha lodato i giudici per “una decisione coraggiosa e necessaria di fronte ad una campagna ipocrita orchestrata da Abu Mazen (il capo dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas), dalla sinistra e dai Paesi europei.”

Fino a mercoledì sera i portavoce dell’UE non avevano ancora rilasciato una reazione alla decisione della corte.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Proteste contro la demolizione di Khan al-Ahmar

Le proteste travolgono Khan al-Ahmar mentre le forze israeliane si preparano alla demolizione

Macchinari pesanti circondano il villaggio beduino in vista della sua distruzione, che secondo chi la critica rappresenterà un crimine di guerra

Middle East Eye

 

MEE and agencies

Mercoledì 4 luglio 2018

Mercoledì palestinesi hanno protestato all’interno e attorno a Khan al-Ahmar mentre le forze israeliane hanno iniziato i preparativi per distruggere il villaggio beduino nella Cisgiordania occupata, nonostante le richieste internazionali di non proseguire nel progetto.

Abitanti e attivisti sono saliti sui bulldozer e hanno sventolato bandiere palestinesi nel tentativo di impedire che la demolizione abbia luogo.

La delegata del comitato esecutivo dell’OLP Hanan Ashrawi ha condannato gli imminenti progetti da parte dell’esercito israeliano di radere al suolo Khan al-Ahmar e ha sollecitato la comunità internazionale ad agire.

“La protezione delle famiglie palestinesi e il trasferimento forzato della nostra popolazione autoctona nelle condizioni di persone senza casa e disperate è assolutamente inaccettabile,” ha detto Ashrawi.

“Chiediamo al governo israeliano di annullare immediatamente i suoi illegali progetti di demolizione della comunità palestinese di Khan al-Ahmar.”

“Il fatto che Israele voglia distruggere un intero villaggio in cui gli abitanti hanno vissuto per 50 anni con l’unico scopo di espandere la colonia illegale cisgiordana di Kfar Adumim è vergognoso e inumano.”

La Mezzaluna rossa palestinese ha informato di 35 persone ferite, di cui 4 ricoverate in ospedale.

Il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem ha affermato che 9 persone sono state arrestate – 5 del villaggio e altre 4, compreso il responsabile delle ricerche sul campo del gruppo.

La polizia ha informato di due arresti e ha detto che sono state lanciate pietre contro i funzionari.

L’incidente è avvenuto dopo che gli attivisti hanno affermato che martedì l’esercito israeliano ha emesso un mandato ai 173 abitanti di Khan al-Ahmar in cui si autorizzava l’esercito stesso a impadronirsi delle strade di accesso al villaggio.

Mercoledì nella zona sono stati visti macchinari pesanti, che hanno suggerito l’ipotesi che si stesse preparando una strada per agevolare l’evacuazione del villaggio e la sua demolizione.

Immagini hanno mostrato bulldozer e macchinari edili pesanti di proprietà di CAT, JCB e dell’impresa cinese Liugong parcheggiati fuori dal villaggio.

Fino al momento della stesura di questo articolo le imprese non hanno risposto alle richieste di commento.

“Oggi stanno procedendo con un lavoro infrastrutturale per agevolare la demolizione e il trasferimento forzato degli abitanti,”, ha detto all’AFP Amit Gilutz, portavoce di B’Tselem.

Le autorità israeliane dicono che il villaggio e la sua scuola sono stati costruiti illegalmente, e in maggio la Corte Suprema ha respinto un ultimo appello contro la demolizione.

Ma gli attivisti sostengono che gli abitanti hanno poche alternative se non costruire senza licenza edilizia israeliana, dato che questo documento non viene quasi mai concesso ai palestinesi perché costruiscano in aree della Cisgiordania in cui Israele ha il totale controllo sulle questioni civili.

Le autorità israeliane dicono di aver offerto agli abitanti un luogo alternativo, ma i residenti di Khan al-Ahmar rilevano che si trova nei pressi di una discarica.

I palestinesi di Khan al-Ahmar hanno giurato di non lasciare mai la propria terra.

“Abbiamo vissuto qui dal 1951. Mio nonno, mio padre ed io,” ha detto a Middle East Eye Faisal Abu Dawoud, un abitante di 43 anni. “È impossibile per noi lasciare questo posto. Anche se ci arrestano tutti e ci buttano fuori, torneremo.”

Khan al-Ahmar  è stato per lo più edificato con lamiere precarie e strutture di legno, come avviene tradizionalmente nei villaggi beduini.

Il sottosegretario inglese per il Medio Oriente, Alistair Burt, in maggio l’ha visitato e ha chiesto al governo israeliano di dare prova di moderazione.

Ha messo in guardia che ogni trasferimento forzato “potrebbe configurarsi come  trasferimento forzato di persone di competenza delle Nazioni Unite.”

Un simile atto sarebbe considerato una violazione della Convenzione di Ginevra, e quindi un crimine di guerra.

Anche la Francia ha bocciato i progetti israeliani per la comunità palestinese.

“I villaggi si trovano anche in una zona che è essenziale per la continuità territoriale di un futuro Stato palestinese e quindi per la realizzazione di una soluzione dei due Stati, che oggi viene minacciata dalla decisione delle autorità israeliane,” ha detto in un comunicato la portavoce del ministero degli Esteri francese, Agnes Von Der Muhll.

Khan al-Ahmar si trova ad est di Gerusalemme, nei pressi di parecchi grandi blocchi di colonie israeliane e vicino all’autostrada per il Mar Morto.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Comunicato di Amnesty International per l’embargo delle armi dirette a Israele

27 aprile 2018, Amnesty International

Sulla base delle sue recenti ricerche, Amnesty International ha concluso che nel corso delle proteste della “Grande marcia del ritorno”, a Gaza l’esercito israeliano ha ucciso e ferito manifestanti palestinesi che non costituivano alcuna minaccia imminente.

Nel corso delle proteste dei venerdì, iniziate il 30 marzo, i soldati israeliani hanno ucciso 35 palestinesi e ne hanno feriti oltre 5500, in alcuni casi arrecando intenzionalmente danni potenzialmente letali.

Pertanto, Amnesty International ha rinnovato la sua richiesta ai governi affinché, dopo la sproporzionata risposta alle manifestazioni nei pressi della barriera che lo separa dalla Striscia di Gaza, sia imposto un embargo sulle armi dirette a Israele.

Da quattro settimane il mondo assiste con orrore agli attacchi dei cecchini e di altri soldati, perfettamente protetti, che da dietro la barriera colpiscono i manifestanti palestinesi con proiettili veri e gas lacrimogeni. Nonostante le ampie condanne internazionali, l’esercito israeliano non ha ritirato l’ordine illegale di sparare contro manifestanti disarmati”, ha dichiarato Magdalena Mughrabi, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.

Il tempo delle simboliche dichiarazioni di condanna è finito. La comunità internazionale deve agire concretamente e fermare l’afflusso di armi e di equipaggiamento militare a Israele. Non farlo significherà continuare ad alimentare gravi violazioni dei diritti umani contro uomini, donne e bambini che già vivono nella sofferenza a causa del crudele blocco imposto da Israele contro Gaza. Queste persone stanno semplicemente protestando contro la loro insopportabile condizione di vita e chiedono il diritto di tornare nelle loro case e nei loro villaggi in quello che oggi è Israele”, ha aggiunto Mughrabi.

Gli Usa sono il principale fornitore di materiale e tecnologia militare a Israele e hanno assunto l’impegno di fornire, nei prossimi 10 anni, aiuti militari per un valore di 38 miliardi di dollari. Ma anche altri paesi – tra cui Francia, Germania, Italia e Regno Unito – hanno autorizzato grandi quantità di forniture.

Manifestanti colpiti alle spalle

Nella maggior parte dei casi analizzati da Amnesty International, i manifestanti uccisi sono stati colpiti sulla parte superiore del corpo, come la testa e il petto, in alcuni casi mentre davano le spalle ai soldati israeliani. Testimonianze oculari, riprese video e immagini fotografiche lasciano intendere che molti di loro sono stati uccisi o feriti in modo intenzionale mentre non ponevano alcuna minaccia.

Mohammad Khalil Obeid, un calciatore di 23 anni, è stato colpito a entrambe le ginocchia il 30 maggio nei pressi del campo di al-Breij. In quel frangente, stava riprendendo sé stesso dando le spalle alla barriera. Il video, pubblicato sui social media, mostra che nel momento in cui è stato colpito si trovava in una zona isolata, lontano dalla barriera, e non sembrava rappresentare alcuna minaccia alla vita dei soldati israeliani.

Ferite mai viste dai tempi del conflitto del 2014

I medici dell’ospedale europeo e di quello di Shifa, nella città di Gaza, hanno dichiarato ad Amnesty International che molte delle gravi ferite che hanno curato erano agli arti inferiori, come le ginocchia, di un genere mai visto dal conflitto di Gaza del 2014.

Molti feriti hanno riportato gravi danni alle ossa e ai tessuti, così come ferite da fori di uscita tra i 10 e i 15 millimetri e rischiano di subire ulteriori complicazioni, infezioni, paralisi o amputazioni. Il gran numero di ferite alle ginocchia, che aumentano la probabilità di frammentazione del proiettile, sono particolarmente preoccupanti e lascerebbero intendere che l’esercito israeliano possa intenzionalmente infliggere ferite mortali.

Secondo esperti militari e medici legali che hanno esaminato le immagini delle ferite, molte sono compatibili con quelle causate dai fucili d’assalto Tavor, di fabbricazione israeliana, dotati di munizioni di 5,56 milllimetri. Altre chiamano in causa i fucili M24, prodotti dalla statunitense Remington, dotati di munizioni da caccia di 7,62 millimetri, che si ingrandiscono ed espandono all’interno del corpo.

Secondo Medici senza frontiere, la metà degli oltre 500 pazienti trattati nei suoi centri presentavano ferite “in cui il proiettile ha letteralmente distrutto i tessuti dopo aver polverizzato l’osso”.

La natura di queste ferite illustra come i soldati israeliani stiano usando armi militari ad alta velocità per causare il massimo danno a manifestanti palestinesi che non pongono un’imminente minaccia nei loro confronti. Questo apparentemente voluto tentativo di uccidere e ferire è profondamente preoccupante, oltre che del tutto illegale. In alcuni casi sembra essersi trattato di uccisioni deliberate, una grave violazione delle Convenzioni di Ginevra e un crimine di guerra”, ha commentato Mughrabi.

Se Israele non assicurerà indagini efficaci e indipendenti che diano luogo a processi nei confronti dei responsabili, il Tribunale penale internazionale dovrà aprire un’indagine su tali uccisioni e gravi ferimenti in quanto possibili crimini di guerra e garantire che i responsabili saranno portati di fronte alla giustizia”, ha sottolineato Mughrabi.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza, alla data del 26 aprile il totale dei feriti era stimato a 5511 (592 bambini, 192 donne e 4727 uomini), 1738 dei quali colpiti da proiettili veri. Circa la metà delle persone ricoverate presentava ferite alle gambe e alle ginocchia, 225 al collo e alla testa, 142 all’addome e al bacino, 115 al petto e alla schiena. Finora, sono state necessarie 18 amputazioni.

Tra le persone morte a seguito delle ferite vi sono quattro minorenni tra i 14 e i 17 anni e due giornalisti, che indossavano giubbotti protettivi che li identificavano con chiarezza come tali. Molti altri sono stati feriti.

Gli ospedali di Gaza stanno gestendo con difficoltà l’elevato numero di feriti a causa della scarsità di forniture mediche, energia elettrica e gasolio causata dal blocco israeliano e dalle divisioni politiche palestinesi. Nel frattempo, Israele ha ritardato o rifiutato il trasferimento di alcuni pazienti bisognosi di cure specialistiche d’urgenza disponibili in altre parti dei Territori, a causa della loro partecipazione alle proteste.

Yousef al-Kronz, un giornalista di 20 anni, ha subito l’amputazione della gamba sinistra dopo che le autorità israeliane gli avevano negato il permesso di ricevere cure mediche urgenti a Ramallah. A seguito di un’azione legale di gruppi per i diritti umani, ha potuto poi lasciare Gaza e operarsi per evitare l’amputazione dell’altra gamba.

Personale paramedico in servizio a Gaza ha riferito ad Amnesty International delle difficoltà di evacuare i manifestanti feriti a causa dei gas lacrimogeni esplosi contro di loro e nei pressi degli ospedali da campo.

Uccisioni e ferimenti potenzialmente letali illegali

Nonostante gli organizzatori della “Grande marcia del ritorno” avessero ripetutamente dichiarato che le proteste sarebbero state pacifiche si sarebbero svolte mediante sit-in, concerti, competizioni sportive, discorsi e altre attività pacifiche, l’esercito israeliano ha rafforzato il suo schieramento alla barriera collocandovi carri armati e altri veicoli militari, soldati e cecchini e ha dato ordine di sparare a chiunque si trovasse nel raggio di diverse centinaia di metri di distanza dalla barriera stessa.

Sebbene alcuni manifestanti abbiano cercato di avvicinarsi alla barriera, abbiano lanciato pietre in direzione dei soldati e dato fuoco a pneumatici, le informazioni raccolte da Amnesty International e dai gruppi per i diritti umani israeliani e palestinesi mostrano che i soldati israeliani hanno colpito manifestanti privi di armi, giornalisti, personale medico e altre persone che erano distanti dalla barriera da 150 a 400 metri e che non ponevano in essere alcuna minaccia.

In una richiesta alla Corte suprema di ordinare la fine dell’uso dei proiettili veri per disperdere le proteste, le associazioni per i diritti umani Adalah e Al Mezan hanno presentato 12 video pubblicati sui social media in cui persone prive di armi, tra cui donne e bambini – in alcuni casi, mentre sventolavano bandiere palestinesi o scappavano dalle vicinanze della barriera – sono stati colpiti dai soldati israeliani.




Ufficiale israeliano in carcere per nove mesi per aver ucciso un adolescente palestinese

Chloé Benoist

mercoledì 25 aprile 2018,Middle East Eye

La famiglia di Nadim Nuwara dice che ricorrerà in appello contro Ben Deri, che ha sparato alla schiena al figlio di 17 anni durante la marcia del 2014 per commemorare la Nakba.

Un poliziotto di frontiera israeliano sarebbe stato condannato a nove mesi di prigione e multato con il corrispettivo di 13.955 dollari per aver ucciso nel 2014 il ragazzo palestinese Nadim Nuwara durante una manifestazione in commemorazione della Nakba.

Il giornale israeliano Haaretz ha riportato che mercoledì un giudice della corte distrettuale di Gerusalemme ha condannato Ben Deri, riscontrando un “significativo livello di negligenza” e ne ha chiesto l’incarcerazione, pur specificando che Deri è “un eccellente ufficiale di polizia rispettoso degli ordini.”

Siyam Nuwara, padre di Nadim, ha detto a Middle East Eye che la famiglia stava pensando di presentare appello contro il verdetto e ha chiesto alla comunità internazionale di intervenire sul caso.

Non c’è giustizia in Israele,” ha detto. “Abbiamo raccolto tutte le prove, ma non c’è giustizia.”

Nuwara aveva 17 anni quando venne colpito alla schiena fuori dalla prigione di Ofer, l’unica prigione israeliana situata all’interno della Cisgiordania occupata, durante una protesta per ricordare il 66° anniversario della Nakba, l’espulsione di 750.000 palestinesi durante la creazione di Israele.

Telecamere di sicurezza e troupe televisive ripresero il momento in cui Nadim fu ucciso.

Quel giorno anche un altro giovane palestinese, Mohammed Odeh Abu al-Thahir, venne colpito ed ucciso, tuttavia le autorità israeliane non hanno aperto nessuna inchiesta giudiziaria sulla sua morte.

Alcuni gruppi per i diritti umani, compreso Human Rights Watch, hanno affermato che il ragazzo non costituiva una minaccia imminente quando è stato ucciso, e HRW ha definito il caso “un evidente crimine di guerra”.

Inizialmente le forze israeliane negarono che quel giorno fossero stati sparati proiettili veri, mentre alcune fonti ufficiali israeliane, tra cui l’allora ambasciatore negli Stati Uniti, Michael Oren, sostennero che le morti di Nuwara e al-Thahir erano una messa in scena.

L’esame autoptico dimostrò che Nuwara era stato colpito al torace. Deri venne arrestato sei mesi dopo e in un primo tempo accusato di omicidio.

La difesa di Deri si è imperniata sulla versione secondo cui un proiettile vero era caduto “accidentalmente” nel caricatore dell’arma dell’ufficiale, mentre lo stava caricando con pallottole di acciaio ricoperto di gomma.

All’inizio del 2017 Deri ha accettato un patteggiamento che ha derubricato l’imputazione contro di lui a omicidio colposo per negligenza.

La famiglia di Nuwara ha contestato il patteggiamento di fronte al tribunale, sostenendo che era stato raggiunto senza che loro ne fossero a conoscenza e che quel giorno Deri aveva usato consapevolmente proiettili veri.

Il gruppo israeliano per i diritti umani B’tselem ha affermato in un comunicato: “Il processo a Ben Deri esemplifica come il sistema investigativo e legale di Israele insabbi le continue uccisioni di palestinesi.”

Persino in questo caso, inusuale in quanto le accuse sono state formulate e si è persino arrivati al processo, l’insabbiamento continua. Il giudizio è finito con una sentenza vergognosamente mite, che serve solo a sottolineare il solito messaggio: le vite dei palestinesi sono a perdere.

Israele sicuramente si vanterà di questo processo come un chiaro esempio della sua capacità di fare giustizia. Al diavolo i fatti, quello che conta è la propaganda.”

L’udienza di mercoledì si è tenuta mentre Israele affronta le critiche per la politica di fuoco indiscriminato nella Striscia di Gaza assediata, dove dal 30 marzo l’esercito israeliano ha ucciso 39 palestinesi e ferito altre migliaia di manifestanti che partecipavano alla “Grande Marcia del Ritorno.”

Le autorità israeliane raramente incriminano soldati che hanno ucciso palestinesi. Quando membri delle forze israeliane sono imputati per queste morti, le condanne sono spesso brevi – creando quello che l’ong israeliana per i diritti umani Yesh Din ha chiamato un contesto di “quasi impunità”.

Hanan Ashrawi, membro direttivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha denunciato il doppio standard del sistema giudiziario israeliano.

È ridicolo che la ragazzina palestinese Ahed Tamimi, che ha affrontato un soldato israeliano che stava invadendo casa sua nella Cisgiordania occupata, sia stata obbligata a scontare otto mesi in una cella di un carcere israeliano,” ha detto.

Nel contempo il poliziotto di frontiera israeliano Ben Deri…ha avuto una sentenza di soli nove mesi.”

Finché la comunità internazionale rimarrà in silenzio, l’ingiustizia e l’oppressione del popolo palestinese continueranno senza sosta. Israele deve essere chiamato a rendere conto della sua violenza incontenibile e delle gravi violazioni contro il popolo palestinese.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




54 pazienti sono morti in attesa che Israele gli permettesse di uscire da Gaza

Ali Abunimah

14 febbraio 2018, The Electronic Intifada

Cinquantaquattro palestinesi sono morti l’anno scorso aspettando che Israele permettesse loro di lasciare la Striscia di Gaza per curarsi.

Una di loro era Faten Ahmed, una ragazza ventiseienne con una rara forma di cancro. E’ morta in agosto mentre aspettava da Israele il permesso di viaggiare per ricevere trattamenti di chemioterapia e radioterapia non disponibili a Gaza.

Aveva già mancato otto appuntamenti ospedalieri a causa di ritardi o rifiuti da parte di Israele del “benestare di sicurezza”, riferisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Ahmed è una delle cinque donne morte di cancro nello stesso mese in attesa del permesso da Israele che non è mai arrivato.

In totale, fra i morti l’anno scorso in attesa del permesso, 46 erano malati di cancro.

Uno scioccante numero di morti

Questo sconcertante pedaggio evidenzia l’impatto letale dell’assedio sempre più stretto di Israele sui due milioni di persone che vivono a Gaza.

Vediamo sempre più Israele ritardare o negare l’accesso a trattamenti che potrebbero salvare delle vite, che sia il cancro o altro, e di conseguenza un numero impressionante di malati palestinesi muoiono, mentre il sistema sanitario di Gaza – sottoposto a mezzo secolo di occupazione e a un decennio di blocco totale – è sempre meno in grado di provvedere ai bisogni della popolazione” ha detto martedì Aimee Shalan, amministratore delegato di Medical Aids for Palestinians.

La sua associazione assistenziale, insieme ad Amnesty International, Human Rights Watch, il Centro Al Mezan per i Diritti Umani e i Medici per i Diritti Umani di Israele, ha rivolto un urgente appello a Israele affinché “tolga le illegali restrizioni totali alla libertà di movimento della popolazione di Gaza, molto problematiche per coloro con gravi problemi di salute.”

Nel 2017 le autorità di occupazione israeliane hanno accettato solo il 54% delle domande di permesso a lasciare Gaza per ragioni mediche, la percentuale più bassa da quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha cominciato a raccogliere dati nel 2008.

Israele ha tragicamente rafforzato la stretta mortale; la percentuale di permessi concessi è caduta dal 92 % del 2012 all’82% del 2014 per poi scendere al 62 % nel 2016 prima di raggiungere l’anno scorso il punto più basso.

Le associazioni per la salute e i diritti umani segnalano che l’ONU e il Comitato Internazionale della Croce Rossa hanno dichiarato il blocco di terra, navale e aereo di Israele su Gaza, che impedisce i movimenti della popolazione, una “punizione collettiva” – un crimine di guerra.

I palestinesi di Gaza hanno perso più di 11.000 appuntamenti medici programmati nel 2017 in seguito al rifiuto o alla risposta fuori tempo delle autorità israeliane alle richieste di permessi”, dichiarano le associazioni.

La complicità di Egitto e Autorità Nazionale Palestinese

Le associazioni sottolineano anche come l’Egitto e l’Autorità Nazionale Palestinese con sede a Ramallah abbiano avuto un ruolo nel peggiorare la situazione: “L’Egitto ha per lo più tenuto chiuso dal 2013 il valico di Rafah alla popolazione di Gaza, contribuendo così a diminuire l’accesso alle cure mediche.”

In quanto Stato confinante con un territorio che soffre di una lunga crisi umanitaria, l’Egitto dovrebbe facilitare l’accesso della popolazione agli aiuti umanitari”, affermano. “Ciò nonostante, la responsabilità finale resta a Israele, la forza di occupazione.”

L’Autorità Nazionale Palestinese ha anche drasticamente ridotto il sostegno finanziario alle cure mediche fuori Gaza come parte delle sanzioni intese a forzare Hamas perché ceda il controllo sulla gestione di Gaza.

Queste restrizioni da parte dell’ ANP hanno causato almeno un morto, secondo le associazioni. Ma le autorità mediche di Gaza hanno detto che più di una dozzina di persone, inclusa una bimba di tre anni con un problema cardiaco, sono morte aspettando un sostegno economico da Ramallah.

Tutto questo accade nel mezzo di una crisi prodotta dal prolungato assedio, che ha portato al collasso di pezzi fondamentali del sistema sanitario.

In una condizione di diffusa povertà e disoccupazione, almeno il 10% dei bambini più piccoli soffre di malnutrizione cronica, a Gaza manca più della metà di tutte le medicine e le dotazioni mediche necessarie o è inferiore al fabbisogno mensile, e la cronica mancanza di elettricità ha fatto sì che le autorità abbiano tagliato sulla sanità e altri servizi essenziali”, affermano le associazioni della sanità e dei diritti umani.

Fine dell’assedio

All’inizio di questo mese, gli ospedali di Gaza hanno cominciato a chiudere i battenti poiché i generatori d’emergenza sono rimasti senza combustibile, costringendo a rimandare centinaia di operazioni chirurgiche.

Mercoledì, RT (Russia Today) ha mandato in onda questo resoconto da Gaza sulla situazione critica dei malati di cancro. La corrispondente Anya Parampil ha parlato con Zakia Tafish il cui marito Jamil è morto dopo che gli è stato più volte impedito di andare a Gerusalemme a operarsi.

L’emittente ha anche trasmesso un notiziario sul peggioramento della situazione degli ospedali nei territori.

A seguito dell’allarme ONU sull’incombente catastrofe, il Qatar e gli Emirati Arabi si sono impegnati la scorsa settimana ad un finanziamento a breve termine di 11 milioni di dollari per prevenire per qualche altro mese una catastrofe ancora peggiore.

Comunque, come notano le associazioni dei diritti umani, non c’è altra soluzione a lungo termine che la fine dell’assedio.

Le restrizioni di movimento imposte dal governo israeliano sono direttamente legate alla morte dei pazienti e all’aggravarsi delle sofferenze, dovendo i malati chiedere i permessi”, ha detto Issam Younis direttore di Al Mezan.

Queste pratiche fanno parte del regime di chiusura e di permessi che impedisce ai malati di vivere dignitosamente, e viola il diritto alla vita.”

Medical Aid for Palestinian, con sede in Inghilterra, si sta appellando alla gente perché si rivolga ai legislatori del parlamento britannico e “chieda loro di premere sul governo britannico affinché agisca per salvare delle vite a Gaza.”

(Traduzione di Luciana Galliano)

 




Una conferenza europea sull’attività di colonizzazione dichiara Israele un “regime di apartheid”

Ma’an News

10 novembre 2017

Betlemme (Ma’an) – Rappresentanti da 24 Paesi europei, compresi parlamentari, giuristi, giornalisti e attivisti, si sono incontrati a Bruxelles all’inizio della settimana nella prima conferenza europea sull’attività di colonizzazione di Israele, concordando una dichiarazione che accusa Israele di aver costituito un “regime di apartheid” in Cisgiordania.

Secondo un comunicato stampa, il testo approvato è stato denominato la “Dichiarazione di Bruxelles” e condivide le seguenti clausole:

1. Israele, il potere occupante dei territori palestinesi dal 1967, continua la sua politica di confisca, ebraicizzazione della terra palestinese e costruzione di colonie su di essa. Queste colonie, con il passare del tempo, sono diventate l’incubatrice di “organizzazioni terroristiche” di coloni come HiiltopYouth, Paying the Price and Revenge [rispettivamente “I giovani delle colline”, “Pagare il prezzo” e “Vendetta”, gruppi di coloni estremisti e violenti, ndt.].

2. Pertanto, con questa politica predeterminata di espansione delle colonie, è improprio parlare di smantellamento di colonie politiche o per la sicurezza, ma piuttosto occorre inquadrare questo movimento come una politica coloniale strutturale in grado di colonizzare una larga parte della Cisgiordania, non meno del 60% della sua estensione. Questa politica, di fatto, ha costituito un regime di apartheid, che viola la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, che nel suo articolo 8 stabilisce che le colonie sono un crimine di guerra, il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia emesso il 9 luglio 2004 riguardo al Muro dell’apartheid, che è stato definito una grave violazione delle leggi internazionali, e le risoluzioni ONU, soprattutto la risoluzione 2334 (2016) del Consiglio di Sicurezza. Questa risoluzione afferma chiaramente che ogni attività israeliana di colonizzazione nei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme est, è illegale in base alle leggi internazionali e costituisce un ostacolo alla costituzione di uno Stato palestinese contiguo, sostenibile e pienamente sovrano.

3. La conferenza di Bruxelles, prendendo nota dei fatti summenzionati, considera che la continuazione delle attività di colonizzazione pone fine a ogni possibilità per una soluzione dei due Stati e piuttosto concretizza il sistema di apartheid attuato dalla politica di occupazione. La conferenza chiede la fine immediata di ogni attività di colonizzazione perseguita dallo Stato occupante nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est.

4. La conferenza di Bruxelles chiede alla comunità internazionale di assumersi le responsabilità giuridiche opponendosi a queste politiche razziste del potere occupante e imporre una seria pressione su di esso per il rispetto delle fondamentali leggi internazionali. L’Unione Europea, che ha intense relazioni e un accordo di associazione con lo Stato israeliano occupante, dovrebbe fare pressione su Israele in modo che essa [l’UE] si assuma la responsabilità di superare la differenza tra le sue parole e le sue azioni nel contesto della politica israeliana di colonizzazione, attivando l’articolo 2 dell’Accordo di Associazione per esercitare pressioni su Israele affinché rispetti i suoi obblighi in quanto potere occupante.

5. La conferenza di Bruxelles chiede anche ai Paesi dell’UE di far seguire alle parole i fatti, non solo rilasciando dichiarazioni di denuncia e di condanna, ma adottando piuttosto misure concrete per rendere Israele responsabile, imponendo un divieto assoluto su ogni attività finanziaria, economica, commerciale e di investimenti, diretta o indiretta, con le colonie israeliane finché non si atterranno alle leggi internazionali.

6. I partecipanti a questa conferenza, mentre condannano la politica di colonizzazione nei territori palestinesi occupati come una violazione del diritto internazionale, sottolineano al contempo l’importante ruolo che può essere giocato da forze politiche, parlamenti, organizzazioni dei diritti umani e della società civile nei Paesi dell’UE per opporsi ai progetti israeliani di espansione e di costruzione di colonie. Chiedono anche ai governi dell’UE e alle loro istituzioni costituzionali di rispettare le proprie responsabilità in base alla responsabilità collettiva di rifiutare le violazioni da parte di Israele dei diritti dei cittadini palestinesi sotto occupazione, in modo da obbligare Israele almeno a rispettare i suoi obblighi in base all’Accordo di Associazione e da non permettere ai coloni e ai loro dirigenti di entrare nei Paesi dell’UE e da portarli davanti alla giustizia internazionale come criminali di guerra nel caso lo facciano.

7. I partecipanti alla conferenza chiedono ai popoli del mondo e alle loro forze democratiche amanti della pace di partecipare attivamente al movimento internazionale per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, noto come BDS, e di fare pressione su Israele perché rispetti il diritto internazionale.

8. La conferenza afferma anche il proprio totale sostegno all’iniziativa palestinese di deferire alla Corte Penale Internazionale come crimini di guerra la costruzione di nuove colonie, l’espansione di quelle esistenti e la violenza dei coloni contro i palestinesi.

9. I partecipanti alla conferenza plaudono alla crescente solidarietà con il popolo palestinese e con la sua giusta causa. Elogiano anche il rifiuto da parte dei popoli del mondo delle politiche israeliane di pulizia etnica e di apartheid perseguite dallo Stato occupante israeliano.

10. I partecipanti alla conferenza chiedono di contrastare questa politica costituendo un comitato europeo di Paesi partecipanti rappresentati in questa conferenza per denunciare le continue violazioni da parte delle forze di occupazione e per rafforzare la pressione per perseguire i criminali di guerra israeliani finché Israele non rispetterà il diritto internazionale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ambasciatore di Trump in Israele esce dai ranghi

Maureen Clare Murphy

29 settembre 2017,Electronic Intifada

Qual’è la politica di Donald Trump riguardo ad Israele e i palestinesi? Nessuno all’interno dell’amministrazione del presidente sembra in grado di dirlo.

In un’intervista ad un sito di informazioni israeliano, David Friedman, ambasciatore di Trump a Tel Aviv, ha avanzato ipotesi in contraddizione con decenni di politica statunitense e con le posizioni sostenute dall’amministrazione.

La risposta del Dipartimento di Stato ai suoi commenti dà ulteriormente l’impressione di una politica estera in totale confusione.

Alla domanda sulle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, Friedman ha risposto a ‘Walla! News’[portale di notizie israeliano legato al gruppo editoriale di Haaretz, ndt.]:

Penso che le colonie siano parte di Israele. Penso che ci si aspettasse questo quando fu adottata la risoluzione 242 nel 1967.”

Friedman, a lungo avvocato fallimentare di Trump, si riferiva ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che, di fatto, sottolinea “l’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la guerra” e chiede il ritiro di Israele dal territorio occupato nella guerra del 1967.

L’interpretazione di Friedman contraddice direttamente diverse successive risoluzioni che riaffermano esplicitamente l’illegalità delle colonie israeliane in Cisgiordania.

Il trasferimento da parte di Israele della sua popolazione civile in un territorio che occupa è una violazione della Quarta Convenzione di Ginevra e quindi è un crimine di guerra.

Friedman, tra l’altro, è un importante finanziatore di una di quelle colonie.

Cambiamento radicale

L’ambasciatore ha minimizzato l’importanza delle colonie, affermando: “Voglio dire, stanno semplicemente occupando il 2% della Cisgiordania.”

Era totalmente fuori strada.

La realtà è che Israele dispone di un massiccio sistema di colonie da insediamento in tutta la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est. Più della metà della Cisgiordania è stata confiscata per le colonie o interdetta in altro modo ai palestinesi.

Per decenni la politica USA è stata di considerare le colonie come un ostacolo ad uno Stato palestinese indipendente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. E lo scorso dicembre gli USA hanno permesso che il Consiglio di Sicurezza approvasse una risoluzione che riaffermava l’illegalità di tutte le colonie.

Ma l’opposizione a parole degli Stati Uniti alle colonie non ha mai coinciso con i fatti: le diverse amministrazioni hanno continuato a staccare assegni in bianco ad Israele, mentre gli insediamenti continuavano ad espandersi. I commenti di Friedman rappresentano un cambiamento radicale di quella politica, per quanto inefficace possa essere stata.

Alla domanda di ‘Walla!’ se sarebbe mai arrivato a pronunciare forte e chiaro le parole “soluzione dei due Stati”, Friedman ha detto che l’espressione ha perso ogni significato perché “significa cose differenti per gente diversa.”

Quanto al significato che ha per lui, ha glissato. “Non ha significato, non ho certezze. Per quanto mi riguarda, non mi interessano le etichette, mi interessano le soluzioni”, ha detto.

E’ uscito dai ranghi?”

Nella conferenza stampa di giovedì la portavoce del Dipartimento di Stato Heather Nauert ha faticosamente cercato di riconciliare quanto detto da Friedman con la politica dell’amministrazione che rappresenta.

Le sue affermazioni – e intendo essere estremamente chiara su questo punto – non devono essere lette come un modo per pregiudicare l’esito di qualunque negoziato che gli Stati Uniti possano avere con israeliani e palestinesi. Non devono neanche segnalare un mutamento nella politica USA”, afferma Nauer.

E’ uscito dai ranghi?”, chiede un giornalista.

E’ almeno la seconda volta che da questa tribuna lei ha dovuto in qualche modo smentire le notazioni dell’ambasciatore Friedman, quando ha tirato fuori la ‘presunta occupazione’”, dice un altro giornalista, riferendosi ad un recente commento di Friedman al giornale di destra Jerusalem Post, in cui insinuava che gli Stati Uniti non considerano Cisgiordania e Gaza occupate da Israele.

E aggiunge: “Anche se non si tratta di un cambio di posizione, la sensazione che l’ambasciatore in Israele sia di parte relativamente a questo conflitto sta creando problemi agli USA?”.

Abbiamo alcuni dirigenti e rappresentanti del governo USA molto efficienti, compresi Jason Greenblatt e Mr. Kushner, che dedicano un’enorme quantità di tempo alla regione”, risponde Nauert, riferendosi a due dei consiglieri di Trump.

Il giornalista dell’Associated Press Matt Lee sottolinea che “il problema nasce dal fatto che Friedman è l’ambasciatore confermato dal Senato. Né Greenblatt né Kushner lo sono…

Si presume che gli ambasciatori in qualunque Paese parlino in nome e con l’autorità del presidente degli Stati Uniti. Non pensa che questo generi confusione?”

Ambasciatore di chi?

Bella domanda. Durante l’intervista Friedman si è comportato come se fosse l’ambasciatore di Israele negli USA, invece che l’ambasciatore degli USA in Israele.

Ha ribadito che l’amministrazione Trump trasferirà l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme – un’altra rottura rispetto a decenni di politica statunitense e consenso internazionale. Si trattava di una promessa fatta durante la campagna elettorale di Trump, ma su cui poi egli ha fatto marcia indietro, una volta entrato in carica.

Alla domanda se l’ambasciata verrà trasferita nel corso della presidenza Trump, Friedman ha risposto: “Sicuramente lo spero. Questo era uno degli impegni del presidente e lui è un uomo che mantiene la parola…La questione non è se, ma quando.”

Friedman ha affermato che un accordo di pace potrebbe essere raggiunto entro alcuni mesi, ma che non avrebbe fornito alcun dettaglio sui criteri dei presunti negoziati di pace.

Riguardo alla sfiducia da parte palestinese a causa dei suoi finanziamenti alle colonie, l’ambasciatore si è vantato di aver incontrato Majid Faraj, il capo della polizia segreta del leader dell’ANP Mahmoud Abbas, ed il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat.

Penso che comprendano il mio punto di vista,” ha detto Friedman, aggiungendo: “Non credo sia un problema di diffidenza, credo che abbiano avuto a che fare in precedenza con persone che hanno quelle idee.”

Benché dica che è Trump che prende le decisioni nella sua cerchia ristretta, il riferimento di Friedman al “mio punto di vista” suggerisce che l’ambasciatore stia lavorando a briglia sciolta. Ma si comporta ancora come avvocato di Trump.

Sulla questione posta da Walla! circa la molto criticata difesa da parte di Trump di una mobilitazione di nazionalisti bianchi a Charlottesville il mese scorso, che ha causato la morte di una contro-manifestante, Friedman ha detto: “Non ho dubbi che lui non sia minimamente in nessun modo ed in nessuna forma, razzista, misogino, antisemita, omofobo, o qualunque altro aggettivo possiate inventare. Quello non è lui.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

 




Israele pianifica crimini di guerra contro le famiglie di Khan al-Ahmar

Tamara Nassar

26 settembre  2017,Electronic Intifada

Gruppi per i diritti umani avvertono che l’espulsione pianificata da Israele degli abitanti di Khan al-Ahmar e la distruzione del loro villaggio nella Cisgiordania occupata è un crimine di guerra. All’inizio di questo mese le autorità israeliane dell’occupazione hanno informato membri della comunità che sarebbero stati spostati in un altro luogo, benché siano in corso procedimenti giudiziari nei tribunali israeliani.

Ciò ha sollevato tra i funzionari ONU timori che l’espulsione possa avvenire a giorni. B’Tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndt.] ha messo in guardia il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ed altre personalità politiche israeliane che potrebbero essere considerati personalmente responsabili di crimini di guerra se continuassero con la demolizione di Khan al-Ahmar e di Susiya, un secondo villaggio, per fare spazio a colonie israeliane.

La demolizione di intere comunità nei territori occupati è praticamente senza precedenti dal 1967 [data d’inizio dell’occupazione israeliana, ndt.],” ha aggiunto il gruppo israeliano per i diritti umani.

Espandere le colonie

Khan al-Ahmar si trova tra le colonie israeliane di Maaleh Adumim e Kfar Adumim, nella cosiddetta area E1 della Cisgiordania occupata.

Su questa terra a est di Gerusalemme Israele prevede di estendere la sua grande colonia di Maaleh Adumim, per completare la separazione della parte nord da quella sud della Cisgiordania.

Tutte le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata sono illegali in base al diritto internazionale.

A Khan al-Ahmar vivono i membri della tribù Jahalin, che comprende 32 famiglie beduine, e conta approssimativamente 173 persone.

E’ una delle 12 comunità palestinesi, per un totale di circa 1.400 abitanti, che devono far fronte all’espulsione da parte israeliana nella zona ad est di Gerusalemme.

Gli abitanti palestinesi di Khan al-Ahmar hanno in precedenza presentato un ricorso all’alta corte israeliana per bloccare gli ordini di demolizione che riguardano tutte le strutture del villaggio.

L’alta corte ha anche ricevuto un ricorso della colonia di Kfar Adumim, che chiede che l’unica scuola di Khan al-Ahmar venga demolita, insieme a più di 250 altri edifici palestinesi nella zona.

Le autorità israeliane hanno anche chiesto l’approvazione per completare la deportazione entro l’aprile 2018.

La corte ha annullato un’udienza che era stata fissata per lunedì per la discussione del caso, in attesa di ulteriore documentazione.

Deportazione

Israele vuole obbligare gli abitanti di Khan al-Ahmar a spostarsi in un’area chiamata “al-Jabal ovest,” situata nei pressi della discarica del villaggio palestinese di Abu Dis. E’ una zona in cui Israele ha già deportato famiglie Jahalin negli anni ’90 per far posto a Maaleh Adumim.

Se l’espulsione pianificata verrà messa in atto, sarebbe la seconda volta che la comunità di Khan al-Ahmar viene deportata. Negli anni ’50 le famiglie furono inizialmente cacciate dalla regione del Naqab [Negev in arabo, ndt.] dall’esercito israeliano.

Questa settimana B’Tselem ha affermato che, se Israele demolisce la scuola di Khan al-Ahmar o caccia a forza gli abitanti, anche rendendo le loro condizioni di vita insopportabili, “ciò violerebbe il divieto di trasferimento forzato stabilito dalle leggi umanitarie internazionali.”

B’Tselem ha aggiunto: “Una simile violazione costituisce un crimine di guerra, e ogni persona coinvolta nella sua messa in pratica ne dovrà rendere conto personalmente – compresi il primo ministro, i principali membri del governo, il capo di stato maggiore e il capo dell’Amministrazione Civile [governo militare nei territori palestinesi occupati, ndt.] – il sistema amministrativo dell’occupazione israeliana.

Israele ha cercato di distrarre l’attenzione dalla deportazione sostenendo che lo spostamento avvantaggerà gli abitanti di Khan al-Ahmar.

Ma i gruppi per i diritti umani, compreso Bimkom [Ong di architetti e urbanisti che sostiene una pianificazione condivisa con le comunità locali, ndt.] israeliano, sottolineano che la deportazione è vietata indipendentemente dalle sue ragioni. Danneggerebbe anche lo stile di vita rurale e la sopravvivenza delle comunità già impoverite.

Gli abitanti del villaggio dipendono per il loro modo di vita dai pascoli e dalla vicinanza ad altre tribù di beduini. Israele ha in precedenza tentato di spostare le famiglie in terre confiscate ad altre comunità palestinesi, una proposta rifiutata da tutti quelli che sarebbero stati coinvolti.

Continui soprusi

Khan al-Ahmar e Susiya, un villaggio sulle colline meridionali della zona di Hebron in Cisgiordania, si trovano entrambi nell’area C.

Si tratta di circa il 60% della Cisgiordania che rimane sotto completo controllo militare israeliano in base agli accordi di Oslo firmati tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina all’inizio degli anni ’90.

Israele rifiuta di consentire praticamente ogni costruzione palestinese nell’area C, obbligando i palestinesi a costruire senza permesso e a vivere con il timore costante che le loro case siano demolite.

La scuola di Khan al-Ahmar è stata edificata nel 2009 usando copertoni e fango, nel tentativo di superare le restrizioni israeliane sull’uso di cemento da parte dei palestinesi per scopi edilizi.

Ma Israele ha trovato un’altra scusa per ordinare la demolizione della scuola, sostenendo che era troppo vicina alla strada principale.

La scuola era stata costruita con i finanziamenti dell’Unione europea e di altri donatori europei, che non hanno fatto niente per rendere Israele responsabile della demolizione di progetti che hanno appoggiato per decine di milioni di dollari.

Lo scorso mese Israele ha distrutto due scuole finanziate dagli europei in Cisgiordania.

Qui per rimanere per sempre”

Oltre alle demolizioni, Israele cerca di cacciare i palestinesi dalle loro case rendendo le loro condizioni di vita insopportabili.

Israele ha smantellato e confiscato pannelli solari di Khan al-Ahmar, bloccato l’accesso diretto tra il villaggio e la strada principale e l’ha privato di servizi essenziali come l’acqua, le fognature, l’elettricità e la disponibilità di mezzi di trasporto.

Il rinnovato impegno di Israele per la demolizione di Khan al-Ahmar arriva solo poche settimane dopo che Netanyahu ha partecipato nel nord della Cisgiordania ad una cerimonia per i 50 anni della colonizzazione israeliana.

Siamo qui per rimanere per sempre,” ha detto Netanyahu alla folla. “Non ci saranno più smantellamenti di colonie nella terra di Israele.”

Questa settimana i media israeliani hanno informato che il governo israeliano sta portando avanti progetti per altre 2.000 unità immobiliari delle colonie nella Cisgiordania occupata.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Un’ avvocatessa olandese determinata ad ottenere giustizia per la gente di Gaza

Amira Hass, 27 giugno 2017 Haaretz

Liesbeth Zegveld è convinta che un tribunale olandese possa istruire una causa contro pezzi grossi dell’esercito israeliano per l’uccisione di sei palestinesi

Che cosa hanno in comune l’isola di Giava in Indonesia, la FIFA, una falsa accusa in Libia ed il campo profughi di Bureij nella Striscia di Gaza? Condividono tutti una stessa avvocatessa olandese, Liesbeth Zegveld, che sfida i termini di prescrizione e i limiti nazionali di giurisdizione quando si tratta di crimini nei confronti della vita umana commessi da potenti.

Martedì scorso ha inviato una notifica di chiamata in correità all’ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Benny Gantz ed al comandante delle forze aeree israeliane Amir Eshel, chiedendo loro di comunicarle entro sei settimane se si assumono la responsabilità dell’uccisione di sei membri della famiglia di Ismail Ziada, un cittadino olandese, nel corso dell’operazione ‘Margine Protettivo’ a Gaza nel 2014, e se intendono risarcirlo per i danni.

La notifica informa che, se non intendono farlo, lei ed il suo cliente intenteranno una causa civile accusandoli di crimini di guerra presso un tribunale olandese. Il giudice esaminerà in primo luogo la questione se un tribunale olandese abbia giurisdizione sul caso.

Zegveld riferirà alla corte il caso di un medico palestinese, Ashraf al-Hajuj: nel 2000 lui e cinque infermiere bulgare che lavoravano in un ospedale libico furono ingiustamente accusati di aver infettato dei bambini con il virus HIV. Solo la pressione internazionale li salvò dalla pena di morte. Dopo che Hajuj tornò in Olanda si rivolse alla Zegveld, che citò in giudizio 12 alti ufficiali libici per tortura e trattamento inumano.

Fece riferimento al principio di giurisdizione universale – in altri termini, per la gravità del crimine, la corte ha il diritto di giudicare a prescindere dal luogo in cui sia avvenuto il crimine. Sostenne inoltre che Hajuj non avrebbe avuto possibilità di un equo processo se avesse fatto causa in Libia. La sua opinione venne accettata. Nel marzo 2012 la corte gli riconobbe 1 milione di euro di risarcimento.

Nel caso di Ziada, la Zegveld intende dimostrare al giudice olandese che i palestinesi non hanno possibilità di un equo processo in Israele e che in quel Paese non si procede realmente ad indagini sulle denunce di crimini di guerra.

Zegveld, dello studio legale sui diritti umani Prakken d’Oliveira di Amsterdam, è specializzata in responsabilità per violazioni di diritti umani e rappresenta le vittime di guerra. L’obbiettivo non è il risarcimento economico, ma molto di più, afferma. Il caso dell’Indonesia lo conferma: nel 2008 Zegveld ha chiesto risarcimento al governo olandese un risarcimento per diverse vedove e bambini di circa 400 indonesiani uccisi dall’esercito olandese il 9 dicembre 1947 nel villaggio di Rawagede, sull’isola di Giava. All’epoca, le uccisioni erano considerate una legittima attività di repressione contro gli oppositori del governo coloniale olandese, la loro guerriglia e le attività terroristiche.

Anzitutto Zegveld riuscì a superare i termini di prescrizione. Lei ed i suoi colleghi allora scoprirono che quanto accaduto a Rawagede non era un incidente isolato. Infatti nel 1968 un’indagine promossa dal governo rivelò alcuni massacri di civili indonesiani commessi dall’esercito olandese, presentati come casi sporadici.

Così, per decenni l’Olanda ha mantenuto la sua limpida immagine. L’azione legale per conto delle vittime 60 anni dopo il crimine ha contribuito ad aprire crepe nell’amnesia della pubblica opinione. Ha anche incoraggiato la tendenza a condurre studi accademici su quegli anni, in cui l’Olanda ha rifiutato con spietata ostinazione di dire addio alla sua redditizia colonia. Nella sua tesi di dottorato, lo storico Rémy Limpach è giunto alla conclusione che vi fu violenza strutturale e sistematica.

Ciò ha spianato la strada perché l’Olanda risarcisse le vittime e si scusasse per i suoi crimini a Rawagede. A fine 2016 il governo olandese ha annunciato il finanziamento di uno studio sulla condotta dell’esercito in quegli anni.

Ma ci sono anche le sconfitte: a gennaio, un tribunale svizzero ha respinto l’istanza di Zegveld per conto di due sindacati – uno in Bangladesh e l’altro in Olanda – contro la FIFA per aver scelto il Qatar come Paese ospite della Coppa del Mondo del 2022. Lei ha sostenuto che, poiché l’organo internazionale di governo del calcio non ha richiesto una riforma delle leggi sul lavoro del Qatar, si rendeva responsabile del danno sistematico ai lavoratori dell’edilizia.

La corte sentenziò che il riferimento a cambiamenti nella legislazione del lavoro era vago e senza effetti giuridici. Ma Zegveld non si arrende: “Limiteremo il caso all’assegnazione della Coppa del Mondo al Qatar e tralasceremo il dovere della FIFA da quel momento in poi di monitorare da quel momento in poi la situazione dei diritti umani in Qatar”, ha detto. “Agli occhi del tribunale svizzero, la FIFA non è nella posizione di controllare la situazione in Qatar (il che purtroppo è lontano dalla realtà, ma la corte non era chiaramente disponibile ad approfondire i fatti.) Perciò la nostra argomentazione sarà: poiché la situazione dei diritti umani in Qatar è pessima, cosa nota alla FIFA, esso fin dall’inizio non avrebbe dovuto essere ammesso.”

Basandosi sugli stessi principi, con la stessa determinazione e ostinazione Zegveld sta programmando di gestire la causa della famiglia Ziada. Il 20 luglio 2014 una bomba colpì la loro casa a Bureij uccidendo sette persone: la madre settantenne di Ismail Ziada, Muftiah, i suoi figli Jamil, Yousef e Omar, la moglie di Jamil, Bayan ed il loro figlio dodicenne Shaban. Venne anche ucciso un altro uomo in visita alla casa: Muhammed Maqadma, un membro di Iz al-Din al-Qassam, l’ala militare di Hamas. Un altro ospite fu gravemente ferito.

Un obbiettivo legittimo?

Durante la guerra di Gaza del 2014 Israele ha adottato una politica di bombardamento delle case insieme ai loro abitanti. In 70 casi indagati dall’associazione per i diritti umani B’Tselem, la grande maggioranza delle 606 persone uccise non erano membri di organizzazioni armate palestinesi. Oltre il 70% erano minori di 18 anni, maggiori di 60 o donne.

Il 20 luglio l’aviazione israeliana bombardò otto case abitate in diversi luoghi della Striscia. I morti in questi bombardamenti furono 76. Lo stesso giorno l’esercito israeliano uccise in totale 214 persone in tutta Gaza. Secondo le indagini di B’Tselem, 73 di loro appartenevano a formazioni armate (coloro che partecipavano al conflitto, secondo la definizione di B’Tselem) e 140 no. La posizione di un uomo risultava non chiara. 27 vittime erano bambini sotto i 5 anni, 35 avevano dai 6 ai 17 anni, 29 erano donne e 12, compresa Muftiah Ziada, avevano oltre 60 anni.

Se Zegveld supererà l’ostacolo della competenza giurisdizionale, la corte affronterà il punto sostanziale: la casa degli Ziada era un obbiettivo legittimo? Se Gantz e Eshel decideranno di non rispondere, il processo avrà luogo in loro assenza ed i fatti esposti dalla denuncia verranno accettati così: danno a persone innocenti, sproporzionato, in contraddizione col diritto umanitario internazionale, un crimine di guerra. Se i due decideranno di difendersi in qualche modo, il dibattimento inizierà dai fatti.

Alcune settimane dopo l’uccisione della famiglia, Iz al-Din al-Qassam ha diffuso le ultime volontà, registrate precedentemente, del fratello di Ismail, Omar. A Gaza dicono che questa era la procedura che i membri dell’organizzazione seguivano quando ritenevano che la guerra stesse per scoppiare. “Sono il martire vivente”, afferma davanti alla telecamera, dicendo addio alla sua famiglia, a sua moglie e ai suoi figli ed agli amici di Iz al-Din al-Qassam, incoraggiandoli a continuare nella preghiera e nella resistenza.

Per circa sette minuti legge le proprie volontà con volto inespressivo e occhi asciutti. Versa lacrime solo quando cita i nomi degli amici che presto incontrerà in paradiso. Il suo corpo, in pantaloni corti, è stato trovato sotto le macerie della casa. La notizia sul sito web della Procura militare relativa alla decisione dell’Avvocatura Generale militare di chiudere l’inchiesta sull’uccisione della famiglia Ziada affermava che nella casa si trovava un comando operativo ed un centro di controllo e che tra i morti, oltre a Maqadma, vi erano tre “miliziani armati delle organizzazioni terroristiche Hamas e Jihad Islamica” membri della famiglia Ziada.

“Si uccide un’intera famiglia e poi si mette su internet qualcosa di simile a molte altre dichiarazioni”, ha detto Zegveld. “E’ come un comunicato stampa. Qual è il merito della questione? Quali le prove? E la trasparenza? Una telefonata da una casa privata, anche se si tratta di un membro di Hamas, non trasforma la casa in un centro di comando e di controllo. La legge dice: in caso di dubbio, chiunque è un civile.

Se ci sono prove che vi fossero membri militari attivi di Hamas, allora si entra nella vera questione del diritto umanitario, che implica proporzionalità e distinzione e misure precauzionali. E’ tempo che un tribunale discuta di questo.”

E’ ottimista sulle chance della denuncia?

“Il non funzionamento del diritto internazionale è dimostrato in modo esemplare in Israele e Palestina”, dice Zegveld. “Israele ha un sistema discriminatorio molto subdolo, che dall’esterno sembra un sistema funzionante. C’è una quantità di norme e tu pensi che DEVE essere un ottimo sistema, ma è finalizzato a confondere e ingannare. Tanto per dire che per la corte sarà un grosso problema. Io non vedo l’ora di porre quella questione. Anche se perdiamo, occorre chiarirla.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)