Giornalista palestinese a Gaza: potete anche togliermi il premio, non mi toglierete la voce

Maha Hussaini

20 giugno 2024 MiddleEastEye

 

Dopo aver seguito per mesi l’atroce genocidio di Gaza, mi è stato tolto il Premio Coraggio nel Giornalismo a seguito di una sistematica campagna diffamatoria da parte dei sostenitori di Israele.

Negli ultimi dieci anni da giornalista e reporter di guerra ho capito perché molti abbandonino questa professione, soprattutto in Palestina.

Oltre alle enormi sfide e ai continui attacchi fisici, ci sono sforzi continui, sistematici e ben organizzati da parte di organizzazioni filo-israeliane per intimidire e mettere a tacere i giornalisti palestinesi. Queste tattiche mirano a spingere i giornalisti ad abbandonare il proprio lavoro, che è fondamentale nel denunciare le flagranti violazioni dei diritti umani e arrivare a scoprire le responsabilità.

Nel corso della mia carriera giornalistica mi sono stati assegnati due premi, entrambi seguiti da estese campagne diffamatorie e appelli da parte di associazioni e singoli individui israeliani che esortavano le organizzazioni che erogavano i premi a revocarli.

Lo scorso giugno ho ricevuto il Premio Coraggio nel Giornalismo dalla International Women’s Media Foundation (IWMF) per i miei reportage sul campo da Gaza, sottoposta a un devastante assedio israeliano e un bombardamento implacabile da più di otto mesi.

Durante questo periodo sono stata sfollata con la forza tre volte, spostandomi da un rifugio all’altro. La mia casa è stata bombardata e ho sopportato mesi di fame, blackout e continui bombardamenti. A volte ho dovuto ricorrere all’uso di carta e penna per poi inviare i miei articoli come messaggi di testo dopo che Israele ha tagliato le forniture di carburante ed elettricità e ha bombardato le infrastrutture delle principali società di telecomunicazioni di Gaza.

Nonostante queste difficoltà mi considero fortunata di non far parte (finora) del conteggio dei circa 150 giornalisti palestinesi uccisi dall’esercito israeliano dal 7 ottobre 2023.

Solo pochi giorni dopo che l’IWMF aveva annunciato il mio premio, sui social media è stata lanciata una campagna diffamatoria da parte di Israele che ne chiedeva la revoca. Nel giro di 24 ore l’IWMF ha ottemperato alla richiesta annullando il premio, rimuovendo il mio profilo dal suo sito web e riducendo il numero dei premiati da quattro a tre.

Attacchi inarrestabili

“Nelle ultime 24 ore l’IWMF è venuta a conoscenza di alcuni commenti fatti da Maha Hussaini negli anni passati che contraddicono ai valori della nostra organizzazione”, ha affermato l’IWMF in una breve dichiarazione, senza fornire ulteriori dettagli.

Di conseguenza abbiamo revocato il Premio Coraggio nel Giornalismo che le era stato precedentemente assegnato. Sia il Premio Coraggio che la missione dell’IWMF si basano sull’integrità e sull’opposizione all’intolleranza. Non tollereremo e non sosterreremo né supporteremo opinioni o dichiarazioni che non aderiscano a tali principi”.

Sullo stesso sito, tuttavia, l’IWMF afferma: “Il Premio Coraggio nel Giornalismo dimostra al mondo che le giornaliste non si faranno da parte, non possono essere messe a tacere e meritano di essere riconosciute per la loro forza di fronte alle avversità. Il premio onora le giornaliste coraggiose che raccontano argomenti tabù, lavorano in ambienti ostili alle donne e condividono verità scabrose”.

Ogni anno i giornalisti palestinesi ricevono premi internazionali per i loro coraggiosi reportage sotto l’occupazione israeliana e in mezzo ad attacchi senza sosta. Questi riconoscimenti onorano il loro coraggio e la loro dedizione nel rivelare la verità.

Tuttavia tali riconoscimenti sono spesso seguiti da estese campagne diffamatorie e da un’intensa pressione sulle organizzazioni che indicono il premio da parte dei sostenitori dell’occupazione israeliana e della lobby sionista. Mentre alcune associazioni si attengono ai propri principi e sostengono i giornalisti, altri purtroppo cedono alle pressioni.

Non avrei vinto questo premio se non fossi stata sul campo a denunciare le flagranti violazioni israeliane in condizioni pericolose, il tutto mentre venivo sistematicamente attaccata da chi sosteneva gli autori del reato.

Vincere un premio per il “coraggio” significa essere soggetto ad attacchi e scegliere di continuare il proprio lavoro nonostante tutto. Purtroppo la stessa organizzazione che ha riconosciuto queste condizioni pericolose e mi ha assegnato il premio ha scelto di non essere coraggiosa.

Complicità globale

Nonostante tutto sono felice sia di aver vinto il premio sia che il suo successivo ritiro abbiano dimostrato chiaramente i sistematici attacchi fisici e morali che i giornalisti palestinesi subiscono nel corso della loro carriera. A dimostrazione anche di come i media globali e le organizzazioni internazionali possano essere ritenuti complici nel mettere a tacere i giornalisti palestinesi.

Le minacce e le diffamazioni mirano proprio a zittire le voci più rilevanti e a perpetuare pregiudizi di lunga data sui media globali. Non ho mai lavorato per ricevere premi, né ho mai fatto domanda per candidarmi.

Non ho scelto il giornalismo come professione. Sono diventata giornalista dopo aver visto fino a che punto il mondo ignora la sofferenza dei palestinesi e sceglie di conformarsi alle pressioni israeliane, soprattutto nel momento in cui Israele vieta ai giornalisti internazionali di entrare nella Striscia di Gaza per riferire in maniera oggettiva della guerra.

Invece di riconoscere le minacce che i giornalisti palestinesi affrontano e contribuire a proteggerli, ritirare i premi ai giornalisti palestinesi di Gaza, dove decine di giornalisti sono già stati uccisi dalle forze israeliane, rischia di renderli obiettivi ancora più visibili.

Non ho rimpianti per gli eventuali post o commenti passati che hanno portato alla revoca del mio premio e non smetterò mai di esprimere le mie opinioni. Prima di diventare giornalista ero una palestinese che viveva sotto l’occupazione militare e un blocco soffocante. Oggi a Gaza sto subendo un genocidio riconosciuto a livello internazionale.

I miei nonni furono espulsi da Gerusalemme al momento della creazione dello Stato di Israele e io sono stata espulsa da casa mia a Gaza durante questo genocidio.

Se per vincere un premio è necessario sopportare e testimoniare crimini di guerra rimanendo in silenzio, non mi ritengo onorata di ricevere alcun premio.

Sarò sempre obiettiva nei miei resoconti, ma non potrò mai essere neutrale. Indicherò sempre i colpevoli e sarò solidale con le vittime. Questo è vero giornalismo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Maha Hussaini è una giornalista pluripremiata e attivista per i diritti umani che risiede a Gaza. Maha ha iniziato la sua carriera giornalistica riferendo della campagna militare israeliana nella Striscia di Gaza del luglio 2014. Nel 2020 ha vinto il prestigioso Premio Martin Adler per il suo lavoro come giornalista freelance.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




“Che Gaza bruci”: il diluvio di retorica genocida dei soldati israeliani

Younis Tirawi e Eran Maoz

13 giugno 2024 Zeteo

Dentro il genocidio-lampo di Israele, la seconda parte della nostra indagine su Zeteo

Il comandante militare israeliano Gur Rosenblat è esplicito: tutta Gaza, “non solo l’organizzazione di Hamas”, deve essere eliminata e i suoi 2 milioni di abitanti cacciati. La Striscia, scrive sui social, dovrebbe “cessare di esistere”.

Anche se Rosenblat, capo della Brigata di fanteria settentrionale israeliana e vicedirettore generale del Ministero dell’Istruzione del paese, chiarisce in un post su Facebook del 13 ottobre di non parlare in veste ufficiale, non tenta di mascherare i suoi appelli al genocidio. “Persone che sono bestie umane e i loro sostenitori devono pagare un prezzo altissimo, se non con la vita, almeno con l’espulsione”, scrive.

Solo tre giorni dopo un account Instagram con il nome utente @gvrrvznblt, che afferma di essere Rosenblat, ha pubblicato una foto con la didascalia: “Perché non uccidiamo dieci, ventimila gazawi al giorno bombardandoli per ogni giorno in cui i rapiti [gli ostaggi israeliani] non tornano? …follia”.

Nell’invocare una “vittoria decisiva” su Facebook il 20 novembre Rosenblat chiarisce che “soltanto la cancellazione completa e definitiva” di Gaza City, prima della guerra la città più popolosa dell’enclave palestinese, e il “trasferimento dei suoi abitanti nella parte meridionale della Striscia… può portare a qualche cambiamento”.

Una “specie di seconda o terza Nakba”, aggiunge. “Proprio come [il villaggio palestinese di] Sheikh Munis, sulle cui rovine fu fondata Tel Aviv [nel 1948], e molti altri insediamenti arabi furono cancellati, così anche la città di Gaza deve essere cancellata”.

Rosenblat non è solo. Dal 7 ottobre abbiamo trovato sui social media centinaia di post di personale militare israeliano, compresi i comandanti, pieni di odio, di retorica disumanizzante spesso genocida. I post contribuiscono ad accumulare una serie crescente di prove che certificano ciò che le associazioni per i diritti umani e altri hanno definito un modello sistematico di crimini di guerra commessi dalle forze israeliane nella Striscia di Gaza. Inoltre mettono a nudo il vero intento della guerra di Israele contro Gaza. Non è una “guerra difensiva” volta a garantire “il minimo danno ai civili”, come amano affermare Israele e i suoi alleati. Proprio le parole dei soldati suggeriscono che far danno ai civili con morte, distruzione e sfollamento sia, di fatto, l’obiettivo.

Nella prima parte della nostra indagine per Zeteo avevamo considerato le foto disumanizzanti che i soldati hanno condiviso da Gaza. Nella seconda parte documentiamo la retorica genocida che è diventata un tema davvero imperante tra i soldati israeliani, compresi quelli schierati a Gaza. Se non diversamente specificato, i soldati che hanno condiviso i post non hanno risposto alle nostre richieste di commento.

Un progetto per “ridurli in polvere”

L’8 ottobre, su una pagina Facebook, uno che afferma di essere il Colonello riservista Elad Schvartz aveva pubblicato un video con un messaggio per i leader israeliani. “Se entro quattro ore tutti gli ostaggi non verranno rilasciati…, inizieremo a bruciare Gaza”, dice l’ufficiale senior della 91a divisione, vestito con la sua uniforme militare. “Quartiere dopo quartiere.”

A circa 40 miglia di distanza soldati che sembrano appartenere al 5060° Battaglione di Riserva che opera nella città occupata di Hebron, in Cisgiordania, hanno lanciato il loro sentito appello a bruciare le città palestinesi nei territori occupati: “Che il vostro villaggio bruci, che il vostro villaggio bruci”, cantano diversi soldati in un video pubblicato su Instagram da un soldato israeliano.

Gli appelli che chiedevano la distruzione su vasta scala di un popolo e della sua terra non erano solo retorica. Come il mondo ha visto negli ultimi otto mesi sono serviti da piano per la distruzione, documentato non solo dai palestinesi di Gaza ma anche dagli stessi soldati israeliani sul terreno della Striscia che sembravano desiderosi di vantarsi con i loro follower di ciò che avevano pianificato di fare – e di quando lo hanno fatto.

Ciò è stato particolarmente vero per i combattimenti che hanno avuto luogo nel quartiere densamente popolato di Shuja’iyya, a Gaza City dove molti palestinesi avevano cercato rifugio all’inizio della guerra. Quando a dicembre l’esercito israeliano ha fatto irruzione nella zona i blackout nelle comunicazioni hanno reso difficile sapere esattamente cosa stava succedendo. Sarebbe divampata una battaglia feroce.

Almeno due account Instagram che affermavano essere di soldati della brigata Givati hanno condiviso quello che sembrava essere il filmato di un drone che mostrava gli edifici del quartiere in fiamme. Nel video si sente una voce non identificata, presumibilmente un soldato dire che stanno partendo per “l’operazione ottava notte di Hannukah” per bruciare Shuja’iyya. “La faremo vedere ai nostri nemici, che imparino la deterrenza… Li ridurremo in polvere,” aggiunge la voce.

Mohammed Abo Al-Kombz, originario di Shuja’iyya, ha detto a Zeteo che intere parti del quartiere e delle aree vicine sono state date alle fiamme, ciò che sembra essere coerente con quello che si vede nel video.

L’esercito israeliano non ha risposto alle nostre specifiche domande sul filmato o se avesse effettuato un’operazione come quella menzionata nel video. Ma il fatto che il video sia stato caricato sui social media dai soldati israeliani sembra illustrare il messaggio che volevano inviare: “annientare” i palestinesi “riducendoli in polvere”.

Il 19 dicembre il capitano Roi Azran ha pubblicato su Facebook un video di Shuja’iyya che mostrava la distruzione del quartiere. “Ecco Gaza, figlia di puttana. Tutta Shuja’iyya andrà in fiamme”, dice qualcuno nel video.

A gennaio un account Instagram con nome utente alon_dayann che dichiarava essere del soldato israeliano Alon Dayan ha pubblicato un video con un linguaggio simile. “Buongiorno, figli di puttana”, si sente dire un soldato nel video prima di sparare contro quelle che sembrano essere case di civili. La didascalia del video recita in ebraico: “Possa Gaza bruciare con tutti i suoi abitanti”.

Sharon Ohana dei Corpi Combattenti del Genio militare dell’esercito israeliano, in un post di dicembre su Facebook, sembra prefigurare ciò che verrà. Il “destino” di Shuja’iyya, Khan Younis e Rafah “deve essere lo stesso destino della Striscia settentrionale [di Gaza] all’inizio della guerra: sporco e polvere, fuoco e macerie di cemento”, scrive Ohana a dicembre. “… Dobbiamo radere al suolo tutta Gaza!”

Davvero il post di Ohana è solo un brutto scherzo? Ohana chiarisce esplicitamente che non lo è. “ ‘Insieme la spianeremo’ non è uno scherzo ma una dichiarazione inequivocabile scritta con il sangue dai migliori ufficiali dell’IDF attenti alla sicurezza e non per niente…”

Mentre la battaglia infuriava a Shuja’iyya altre unità israeliane stavano invadendo la città di Khan Younis nel sud di Gaza. Il soldato israeliano Peleg Harush ha pubblicato un video su Instagram il 5 dicembre che mostra volute di fumo provenienti da quelle che sembrano essere case di palestinesi. “Ah… Gaza sta bruciando. Bruciate vivi, bastardi”, dice in ebraico una voce nel video.

In un altro post di gennaio dallo stesso account, un soldato che sembra essere Harush invia un messaggio ai residenti di Gaza in ebraico: “Tutto è in rovina, distrutto, bruciato, a pezzi. Non avete nessun posto dove tornare, gazawi. A tutti i cari abitanti di Gaza, non siete cari. Non valete niente… Vi faremo passare un brutto quarto d’ora… Soffrirete ogni secondo per quello che ci avete fatto… Morirete.”

Una cultura dell’impunità

Per un paese che definisce il suo esercito come “il più morale… del mondo”, si potrebbe pensare che tali post avrebbero suscitato dure azioni disciplinari nel tentativo di proteggerne l’immagine generale. Ma come mostra la nostra indagine l’esercito israeliano, almeno pubblicamente, ha adottato poche misure per impedire ai suoi soldati di condividere tali contenuti.

Ciò che abbiamo riscontrato invece è stata una cultura dell’impunità.

Se non diversamente specificato l’esercito israeliano non ha risposto alle domande di Zeteo su soldati o post specifici. Ma un portavoce militare israeliano ha detto a Zeteo in una dichiarazione che “tutti i video, le immagini e i post sui social media” che gli abbiamo segnalato “non sono coerenti con i valori dell’IDF e non riflettono la sua politica”.

Nei “numerosi casi esaminati sembra che l’espressione o il comportamento dei soldati nei filmati siano inappropriati e che altrettanto impropriamente siano stati maneggiati”, ha detto il portavoce, sottolineando, tuttavia, che “l’atto documentato con la dichiarazione che lo accompagna è stato eseguito per scopi militari e in conformità con gli ordini” come nel caso della distruzione di “infrastrutture nemiche”.

“Le autorità competenti erano a conoscenza di molti degli incidenti elencati nella contestazione, ed erano stati esaminati e trattati a livello disciplinare e di comando prima della presentazione della contestazione”, ha detto il portavoce. L’esercito israeliano non ha spiegato cosa comportasse nello specifico l’azione disciplinare.

“I casi che non erano già noti sono stati subito trasferiti per un ulteriore esame e procedura”, ha aggiunto il portavoce. “Nei casi in cui sorga il sospetto di un reato che giustifichi l’apertura di un’indagine, l’indagine viene aperta dalla Polizia Militare.”

Il portavoce militare israeliano Daniel Hagari ha dichiarato ad ABC News all’inizio di quest’anno che l’esercito israeliano è “l’esercito del popolo. E rispettiamo l’essenza, i valori e il diritto internazionale”.

Molti dei post scoperti dalla nostra indagine rimangono online, nonostante le prove che contravvenissero alla politica militare relativa ai social media.

Nel caso di Harush che in un post ha detto: “Figli di puttana possiate bruciare vivi”, l’esercito israeliano ci ha detto a febbraio che il comportamento del soldato era inappropriato ed è stato gestito di conseguenza, senza fornire ulteriori dettagli. Eppure in un post di metà aprile Harush ha scritto “Gaza siamo tornati”, senza aver cancellato gli altri suoi post.

In molti modi i post riflettono in gran parte la società israeliana dopo il 7 ottobre. Una “febbre da genocidio” ha invaso le onde radio, l’industria dell’intrattenimento, i negozi di alimentari e i quartieri del paese, ha scritto a maggio Diana Buttu, collaboratrice di Zeteo. All’inizio dell’anno la stragrande maggioranza degli ebrei israeliani intervistati per un sondaggio ha affermato di ritenere che l’esercito stesse usando “una forza adeguata o troppo scarsa” a Gaza. Molti dei post sui social media trovati nell’ambito di questa indagine avevano ricevuto decine di commenti e like di sostegno.

Post per il genocidio nonostante l’ordine della Corte Interazionale di Giustizia

La decisione dell’esercito israeliano di consentire, anche indirettamente, l’esistenza di questi posti si è già rivelata decisiva. A gennaio la Corte mondiale ha ordinato al governo israeliano di adottare misure per prevenire e punire qualsiasi “incitamento diretto e pubblico al genocidio”, che è punibile ai sensi della Convenzione sul Genocidio. Il Sudafrica, che ha portato il caso contro Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, ha citato diversi post simili di soldati israeliani, incluso almeno uno di quelli da noi precedentemente riportati, come prova di incitamento al genocidio.

L’ordinanza specifica della Corte Internazionale relativa alla prevenzione dell’”incitamento al genocidio”, che faceva parte di un pacchetto di misure provvisorie emesse dalla Corte, era una delle due che ha ricevuto il sostegno dell’allora giudice israeliano Aharon Barak. Eppure, nonostante l’ordinanza della Corte, continuano ad emergere nuovi post dal linguaggio genocida.

Ad aprile un account Instagram che affermava essere di Yehuda Ben Moha, co-fondatore di Eyal Battalion, ha condiviso un video che mostrava quelli che secondo lui erano camion che trasportavano farina, con la didascalia: “Avrei messo del veleno per i ‘non coinvolti’. Anche i camionisti egiziani non li sopportano”. Ben Moha ha rifiutato di commentare il post e l’account è stato reso privato dopo che abbiamo chiesto un commento.

Il 17 aprile un account Facebook che affermava di essere del tenente colonnello Maoz Schwartz del battaglione 7007 ha pubblicato una foto che sembrava mostrare palestinesi sfollati con la forza che fanno il bagno in mare. “Sono su una spiaggia e i nostri ostaggi stanno deperendo in cattività?? Che possano [i gazawi] soffocare! Niente spiaggia, niente piscina, niente!” scrive. “[Tutta] Gaza è una grande area di terroristi, compresi quelli che nella foto fanno il bagno in mare”.

La narrazione militare cade a pezzi

I nostri sforzi investigativi non solo hanno messo in luce gli allarmanti comportamenti dei soldati israeliani, ma hanno anche avuto un ruolo nella causa legale intentata dal Sud Africa contro Israele presso la Corte Internazionale. Tuttavia, il nostro lavoro ha anche attirato la sgradita attenzione dei media israeliani, che hanno rivolto il loro fuoco non contro i soldati impegnati in comportamenti barbari ma contro di noi per averli denunciati.

Portare alla luce quei materiali non è stato facile. Il nostro lavoro non solo ha attirato l’attenzione internazionale sulla situazione reale, ha anche innescato importanti discussioni sulle responsabilità e la giustizia, evidenziando la necessità di un esame più approfondito e completo delle pratiche e delle politiche di fatto all’interno dell’esercito israeliano. Man mano che emergono prove sempre più evidenti, la necessità dell’assunzione di responsabilità diventa sempre più pressante.

In definitiva i post che abbiamo scoperto rivelano un netto contrasto con la narrazione attentamente curata che Israele cerca di diffondere. Nonostante l’esercito israeliano abbia ripetutamente affermato di prendere precauzioni per ridurre al minimo i danni ai civili, le testimonianze di soldati e ufficiali sul campo raccontano una storia decisamente diversa, caratterizzata da distruzione indiscriminata e da una pervasiva cultura dell’impunità che, a nostro avviso, ha fornito ai soldati essenzialmente una tacita approvazione a continuare con le loro azioni senza timore di conseguenze. Le prove raccolte finora sono solo una piccola parte di ciò che c’è.

Ma “l’incitamento al genocidio” è ormai evidente a tutto il mondo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

 

 




Israele ha trasformato le ‘zone sicure’ in campi di sterminio come aveva già fatto lo Sri Lanka

Neve Gordon e Nicola Perugini

11 giugno 2024 – Al Jazeera

Ma c’è una differenza importante fra i due casi: il genocidio a Gaza non sta avvenendo di nascosto.

Mentre i nostri occhi erano puntati sul “Blocco 2371” a Rafah, la piccola zona nel sud di Gaza che il 22 maggio l’esercito israeliano aveva designato come “zona umanitaria sicura” ma che ha bombardato solo quattro giorni dopo, massacrando almeno 45 civili che si erano rifugiati nelle tende, ci è tornato alla mente il cablogramma confidenziale di 15 anni fa intercettato da WikiLeaks in cui si descriveva il dramma dei civili negli ultimi giorni della guerra civile in Sri Lanka.

Inviato nel maggio 2009 dall’ambasciata degli Stati Uniti a Colombo al Dipartimento di Stato americano a Washington, il dispaccio raccontava come il vescovo di Mannar avesse telefonato per chiedere all’ambasciata di intervenire in favore di sette preti cattolici intrappolati in una cosiddetta “No Fire Zone” che era stata istituita come spazio sicuro dall’esercito dello Sri Lanka.

Il vescovo stimava che ci fossero ancora fra i 60.000 e i 75.000 civili confinati in quella particolare zona, situata su un piccolo lembo di terra costiera grande circa il doppio di Central Park a Manhattan. Dopo la telefonata del vescovo l’ambasciatore americano parlò con il ministro degli Esteri dello Sri Lanka chiedendogli di allertare i militari che la maggior parte delle persone rimaste nella “No Fire Zone” erano civili. Sembra che temesse che, a causa degli intensi bombardamenti dell’artiglieria, la fascia costiera sarebbe diventata una trappola mortale.

Non diversamente dagli sforzi dell’esercito israeliano per spingere i civili palestinesi da tutta la Striscia di Gaza nella cosiddetta “zona umanitaria sicura” a Rafah, a un certo punto l’esercito dello Sri Lanka aveva esortato la popolazione civile a riunirsi nelle aree designate come “No Fire Zone” lanciando volantini dagli aerei e facendo annunci con megafoni.

Mentre circa 330.000 sfollati interni si assembravano in queste zone, le Nazioni Unite costruirono campi improvvisati e, insieme a diverse organizzazioni umanitarie, iniziarono a fornire cibo e assistenza medica alla popolazione disperata.

Sembra però che anche le Tigri Tamil, il gruppo armato che combatteva l’esercito dello Sri Lanka, si fossero ritirate in queste “No Fire Zones”. I combattenti avevano precedentemente allestito una complessa rete di bunker e fortificazioni in queste aree e da lì condussero la loro resistenza finale contro i militari.

Mentre l’esercito dello Sri Lanka affermava di essere impegnato in “operazioni umanitarie” volte a “liberare i civili”, l’analisi delle immagini satellitari e di numerose testimonianze rivelò che i militari colpivano continuamente con mortai e fuoco di artiglieria le “No Fire Zones”, trasformando questi spazi dichiarati sicuri in campi di sterminio.

Tra i 10.000 e i 40.000 civili intrappolati morirono nelle cosiddette zone sicure, mentre molte altre migliaia furono quelli gravemente feriti che spesso giacevano a terra per ore e giorni senza ricevere cure mediche perché praticamente ogni ospedale – sia permanente che di fortuna – era stato colpito dall’artiglieria.

Le somiglianze tra lo Sri Lanka del 2009 e Gaza del 2024 sono sorprendenti.

In entrambi i casi i militari hanno sfollato centinaia di migliaia di civili, ordinando loro di riunirsi in “zone sicure” dove non sarebbero stati colpiti.

In entrambi i casi, i militari hanno bombardato le “zone dichiarate sicure”, uccidendo e ferendo indiscriminatamente un gran numero di civili.

In entrambi i casi i militari hanno bombardato anche unità mediche responsabili di salvare la vita dei civili.

In entrambi i casi i portavoce militari hanno giustificato gli attacchi, ammettendo di aver bombardato le zone sicure, ma sostenendo che le Tigri Tamil e Hamas erano responsabili della morte dei civili poiché si erano nascosti tra la popolazione civile usandola come scudo.

In entrambi i casi i Paesi occidentali, pur criticando l’uccisione di innocenti, hanno continuato a fornire armi ai militari. Nel caso dello Sri Lanka, Israele era tra i principali fornitori di armi.

In entrambi i casi l’ONU ha affermato che le parti in conflitto stavano commettendo crimini di guerra e contro l’umanità.

In entrambi i casi i governi hanno mobilitato squadre di esperti che hanno utilizzato acrobazie legali per giustificare i massacri. La loro interpretazione delle regole di ingaggio e dell’applicazione dei concetti fondamentali del diritto internazionale umanitario, tra cui distinzione, proporzionalità, necessità e le nozioni stesse di zone sicure e avvertimenti, sono state messe al servizio della violenza eliminatoria.

Ma c’è anche una differenza importante tra i due casi.

Il genocidio a Gaza non avviene di nascosto.

Mentre in Sri Lanka c’è voluto del tempo per raccogliere le prove delle violazioni e condurre indagini indipendenti, l’attenzione globale su Gaza e le immagini trasmesse in diretta di bambini decapitati e corpi carbonizzati nel “Blocco 2371” possono impedire il ripetersi degli orrori dello Sri Lanka.

I media hanno già mostrato come la “zona sicura” a sud di Wadi Gaza sia stata colpita da bombe di quasi mille chilogrammi uccidendo migliaia di palestinesi.

La Corte Penale Internazionale (CPI) ha raccolto le prove e ora ha emesso mandati di arresto contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Galant per i loro presunti crimini di guerra e contro l’umanità.

La Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha rilevato l’impiego da parte di Israele di incessanti violenze contro i civili e ordinato al governo di “fermare immediatamente” la sua offensiva a Rafah, specificando che le sue azioni non sono state sufficienti “ad alleviare l’immenso rischio [incluso quello di non essere protetti dalla Convenzione sul Genocidio] a cui è esposta la popolazione palestinese a seguito dell’offensiva militare a Rafah”.

Israele ha risposto alla sentenza della più alta corte al mondo continuando a bombardare le zone sicure. Il massacro del Blocco 2371 è avvenuto solo 48 ore dopo l’ordine della CIG. Meno di due settimane dopo un altro attacco aereo israeliano contro una scuola gestita dalle Nazioni Unite nel campo di Nuseirat, anch’esso indicato come “zona sicura”, ha ucciso almeno 40 persone, principalmente donne e bambini. Il 9 giugno un’operazione israeliana per liberare quattro prigionieri israeliani nello stesso campo è costata la vita a 274 palestinesi e il ferimento di centinaia di altri.

Tutti gli occhi sono puntati su Rafah e sul resto della devastata Striscia di Gaza, eppure Israele continua imperterrito a perpetrare i suoi crimini sotto i riflettori, mentre Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania continuano a fornirgli armi.

La CIG e la CPI si sono espresse così come Sudafrica, Spagna, Irlanda, Slovenia e Norvegia. Gli accampamenti universitari e il movimento di solidarietà globale chiedono ai loro governi di applicare un embargo sulle armi e di reclamare un cessate il fuoco mentre testimoniano come Israele abbia trasformato le zone sicure che ha creato in campi di sterminio.

Come in altre situazioni di estrema violenza coloniale l’accelerazione da parte di Israele delle sue pratiche di sterminio a Gaza e il suo goffo tentativo di dipingerle come rispettose della legge sono sintomi del tramonto del suo progetto di espropriazione. Le ex potenze coloniali come Regno Unito, Francia e Germania dovrebbero saperlo. Gli Stati Uniti dovrebbero saperlo. Tutti gli occhi sono su Gaza. Tutti gli occhi sono anche su di loro.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Oltre La Linea.

Neve Gordon è docente di Diritto Internazionale presso la Queen Mary University a Londra. È anche l’autore di Israel’s Occupation [L’occupazione israeliana, Diabasis ed.] e coautore di The Human Right to Dominate [Il diritto umano di dominare, Nottetempo ed.]

Nicola Perugini insegna Relazioni Internazionali all’Università di Edimburgo. È coautore di The Human Right to Dominate [Il diritto umano di dominare, Nottetempo ed.] e Human Shields. A History of People in the Line of Fire (2020) [Scudi umani. Una storia dei popoli sulla linea di fuoco].

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Capire la proposta di Biden per un cessate il fuoco a Gaza

Michel Plitnik

1 giugno 2024 Mondoweiss

I dettagli della proposta di Joe Biden per un cessate il fuoco a Gaza rimangono vaghi, ma un esito dello scontro è certo: Israele e gli Stati Uniti hanno perso.

Venerdì il presidente degli Stati Uniti Joe Biden si è avvicinato al microfono e ha controllato l’orologio prima di iniziare il suo discorso, scherzando sul fatto che voleva assicurarsi che fosse pomeriggio. Dato che era in ritardo di quasi un’ora, qualcuno avrebbe potuto suggerirgli da dietro le quinte di aspettare fino all’inizio di Shabbat in Israele. In questo modo i ministri di estrema destra e osservanti del sabato come Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir avrebbero dovuto aspettare un giorno per rispondere a un discorso che certamente non avrebbero voluto sentire.

Del discorso di Biden nemmeno il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu avrebbe potuto essere molto soddisfatto, anche se doveva sapere da tempo che sarebbe avvenuto.

Biden ha usato gran parte del suo discorso per presentare quella che ha definito “una nuova proposta israeliana” per porre fine al massacro di Gaza. Da un lato il piano da lui presentato era incredibilmente simile a quello respinto da Israele all’inizio di maggio, sostenendo successivamente che Hamas, dopo averlo accettato, lo avesse “modificato”.

Questo solleva la questione del perché Israele lo dovrebbe improvvisamente adesso accettare. Parte della risposta è arrivata poco dopo il discorso di Biden, quando entrambe le camere del Congresso e l’intera leadership bipartisan hanno inviato a Netanyahu l’invito formale a parlare in una sessione congiunta del Congresso, probabilmente alla fine di agosto o all’inizio di settembre.

La politica che concerne tutto ciò è cinica, ma non ci sono dubbi sul fatto che le manifestazioni di massa negli Stati Uniti e in Europa, in tutto il mondo arabo e persino in Israele abbiano spinto tutte le parti coinvolte nei colloqui a mettere almeno un’offerta concreta sul tavolo. Tuttavia questa stessa politica potrebbe significare che nonostante tutto l’attacco di Israele continuerà.

Cosa sappiamo della proposta

Come l’accordo ipotizzato qualche settimana fa la proposta avanzata da Biden è divisa in tre fasi.

Nella Fase Uno ci sarebbe un cessate il fuoco completo per sei settimane. Israele si ritirerebbe da “tutte le aree popolate di Gaza”; Hamas e gli altri gruppi militanti rilascerebbero alcuni ostaggi tra cui donne, anziani e feriti in cambio del rilascio di “centinaia” di prigionieri palestinesi; i civili palestinesi potrebbero ovunque tornare nelle loro case a Gaza e ogni giorno entrerebbero a Gaza almeno 600 camion di aiuti umanitari.

Alcuni dettagli cruciali rimangono poco chiari. Forse il più importante è cosa significhi il ritiro di Israele da “tutte le aree popolate di Gaza”. Se Israele non si impegnerà in alcuna operazione militare, la presenza delle truppe apparirà una cosa di routine. E se i palestinesi possono tornare ovunque a Gaza, ciò lascia poca preziosa terra “spopolata” nella piccola e sovraffollata Striscia.

La Fase Due è in qualche modo aperta e i dettagli dovrebbero essere elaborati durante la Fase Uno. Biden ha affermato esplicitamente che se i negoziati non fossero completati entro sei settimane, il cessate il fuoco verrebbe prolungato fino al loro completamento.

La seconda fase vedrebbe un accordo sulla fine permanente delle ostilità, il rilascio di tutti gli ostaggi viventi detenuti a Gaza e il completo ritiro israeliano da Gaza. Dato che non sembra esserci un quadro normativo per una cessazione definitiva, la prospettiva di successo in un periodo di tempo così breve è dubbia.

La terza fase vedrebbe poi la restituzione dei corpi di tutti gli ostaggi morti e l’inizio di un massiccio sforzo di ricostruzione a Gaza da parte della comunità internazionale.

Cosa manca

Il piano così com’è stato presentato è chiaramente incompleto e solleva la domanda se ci siano ulteriori dettagli importanti da elaborare o se quei punti, alcuni dei quali molto significativi, non siano stati omessi dall’annuncio per ragioni politiche.

Forse il punto più importante che manca nella presentazione di Biden è la governance. È un mistero se Israele o gli Stati Uniti siano disposti a tollerare un governo di Hamas. L’Autorità Palestinese potrebbe avere più facilità a subentrare se Hamas accettasse questa offerta e la presentasse come una vittoria per il popolo palestinese. Ma Israele sarebbe davvero d’accordo su questo? Il popolo di Gaza sarebbe disposto ad accettare una sorta di coalizione internazionale per il controllo temporaneo di Gaza? Anche questo sembra improbabile, anche se potrebbe essere un prezzo che vale la pena pagare per porre fine alla tragedia.

Restano aperte le questioni relative ai crimini di guerra, al caso davanti alla Corte Penale Internazionale e ai suoi potenziali mandati di arresto. Se le gravi violenze a Gaza finissero è del tutto possibile che quei casi possano sparire e con essi la speranza di riconoscere la responsabilità di Stati potenti e dei loro leader che commettono crimini di guerra. Ancora una volta, è difficile immaginare che Israele metta fine al massacro per poi affrontare quelle accuse, ed è difficile immaginare che gli Stati Uniti starebbero a guardare.

C’è anche un ovvio problema di implementazione. Biden ha affermato che se Hamas violasse i termini di questa proposta dopo che fosse stata accettata, Israele potrebbe riprendere la sua campagna genocida. Questa è una minaccia che Israele avrà sempre a disposizione. 

Ma cosa succederebbe se fosse Israele a non rispettare la sua parte nell’accordo? Biden sembra aver semplicemente dato per scontato che, se Israele lo accetterà, rispetterà l’accordo. Le lezioni di Oslo non valgono nulla per il Presidente, e di nuovo manca la consapevolezza che solo la pressione esterna – che deve includere gli Stati Uniti, anche se non è necessario che siano l’unico Stato ad applicarla – può garantire che Israele ottemperi agli accordi. È una storia con un finale molto brutto che abbiamo visto ripetersi molte volte nel corso degli anni.

La politica dell’offerta

La tempistica di questa offerta suggerisce il motivo per cui sia arrivata proprio ora. Visto che Donald Trump era stato condannato per 34 reati a New York proprio il giorno prima, Biden ha fatto di tutto per trarre vantaggio dalla giornata nera di Trump anche perché, almeno inizialmente, le condanne di Trump non sembrano avergli dato una gran spinta.

Naturalmente, visto quanto è costato a Biden il sostegno al genocidio di Gaza, ogni momento è buono per concludere un accordo. La vera domanda è perché Israele all’improvviso abbia accettato la proposta.

In primo luogo è importante comprendere la prassi di Israele. La sua squadra negoziale ha lavorato con Egitto, Qatar e Stati Uniti su questo accordo, ma è improbabile che si tratti di una proposta che venga da Israele, come l’ha presentata Biden. Netanyahu ha dovuto approvare che gli Stati Uniti facessero la proposta a nome di Israele, ma ciò non significa che Israele l’abbia ufficialmente accettata. Netanyahu ha l’ultima parola e se i partiti di estrema destra minacciassero di lasciare il governo potrebbe fare marcia indietro. 

Inoltre Netanyahu non ha avuto bisogno di premere molto per respingere il cessate il fuoco che porterebbe al rilascio degli ostaggi detenuti a Gaza, come ha ripetutamente fatto sin dall’inizio. Anche se il suo governo non dovesse cadere immediatamente, correrebbe comunque un serio rischio nei processi per corruzione in corso. Continuare la carneficina a Gaza impedisce che questo accada.

L’invito del Congresso è probabilmente parte del pacchetto che Biden ha offerto a Netanyahu per portare avanti questa proposta almeno provvisoriamente. Potrebbero esserci altri incentivi che devono ancora concretizzarsi affinché Netanyahu possa aumentare la sua popolarità in Israele o perché altri partiti, come Yesh Atid [partito israeliano sionista di centro e laico, ndt.] di Yair Lapid, accettino di salvare il suo governo se i partiti di estrema destra se ne vanno. Ma Biden ha un disperato bisogno di trarre qualcosa di positivo dalla débâcle di Gaza e se trova il modo di salvare Netanyahu e far sì che ciò accada lo farà sicuramente.

Nel suo discorso Biden ha aperto la porta a Netanyahu dicendo che negli ultimi otto mesi sono stati uccisi così tanti combattenti di Hamas che non sarebbe possibile organizzare di nuovo un attacco pesante come quello del 7 ottobre. Stava chiaramente lastricando la strada che Netanyahu avrebbe potuto percorrere per rivendicare la vittoria accettando questo accordo, suggerendo che l’intenzione di Netanyahu di sconfiggere completamente Hamas sia stata soddisfatta per quanto realisticamente possibile.

Le reazioni

Eppure sia Netanyahu che Hamas sono stati cautamente positivi nelle loro risposte. Hamas ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma: “Hamas conferma la sua disponibilità ad affrontare positivamente e in modo costruttivo qualsiasi proposta basata sul cessate il fuoco permanente e sul completo ritiro [delle forze israeliane] dalla Striscia di Gaza, sulla ricostruzione [di Gaza], e il ritorno degli sfollati ai loro luoghi, insieme alla realizzazione di un vero accordo di scambio di prigionieri se l’occupazione annuncia chiaramente l’impegno a tale accordo”.

È una risposta intelligente. Esprime il fatto che stiano ancora analizzando i dettagli, alcuni dei quali non sono ancora stati resi pubblici e che non si impegneranno pubblicamente nell’accordo finché Israele non dichiarerà il suo appoggio. Il fatto è che questa proposta soddisfa in gran parte le richieste che Hamas ha ripetuto negli ultimi mesi: cessate il fuoco completo, fine delle ostilità, ritiro completo israeliano e completa libertà dei palestinesi di tornare ovunque siano stati cacciati da Gaza.

Tutte queste cose non accadrebbero necessariamente il primo giorno, ma è improbabile che Hamas trovi un accordo migliore di questo ed è certamente un accordo che gli permette di affermare realisticamente di aver resistito a tutti gli attacchi di Israele, e che loro e il popolo di Gaza sono rimasti in piedi. Israele avrà la propria narrazione e i sostenitori di ciascuna parte abbracceranno le varie versioni, ma questo è un argomento realistico che Hamas può sostenere.

Biden ha fatto allusione all’idea che questa proposta in qualche modo rimetta in pista l’idea di una soluzione a due Stati, il che è una totale assurdità. Non avrà alcun effetto su quel miraggio, metterà semplicemente fine al massacro.

Biden ha anche lasciato intendere che la cosa potrebbe portare all’accordo di normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele. Anche questo è improbabile. Non è impossibile, ma richiederà una serie di altre cose per essere realizzato, inclusa l’approvazione del Senato sull’accordo e l’impegno di Israele per uno Stato palestinese, cosa che è altamente improbabile Netanyahu faccia.

In effetti se quell’accordo ne facesse in qualche modo parte sarebbe una ricetta per un disastro. Non solo perché l’idea della normalizzazione è una politica terribile per gli Stati Uniti, i palestinesi e l’intera regione, ma anche perché minaccia di suscitare la stessa disperazione che è stata un fattore significativo nella decisione di Hamas di lanciare l’attacco del 7 ottobre.

Biden non sarebbe saggio nel perseguire questa strada, anche se ne sarebbe tentato data la sua ossessione per l’idea di normalizzazione israelo-saudita e il suo desiderio di una grande vittoria in politica estera. La proposta, anche se accettata, difficilmente sarà quel genere di vittoria.

Ciò è dovuto soprattutto al fatto che l’intera proposta chiarisce come Israele e gli Stati Uniti abbiano perso. La tregua che potrebbe prendere piede è sul tavolo dallo scorso anno, in una forma o nell’altra. Molte vite palestinesi, così come alcune vite israeliane, avrebbero potuto essere salvate.

Israele ha insistito sul fatto che solo la forza delle armi avrebbe potuto liberare gli ostaggi, nonostante il fatto che non ci sia riuscito, mentre un precedente cessate il fuoco prevedeva la liberazione di quasi metà degli ostaggi. Hamas continua ad esistere e continuerà ad esistere indipendentemente dal fatto che questa proposta venga accettata o meno. La popolazione di Gaza è rimasta a Gaza, nonostante la massiccia perdita di vite umane.

Tutto ciò che Israele è riuscito a fare sono stati massacri e distruzioni, che hanno danneggiato gravemente e permanentemente la sua posizione nel mondo, non solo tra milioni e milioni di persone ma anche tra molti governi.

Tutto questo avrebbe potuto essere evitato e non ci vogliono piani complicati per farlo. Concedere semplicemente ai palestinesi i diritti e le libertà che tutti ci aspettiamo. In un mondo simile non ci sarebbe bisogno del 7 ottobre, né di odio, paura e insicurezza. Il discorso di Biden e la sua proposta non contengono alcun indizio che adesso capisca la situazione meglio di quanto la capisse il 6 ottobre.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’ordine giuridico internazionale deve essere restaurato – e Gaza ne fa parte”

Ghousoon Bisharat

24 maggio 2024 – +972 Magazine

Il direttore di Al Mezan, Issam Younis, spiega gli ostacoli e le opportunità per i palestinesi dopo gli importanti interventi dei principali tribunali internazionali.

In una settimana frenetica per gli sviluppi globali in campo giuridico due dei più importanti tribunali internazionali hanno compiuto passi fondamentali per affrontare la guerra che infuria a Gaza dagli attacchi del 7 ottobre.

Il 20 maggio il procuratore della Corte Penale Internazionale (CPI), Karim Khan, ha annunciato di aver emesso i mandati di arresto per diversi importanti leader israeliani e di Hamas per crimini di guerra e contro l’umanità: il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant, che ha accusato di aver ridotto intenzionalmente alla fame e diretto attacchi contro civili palestinesi a Gaza; e Yahya Sinwar, Mohammed Deif e Ismail Haniyeh, ritenuti responsabili di aver diretto l’uccisione e il rapimento di civili israeliani il 7 ottobre.

Poi, il 24 maggio, nellambito del processo in corso in seguito alle accuse di genocidio portate dal Sudafrica contro Israele, la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha ordinato a Israele di cessare immediatamente linvasione di terra di Rafah, in corso da settimane, e di riaprire il valico di Rafah con lEgitto per consentire lingresso di aiuti umanitari e osservatori su mandato delle Nazioni Unite, e ha ribadito la sua richiesta per il rilascio immediato di tutti gli ostaggi israeliani ancora detenuti a Gaza.

Per comprendere il significato di questi sviluppi +972 ha parlato con Issam Younis, direttore del Centro Al Mezan per i diritti umani con sede a Gaza, ed ex commissario generale della Commissione Indipendente Palestinese per i Diritti Umani. Younis è stato sfollato con la sua famiglia dalla città di Gaza all’inizio della guerra, prima di lasciare la Striscia per il Cairo, dove si trova attualmente.

Nel corso di una intervista che tocca molti temi Younis ha [detto di aver] accolto favorevolmente le richieste di mandato di arresto avanzate da Khan, sottolineando la necessità di utilizzare ogni strumento legale per porre Israele di fronte alle proprie responsabilità; contemporaneamente ha visto la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia come un passo significativo per assicurare un cessate il fuoco permanente a Gaza. Tuttavia, ha avvertito Younis, il sistema globale del diritto internazionale si trova con ogni evidenza ad un punto di rottura.

I palestinesi, ha spiegato, sentono che esiste una cronica contraddizione” tra la loro ricerca della giustizia e un mondo in cui le norme del diritto internazionale vengono applicate selettivamente solo a determinati attori. Gaza, secondo Younis, è quindi un test per lordine giuridico, poiché i Paesi del Sud del mondo combattono per sostenere le convinzioni etiche enunciate dal Nord del mondo quasi ottantanni fa.

Younis ha inoltre sostenuto che prendere di mira Netanyahu e Gallant sia stata la cosa facile da fare”, poiché sono i volti pubblici impopolari della campagna militare israeliana. Ma ha sottolineato che la CPI deve perseguire una serie di funzionari che hanno eseguito i crimini, compresi quelli esaminati dallindagine più estesa della Corte sui territori occupati, come lespansione degli insediamenti coloniali in Cisgiordania. Tuttavia Younis è rimasto cautamente ottimista: La giustizia non si ottiene con un knockout, ma con una vittoria ai punti”, ha detto.

L’intervista è stata modificata per motivi di lunghezza e chiarezza.

Molti palestinesi avvertono da tempo che il diritto internazionale non è riuscito a proteggerli o a far progredire la loro lotta, questo fallimento è culminato in ciò che vediamo oggi a Gaza. Avendo dedicato la vita a questo tema, cosa direbbe ai suoi connazionali palestinesi su come considerare gli attuali sviluppi giuridici?

Ci sono due risposte alla richiesta di mandati di arresto di Khan. La prima è che siamo ottimisti sul lungo termine, sul piano strategico. Non siamo ingenui e siamo consapevoli che il diritto internazionale è il prodotto di ciò che gli Stati accettano per proprio vantaggio. Ma cerchiamo il più possibile di utilizzare questi strumenti esistenti. Come scrisse il poeta Al-Tughrai, come sarebbe angusta la vita senza uno spazio per la speranza”, quindi dobbiamo mantenere viva la speranza.

La seconda risposta richiede la comprensione del sistema giuridico internazionale. Le Nazioni Unite, le Convenzioni di Ginevra e altri regolamenti e istituzioni del dopoguerra furono istituiti dai vincitori per proteggere la pace e la sicurezza internazionale, mantenere lordine globale e facilitare la cooperazione internazionale. Queste regole sono diventate troppo restrittive per affrontare le ingiustizie esistenti nel mondo, al punto che il diritto internazionale ora si applica chiaramente solo ad alcuni Paesi e ad alcuni esseri umani, ma non a tutti. Come si può spiegare altrimenti questa iniquità [nella risposta dei Paesi occidentali a Gaza]?

Naturalmente lo status quo [dellapplicazione selettiva del diritto internazionale] è pericoloso. Mette in luce la crisi dellintero sistema. Il genocidio di Gaza conferma che questo ordine internazionale è obsolescente; le regole del 1945 non possono reggere al giorno doggi. Ma fa ancora parte del nostro sistema come palestinesi. Se riusciamo a ottenere giustizia attraverso questi recenti sviluppi, bene; se non possiamo, è unopportunità per massimizzare il nostro impegno politico e legale e dimostrare lassenza di giustizia.

I palestinesi di tutto il mondo – sia in Cisgiordania che a Gaza, a Gerusalemme, nella diaspora o allinterno di Israele – sentono che esiste una cronica contraddizione tra la giustizia e la realtà del mondo. Lassalto a Gaza, in quanto [segnale di] uno scadimento quanto mai brutale e criminale dei valori morali e legali, ha messo [la mancanza di giustizia] in cima allagenda mondiale.

Eppure ai palestinesi dico: non importa quanto brutale e criminale sia la situazione, la giustizia prevarrà. Perché non importa quanto le persone si abituino alla vista del sangue e della morte, questa è una situazione anormale. Non è giusto e un giorno le cose cambieranno. La giustizia non si ottiene con un knockout, ma con una vittoria ai punti, e la vittima deve sempre fare buon uso degli strumenti a sua disposizione.

C’è un chiaro movimento in tutto il mondo: ci sono proteste di massa nelle strade e nei campus. La guerra di Gaza non sta solo sconvolgendo lordine globale, ma rivelando una nuova relazione tra il Nord e il Sud del mondo. Il fatto che il Sudafrica abbia portato avanti il ​​caso di genocidio davanti alla CIG non è stato solo simbolico; lo schierarsi degli Stati del Sud, dichiarato o meno, è importante.

Laltra parte del mondo, gli europei bianchi del Nord, devono rendersi conto che le cose non sono più come prima. Lordine internazionale ha bisogno di essere restaurato e Gaza ne fa parte. Pensavamo che, nonostante il divario tra Sud e Nord, spartissimo alcuni valori con lintera comunità internazionale, solo per scoprire che anche i concetti [più basilari] non sono condivisi.

La prova di questa iniquità è che la guerra a Gaza è ancora in corso dopo otto mesi e che luccisione di [oltre 15.000] bambini è un argomento controverso. Finché il mondo non interviene, continua a inviare spedizioni di armi e a dare sostegno politico, significa che il mondo accetta luccisione di bambini perché non sono bianchi e crede che ogni palestinese sia uno scudo umano, un terrorista, o un ostacolo sul cammino di un nuovo Medio Oriente.

Cosa ne pensa della decisione odierna della CIG?

E’ una evoluzione molto significativa – un passo cruciale [non solo] per porre fine al genocidio a Gaza, ma anche per aprire la strada affinché Israele sia ritenuto responsabile del crimine di genocidio.

La CIG chiede a Israele di fermare immediatamente la sua offensiva militare e qualsiasi altra azione nel Governatorato di Rafah che possa infliggere alla comunità palestinese di Gaza condizioni di vita tali da poter portare alla sua distruzione fisica totale o parziale”. Intendo questo messaggio come una richiesta di cessate il fuoco: la CIG ordina a Israele di interrompere le sue operazioni militari in tutta la Striscia di Gaza, aggiungendo poi una virgola molto importante seguita da qualsiasi altra azione nel Governatorato di Rafah”.

Secondo me con queste parole la CIG ordina a Israele di porre fine del tutto alla guerra, anche se mi aspettavo che la Corte fosse più chiara [nella sua formulazione].

Cosa pensano i palestinesi di Gaza riguardo a questi sviluppi presso la CPI e la CIG?

La gente a Gaza è estremamente arrabbiata con lintero ordine globale e con le istituzioni giuridiche esistenti. Il tempo si misura con i loro cadaveri e gli altri sono vivi solo per caso. Si sentono abbandonati e sentono che il mondo è complice di ciò che sta accadendo loro. Finché non fermerai questa guerra, ne farai parte.

Le ONG palestinesi come Al Mezan hanno collaborato con la CPI sulle indagini riguardanti casi che risalgono alla guerra del 2014. Cosa ne pensa della lentezza delle indagini, che non hanno ancora prodotto alcuna accusa, e della rapidità di quelle avviate in seguito alla guerra in corso?

L’origine della storia risale alla guerra di Gaza del 2008-2009. Ci siamo rivolti allallora procuratore della CPI, il signor Luis Moreno Ocampo, e abbiamo chiesto di indagare [sulla condotta di Israele durante la guerra] come violazione dello Statuto di Roma. Tre anni dopo Ocampo ci ha risposto dicendo che lo status giuridico dello Stato di Palestina non era chiaro alle tre principali istituzioni – lAssemblea Generale dell’ONU, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU e gli Stati parti dello Statuto di Roma – per cui non poteva aprire un’indagine.

Quando nel novembre 2012 la Palestina è diventata uno Stato osservatore non membro dellAssemblea Generale dell’ONU abbiamo avuto una nuova apertura: la Palestina aveva ora il carattere” di uno Stato che poteva firmare lo Statuto di Roma, e così è diventata una dei 124 aderenti alla CPI.

Otto anni dopo la procuratrice della CPI, Fatou Bensouda, ha deciso che esisteva un fondamento in merito e la Camera Preliminare [dopo aver confermato lo status della Palestina come Stato] ha consentito lapertura di unindagine nel 2021. Da allora, lindagine non ha progredito di un solo millimetro, nonostante le numerose guerre lanciate contro Gaza, la continuazione del blocco e altri crimini.

Quindi penso che la recente decisione di Khan suggerisca che non può rimanere in silenzio di fronte a questa ferocia. Mostra anche lentità della pressione esercitata sulla Corte.

La richiesta di Khan di emettere mandati di arresto contro Netanyahu e Gallant – entrambi personaggi politici impopolari e indesiderabili per molti, compresi gli Stati Uniti – è stata la cosa più facile da fare. Il mondo si è reso conto, anche se tardivamente, che Netanyahu rappresenta un ostacolo. E per quanto riguarda Gallant, le sue dichiarazioni dicono Stiamo combattendo animali umani” e Ho ordinato un assedio completo alla Striscia di Gaza. Non ci sarà né elettricità, né cibo, né carburante” sono la prova di una politica brutale. Il procuratore non poteva rimanere neutrale.

L’aver scelto il percorso facile spiega perché non ci sono mandati di arresto per coloro che hanno eseguito e ordinato tali crimini: gli ufficiali militari e della sicurezza e tutti gli altri membri del gabinetto di guerra israeliano. Il criminale, secondo lo Statuto di Roma, è colui che ha ordinato, eseguito, assistito e perfino consentito il crimine, per cui è impensabile impartire ordini ad altri che non siano direttamente responsabili.

Perché il procuratore ha chiesto mandati di arresto relativi solo ai reati a partire dal 7 ottobre?

Spero che questo sia il primo round. Il dovere del procuratore è quello di esaminare tutti i crimini che minacciano la pace e la sicurezza internazionale e di analizzare lintero fascicolo, senza essere selettivo e parziale.

Ma sembra che sia sotto pressione e non potrebbe andare oltre la data del 7 ottobre. Se lo facesse, significherebbe aprire il dossier sugli insediamenti coloniali [in Cisgiordania]. Per i palestinesi le colonie non sono meno pericolose della guerra in atto perché hanno il fine di eliminare ogni possibilità di esistenza per il popolo palestinese. Il trasferimento di una popolazione in territori occupati è un crimine grave ai sensi dello Statuto di Roma e delle Convenzioni di Ginevra. Mi aspettavo che ciò entrasse a far parte del processo in corso presso la CPI, ma sembra che questo sia il massimo che Khan può fare adesso.

La pressione su di lui spiega anche perché ha scelto di richiedere mandati contro tre membri di Hamas e solo due israeliani. Inoltre, i palestinesi sono accusati di otto crimini, gli israeliani di sette, e solo i palestinesi sono accusati di tortura, maltrattamenti, ecc., mentre non vengono nemmeno citati i crimini di rapimento, sparizione e detenzione di palestinesi nelle carceri militari israeliane. Lavoro in questo campo da 35 anni, e non ho mai visto una tale brutalità [contro i prigionieri]: 27 palestinesi sono stati uccisi nelle carceri israeliane: non combattenti illegali”, ma lavoratori che si trovavano sul posto di lavoro quando Hamas ha lanciato il suo attacco, tutti passati attraverso controlli di sicurezza e in possesso del permesso di lavorare in Israele.

Inoltre il procuratore ha scelto di non menzionare il reato di genocidio. Eppure quello che sta accadendo ora è un genocidio in tutti i sensi, e prove attendibili [di questo] sono state presentate dal team legale sudafricano davanti alla CIG.

Una questione chiave riguardo allintervento della CPI è la complementarità (ovvero Israele che indaga su sé stesso). Quale è stata lesperienza di Al Mezan sul modo di perseguire l’accertamento di responsabilità da parte del sistema giudiziario israeliano?

In quanto organizzazione per i diritti umani, trattiamo con lautorità esistente purché garantisca un certo rispetto per i diritti umani dei cittadini. Tra le parti con cui abbiamo collaborato, ad esempio, c’è il Corpo dellAvvocatura Generale Militare Israeliana (MAG Corps). Durante la guerra del 2014 e prima abbiamo presentato centinaia di richieste sui crimini più gravi commessi. La stragrande maggioranza dei casi non è stata oggetto di indagini, ad eccezione di quelli riguardanti la disciplina militare, come il caso di un soldato che ha rubato una carta di credito. Non c’è stata alcuna indagine sugli omicidi di intere famiglie cancellate dall’anagrafe o sulla distruzione di un ospedale. Ma dobbiamo sfruttare tutti i mezzi di contenzioso a livello nazionale di fronte alla potenza occupante.

Israele è quasi l’unico Paese al mondo in cui la magistratura boicotta le vittime. Ciò è delineato nella modifica del 2012 della legge sulla responsabilità dello Stato [n. 8]. In molti paesi, le vittime boicottano il sistema giudiziario perché lo considerano non indipendente, imparziale o neutrale.

Il nostro criterio è stato: Siamo di Gaza e i giudici israeliani devono renderci giustizia”, ma loro forniscono sempre copertura politica e legale [allo Stato]. Una vittima [che noi rappresentavamo] ha perso la sua casa nel 2008 e l’ha ricostruita, nel 2012 un suo familiare è stato ucciso e nel 2014 lesercito ha nuovamente distrutto la sua casa. Nessun tribunale israeliano gli ha reso giustizia. Allora dove deve rivolgersi? Il principio di complementarità è fondamentale, ma nel caso di Israele, la sua magistratura non può garantire giustizia ai palestinesi.

Come considera la reazione degli Stati Uniti alle notizie della CPI?

Gli Stati Uniti sono parte del problema, non parte della soluzione. Gli Stati Uniti hanno esercitato pressioni sulla Corte e quando la precedente procuratrice Fatou Bensouda ha aperto unindagine, è stata punita: lamministrazione Trump ha revocato i visti a Bensouda e ad altri collaboratori, oltre ad altre misure di ritorsione. Durante lamministrazione Bush, gli Stati Uniti hanno anche firmato accordi con la maggior parte degli Stati firmatari dello Statuto di Roma per non estradare o detenere alcun cittadino americano accusato di crimini di guerra, garantendo così limmunità ai propri soldati. Questa settimana, i senatori statunitensi hanno firmato dichiarazioni minacciose contro la Corte. Ciò non ha precedenti.

Cosa ci si può aspettare da un Paese che pensa e agisce in questo modo? Se gli Stati Uniti avessero voluto porre fine alla guerra lavrebbero fatto in cinque minuti, con una telefonata di Biden. Per gli Stati Uniti, il tribunale è eccellente purché emetta un mandato di arresto per Putin, ma diventa un problema quando si occupa di altri casi che riguardano suoi stretti alleati. Gli Stati Uniti stanno trascinando il mondo verso situazioni pericolose e persino catastrofiche.

Cosa significano i mandati per gli obblighi della Palestina in quanto firmataria dello Statuto di Roma – compreso il fatto che Sinwar e Deif si trovano in territorio palestinese?

Conveniamo sul fatto che lo Stato di Palestina non esercita alcun tipo di sovranità ed è uno Stato sotto occupazione. È uno Stato virtuale. Se lo stesso Presidente vuole spostarsi da un luogo all’altro della Cisgiordania o al di fuori di essa ha bisogno dell’approvazione degli israeliani. Il mondo è consapevole che lAutorità Nazionale Palestinese non ha alcun potere per arrestare nessuno. Vuole adempiere ai suoi doveri legali come Stato indipendente, ma non può.

[Riguardo ad Hamas], non siamo noi a stabilire il diritto internazionale, ma ci sono regole che valgono per tutti e che tutti devono rispettare. La resistenza e la lotta fanno parte della natura umana, che cerca di porre l’accento sulla moralità e le leggi umanitarie che il mondo civilizzato ha accettato per sé. C’è sempre bisogno di riflettere sui mezzi di resistenza e su come ottenere i migliori risultati possibili. La resistenza ha sempre bisogno di riesaminare sé stessa, ma ciò non nega che esiste unoccupazione e ad essa bisogna resistere.

La domanda più importante è come può il popolo palestinese fare ciò mentre è sottoposto a questa ferocia e aggressione. Alla fine, lalbero della vita è sempreverde e la teoria è grigia.

È necessario porre fine a questo conflitto e fornire ai palestinesi tutte le risorse morali, legali e umanitarie affinché possano esercitare il loro diritto allautodeterminazione. A proposito, non si tratta solo del diritto al proprio Stato; sono contrario allidea che il problema dei palestinesi sia che non hanno uno Stato. In effetti, il popolo palestinese rivendica il diritto allautodeterminazione affinché possiamo decidere del nostro destino. E se non volessimo uno Stato?

Questa è la prima volta che i leader palestinesi vengono formalmente accusati di crimini di guerra internazionali. Cosa significa questo per la lotta e la resistenza palestinese? La mossa della CPI significa che ci sono linee rosse anche per la resistenza?

Come organizzazioni per i diritti umani crediamo che chiunque violi lo Statuto di Roma, indipendentemente dalla sua nazionalità, debba essere assicurato alla giustizia e assumersi la responsabilità delle proprie azioni.

Sono dellopinione che, anche se questa decisione di richiedere mandati di arresto contro Sinwar, Deif e Haniyeh è inaccettabile per alcuni palestinesi, questa è unopportunità per qualsiasi imputato per presentarsi davanti alla Corte, difendere la propria versione, contestualizzare le cose e presentare prove. In definitiva, anche se vengono emessi mandati, gli accusati sono sempre innocenti fino a prova contraria.

Non siamo noi a decidere cosa sia un crimine di guerra: alla fine lo deciderà il tribunale. Ma la Corte stessa deve essere totalmente credibile e non politicizzare la questione, perché il sistema internazionale è ora messo alla prova. E continuiamo a chiedere ad alta voce: Chi sta commettendo un genocidio?”

Per quanto riguarda la scelta tra resistere o negoziare [con Israele], secondo me, entrambe le scelte sono problematiche finché non hanno il consenso della gente. Pagheremo un prezzo per entrambe le opzioni, ma siamo pronti a farlo. La questione importante è che esiste una causa giusta e noi vogliamo porre fine alloccupazione, ma c’è uno sforzo organizzato per inquadrare ogni nostra azione come immorale.

E’ fiducioso sul fatto che il mondo rispetterà i mandati di arresto?

Continuiamo a credere che il mantenimento della sicurezza internazionale, della stabilità e della pace sia un dovere internazionale. È interessante che un Paese che fornisce copertura per il genocidio, come la Germania, affermi che le decisioni della Corte devono essere rispettate. La mancata attuazione di queste decisioni significherebbe che il mondo ha dimenticato lo Stato di diritto e sta passando alle regole della giungla.

In che modo la richiesta di mandati darresto da parte della CPI potrebbe influenzare il procedimento giudiziario presso la CIG?

Sono due ambiti diversi e ogni tribunale gode di piena indipendenza, senza alcun rapporto ufficiale tra loro. Ma dal momento che la CIG sta discutendo il caso del genocidio, ciò può aiutare il procuratore della CPI nelle accuse contro gli israeliani incriminati. Senza dubbio, il procedimento presso la CIG aiuta a creare lambiente appropriato [per le azioni della CPI]. LCIG ha accettato la richiesta del Sud Africa, il che significa che esiste un fondamento per la richiesta. Spetta alla Corte decidere nel merito, ma da un punto di vista procedurale il procuratore della CPI non avrebbe dovuto aver paura di portare avanti le accuse di genocidio contro i singoli israeliani.

Lei e la sua famiglia avete lasciato Gaza a dicembre e ora vi trovate al Cairo. Come vi sentite in questo momento?

Siamo vivi per caso e ci troviamo ancora in bilico tra la vita e la morte. La cosa più importante per me è essere forte e sostenere mia moglie e i miei figli. Sono al Cairo, ma il mio cuore e la mia mente sono con la mia famiglia, i miei vicini, i miei colleghi e i miei amici a Gaza.

Abbiamo perso le nostre case e le proprietà. Sono stato costretto a lasciare la mia casa nel quartiere di Al-Rimal a Gaza City il 13 ottobre. La mia casa e il mio ufficio sono stati gravemente danneggiati e lintero edificio di mio figlio è stato distrutto, colpito da un missile. Siamo stati sfollati a Rafah per alcuni mesi, a differenza di molti altri che sono stati uccisi quando le loro case sono state prese di mira, e abbiamo lasciato Gaza il 3 dicembre.

Ciò che abbiamo vissuto a Gaza è stato incredibile. Non dimenticherò mai la paura della cintura di fuoco dei bombardamenti. Immagini il rumore degli spari di un fucile automatico; ora immagini la stessa cosa dagli aeroplani. Con lanci a intervalli regolari, di pochi secondi tra loro, in una zona residenziale piena di bambini e donne. Lo stato di terrore è indescrivibile. Ho perso molti familiari e amici. Cerco di non ascoltare le notizie, perché le notizie ti portano sempre i nomi delle persone che sono state uccise.

Tornerà a Gaza?

Sì, naturalmente. Quando la guerra finirà voglio tornare indietro e contribuire alla ricostruzione di Gaza. Non c’è dignità se non nella propria patria. Voglio tornare indietro, ma la mia famiglia potrebbe non tornare perché non ci sono case, ospedali, scuole o università.

Capisco chi afferma di non poter tornare, perché tutte le cose necessarie alla vita sono state completamente distrutte. Capisco i giovani che sono riusciti ad andare via e non vogliono tornare. Ma tornerò per ricostruire Gaza per le giovani generazioni, per i miei figli e nipoti.

Ghousoon Bisharat è la redattrice capo della rivista +972.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Come i medici carcerari israeliani partecipano alla tortura dei detenuti palestinesi

Kanav Kathuria

28 maggio 2024 – Mondoweiss

I medici israeliani forniscono agli interroganti le informazioni mediche riguardanti i prigionieri per dare il via libera alla tortura, istruiscono gli interroganti su come infliggere dolore senza lasciare segni fisici e collaborano persino personalmente nell’infliggere le torture.

Quando lunedì il procuratore capo della Corte Penale Internazionale Karim Khan ha richiesto dei mandati di arresto per Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant ha scelto sorprendentemente di non includere nella sua lista dei crimini di guerra e dei crimini contro lumanità commessi da Israele la tortura o la violenza sessuale contro i prigionieri palestinesi.

Lomissione della tortura da parte di Khan è incredibile. Negli ultimi sette mesi centinaia di rapporti, testimonianze e indagini hanno fatto ulteriore luce sulla pratica brutale della tortura da parte di Israele nei confronti dei detenuti palestinesi e dei prigionieri nelle carceri delloccupazione israeliana.

Come hanno ampiamente documentato organizzazioni della società civile palestinese come lAddameer Prisoner Support, Human Rights Association, il Palestine PrisonersClub e altre, i prigionieri vengono brutalmente picchiati e maltrattati più volte al giorno, rinchiusi in celle non adatte alla vita umana, tenuti bendati con le mani legate con fascette di plastica, isolati dal mondo esterno, spogliati dei loro vestiti, puniti collettivamente attraverso la fame, attaccati da cani, aggrediti sessualmente e torturati psicologicamente. Dal 7 ottobre almeno tredici palestinesi sono stati portati alla morte in carcere in seguito alla tortura e alla negazione di cure mediche adeguate. Innumerevoli altri sono stati scoperti in fosse comuni con evidenti segni delle torture subite, esecuzioni e altri crimini contro l’umanità.

Sebbene trattata dai mezzi di informazione occidentali come un fenomeno nuovo o eccezionale, come nella recente denuncia della CNN sugli orrori praticati nel famigerato centro di detenzione di Sde Teiman, la tortura israeliana precede di molto il 7 ottobre. Luso della tortura in Israele come strumento coloniale per soggiogare e esercitare il controllo sui palestinesi è intrecciato con la sua stessa nascita come Stato. Come ha scritto nel 2010 dal carcere Walid Daqqa, icona rivoluzionaria e letteraria palestinese,

Ciò che accade nelle [carceri israeliane] non è solo detenzione e isolamento di un popolo considerato un rischio per la sicurezza di Israele, ma fa parte di uno schema generale, scientificamente pianificato e calcolato per rimodellare la coscienza palestinese”.

La tortura israeliana è quindi istituzionalizzata e sistematica portata avanti dall’esteso regime di sicurezzadello Stato e autorizzata dai suoi organi legali e giudiziari. A livello internazionale luso della tortura da parte di Israele continua a non essere oggetto di verifica, nonostante lo Stato sia firmatario della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti.

Tuttavia, nel fare luce sul labirinto di sistemi, leggi, istituzioni e persone che modellano il modo in cui Israele pratica la tortura [emerge che] una fondamentale categoria di persone coinvolte tende a sfuggire alla responsabilità: gli operatori sanitari nelle carceri e nei centri di detenzione delloccupazione israeliana. Mentre lattenzione su chi tortura generalmente ricade sugli interroganti dello Shin Bet (o lagenzia di sicurezzainterna israeliana), i medici e gli psicologi carcerari israeliani sono profondamente complici della tortura e del trattamento crudele, inumano o degradante dei palestinesi incarcerati che si suppone siano affidati alle loro cure.

Via liberaalla tortura fornito dai medici

Le norme internazionali che vietano ai medici di compiere atti di tortura sono categoriche. Ad esempio, la Dichiarazione di Tokyo del 1975 della World Medical Association – un’associazione a cui appartiene l’Israel Medical Association – afferma che un medico non deve “consentire o partecipare alla pratica della tortura… qualunque sia il reato di cui sia sospettata la vittima di tali procedure”, accusata o colpevole, e qualunque siano le convinzioni o le motivazioni della vittima… anche [nei] conflitti armati e guerre civili.” La Dichiarazione afferma inoltre che mentre i medici hanno lobbligo di diagnosticare e curare le vittime di tortura, è eticamente loro vietato condurre qualsiasi valutazione, o fornire informazioni o trattamenti, che possano facilitare o perpetuare la tortura. (enfasi aggiunta).

In altre parole: un medico può comunque essere complice della tortura anche se la sua partecipazione non è diretta. In quanto professionisti medici responsabili del benessere dei loro pazienti i medici hanno l’obbligo etico di segnalare e denunciare gli abusi di cui sono testimoni, di proteggere i loro pazienti, di garantire la riservatezza delle informazioni mediche personali dei pazienti e di astenersi da qualsiasi situazione in cui venga utilizzata o minacciata la tortura.

Le prove degli ultimi 30 anni dimostrano che regolarmente i medici israeliani non rispettano questi obblighi etici e operano in violazione del diritto internazionale. Come dettagliato nei rapporti di Human Rights Watch, Amnesty International, Physicians for Human Rights-Israel e molti, molti altri, in Israele il coinvolgimento dei medici nella tortura è sistematico e di fatto parte integrante del regime di tortura israeliano.

La complicità dei medici nella tortura si manifesta in vari modi. Come spiegato nello studio globale di Addameer del 2020, Cell 26, prima dellinizio dellinterrogatorio di un detenuto, i medici israeliani collaborano con gli interroganti dello Shin Bet per certificareo constatare che siano idonei” ad essere sottoposti a tortura. Per tutta la durata dellinterrogatorio un medico fornisce il via liberaaffinché la tortura possa continuare.

Ma lautorizzazione alla tortura va oltre un superficiale controllo sanitario. Nei loro esami, gli operatori sanitari cercano i punti deboli fisici e psicologici da sfruttare in una persona. Queste debolezze vengono condivise attivamente con gli interroganti per aiutarli a spezzare lo spirito del prigioniero.

Inoltre i medici israeliani tacciono sulle ferite che osservano durante la tortura. Invece di adempiere alle proprie responsabilità etiche con il denunciare gli abusi, i medici falsificano o si astengono dal documentare gli effetti fisici e psicologici della tortura sul corpo e sulla mente di un detenuto, privando le vittime della possibilità di utilizzare potenziali prove contro i loro torturatori.

La complicità medica nella tortura si estende oltre i singoli professionisti fino allintero sistema sanitario israeliano. I detenuti palestinesi raccontano che gli interroganti sono addestrati a metodi di abuso progettati per infliggere il massimo danno. Questa conoscenza non è innata; al contrario, secondo Cell 26, la ricerca medica è coinvolta con gli interroganti delloccupazione israeliana per armarli di tecniche e programmi di tortura specifici intesi a causare sofferenze estreme ai detenuti palestinesi lasciando minimi segni fisici.

Dal 7 ottobre le indagini e le testimonianze di sopravvissuti alla tortura, difensori e organizzazioni per i diritti umani e persino alcuni informatori israeliani hanno confermato che il coinvolgimento dei medici israeliani nella tortura è ancora in corso. Il 16 aprile un rapporto scioccante dellAgenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e lOccupazione Lavorativa (UNRWA) sulla tortura dei detenuti di Gaza ha affermato che quando tentavano di ricevere assistenza medica per la cura delle ferite causate dalle torture, i prigionieri palestinesi venivano invece picchiati più duramente dai medici della prigione.

La complicità dei medici nella tortura include anche la negligenza medica, una pratica deliberata e di lunga data nelle carceri israeliane. Un rapporto di Physicians for Human Rights-Israel [Medici per i diritti umani-Israele] pubblicato il mese scorso descrive in dettaglio le orribili condizioni di reclusione in un ospedale da campo situato presso la base militare e centro di detenzione di Sde Teiman. Secondo il rapporto, il personale medico presta assistenza a pazienti immobilizzati e bendati; esegue procedure mediche invasive senza che i pazienti ricevano sufficienti spiegazioni in anticipo o diano il loro consenso; rifiuta di prestare le cure rifiutando la somministrazione di farmaci antidolorifici e giustificando la fornitura del trattamento esclusivamente nei casi in cui ciò aiuti le forze di sicurezza a interrogare i pazienti. Inoltre, al personale medico non è richiesto di denunciare o documentare casi di violenza o tortura di cui sia stato testimone né di firmare documenti medici con il proprio nome o numero di licenza, proteggendolo da qualsiasi potenziale indagine riguardante la violazione delletica medica.

Nellindagine della CNN su Sde Teiman altri tre informatori israeliani presso il centro di detenzione hanno rivelato come le procedure mediche presso la struttura siano a volte eseguite da medici sottoqualificati, tanto che [l’ospedale da campo] si è guadagnato la reputazione di ‘paradiso per i tirocinanti’”.

Come ha detto uno degli informatori alla CNN: Mi è stato chiesto di imparare come fare delle cose sui pazienti, eseguendo procedure mediche minori che sono totalmente al di fuori della mia competenzail trovarmi soltanto lì mi sembrava di essere complice di abusi. La stessa persona ha anche assistito ad amputazioni eseguite su persone che avevano subito ferite causate dalla costrizione continuativa delle mani.

Le condizioni all’interno dellospedale da campo di Sde Teiman sono così disastrose che allinizio di aprile un medico israeliano di stanza presso la struttura ha scritto una lettera al ministro della Sanità israeliano esprimendo le sue preoccupazioni. In essa afferma che le circostanze sono così cupe che i suoi impegni fondamentali nei confronti dei pazientisono stati lasciati da parte e che le équipe mediche della struttura, così come il Ministero della Salute, stanno violando la legge israeliana sullincarcerazione dei combattenti illegali.

Quando i medici sono agenti del colonialismo

La partecipazione alla tortura dei medici professionisti coloro il cui dovere è evidentemente quello di guarire, alleviare la sofferenza e agire nel migliore interesse dei loro pazienti non è una contraddizione. Indipendentemente dalletica o dalle leggi, il personale medico israeliano opera innanzitutto come agente del regime coloniale di insediamento israeliano. Sotto il colonialismo di insediamento tutti gli aspetti della società di un colonizzatore hanno un unico scopo: favorire loppressione delle persone colonizzate.

La professione medica non è diversa. Nel suo saggio Medicina e colonialismoFrantz Fanon delinea cosa significa praticare la medicina in un contesto coloniale. Parlando dellAlgeria francese, scrive:

il medico stessoha deciso di escludersi dal cerchio protettivo che i principi e i valori della professione medica hanno intessuto attorno a luiIn una data regione, il medico si rivela talvolta come il più sanguinario dei colonizzatoricosì diventa il torturatore sotto le apparenze di un medico.

Fanon continua: Sul piano strettamente tecnico il medico europeo collabora attivamente con le forze coloniali nelle loro pratiche più spaventose e più degradanti”.

Gli ultimi 230 giorni hanno reso dolorosamente evidente che lannientamento delle infrastrutture sanitarie di Gaza è uno degli obiettivi centrali della campagna genocida di Israele. Oltre alla distruzione degli ospedali, gli operatori sanitari palestinesi vengono rapiti, torturati e uccisi a centinaia. Secondo il Ministero della Sanità di Gaza dal 7 ottobre almeno 493 operatori sanitari sono stati assassinati da Israele. Altri 200 sono stati fatti prigionieri dalle forze di occupazione israeliane. Alcuni come il dottor Adnan Al-Bursh, primario di ortopedia presso lospedale al-Shifa sono stati torturati a morte dopo mesi di prigionia.

Mentre Israele bombarda e distrugge gli ospedali i medici israeliani torturano i prigionieri palestinesi. Mentre Israele giustizia i pazienti palestinesi, i suoi medici condividono ricerche mediche per aiutare a torturare meglio i detenuti palestinesi. Nelle parole del dottor Al-Bursh: La pratica della medicina è diventata un criminee la detenzione e la tortura a morte è diventata la punizione per aver salvato vite umane”.

Mentre i medici palestinesi muoiono negli ospedali di Gaza con i loro pazienti i medici israeliani sono complici del genocidio.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Analisi delle richieste di mandato d’arresto della CPI contro i leader israeliani e di Hamas

Sondos Shalaby

20 maggio 2024-Middle East Eye

MEE analizza le accuse e le prove utilizzate da Karim Khan nella sua richiesta di mandati di arresto contro Netanyahu, Gallant e i leader di Hamas

I leader israeliani e di Hamas affrontano una serie di accuse davanti alla Corte Penale Internazionale (CPI) per il loro ruolo in presunti crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante la guerra di Israele a Gaza e l’attacco guidato da Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele.

Lunedì il procuratore della CPI Karim Khan ha dichiarato di aver presentato una richiesta di mandato di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant, nonché per i leader di Hamas Yahya Sinwar, Ismail Haniyeh e Mohammed Deif.

La richiesta si basa sulle prove raccolte dal Procuratore durante la sua visita in Israele, a Ramallah nella Cisgiordania occupata e a Rafah in Egitto, al confine con Gaza. Ma Khan non potuto recarsi a Gaza poiché le sue richieste di entrare nell’enclave per indagini sono state rifiutate dal governo israeliano.

Le accuse contro entrambe le parti sono conformi agli articoli 7 sui crimini contro l’umanità e all’articolo 8 sui crimini di guerra dello Statuto di Roma che ha istituito la CPI, e tutti i sospettati sono identificati come “co-perpetratori” e comandanti” con responsabilità penale per i presunti crimini.

I crimini di guerra vengono commessi nel contesto di conflitti armati internazionali e non internazionali, mentre i crimini contro l’umanità possono essere perpetrati durante la guerra o in tempo di pace. Il pubblico ministero ha descritto la situazione in Palestina e Israele sia come un conflitto armato internazionale tra Israele e la Palestina come due stati, sia come un conflitto armato non internazionale tra Israele e Hamas come attore non statale.

Per poter provare un crimine contro l’umanità secondo l’articolo 7 esso deve essere commesso in modo diffuso o sistematico.

Accuse contro gli israeliani

Secondo il Procuratore, ci sono fondati motivi per ritenere che Netanyahu e Gallant abbiano responsabilità penali per i seguenti crimini:

  1. Affamare i civili come metodo di guerra costituisce crimine di guerra.

  2. Causare intenzionalmente grandi sofferenze, o gravi lesioni al corpo o alla salute, o trattamenti crudeli costituisce crimine di guerra

  3. Uccisione intenzionale o omicidio [non in combattimento, n.d.t.] costituisce crimine di guerra

  4. Dirigere intenzionalmente attacchi contro una popolazione civile costituisce crimine di guerra

  5. Sterminio e/o omicidio, anche mediante le morti per fame, costituisce crimine contro l’umanità

  6. La persecuzione costituisce crimine contro l’umanità

  7. Altri atti disumani costituiscono crimini contro l’umanità

Le prove utilizzate a sostegno delle indagini includono “interviste con sopravvissuti e testimoni oculari, materiale video, fotografico e audio autenticato, immagini satellitari e dichiarazioni del presunto gruppo autore del reato”.

Le accuse sono principalmente legate al crimine di guerra di affamare i civili come metodo di guerra. Ciò è collegato all’assedio totale imposto da Israele dal 7 ottobre alla Striscia di Gaza che ha comportato la chiusura dei valichi di frontiera e “la limitazione arbitraria del trasferimento di forniture essenziali – compresi cibo e medicine – attraverso i valichi di frontiera dopo la loro riapertura”.

Il Procuratore ha anche notato che Israele ha tagliato le forniture transfrontaliere di acqua pulita ai palestinesi di Gaza, ha bloccato gli aiuti umanitari e ha attaccato i civili in coda per ricevere cibo e operatori umanitari.

Khan ha affermato che le prove raccolte dal suo ufficio “dimostrano che Israele ha intenzionalmente e sistematicamente privato la popolazione civile in tutte le parti di Gaza di beni indispensabili alla sopravvivenza umana”.

Il pubblico ministero ha utilizzato le prove fornite dalle organizzazioni umanitarie internazionali secondo cui la carestia è presente in alcune aree della Striscia di Gaza mentre altre aree stanno affrontando una carestia imminente.

La tesi di Khan si basa su un rapporto di un gruppo di esperti di diritto internazionale incaricato dal pubblico ministero di valutare il mandato d’arresto. Secondo il rapporto tutte le accuse sembrano essere legate alla politica di assedio attuata da Israele dal 7 ottobre e alla privazione dei beni necessari alla sopravvivenza.

Tuttavia non includono l’uccisione in massa di civili o i risultati della campagna di bombardamenti che finora ha ucciso più di 35.000 palestinesi, per lo più donne e bambini, e ha distrutto gran parte delle infrastrutture di Gaza.

Inoltre non includono il reato di genocidio attualmente all’esame della Corte Internazionale di Giustizia in un caso presentato dal Sudafrica contro Israele a dicembre.

Tuttavia la Commissione e il Procuratore hanno riconosciuto che altri crimini e la campagna di bombardamenti in corso portata avanti da Israele sono attualmente oggetto di indagini da parte della CPI.

Accuse contro i palestinesi

L’annuncio del Procuratore nomina tre leader di Hamas che affrontano un mandato d’arresto: Sinwar, leader del movimento palestinese a Gaza, Mohammed Diab Ibrahim al-Masri, capo dell’ala militare del gruppo, meglio noto come Mohammed Deif, e il capo dell’ufficio politico Ismail Haniyeh.

Sulla base delle prove raccolte ed esaminate dall’ufficio della procura in relazione all’uccisione di centinaia di civili israeliani il 7 ottobre e alla presa di almeno 245 prigionieri elenca poi otto crimini perpetrati dai tre.

Il Procuratore ha affermato che i leader di Hamas sono responsabili penalmente dei seguenti crimini:

1. Lo sterminio come crimine contro l’umanità

2. L’omicidio come crimine contro l’umanità e come crimine di guerra

3. La presa di ostaggi come crimine di guerra

4. Stupro e altri atti di violenza sessuale come crimini contro l’umanità e anche come crimini di guerra durante la prigionia

5. La tortura come crimine contro l’umanità e anche come crimine di guerra durante la prigionia

6. Altri atti disumani durante la prigionia costituiscono un crimine contro l’umanità

7. Il trattamento crudele durante la prigionia costituisce crimine di guerra

8. Gli oltraggi alla dignità personale durante la prigionia costituiscono crimine di guerra.

Le prove utilizzate dalla Corte penale internazionale includono interviste con vittime e sopravvissuti, compresi ex prigionieri e testimoni oculari provenienti da sei principali località colpite nel sud di Israele: Kfar Aza, Holit, la sede del festival musicale Supernova, Beeri, Nir Oz e Nahal Oz.

Il Procuratore ha affermato che l’indagine si è basata anche su prove raccolte da filmati CCTV, materiale audio, fotografico e video verificato, dichiarazioni di membri di Hamas e prove di esperti.

Khan ha detto che il suo ufficio continua a indagare su sospetti crimini in Israele, Gaza e Cisgiordania e che ulteriori mandati di arresto potrebbero essere emessi in futuro: “se e quando considereremo che la soglia di una prospettiva realistica di condanna è stata raggiunta”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele chiude Al Jazeera e continua a uccidere giornalisti

Tamara Nassar

11 maggio 2024 The Electronic Intifada

Il genocidio di Israele a Gaza ha distrutto la facciata della libertà di stampa.

Mentre il New York Times riceve un Premio Pulitzer per i suoi reportage internazionali (nonostante le rivelazioni che hanno smentito gli articoli pubblicati che accusavano Hamas di usare lo stupro di massa come arma di guerra), e mentre lélite dei principali media occidentali si riuniva alla cena incontro stampa della Casa Bianca con il Presidente Joe Biden (nonostante il suo incessante sostegno al genocidio israeliano a Gaza), continuano gli attacchi senza freni di Israele contro i giornalisti.

La settimana scorsa il gabinetto del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha votato la chiusura dell’attività della rete Al Jazeera in Israele.

La mossa fa seguito a una recente legge approvata dalla Knesset, il parlamento israeliano, che consente la chiusura temporanea delle emittenti straniere se il governo israeliano ritiene che rappresentino una minaccia per la sicurezza nazionale nel contesto dei bombardamenti in corso sui palestinesi a Gaza.

Domenica scorsa la polizia israeliana ha fatto irruzione negli uffici di Al Jazeera a Gerusalemme, revocando gli accrediti stampa e vietando alla rete di mandare in onda le sue trasmissioni.

Al Jazeera ha condannato la chiusura delle sue operazioni da parte di Israele come “atto criminale”, affermando che costituisce una violazione del diritto internazionale e umanitario.

“Al Jazeera afferma il suo diritto di continuare a fornire notizie e informazioni al suo pubblico nel mondo“, ha affermato la rete.

Le aggressioni dirette e l’uccisione di giornalisti, gli arresti, le intimidazioni e le minacce da parte di Israele non scoraggeranno Al Jazeera nel suo impegno a coprire gli avvenimenti, mentre più di 140 giornalisti palestinesi sono stati uccisi dall’inizio della guerra a Gaza”.

Al Jazeera è il principale organo di informazione internazionale a trasmettere quelle che sono diventate le immagini distintive del genocidio di Israele a Gaza, con i suoi giornalisti che coraggiosamente riferiscono sul terreno nell’enclave costiera, anche dalle aree settentrionali.

È anche la principale piattaforma che trasmette video delle operazioni di resistenza, spesso in esclusiva, delle Brigate Qassam, il braccio armato di Hamas.

Riprese effettuate con droni

Nelle ultime settimane Al Jazeera ha anche trasmesso numerosi video che afferma essere stati ripresi da droni israeliani a Gaza.

La rete con sede in Qatar non rivela esplicitamente la fonte di tali filmati. Gli analisti ipotizzano che i droni vengano probabilmente acquisiti dai gruppi di resistenza a Gaza o, come hanno dimostrato, catturando i quadricotteri in volo, oppure abbattendoli e conservandone i dati.

I video servono come documentazione dei potenziali crimini di guerra perpetrati dall’esercito israeliano.

Un video in particolare, girato da un drone in volo, mostrava l’uccisione spietata di quattro palestinesi che attraversavano un quartiere nella zona meridionale di Khan Younis per osservare le conseguenze dell’invasione di terra israeliana nell’area.

Il drone filma l’incalzante inseguimento dei quattro uomini mentre continua a sparare missili contro di loro finché non vengono tutti uccisi.

Un altro video trasmesso da Al Jazeera mostra soldati israeliani che giustiziano due uomini che tentano di camminare verso nord e che chiaramente non rappresentano alcuna minaccia. Un bulldozer israeliano poi ne interra i corpi.

Filmati più recenti trasmessi da Al Jazeera mostrano soldati israeliani che usano un palestinese come scudo umano. L’uomo è costretto ad entrare in una scuola abbandonata per perlustrarne i locali sotto la sorveglianza di due droni israeliani.

Lo stesso segmento di video presenta anche ulteriori filmati ripresi da un drone israeliano che rivelano veicoli corazzati israeliani di stanza in quella che sembra essere una base militare improvvisata all’interno di una scuola abbandonata nel quartiere Shujaiya di Gaza City.

Nel corso del genocidio a Gaza l’esercito israeliano ha ucciso e ferito numerosi giornalisti e personale di Al Jazeera, nonché le loro famiglie.

A dicembre un attacco di droni israeliani ha ucciso un cameraman di Al Jazeera e ferito Wael al-Dahdouh, capo dell’ufficio della rete. Il 25 ottobre Israele aveva ucciso la moglie, il figlio, la figlia e il nipote di al-Dahdouh nel campo profughi di Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza.

Giornalisti massacrati

Un attacco aereo israeliano nel campo profughi di Jabaliya, nel nord di Gaza, ha ucciso sabato il fotografo Baha Okasha insieme ad alcuni membri della sua famiglia, portando a 143 il numero dei giornalisti palestinesi uccisi nella Striscia nel corso del genocidio di Israele, secondo l’ufficio stampa di Hamas a Gaza.

Il Comitato per la Protezione dei Giornalisti afferma di poter confermare la morte di almeno 92 giornalisti palestinesi e tre giornalisti libanesi.

A partire dal 7 ottobre gli attacchi israeliani hanno ucciso anche quattro collaboratori di The Electronic Intifada, nonché membri delle loro famiglie.

Tra questi figura Mohammed Hamo, giornalista e traduttore di stanza a Gaza, ucciso a novembre insieme ai suoi familiari.

Hamo aveva scritto un articolo per The Electronic Intifada nell’agosto 2023 su un fotografo di Gaza che era stato catturato dai soldati israeliani mentre stava seguendo la Grande Marcia del Ritorno nel maggio 2018.

Le forze israeliane avevano sparato contro Hatim Abu Sharia e il suo collega per poi catturarli, accusando Abu Sharia di essere entrato illegalmente in Israele e di aver fotografato strutture militari senza autorizzazione. Era stato condannato a cinque anni di reclusione ed è stato rilasciato nel 2023.

La settimana scorsa Abu Sharia è stato ucciso in un attacco aereo israeliano insieme a molti membri della sua famiglia. Adesso il giornalista Hamo e l’oggetto del suo articolo sono stati entrambi uccisi nel genocidio in corso.

Questo è il “conflitto più pericoloso per i giornalisti nella storia recente”, hanno affermato a febbraio gli esperti delle Nazioni Unite.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




ESCLUSIVO: “Sei stato avvertito”: i senatori repubblicani minacciano il procuratore della Corte Penale Internazionale

Redazione Zeteo e Mehdi Hasan

06 maggio 2024 – ZETEO

Nella lettera, ottenuta da Zeteo si minacciano sanzioni in difesa di Netanyahu.

Un gruppo di influenti senatori repubblicani ha inviato una lettera al procuratore capo della Corte Penale Internazionale (CPI) Karim Khan diffidandolo dall’emettere mandati di arresto internazionali contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e altri funzionari israeliani, e minacciandolo di “severe sanzioni” se lo fa.

In una concisa lettera di una pagina ottenuta in esclusiva da Zeteo e firmata da 12 senatori repubblicani tra cui Tom Cotton dell’Arkansas, Marco Rubio della Florida e Ted Cruz del Texas, Khan viene informato che qualsiasi tentativo da parte della CPI di spiccare mandati di arresto per Netanyahu e i suoi colleghi perché rendano conto delle loro azioni a Gaza sarà interpretato “non solo come una minaccia alla sovranità di Israele ma anche alla sovranità degli Stati Uniti”.

Prendi di mira Israele e noi prenderemo di mira te”, dicono i senatori a Khan, aggiungendo che “sanzioneremo i tuoi dipendenti e collaboratori e escluderemo te e la tua famiglia dall’accesso agli Stati Uniti”.

In modo piuttosto minaccioso, la lettera conclude: “Sei stato avvertito”.

In una dichiarazione rilasciata a Zeteo il senatore democratico Chris Van Hollen del

Maryland ha affermato: “Va bene esprimere opposizione a una possibile azione giudiziaria, ma è assolutamente sbagliato interferire in una questione giudiziaria minacciando gli ufficiali giudiziari, i loro familiari e i loro dipendenti di vendetta. Questo bullismo è qualcosa che si addice alla mafia, non ai senatori americani”.

Sebbene né Israele né gli Stati Uniti siano membri della CPI, i territori palestinesi sono stati ammessi con lo status di Stato membro nell’aprile 2015. Khan, un avvocato britannico, è stato nominato procuratore capo della CPI nel febbraio 2021, e una settimana prima la Corte aveva già deciso, a maggioranza, che la sua giurisdizione territoriale si estendeva a “Gaza e Cisgiordania”.

In seguito agli attacchi del 7 ottobre 2023 Khan ha annunciato che la Corte aveva giurisdizione su qualsiasi potenziale crimine di guerra commesso sia dai militanti di Hamas in Israele che dalle forze israeliane a Gaza. La Corte Penale Internazionale, secondo lo Statuto di Roma del 2002, può accusare individui di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio – e recenti rapporti suggeriscono che i funzionari israeliani sono sempre più convinti che la Corte Penale Internazionale stia preparando mandati di arresto per Netanyahu e altri alti funzionari di gabinetto e militari.

Venerdì l’ufficio del procuratore capo con sede all’Aja ha pubblicato una dichiarazione senza precedenti su Twitter, in cui si chiede la fine delle minacce di ritorsioni contro la Corte Penale Internazionale e dei tentativi di “ostacolare” e “intimidire” i suoi funzionari. La dichiarazione aggiunge che tali minacce potrebbero “costituire un reato contro l’amministrazione della giustizia” ai sensi dello Statuto di Roma.

La tempistica di questo inusuale avvertimento pubblico ora ha più senso: la lettera dei senatori statunitensi era stata inviata a Khan una settimana prima, il 24 aprile.

Nella loro lettera i dodici senatori repubblicani ricordano a Khan che gli Stati Uniti “hanno dimostrato nell’American Service-Members’ Protection Act [ASPA, legge di protezione degli americani in servizio] fino a che punto siamo disposti a spingerci per proteggere la [nostra] sovranità”.

L’ASPA, convertito in legge da George W. Bush nel 2002, da allora è diventato ampiamente noto come “L’atto di invasione dell’Aja” perché autorizza il presidente degli Stati Uniti “a utilizzare tutti i mezzi necessari e appropriati” per ottenere il rilascio non solo di cittadini americani, ma anche di alleati imprigionati o detenuti dalla CPI.

Il gruppo di senatori repubblicani – che comprende anche il leader della minoranza Mitch McConnell del Kentucky e Tim Scott della Carolina del Sud, che si ritiene siano nella lista dei candidati alla vicepresidenza di Donald Trump – afferma che l’emissione di eventuali mandati di arresto per i leader di Israele da parte della Corte Penale Internazionale sarebbe “illegittima e priva di base legale”, oltre a “dimostrare” “l’ipocrisia e i doppi standard” della Corte. I senatori sottolineano che Khan non ha emesso mandati di arresto per i leader di Iran, Siria, Cina o Hamas. Non menzionano, tuttavia, il fatto che i tre paesi elencati non sono membri della CPI, né sono accusati di aver commesso crimini di guerra sul territorio di un membro della CPI. Per quanto riguarda i funzionari di Hamas, è stato riferito che il procuratore capo sta, di fatto, anche “valutando mandati di arresto per i leader di Hamas”.

Se Khan emetterà un mandato di arresto per Netanyahu nei prossimi giorni non sarà la prima volta che perseguirà un controverso leader mondiale per presunti crimini di guerra – o sarà sanzionato per questo. Nel marzo 2023, la Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato d’arresto nei confronti del presidente russo Vladimir Putin per la sua presunta responsabilità “per il crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione (bambini)”. Il governo russo ha risposto inserendo Khan nella lista dei “ricercati”.

All’epoca il presidente Biden definì “giustificato” il mandato d’arresto per Putin e affermò che era un “ottimo risultato”. E, due anni prima, nell’aprile 2021, Biden ha revocato le sanzioni statunitensi che erano state imposte dall’amministrazione Trump al procuratore della Corte Penale Internazionale sulla scia di un’indagine sull’azione militare statunitense in Afghanistan.

Venerdì l’addetta stampa della Casa Bianca Karine Jean-Pierre ha detto ai giornalisti che l’amministrazione si oppone a “qualsiasi minaccia o intimidazione nei confronti di funzionari pubblici… compresi i funzionari della Corte Penale Internazionale” ma che il presidente “non sostiene questa indagine investigativa.” La Casa Bianca ha rifiutato di commentare per Zeteo la lettera dei senatori, così come l’ufficio del procuratore capo della Corte Penale Internazionale dell’Aia.

La senatrice Katie Britt dell’Alabama, una delle firmatarie repubblicane della lettera, ha detto a Zeteo che “non si tratta di una minaccia, ma di una promessa”. Gli altri 11 senatori repubblicani che hanno firmato la lettera non hanno risposto alle richieste di commento di Zeteo al momento della pubblicazione.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Le proteste nei campus: potrebbe essere il momento in cui Israele perde l’Occidente

David Hearst

29 aprile 2024 – Middle East Eye

Il movimento di protesta contro la guerra a Gaza ha rivitalizzato la causa nazionale palestinese e una nuova generazione di ebrei americani si sta opponendo all’identificazione con il sionismo.

Dal punto di vista militare l’offensiva del Tet, un attacco di sorpresa lanciato dai vietcong e dall’esercito nordvietnamita in Vietnam nel gennaio 1968, fu un fallimento.

Intendeva provocare un’insurrezione generale nel Vietnam del Sud che non scoppiò mai. Dopo la sorpresa iniziale l’esercito sudvietnamita e le forze USA si riorganizzarono e inflissero gravissime perdite alle migliori truppe vietcong.

Ma ebbe conseguenze molto importanti sulla guerra in Vietnam.

Il generale Tran Do, il comandante nordvietnamita della battaglia di Hue [una delle principali città del Paese e dove più duri furono i combattimenti, ndt.], ricordò: “Ad essere onesti, non raggiungemmo il nostro principale obiettivo, che era scatenare una rivolta in tutto il Sud. Eppure infliggemmo gravissime perdite agli americani e ai loro fantocci e questo fu un grande risultato per noi. Quanto ad avere un impatto sugli Stati Uniti, non era nelle nostre intenzioni, ma si dimostrò un risultato fortunato.”

L’offensiva del Tet si dimostrò un punto di svolta nell’appoggio dell’America alla guerra.

Il Pentagono venne sottoposto a critiche senza precedenti per le sue ottimistiche affermazioni sull’andamento della guerra e mentre i vietcong persero 30.000 soldati, l’anno seguente gli Usa subirono 11.780 caduti, dimostrando così le capacità di resistenza militare del Nord.

Si aprì un’ampia frattura nella credibilità tra l’allora presidente Lyndon B. Johnson (KBJ) e l’opinione pubblica. Lo stesso LBJ perse fiducia nei comandi militari e li sostituì.

Nel 1968 la Columbia University divenne uno degli epicentri delle proteste contro la guerra, spinte dai legami dell’università con l’industria bellica. Gli studenti occuparono cinque edifici e tennero in ostaggio per 36 ore Henry Coleman, il preside. C’è l’immagine iconica di uno studente che fuma un sigaro nel suo ufficio.

Venne fatta entrare la polizia. Ci furono centinaia di studenti arrestati, feriti, uno sciopero e poi le dimissioni del rettore della Columbia, Grayson Kirk. Le proteste contro la guerra raggiunsero l’apice fuori dalla Convenzione Nazionale Democratica di Chicago e in seguito vennero viste come una delle ragioni dell’elezione di Richard Nixon.

Nel contempo il movimento contro la guerra si era esteso come un incendio a tutto il mondo.

Ci fu un’enorme manifestazione a Berlino ovest. Il Vietnam fu una delle scintille che provocarono settimane di scontri di piazza nella rivolta di operai e studenti del maggio ’68 a Parigi e in tutta la Francia. Ancor oggi si possono vedere fori di proiettile nel Marais, [quartiere] di Parigi.

Il movimento di protesta del maggio ’68 ebbe politicamente vita breve. L’insurrezione di Parigi finì in dieci settimane, benché a un certo punto l’Eliseo arrivò talmente vicino a perdere il controllo della situazione che il presidente in carica, De Gaulle, scappò dal Paese.

Il presidente francese si rifugiò nel caldo abbraccio della Nato. Dove altro avrebbe potuto andare? Scappò nel quartier generale dell’esercito francese in Germania insieme agli alleati della Nato.

Il giorno dopo mezzo milione di lavoratori sfilarono a Parigi scandendo “De Gaulle addio”. De Gaulle riuscì a vincere le successive elezioni, ma lo shock della notizia fu profondo. Tutto questo in Francia cambiò un’intera generazione.

Il 1968 oggi

Sono molti i paralleli tra il movimento di protesta del ’68 contro la guerra del Vietnam e le attuali proteste globali contro la guerra a Gaza.

Come nell’offensiva del Tet, l’evasione di massa dalla prigione di Gaza organizzata dalle Brigate al-Qassam il 7 ottobre è andata fuori controllo in poche ore. Ciò è stato dovuto in parte all’inaspettatamente rapido collasso della brigata Gaza dell’esercito israeliano nel sud di Israele.

Un attacco contro obiettivi militari, in cui sono stati uccisi centinaia di soldati israeliani, si è trasformato in una serie di massacri contro civili, sia abitanti di kibbutz che spettatori di un festival musicale in cui si sono imbattuti Hamas e altri gruppi scatenati oltre il confine. Secondo le fonti ufficiali di uno Stato del Golfo, l’attacco del 7 ottobre è stato la madre di ogni errore di calcolo.

Ma la risposta israeliana, la distruzione sistematica di Gaza durata sette mesi, una campagna genocida contro ogni cittadino e famiglia nella Striscia indipendentemente dall’affiliazione, la distruzione delle loro case, ospedali, scuole, università, ha determinato un punto di svolta nell’opinione pubblica mondiale.

Ancora una volta l’appoggio a questa guerra è fornito da un presidente democratico USA in un anno elettorale. Ancora una volta la Columbia è stata al centro della rivolta, con un accampamento di protesta contro l’attacco israeliano che ha provocato un’ondata di azioni simili nei campus dei college in tutti gli USA.

Columbia, Yale e Harvard sono tutte nel mirino di questa rivolta studentesca a causa dei legami delle università con Israele.

Alla Columbia gli studenti chiedono che l’università ponga fine agli investimenti nei giganti della tecnologia Amazon e Google che hanno un contratto di 1.2 miliardi di dollari per una super cloud di dati con il governo di Tel Aviv.

A Yale gli studenti stanno chiedendo che l’università disinvesta da “ogni impresa di produzione bellica che contribuisce all’aggressione israeliana contro la Palestina”. Yale ha scambi di studenti con sette università israeliane. Harvard ha programmi con tre di queste università, mentre la Columbia ha rapporti con quattro di esse.

Come nel 1968 molte di queste proteste sono state represse con la forza. Il preside della Columbia Nemat Minouche Shafik ha ordinato alla polizia di New York di disperdere l’accampamento di 50 tende sul South Lawn [il prato che si trova nella parte sud del campus, ndt.], il che ha portato all’arresto di 100 studenti della Columbia e del Barnard College, compresa la figlia della parlamentare statunitense Ilhan Omar.

Gli studenti sono stati anche sospesi dalle lezioni ed è stato detto loro che non potranno terminare il semestre accademico. A Yale 50 manifestanti sono stati arrestati con l’accusa di “violazione aggravata di proprietà privata”. In Ohio i dimostranti sono stati picchiati e colpiti con i taser. Circa 900 manifestanti sono stati arrestati in tutto il Paese dal primo scontro alla Columbia, il 18 aprile.

Niente di tutto ciò è nuovo.

Nel 1970 la Guardia Nazionale dell’Ohio aprì il fuoco contro i manifestanti uccidendone quattro e ferendo nove studenti in quello che è noto come il massacro della [università] Kent State. Allora come adesso la brutalità della polizia contro gli studenti ha solo provocato la diffusione delle proteste.

Ore dopo che l’amministrazione aveva chiuso un accampamento a Princeton, centinaia di studenti hanno occupato un cortile interno portando libri, computer portatili e lavagne per organizzare una “università popolare per Gaza”. Alcuni docenti si sono uniti e hanno guidato dibattiti e discussioni.

La polizia è stata chiamata in 15 università in tutti gli USA e ci sono proteste in altre 22 università e college.

Le proteste negli USA si sono estese a università britanniche, anche se hanno ricevuto minore attenzione mediatica.

Al Trinity College, Cambridge, il ritratto di Lord Balfour, il ministro degli Esteri britannico responsabile della dichiarazione che riconosceva il diritto degli ebrei a una patria in Palestina, è stato imbrattato e sfregiato prima di essere tolto dall’università.

Londra ha appena assistito alla sua tredicesima manifestazione nazionale dall’inizio della guerra. Per la loro persistenza e le dimensioni le proteste contro la guerra a Gaza sono comparabili solo con la manifestazione di oltre un milione di persone contro la decisione di Tony Blair di invadere l’Iraq, che nel 2003 è stata la più grande di questo genere.

Il movimento di protesta sta avendo un profondo effetto sulla stessa Gaza perché per una volta il popolo palestinese che affronta questo massacro non si sente solo.

Il giornalista e creatore di contenuti Bisan Owda ha detto: “Continuate così, perché voi siete la nostra unica speranza. E vi promettiamo che terremo duro e vi diremo sempre la verità. E per favore non lasciate che la loro violenza vi spaventi. Non hanno nessun’altra opzione se non farvi tacere e terrorizzarvi perché state demolendo decenni di lavaggio del cervello.”

Il bersaglio è il sionismo

Owda ha ragione. Se i bersagli del movimento di protesta del 1968 erano il Pentagono o il paternalismo repressivo dello Stato gollista, oggi sono il sionismo e chi arma Israele negli USA, in GB e in Germania.

Questa è la lobby filo-israeliana che etichetta e calunnia i politici come antisemiti per il loro appoggio alla Palestina. Sono loro che fanno sì che università codarde e in preda al panico caccino docenti dal loro lavoro. Si vedono come democratiche ma mettono mano alla strumentazione fascista. Danneggiano lo stato di diritto, la libertà di parola e il diritto a protestare.

Alla testa della rivolta contro il sionismo c’è una nuova generazione di ebrei che partecipano in numero sempre crescente a queste proteste.

Uno studente della Columbia e due del Barnard hanno spiegato perché: “Abbiamo scelto di essere arrestati nel movimento per la liberazione dei palestinesi perché siamo ispirati dai nostri antenati ebrei che lottarono per la libertà 4.000 anni fa. Quando la polizia è entrata nel nostro accampamento abbiamo formato una catena e cantato canzoni dell’epoca dei diritti civili che molti nei nostri predecessori più recenti hanno cantato negli anni ’60. Veniamo da un passato di attivismo progressista ebraico che ha superato linee di razza, classe e religione per trasformare le nostre comunità.

L’arresto e la brutalizzazione di oltre 100 studenti filopalestinesi della Columbia è l’azione peggiore di violenza nel nostro campus da decenni. Nel momento in cui la Columbia ha chiesto alla polizia di arrestare centinaia di studenti che protestavano, la nostra università ha normalizzato una cultura in cui le differenze politiche sono accolte con violenza e ostilità… Mentre scriviamo questo, studenti israeliani che ci passano vicino ci chiamano ‘animali’ in ebraico perché pensano che nessuno di noi li capirà, ripetendo le affermazioni del ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant secondo cui i palestinesi di Gaza sono ‘animali umani’.”

La guerra a Gaza sta provocando un dibattito senza precedenti tra gli ebrei, con importanti intellettuali come la giornalista canadese Naomi Klein che afferma che il sionismo è un “falso idolo che ha preso l’idea della terra promessa e l’ha trasformata in un atto di compravendita a favore di uno Stato etnico militarista.”

Klein ha scritto: “Fin dall’inizio ha prodotto un orrendo genere di ‘libertà’ che vedeva i bambini palestinesi non come esseri umani ma come minacce demografiche, così come nel Libro dell’Esodo il faraone temeva la crescente popolazione israelita e quindi ordinò la morte dei loro figli.

Il sionismo ci ha portati all’ attuale catastrofe ed è tempo di dire chiaramente: ci ha sempre portati qui. È un falso idolo che ha guidato troppi del nostro popolo lungo un sentiero profondamente immorale che ora li fa giustificare il fatto di gettare via comandamenti fondamentali: non uccidere, non rubare, non desiderare i beni altrui.”

La Palestina è ovunque

Questi avvenimenti avranno delle conseguenze.

Nel futuro immediato il movimento contro la guerra a Gaza ha rivitalizzato la causa nazionale palestinese come non mai. Nei campi profughi in Libano sbiadite scritte sui muri che commemorano le battaglie di Fatah e dell’OLP sono state sostituite da nuovi e rilucenti simboli che celebrano l’attacco del 7 ottobre. Il triangolo invertito che rappresenta Hamas che attraversa in paracadute la barriera di Gaza è ovunque.

Ogni manifestazione in tutto il mondo è guidata dalla diaspora palestinese che ha reagito in modo opposto a quello che era stato immaginato da Israele e dai suoi sostenitori. Il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva pensato che se avesse ucciso gli anziani i loro figli e figlie avrebbero dimenticato la lotta.

Invece Netanyahu ha ricreato e rafforzato ovunque il legame dei palestinesi con la loro terra perduta. Se chiedi ai palestinesi del campo profughi giordano di Hitten dove sia la loro casa la risposta assolutamente maggioritaria è a Gaza o in Cisgiordania.

Questa ondata di solidarietà ha distrutto allo stesso modo anni di progetti per eliminare ogni legame tra la causa palestinese e il mondo arabo. Gli avvenimenti hanno contribuito. Le primavere arabe, la loro repressione e le guerre civili che ne sono seguite hanno soppiantato la Palestina come principale fonte di notizie per almeno un decennio.

Il tentativo israeliano di bypassare la causa nazionale palestinese tendendo direttamente la mano agli Stati del Golfo più ricchi stava per aver successo quando Hamas ha messo in atto il suo attacco.

Sette mesi dopo la Palestina è ovunque. Ogni sondaggio lo dimostra. Invece lo stesso Israele è sul banco degli imputati della giustizia internazionale, sotto indagine sia alla Corte Penale Internazionale, che sta per emettere mandati di arresto per Netanyahu e altri, e alla Corte Internazionale di Giustizia per genocidio.

Queste sono le conseguenze immediate, ma ce ne sono due a lungo termine che potrebbero essere ancora più importanti.

Il primo è che per la prima volta nella storia di questo conflitto Gaza, sia il suo popolo che i suoi combattenti, hanno evidenziato una determinazione a resistere e a lottare che l’OLP e Yasser Arafat non hanno mai dimostrato. Per la prima volta nella loro storia i palestinesi hanno una dirigenza che non rinuncerà alle sue principali richieste e che ispira rispetto.

La seconda conseguenza è che negli USA, l’unico Paese che può porre fine a questo conflitto ritirando il supporto militare, politico ed economico a Israele, sta crescendo una nuova generazione. È ancora oggi l’unica Nazione che Israele ascolta e che prende sul serio.

Tra loro gli ebrei sono orripilati da quello che si sta facendo nel loro nome. Orripilati da come la loro religione è stata trasformata in un’apologia della pulizia etnica. Orripilati da come la loro orgogliosa e sofferta eredità sia stata ridotta a una licenza di uccidere. Orripilati dal potere esercitato da Israele sul Congresso USA, sul parlamento britannico e su ogni importante partito in Europa.

Gli ebrei stanno sfidando l’affermazione secondo cui il sionismo è titolare della loro storia. Per questo sono in vario modo accusati di essere traditori, “kapo” (gli ebrei incaricati dalle SS naziste di controllare il lavoro forzato), odiatori di se stessi o semplicemente “animali”. Ma per me sono la principale fonte di speranza in questo paesaggio desolato. La guerra del Vietnam durò altri sette anni dopo l’offensiva del Tet. Neanche l’occupazione israeliana di Gaza avrà facilmente fine.

Ma potremmo aver raggiunto il punto di svolta nell’appoggio a Israele negli USA, in Gran Bretagna e in Europa, e ciò ha un significato storico.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst è co-fondatore e caporedattore di Middle East Eye. È commentatore, esperto della regione e analista sull’Arabia Saudita. È stato l’editorialista per l’estero del Guardian e corrispondente in Russia, Europa e a Belfast. È arrivato al Guardian da The Scotsman [quotidiano britannico edito a Edimburgo, ndt.], dove era corrispondente per l’istruzione.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)