“Sparare per menomare”: come Israele ha creato una generazione con le stampelle a Gaza

Dania Akkad

29 marzo 2019, Middle East Eye

Medici dicono a MEE che le ferite invalidanti, soprattutto agli arti inferiori, dei manifestanti palestinesi sono state inflitte deliberatamente.

Medici in prima linea hanno detto a Middle East Eye che cecchini israeliani hanno intenzionalmente mutilato palestinesi che protestavano a Gaza lo scorso anno, creando una generazione di giovani disabili e sconvolgendo il già disastrato sistema sanitario del territorio.

Secondo l’inchiesta delle Nazioni Unite resa pubblica questo mese, oltre l’80% dei 6.106 manifestanti della Grande Marcia del Ritorno feriti nei primi nove mesi è stato colpito agli arti inferiori.

Il rapporto ne conclude che i soldati israeliani hanno intenzionalmente sparato a civili e potrebbero aver commesso crimini di guerra con la loro durissima risposta alle proteste tenutesi periodicamente a Gaza dal 30 marzo 2018.

Operatori sanitari affermano che le caratteristiche ricorrenti delle ferite mostrano che i soldati israeliani hanno intenzionalmente sparato per menomare i manifestanti, molti dei quali sono giovani ventenni e ora hanno necessità di cure mediche a lungo termine.

“Il soldato sa esattamente dove sta sparando il proiettile. Non è casuale. È del tutto intenzionale, è decisamente pianificato,” dice Ghassan Abu Sitta, professore di chirurgia dell’Università Americana di Beirut (UAB), che lo scorso maggio per tre settimane ha curato manifestanti feriti all’ospedale Al-Awad di Gaza.

“Quando hai un numero così alto di ferite praticamente identiche, quando molti pazienti erano a 150 metri di distanza, non a diretto contatto con i soldati israeliani, ti rendi conto che questa è una politica intenzionale piuttosto che un danno involontario,” dice a MEE Abu Sitta.

Marie-Elisabeth Ingres, capo missione di Medici senza Frontiere (MSF) concorda: “È ovvio. Quando hai quasi il 90% di persone ferite agli arti inferiori, significa che c’è la decisione politica di prendere di mira gli arti inferiori,” afferma.

MEE ha chiesto all’esercito israeliano se i soldati hanno intenzionalmente ferito i manifestanti. Sottolineando le condizioni nelle quali i soldati operano – che includono il fatto di essere sotto tiro, i tentativi dei manifestanti di entrare in Israele, i copertoni bruciati, il lancio di pietre e di bottiglie molotov – un portavoce ha detto a MEE via posta elettronica: “”L’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] usa proiettili veri solo come ultima risorsa e in base a regole che rispettano le leggi internazionali.” Il portavoce ha anche indicato a MEE una pagina di “Domande Frequenti” [nel sito dell’IDF, ndt.] sulle proteste.

Tra i più di 6.000 palestinesi feriti ci sono un calciatore la cui carriera è finita, uno studente di giornalismo a cui è stata amputata la gamba destra e una studentessa di 16 anni che quando è stata colpita stava sventolando una bandiera palestinese.

Secondo gli ultimi dati del ministero della Sanità di Gaza almeno 136 di loro hanno subito l’amputazione di arti, 122 dei quali solo agli arti inferiori.

Ma i dati non danno il quadro completo delle difficoltà che i manifestanti feriti, che soffrono di lesioni dolorose, e i loro familiari devono affrontare, in quanto la grande maggioranza vive in povertà, dice Bassem Naim, che è stato ministro della Sanità di Gaza dal 2006 al 2012.

“Sinceramente è una catastrofe. Molti dei feriti rimarranno per sempre disabili,” dice Naim. “Portarli da casa all’ospedale ogni giorno per la riabilitazione o le cure? È un onere veramente pesante.”

“Vivo al nono piano e praticamente ogni giorno non c’è elettricità da dodici a sedici ore. Si può immaginare cosa vuol dire per un giovane senza una gamba?”

Non è cambiata solo la vita di migliaia di manifestanti e delle loro famiglie, ma anche il sistema sanitario di Gaza in difficoltà è sottoposto a forti tensioni in seguito alle cure intensive necessarie per il trattamento delle ferite alle gambe.

Il personale sanitario teme che, con manifestazioni di massa previste questo fine settimana per commemorare un anno dall’inizio della Grande Marcia del Ritorno, il collasso del sistema possa essere imminente.

Caratteristiche ricorrenti delle ferite

Il 30 marzo 2018 decine di migliaia di palestinesi hanno protestato lungo il confine di 65 km con Israele, rivendicando il diritto di tornare alle case da cui le loro famiglie scapparono nel 1948 e la fine dell’assedio di 11 anni contro il territorio costiero palestinese.

Praticamente appena le proteste sono iniziate, i soldati israeliani hanno cominciato a sparare ai manifestanti a corta distanza con fucili di precisione. Alla fine di quel primo giorno di proteste sono rimasti uccisi 16 palestinesi e almeno altri 400 sono stati feriti da colpi di arma da fuoco.

Da allora quella che era prevista come una campagna di sei settimane si è prolungata per un anno, durante il quale almeno 197 palestinesi sono stati uccisi e 29.000 feriti. Secondo l’ONU nello stesso periodo due israeliani sono rimasti uccisi e 56 feriti.

Uno ogni quattro palestinesi feriti è stato colpito con proiettili veri, e la grande maggioranza alle gambe.

Uno di loro è stato il trentunenne Mohammed al-Akhras.

Akhras, che lavorava come fabbro, dice di aver deciso di unirsi alle proteste in seguito al fatto di essere stato torturato durante sei anni di detenzione in prigioni israeliane.

Quando le forze israeliane lo hanno arrestato e accusato di essere coinvolto in operazioni militari con fazioni armate palestinesi aveva 19 anni e stava cacciando uccelli sul confine orientale di Rafah, nel sud di Gaza.

È stato rilasciato nel 2013, ma il vivo ricordo e la frustrazione derivanti dal suo arresto e dalla sua detenzione lo hanno spinto a manifestare, dice.

Akhras racconta che il 18 maggio stava protestando come altri attorno a lui e non stava facendo niente di speciale quando due proiettili esplosivi – che scoppiano all’impatto squarciando i tessuti e le ossa – hanno colpito la sua gamba sinistra.

Aveva bisogno di un’operazione urgente, ma ci sono voluti due mesi prima che potesse essere operato – in Egitto.

Le autorità israeliane non gli hanno consentito di viaggiare attraverso il valico di Erez per essere operato in Giordania a causa del fatto che in precedenza era stato un detenuto.

“Dopo vari tentativi sono riuscito a andare in Egitto, e dopo che la tumefazione della mia gamba ha raggiunto il punto limite,” dice. A quel punto i dottori sono stati obbligati ad amputarla.

Secondo il rapporto dell’ONU e come sottolineato dal portavoce dell’esercito israeliano, le regole d’ingaggio delle forze di sicurezza israeliane consentono ai soldati di sparare ai manifestanti “come ultima risorsa nel caso di imminente pericolo di vita o di ferite di soldati o civili israeliani.”

Ma medici internazionali e palestinesi che hanno parlato con MEE affermano di aver visto colpire manifestanti anche quando questi non minacciavano i soldati.

L’ex ministro della Sanità di Gaza Naim dice di essere stato presente alla protesta l’8 febbraio con suo figlio di 14 anni e un gruppo di amici. Lì vicino un amico del ragazzo stava masticando semi di girasole e guardando la manifestazione a circa 100 o 150 metri dalla barriera con Israele.

“Improvvisamente hanno visto un ragazzino che cadeva, e quando sono corsi da lui lo hanno trovato in una pozza di sangue ed era stato colpito al collo,” dice.

“Ti posso mandare ore di video di attività culturali (durante le proteste) e al contempo vedrai qualcuno, soprattutto giovani, che cercano di lanciare pietre o di attraversare la barriera. Bene, ma posso dire che nel 99,9% dei casi non c’era alcuna minaccia per i soldati.”

Pur non essendo più direttamente coinvolto in campo medico, Naim sostiene di credere che i soldati israeliani abbiano intenzionalmente mutilato manifestanti – sia in base a quello che ha visto durante le manifestazioni di quest’anno che alla sua esperienza come medico durante la Seconda Intifada.

Durante quella rivolta all’inizio degli anni 2000, quando lavorava all’ospedale Naser di Khan Younis, Naim dice che c’erano evidenti caratteristiche costanti delle ferite inflitte dai cecchini israeliani.

“Un giorno c’erano solo gambe, un altro solo glutei, un terzo giorno solo toraci,” dice.

“Se vogliono spezzare la forza di volontà di un popolo, allora sparano con l’obiettivo di uccidere. Ma a volte, se non vogliono che le cose sfuggano al controllo, sparano, ma cercano di evitare di uccidere persone colpendo le gambe, le mani.”

Naim crede che i cecchini abbiano utilizzato, circa due decenni dopo, la stessa precisione ora sulla frontiera di Gaza.

“Ne posso essere certo perché alcuni venerdì ci sono uno, due o tre martiri, e a volte ce ne sono 50 o 25, perché vogliono esercitare più pressione,” dice.

Sistema sanitario al collasso

Oltre alle crescenti questioni sconvolgenti riguardo alle tattiche dell’esercito israeliano, la Grande Marcia del Ritorno ha messo sotto rinnovata pressione il sistema sanitario in difficoltà, in quanto migliaia di manifestanti feriti vi sono regolarmente portati per cure urgenti.

Il dottor Medhat Abbas, direttore dell’ospedale Al-Shifa di Gaza City, descrive il 14 maggio dello scorso anno come uno dei giorni peggiori che l’ospedale abbia mai vissuto.

Ore dopo che il presidente USA Donald Trump aveva aperto la nuova ambasciata USA a Gerusalemme e sono scoppiate manifestazioni di rabbia in seguito al suo spostamento, sono arrivati all’Al-Shifa circa 500 palestinesi feriti, quasi quanti ne può ospitare l’ospedale, con 760 letti.

I pazienti giacevano a terra e nei corridoi mentre i chirurghi, troppo pochi e con mezzi insufficienti, hanno lavorato 24 ore al giorno in tutte le 14 sale operatorie dell’ospedale.

“È stata una giornata nera nel ricordo dei palestinesi,” dice Abbas a MEE, rispondendo alle domande con messaggi registrati di WhatsApp nelle ore più strane, troppo impegnato per un’intervista telefonica.

Nel campo di rifugiati d Jabaliya Abu Sitta, docente di chirurgia all’Università Americana di Beirut, lavorava all’ospedale Al-Awda proprio perché era uno dei principali luoghi della manifestazione.

“Sapevamo che quel numero [di pazienti] che vedevamo ogni venerdì sarebbe aumentato il giorno dello spostamento dell’ambasciata,” dice.

Non era solo lo Shifa ad essere sovraffollato: tra le 16 e le 20 di quel giorno 3.400 manifestanti vennero feriti, 1.000 in più del numero totale dei letti negli ospedali di Gaza, dice Abu Sitta.

Alla fine della giornata 68 persone erano state uccise o avevano subito ferite mortali a causa delle quali in seguito sono decedute.

Il sistema sanitario di Gaza era già indebolito in seguito all’assedio di 11 anni che ha limitato l’afflusso nel territorio di apparecchiature mediche, rifornimenti e medici, in particolare quelli specializzati in chirurgia.

Ma l’alto numero di vittime in giorni come il 30 marzo o il 14 maggio ha lasciato negli ospedali di Gaza un peso duraturo. Ferite da arma da fuoco alle gambe, soprattutto quelle provocate da pallottole dei cecchini sparate a corta distanza, possono richiedere fino a nove interventi chirurgici per essere curate, dice Abu Sitta.

Cosa succede quando proiettili di cecchini colpiscono le gambe

Il danno provocato da un proiettile dipende dalla velocità alla quale si muove la pallottola, con la velocità cinetica che si trasferisce ai tessuti, dice Ghassan Abu Sitta, docente di chirurgia all’Università Americana di Beirut.

“Quando usi un fucile di precisione – che è un fucile da guerra ad alta velocità – si tratta del proiettile più veloce che ci sia perché può percorrere fino a 3 km,” afferma.

“Perciò quando spari a qualcuno a 50 o 100 metri, la maggioranza dell’energia cinetica è ancora nel proiettile.”

Secondo Medici Senza Frontiere, in metà dei casi di ferite alle gambe che hanno trattato a Gaza dallo scorso marzo, i pazienti avevano fratture esposte complicate, cioè l’osso è esposto all’aria e c’è il rischio che si infetti.

Molti hanno anche gravissimi danni ai tessuti e ai nervi e perdono parti importanti delle ossa delle gambe.

Un medico di MSF dice che in metà dei casi che ha visto l’osso “era letteralmente polverizzato”.

Questo tipo di ferite richiede una serie di interventi chirurgici, a volte fino a nove, dice Abu Sitta.

“Ciò significa mesi e forse anni di cure. Quindi ciò vuol dire che hanno molto dolore, stanno soffrendo molto,” afferma Marie-Elisabeth Ingres, capo missione di MSF a Gerusalemme.

La maggioranza di quelli che sono feriti avranno effetti collaterali per il resto della loro vita, compresi irrigidimento degli arti, paralisi e, per alcuni, amputazione.

“Pensi al numero di interventi chirurgici ortopedici e plastici necessari per fare una chirurgia ricostruttiva sull’80% dei 6.500 (pazienti feriti),” afferma.

“Supera le capacità di risorse umane di Gaza. Supera il numero di ore di sala operatoria a disposizione, in termini di materiali, di medicazioni, di riabilitazione. E lo scopo è di sovraccaricare totalmente il sistema. C’è l’intenzionalità di menomare.”

Se i medici non possono spostarsi rapidamente per aiutare i feriti, questi possono patire complicazioni per il resto della loro vita, dice Ingres di MSF.

“Siamo in difficoltà perché temiamo che, se non si reagisce con sufficiente impegno, migliaia di persone potrebbero rimanere disabili,” sostiene.

“Già 200 persone hanno subito amputazioni, e se non siamo in grado di curarle domani, cioè tra i giovani, molti di loro saranno disabili perché non siamo riusciti a salvare le loro gambe, e ciò si potrebbe fare.”

Le ferite alle gambe hanno anche suscitato preoccupazioni riguardo alla resistenza agli antibiotici a Gaza. Ingres afferma che MSF stima che almeno 1.200 persone possono aver sviluppato infezioni alle ossa, che richiedono sei settimane di ospedalizzazione e antibiotici di alto livello prima di ogni operazione.

“Quindi sappiamo già che il trattamento sarà lungo e molto costoso,” dice.

Il tributo di una generazione

Oltre ai vari livelli di crisi sanitaria a Gaza, dicono i medici, ci sono le conseguenze a lungo termine di una generazione di disabili palestinesi, molti dei quali ventenni.

“I media diranno ‘oggi due, tre palestinesi morti, 500 feriti’. Ma in realtà questi 500 sono condannati a una vita di disabilità, di disoccupazione e ad anni di dolorose operazioni chirurgiche,” afferma Abu Sitta.

“È anche un problema psicologico,” aggiunge Ingres, “perché ora i giovani capiscono che sarà molto difficile per loro.”

“La maggioranza voleva solo manifestare per mostrare che hanno il diritto di esistere come chiunque altro al mondo. E oggi, dopo un anno, cos’hanno ottenuto? Non hanno niente.”

Ingres sostiene che lo spettro di una grande manifestazione per commemorare il primo anniversario della Grande Marcia del Ritorno è preoccupante.

“Ad essere sinceri, se ci sarà un nuovo massiccio numero di feriti nessuno riuscirà a gestire Gaza,” dice. “Sarà un disastro.”

Ma pur avendo una chiara comprensione dei rischi in cui incorrono per protestare vicino alla frontiera, i giovani palestinesi hanno continuato a protestare, con l’invito a un milione di persone perché sabato si uniscano alla marcia di commemorazione.

Akhras, il trentunenne colpito a una gamba lo scorso maggio, potrebbe essere tra i manifestanti, nonostante il fatto che la sua vita sia drammaticamente cambiata da quando è stato ferito.

Non più in grado di guadagnarsi da vivere come fabbro, Akhras ha ricevuto uno stipendio dall’Autorità Nazionale Palestinese per persone ferite fino a due mesi fa, quando è stato sospeso e lui è rimasto in condizioni economiche difficili.

Sua moglie, Haneen al-Qutati, di 23 anni, contribuisce al sostentamento della coppia con il suo lavoro di infermiera, e il loro primo figlio nascerà a breve. Nel frattempo, grazie a un’organizzazione che aiuta persone disabili, Akhras si sta formando come falegname.

Dice di sentire spesso il dolore della ferita, ma non vuole prendere antidolorifici per il timore di diventarne dipendente. Non ha ancora una gamba artificiale e per spostarsi usa le stampelle.

“Alla sera ho forti dolori, ma cerco di far vedere a mia moglie che non mi fa male,” dice. “Qualcuno mi guarda con compassione. È una sensazione penosa per mia moglie.”

Ciononostante durante molti degli ultimi venerdì è uscito per unirsi alle proteste nei pressi di Rafah, ancora deciso a manifestare.

“Voglio che i giovani dimostrino una grande volontà,” afferma. “L’occupazione li prende deliberatamente di mira e vuole che una giovane generazione di palestinesi cammini con le stampelle.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Amos Oz: il mito tenace del sionismo progressista

Ben White

1 gennaio 2018, Middle East Eye

L’ammirazione dell’Occidente per Amos Oz è collegata al romanticismo che continua ad essere associato al kibbutz, alle illusioni sul processo di pace e, soprattutto, al profondo sostegno offerto al colonialismo di insediamento in Palestina

Da molto tempo emarginata dalla destra nazionalista in forte ascesa in Israele, all’estero la cosiddetta “sinistra sionista” ha conservato un’influenza morale e intellettuale di prima grandezza.

Lo scrittore Amos Oz, deceduto lo scorso 28 dicembre all’età di 79 anni, era forse l’incarnazione più conosciuta di questa corrente politica. Noto come il “padrino dei pacifisti israeliani” –come l’ha presentato il “New Yorker” [settimanale di politica e cultura USA di tendenza progressista, ndtr.] nel 2004 -, era ammirato da molti a livello internazionale.

Tuttavia questa immagine dell’artista o del profeta progressista – alla quale hanno contribuito in buona misura i cambiamenti politici in Israele, che hanno fatto sì che persino i critici più clementi siamo ormai definiti “traditori” – contrasta chiaramente con le opinioni di Amos Oz su eventi passati e presenti, e in particolare su quello che il sionismo ha rappresentato per i palestinesi.

Giustificare la Nakba

La sinistra sionista, a cui Amos Oz apparteneva, ha dedicato un notevole impegno per giustificare la pulizia etnica della Palestina. La seguente metafora è stata alla base del contributo di Amos Oz a questi sforzi: “La giustificazione (del sionismo) per quanto riguarda gli arabi che vivevano su questa terra è il giusto diritto del naufrago che si aggrappa all’unica tavola che trova”, ha scritto nel suo libro “In terra di Israele” [Marietti, Torino, 1992, ndtr.].

E ogni regola di giustizia naturale, obiettiva e universale autorizza l’uomo che annega e che si aggrappa a quell’asse a ritagliarvisi uno spazio, anche se per questo deve spingere un po’ gli altri. Anche se gli altri, seduti su quella stessa tavola, non gli lasciano altra alternativa che la forza.”

Solo che i palestinesi non sono stati invitati a “condividere un asse”: sono stati espulsi in massa, i loro villaggi sono stati rasi al suolo e i loro centri urbani spopolati, e continuano ad essere esclusi dalla loro patria semplicemente perché non sono ebrei.

Inoltre chi, a parte un mostro, rifiuterebbe a un naufrago un posto su una tavola a cui aggrapparsi? La metafora di Amos Oz ha una duplice funzione: fa sparire la Nakba e rimprovera alle sue vittime di essere dei bruti senza pietà che hanno dovuto essere “obbligati” a “condividere una tavola”.

La falsa simmetria dell’occupazione

Amos Oz ha creato numerose metafore per presentare una falsa simmetria tra palestinesi e israeliani e sottrarsi a qualunque responsabilità politica. I palestinesi e gli israeliani sono dei “vicini” che hanno bisogno di “buone recinzioni”, una coppia di sposi che ha bisogno di un “divorzio equo”, un paziente che ha bisogno di una “dolorosa” operazione chirurgica.

Nel 2005 Amos Oz ha dichiarato a Libération [quotidiano francese di sinistra, ndtr.]: “Israele e Palestina (…) somigliano a un carceriere e al suo prigioniero, ammanettati uno all’altro. Dopo tanti anni, non c’è praticamente più nessuna differenza tra di loro: il carceriere non è libero più del suo prigioniero.” Questa cancellazione delle strutture di potere, questa mescolanza tra la realtà dell’occupato e la soggettività dell’occupante erano tipici dell’autore.

Lo scontro tra gli ebrei che ritornano a Sion e gli abitanti arabi del luogo non assomiglia ad un western o a un’epopea, ma piuttosto a una tragedia greca”, ha scritto (corsivo dell’autore [dell’articolo di MEE, ndtr.]). Le variazioni su questo tema sono state numerose: “Il conflitto tra un ebreo israeliano e un arabo palestinese (…) è uno scontro tra una ragione e un’altra ragione (…), un conflitto tra vittime.”

Ora, parlare di “tragedia” equivale a confondere deliberatamente i rapporti di causa e effetto e a sostituire le responsabilità con una spiacevole disgrazia e, verosimilmente, a presentare il movimento sionista (ossia lo stesso Oz) come un eroe tragico che, benché le sue azioni abbiano delle conseguenze deleterie per gli altri, è nobilitato dalla propria auto consapevolezza

In effetti, come ha sottolineato il critico letterario americano di origine palestinese Saree Makdisi, “non è per niente vero che per Oz in questo conflitto esistano due contendenti più o meno ugualmente colpevoli. In fin dei conti, i veri cattivi nella versione della storia secondo Oz sono i palestinesi, che avrebbero dovuto riconoscere il sionismo come un movimento di liberazione nazionale (e) accoglierlo a braccia aperte.”

In un articolo apparso qualche anno fa Amos Oz affermava che “l’esistenza o la distruzione di Israele non sono mai state una questione di vita o di morte,” in particolare per Paesi come la Siria, la Libia, l’Egitto e l’Iran, prima di aggiungere con disinvoltura una frase rivelatrice: “Può darsi che questa sia stata l’ipotesi per i palestinesi – ma, per nostra fortuna, essi sono troppo deboli per sconfiggerci.”

Il colonialismo è sempre una “questione di vita o di morte” per i colonizzati – e Amos Oz lo sapeva.

Proteggere Israele dalle critiche all’estero

Nonostante la sua fama di detrattore delle azioni del governo israeliano, Amos Oz ha giocato un ruolo importante nella giustificazione dei crimini di guerra di Israele sulla scena internazionale.

Come ricorda un necrologio a lui dedicato, durante l’invasione del Libano e l’annientamento delle due Intifada palestinesi da parte di Israele, quest’ultimo “aveva bisogno di voci per parlare al mondo esterno e mostrare un volto più altruistico di quello di Ariel Sharon.” Tre settimane dopo l’inizio della Seconda Intifada, quando erano già stati uccisi circa 90 palestinesi, Amos Oz è servito in questo modo di un articolo sul Guardian [quotidiano inglese di centro sinistra, ndtr.] per attaccare “il popolo palestinese”, definendolo “soffocato e avvelenato da un odio cieco.”

In seguito, durante l’assalto devastante di Israele contro la Striscia di Gaza nel 2014, Amos Oz si è affrettato a condividere le frasi fatte promosse dal suo governo presso i media internazionali: “Cosa fareste voi se il vostro vicino di fronte si sedesse sul balcone, mettesse il suo ragazzino sulle ginocchia e cominciasse a sparare con una mitragliatrice contro la stanza del vostro bambino?”

Amos Oz ha anche respinto i tentativi, anche modesti, intesi a chiedere conto a Israele: nel 2010 ha scritto insieme ad altri una lettera per opporsi alla petizione, formulata da studenti ebrei e palestinesi presso l’università californiana di Berkeley affinché essa cessasse gli investimenti in due imprese di armamenti che avevano come cliente l’esercito israeliano. Amos Oz ha anche accusato di antisemitismo la mozione per il disinvestimento.

Un argomento noto

Di fatto Amos Oz ha creduto e ribadito un buon numero di argomenti anti-palestinesi avanzati dai governi israeliani che si sono succeduti e dalla destra nazionalista del Paese. In una postfazione del 1993 al suo libro “In terra di Israele” Oz ha denunciato “il movimento nazionale palestinese (…) come uno dei movimenti nazionalisti più estremisti e intransigenti della nostra epoca,” che è stato causa della miseria “del suo stesso popolo.”

Nella medesima postfazione Amos Oz ha respinto le affermazioni palestinesi secondo le quali il sionismo sarebbe un “fenomeno colonialista”, scrivendo con involontaria ironia: “I primi sionisti arrivati in terra d’Israele alla fine del secolo non avevano niente da colonizzarvi.” Nel 2013 Oz ha dichiarato: “Gli membri dei kibbutz non volevano impadronirsi della terra di nessuno. Si sono deliberatamente installati negli spazi vuoti del Paese, nelle zone interne e disabitate, dove non viveva nessuno.”

In un editoriale del 2015 lo scrittore israeliano ha espresso il proprio orrore di fronte all’idea di una maggioranza palestinese all’interno di un unico Stato democratico: “Iniziamo con una questione di vita o di morte. Se non ci sono due Stati, ce ne sarà uno. Se ce ne sarà uno, sarà arabo. Se sarà arabo, è impossibile prevedere la sorte dei nostri figli e dei loro.”

Molto è stato detto sul l’“itinerario” politico di Amos Oz, a partire dalla sua infanzia in una famiglia di sionisti revisionisti [nazionalisti di destra, ndtr.]. Tuttavia il suo rifiuto di una soluzione sulla base di uno Stato unico ricorda le parole del dirigente revisionista Vladimir Jabotinsky, che affermava: “Il nome della malattia è minoranza, il nome della cura è maggioranza.”

Colonialismo di insediamento

L’immagine politica di Amos Oz in Occidente non si limita alla vita e al lavoro di un solo uomo. Deriva anche anche dal romanticismo che continua ad essere associato al kibbutz, alle illusioni sulla realtà degli accordi di Oslo e del processo di pace promosso dagli USA. Soprattutto, forse, è collegata al profondo sostegno offerto al colonialismo di insediamento in Palestina e alla tenace forza della mitologia sionista.

Un recente articolo del New York Times [principale quotidiano statunitense, ndtr.] sulla vita di Amos Oz afferma che Israele è “nato da un sogno, da un desiderio” e descrive Oz come “per molti aspetti, il perfetto nuovo ebreo che il sionismo aveva sperato di creare. Adolescente ha lasciato da solo Gerusalemme (…) e si è insediato in un kibbutz, una delle comunità agricole socialiste in cui gli israeliani hanno realizzato i propri sogni più radicati: coltivare se stessi e la terra in modo da diventare robusti e generosi.” (corsivo dell’autore [dell’articolo di MEE, ndtr.]).

Il colonialismo di insediamento è sempre stato sinonimo di incremento della soggettività del colono e di eliminazione brutale del colonizzato. La storia del movimento sionista in Palestina non è diversa.

Così la Palestina non era presentata come un luogo nel tempo, con la propria storia, i propri costumi, i propri popoli e le proprie narrazioni, ma piuttosto come un ambiente favorevole alla realizzazione della visione di “restaurazione” dei coloni. I palestinesi non erano presentati come individui reali, vivi, ma come dei buoni selvaggi, dei barbari e dei fanatici religiosi.

Come ha dichiarato il regista israeliano Udi Aloni, “la sinistra ebraica israeliana (…) non considera i palestinesi come soggetti della lotta, non vede che se stessa.”

Dans une critique cinglante du livre d’Amos Oz, Dear Zealots, publié en 2017, l’ancien président de la Knesset Avraham Burg a décrit Oz comme « un partisan fanatique de la partition, qui piétine tout sur son passage pour parvenir à sa solution surannée [à deux États] ». Pour Amos Oz, « un seul État arabe est inconcevable » ; ses « opinions des Arabes, qui affleurent ici et là, ne sont pas vraiment flatteuses ». Comme l’a résumé Burg : « Il y a beaucoup de questions, et ce petit livre d’Amos Oz n’offre aucune solution. »

In una sferzante critica al libro di Amos Oz Cari fanatici [Feltrinelli, Milano, 2017, ndtr.], pubblicato nel 2017, l’ex presidente della Knesset Avraham Burg ha descritto Oz come “un sostenitore fanatico della spartizione, che lungo il suo passaggio calpesta tutto per raggiungere la propria soluzione ormai superata (a due Stati).” Per Amos Oz “uno Stato unico arabo è inconcepibile”; le sue “opinioni sugli arabi, che affiorano qua e là, non sono davvero lusinghiere.” Come ha riassunto Burg: “Ci sono numerosi problemi, e questo libriccino di Amos Oz non offre alcuna soluzione.”

Ben White è autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Scrive per Middle East Eye e i suoi articoli sono stati pubblicati anche da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, the Electronic Intifada, e nella rubrica del “The Guardian” “Comment for Free” [Commento gratis] ed altri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Airbnb e Israele: il voltafaccia sulla presenza nelle colonie sarebbe peggio che stare zitti

Kieron Monks

Domenica 23 dicembre 2018, Middle East Eye

Il caso di Airbnb potrebbe rivelarsi uno spartiacque che potrebbe consolidare e far progredire il movimento BDS oppure renderlo di nuovo marginale

In base a standard particolarmente bassi, l’iniziale decisione di Airbnb di interrompere le attività nelle colonie illegali della Cisgiordania è sembrata lodevole. La non complicità in crimini di guerra non dovrebbe costituire un livello molto alto in termini di responsabilità sociale d’impresa, ma decine di imprese internazionali che tranquillamente fanno profitti nelle colonie non lo soddisfano.

Perciò va riconosciuto qualche merito a Airbnb per aver almeno ammesso la realtà.

Una pratica dannosa

Molta più fiducia, ovviamente, è dovuta agli attivisti e ai gruppi per i diritti umani che hanno passato anni a spiegare al colosso globale degli annunci quanto sbagliate e dannose fossero le sue attività nei territori occupati e quanto gravemente contraddicessero i valori progressisti professati dall’azienda.

Organizzazioni come Human Rights Watch (HRW) e la US Campaign for Palestinian Rights [Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi] (USCPR) sono state capaci di rompere la cortina fumogena di espressioni come “territorio conteso” e “status controverso”, per mostrare che le colonie sulla terra palestinese occupata non sono nient’altro che un’impresa criminale in base all’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra.

Nessuna seria autorità, dalla Corte Internazionale di Giustizia al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, lo mette in discussione.

La decisione di Airbnb ha coinciso con lo storico rapporto di HRW ‘Bed and Breakfast su terra rubata’, che dettagliava la provenienza oscura degli annunci messi a disposizione dei turisti, che offrono viste favolose e servizi moderni. Molti si trovano in colonie su terreni di proprietà privata palestinese che sono stati rubati da banditi armati, sia coloni che soldati.

I veri proprietari, esclusi da quelli che ora sono diventati terreni vietati, devono vedere la loro proprietà data in affitto a stranieri.  Il rapporto di HRW segnala che i profitti derivanti dagli annunci di Airbnb producono un notevole flusso di introiti che aiuta a sostenere l’impresa criminale.  

Feroce reazione violenta

Sembra ragionevole ipotizzare, come fa Michael Koplow del Forum sulla Politica di Israele, che Airbnb non sapesse veramente in che cosa si stesse cacciando con la sua avventura in una delle dispute più aspre e accese del mondo.

La successiva, feroce reazione da parte di dirigenti del governo e di gruppi di pressione statunitensi ed israeliani, comprese minacce di querela e aperte accuse di antisemitismo, era ovviamente difficile da ignorare. La notizia che i dirigenti di Airbnb avevano iniziato colloqui di controllo dei danni con il ministero israeliano del Turismo, che aveva fatto della questione un’assoluta priorità, non ha destato sorpresa.

Ma adesso l’azienda si trova messa all’angolo, e rilascia dichiarazioni contraddittorie con due discorsi diversi, il che le procura solo disprezzo da entrambe le parti. Ogni ambiguo tentativo di placare la situazione non fa che aumentare la pressione e la visibilità del caso. Al momento, gli annunci per le colonie si trovano ancora sul sito di Airbnb.

È diventato un problema gigantesco. Questo episodio, inizialmente una storica vittoria per il BDS, potrebbe però trasformarsi in una sconfitta che accelera un più ampio ridimensionamento del movimento che ha fucili puntati su di esso in termini legali negli Stati Uniti e in Europa. L’appoggio al boicottaggio di Israele viene rapidamente criminalizzato, dal ‘Decreto contro il boicottaggio di Israele’ del senatore Ben Cardin fino a leggi dei singoli Stati che obbligano i logopedisti a firmare giuramenti di fedeltà.

Mentre il movimento BDS ha conseguito straordinari risultati, quali l’entrata nel Congresso di sostenitori del BDS come Ilhan Omar e Rashida Tlaib [due parlamentari elette nelle ultime elezioni di medio termine, ndtr.], non ha mai affrontato grandi minacce.

Il caso di Airbnb potrebbe essere uno spartiacque che consolida e promuove il movimento di boicottaggio, oppure renderlo di nuovo marginale, ponendo anche un’interessante domanda strategica agli attivisti BDS, se possa valere la pena focalizzare la loro campagna sulle colonie, se è quello che può far guadagnare terreno.  

Pesante responsabilità

Ora che Airbnb è finita, forse inconsapevolmente, in mezzo a un plotone di esecuzione che la circonda, l’ impresa si è trovata con una responsabilità poco invidiabile.

Qualunque altra cinica impresa che opera in Cisgiordania può borbottare delle scuse per “non venire coinvolta in questioni politiche”, abbassare la testa e continuare a fare soldi. Ma Airbnb ha alzato la testa, ha riconosciuto i fatti e l’ingiustizia messa in luce dai promotori della campagna, ed ha affermato – anche se non esattamente con queste parole – di non voler far parte di un’impresa criminale. 

Fare marcia indietro adesso, con la completa consapevolezza della realtà dei fatti, dopo una serie di incontri segreti con dirigenti del governo israeliano, impegnati a fondo a vendere all’ingrosso crimini di guerra, e con leader della stessa criminale impresa coloniale, sarebbe molto più vergognoso delle azioni di altre aziende che operano in Cisgiordania, che non hanno mai preteso di rispondere alla propria coscienza. 

Non esiste una via d’uscita facile. Se Airbnb “sospendesse l’attuazione” della politica di disdetta, si potrebbe comunque aspettare un’altra violenta reazione da parte di gruppi per i diritti umani e di attivisti della solidarietà con la Palestina, che potrebbe mettere in luce la bancarotta morale dell’azienda ed essere in sintonia con i giovani cittadini progressisti delle aree metropolitane che costituiscono buona parte del mercato principale dell’azienda.

Airbnb deve soppesare questo rispetto alla furia e ai colpi degli apologeti delle colonie, che faranno del loro meglio per dare una punizione esemplare. Con la prospettiva di una IPO (Offerta Pubblica Iniziale, per quotarsi in borsa) attesa per l’anno prossimo, gli imperativi commerciali peseranno fortemente sul giudizio.

Quando Airbnb è stata contattata da MEE per un commento, ha rilasciato la stessa dichiarazione del 17 dicembre, che dice: “Airbnb ha espresso il suo inequivocabile rifiuto del movimento BDS ed ha comunicato il proprio impegno a sviluppare i propri affari in Israele, permettendo a più turisti da tutto il mondo di godere delle meraviglie del Paese e del suo popolo.”

Un grave biasimo

Possiamo solo sperare che vengano fatte anche altre considerazioni. Per un colosso internazionale da molti miliardi di dollari come Airbnb, dichiarare aperto sostegno a flagranti crimini di guerra e violazioni di diritti umani sarebbe un grave insulto al concetto stesso di leggi internazionali e diritti umani.

Una simile decisione darebbe legittimità all’impresa coloniale israeliana e delegittimerebbe i suoi oppositori. Comunicherebbe ai governi e agli uomini d’affari in tutto il mondo che le leggi sono un optional e le violazioni possono essere convenienti.

Spereremmo probabilmente troppo se ci aspettassimo un comportamento etico da parte di un’azienda senza priorità che vadano oltre il suo bilancio. La direzione deve provenire dal basso, così come gli attivisti e i gruppi per i diritti umani che sono stati una spina nel fianco dell’impresa coloniale, con alleanze solo transitorie e di convenienza con le potenze commerciali.

Ma se Airbnb decidesse di dare la sua approvazione ai crimini di guerra apponendo il proprio logo su proprietà rubate mentre i proprietari non hanno prospettive di giustizia, l’ impresa potrebbe almeno smettere di pretendere di avere valori degni di questo nome e tenere la bocca chiusa la prossima volta che si pone la questione.

Kieron Monks vive a Londra e scrive per testate tra cui CNN, The Guardian e Prospect Magazine, occupandosi di movimenti sociali, sport e i rapporti reciproci tra questi due ambiti.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il “laboratorio” di Gaza aumenta i profitti dell’industria bellica israeliana

Gabriel Schivone

05.ottobre.2018, The Electronic Intifada

Dopo aver esplorato il vasto sistema di sorveglianza lungo il confine tra Stati Uniti e Messico e aver trovato sistemi di sicurezza israeliani installati ovunque, l’autore Todd Miller e io ci siamo interessati al ruolo assunto da Israele come la più grande industria di sicurezza nazionale al mondo. L’industria delle armi israeliana ha il doppio delle dimensioni della sua controparte statunitense in termini di esportazioni pro capite e impiega una percentuale della forza lavoro nazionale doppia rispetto a quella degli Stati Uniti o della Francia, due dei principali esportatori di armi a livello mondiale.

Durante il nostro viaggio del 2016, non è stato difficile individuare alcuni degli industriali più intraprendenti di Israele che ci hanno spiegato come controllano un’area grande approssimativamente quanto il New Jersey.

Il nostro primo giorno, partecipando a una conferenza annuale sui droni, abbiamo incontrato Guy Keren, un uomo di mezza età che è il carismatico amministratore delegato di un’azienda israeliana per la sicurezza interna chiamata iHLS. L’iHLS di Keren aveva organizzato la conferenza sui droni.

Alcuni giorni dopo, ci siamo seduti con Keren nell’allora nuovissima sede di iHLS nella città costiera mediterranea di Raanana, nota per il suo parco industriale ad alta tecnologia. Gli abbiamo parlato nella sala conferenze sopra il laboratorio informatico della società.

Sotto di noi, branchi di giovani tecnologi facevano rullare le loro tastiere. Questo complesso, ci ha detto Keren, potrebbe ospitare fino a 150 startup.

Keren ci ha spiegato come la striscia di Gaza offra a Israele – e a iHLS – un vantaggio competitivo rispetto ad altri paesi a causa delle opportunità di testare in tempo reale nuovi prodotti durante tutto l’anno. Israele ha guadagnato il soprannome di “start-up nation” tra le élite imprenditoriali di tutto il mondo.

Una provetta umana

Abbiamo chiesto a Keren perché l’industria tecnologica israeliana abbia prestazioni così sorprendenti, soprattutto nel settore militare.

“Perché mettiamo alla prova i nostri sistemi dal vivo”, ci ha detto. “Siamo sempre in una situazione di guerra. Se non sta succedendo in questo momento, accadrà tra un mese. “

“Non si tratta solo di costruire la tecnologia” e di dover aspettare anni per provare i sistemi, ci ha detto Keren. Il segreto del successo del settore tecnologico israeliano, ha spiegato, sta nel “mettere in pratica la tecnologia più velocemente di qualsiasi altro paese in situazioni reali”.

Keren non è il primo a fare questo ragionamento. Fra i protagonisti del settore israeliano di alta tecnologia militare, Gaza è ampiamente percepita come una provetta umana – dove si sperimentano metodi per migliorare la capacità di uccidere ma anche metodi di pacificazione.

Quando, durante una conferenza del 2012 a El Paso, in Texas, Roei Elkabetz, un generale di brigata dell’esercito israeliano, si è rivolto a una platea di specialisti in tecnologia di controllo delle frontiere, ha mostrato sullo schermo una foto del muro, costruito da Magal Systems, che isola Gaza dal mondo esterno.
“Abbiamo imparato molto da Gaza”, ha detto. “È un grande laboratorio.”

Leila Stockmarr, una studiosa danese, ha partecipato allo stesso tipo di esposizioni di sicurezza israeliane visitate da Todd Miller e dal sottoscritto. “Come sostengono la maggior parte dei rappresentanti delle compagnie che ho intervistato, è centrale per le capacità militari e di polizia all’avanguardia di Israele che i nuovi strumenti tecnologici siano sviluppati e testati in una situazione reale di controllo di una popolazione, come nella Striscia di Gaza “, scrive nel suo saggio del 2016 “Oltre le ipotesi di laboratorio: Gaza come cinghia di trasmissione della tecnologia militare e di sicurezza”.

Aggiustamenti in tempo reale

Come ha detto a Stockmarr il rappresentante di un’importante società di sicurezza: “Una volta che un ordine è stato fatto dall’esercito israeliano, e dopo il dispiegamento iniziale sul campo, i reparti tecnici dell’azienda sono spesso contattati con richieste di correzioni e modifiche basate sull’esperienza. Così ogni volta che l’esercito usa la tecnologia israeliana di sicurezza interna, la verifica automaticamente. Le aziende traggono grande beneficio da questo e ogni volta che viene effettuato un nuovo ordine, questo feedback dal campo di battaglia viene utilizzato per migliorare la competitività del prodotto e garantire qualità ed efficacia”.

Cosa insolita per l’industria delle armi di un paese, Israele ha un laboratorio in un territorio che occupa – Gaza – molto vicino agli impianti di produzione per le sue armi e la sua tecnologia di sorveglianza. Il coinvolgimento nella Striscia di Gaza, come notato da Stockmarr nel 2016, aiuta le aziende a creare e perfezionare nuove idee, facendo aggiustamenti fini alle linee di prodotto.

Nell’aprile 2018, Saar Koursh, allora CEO di Magal Systems – un contendente per aggiudicarsi gli appalti per le infrastrutture di sorveglianza aggiuntive sul confine tra Stati Uniti e Messico proposte dal presidente americano Donald Trump – avrebbe descritto Gaza come uno “showroom” per le “recinzioni intelligenti” dell’azienda, i cui clienti “apprezzano che i prodotti siano testati in battaglia”.

Stockmarr osserva che gli stessi palestinesi di Gaza svolgono un ruolo nella fase di test, eseguendo una “parte cruciale” di questo ciclo del settore della sicurezza nazionale: “Al fine di valutare un dato prodotto, la valutazione sistematica delle reazioni delle popolazioni prese di mira dalle nuove tecnologie di sicurezza è un dato cruciale per gli acquirenti stranieri”.

Moltissimi investitori da tutto il mondo apprezzano l’idea, almeno quando il margine di profitto è interessante. “Il valore delle azioni di Magal USA è schizzato in alto alla fine del 2016, quando Trump ha parlato di un muro di confine messicano”, secondo Bloomberg.

E durante il primo mese dell’attacco israeliano a Gaza del 2014, il prezzo delle azioni della più grande società israeliana di armi, la Elbit Systems, è aumentato del 6,1%. Più di 2.200 palestinesi sono stati uccisi in quell’attacco.

Un esperimento senza fine

Quest’anno, da quando è iniziata la protesta della Grande Marcia del Ritorno, il 30 marzo, l’ultima linea israeliana di droni per il controllo delle folle ha debuttato a Gaza. Fra questi il drone chiamato non a caso “Sea of ​​Tears” (mare di lacrime), un prodotto commerciale cinese modificato dalla polizia israeliana per scaricare gas lacrimogeni sulle folle umane sottostanti, e il drone “Shocko” che spruzza “acqua puzzolente” sui manifestanti.

Il ministero della salute di Gaza ha constatato negli ultimi sei mesi gli effetti sugli esseri umani delle “pallottole a farfalla” israeliane, che esplodono all’impatto. Si tratta di uno dei tipi di proiettili più mortali che Israele abbia mai usato.

Il personale di Medici Senza Frontiere ha trattato lesioni da proiettili a farfalla nel 50% degli oltre 500 pazienti trattati durante le proteste.

Molti dei manifestanti che non sono stati uccisi sul momento sono stati gravemente feriti, facendo dei proiettili a farfalla un nuovo capitolo nella lunga storia della pratica di sparare per mutilare adottata dall’esercito israeliano, che Jasbir K. Puar ha descritto in dettaglio nel suo libro “Il diritto di mutilare: infermità, capacità, disabilità”.

Al 1° ottobre, oltre 150 palestinesi sono stati uccisi nella Grande Marcia del Ritorno, tra cui oltre 30 bambini. Più di 10.000 sono stati feriti, metà dei quali da colpi d’arma da fuoco.

Nel frattempo, nel parco industriale di Raanana, negli uffici climatizzati di iHLS, Keren e il suo staff sono impegnati a sviluppare i prossimi strumenti nel settore delle armi israeliane, aggiornando i loro sistemi ed espandendo i loro margini di profitto.

Gabriel M. Schivone è un ricercatore esterno presso l’Università dell’Arizona e autore del libro di prossima uscita “Produrre i nuovi ‘clandestini’: come un decennio di coinvolgimento degli Stati Uniti in centro America ha scatenato la recente ondata di immigrazione” (Prometheus book).

 

Traduzione a cura dell’Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze




L’ANP, la CPI e Israele

Richard Silverstein

Lunedì 23 luglio 2018 Middle East Eye

La Corte Penale Internazionale sta finalmente avviando le procedure preliminari nella causa dei crimini di guerra israeliani.

La settimana scorsa la Corte Penale Internazionale (CPI) ha comunicato che avrebbe avviato la fase preliminare di una causa per crimini di guerra presentata dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) contro Israele.

Un rapporto informativo israeliano ha definito l’iniziativa “quasi senza precedenti”. E’ stata nominata una giuria di tre giudici per l’istruzione della causa: Peter Kovacs (presidente), Marc Perrin de Brichambaut e Reine Adelaide Sophie Alapini-Gansou.

La causa ne richiama alla memoria un’altra: nell’originaria sentenza della CPI che ha ordinato alla procuratrice capo Fatou Bensouda di riaprire il caso della nave Mavi Marmara, Kovacs è stato l’unico giudice a votare contro la riapertura. La procuratrice ha archiviato il caso definitivamente, reputando che la gravità dell’incidente non fosse sufficiente per portarlo di fronte alla corte.

Il 31 maggio 2010 dieci attivisti turchi a bordo della Mavi Marmara, una nave componente di una flottiglia che cercava di rompere l’assedio di Gaza, sono stati uccisi da commandos della marina israeliana. Questo numero non è stato ritenuto sufficientemente alto per una corte che si occupa di “uccisioni di massa.”

Già respinta?

La sensazione è che per quest’ultima causa, la soluzione ci sia già. Con la nomina di Kovacs, un giudice che ha già stabilito che l’uccisione di 10 cittadini turchi da parte delle forze armate israeliane non debba essere indagata, la corte potrebbe aver già rigettato la causa dell’ANP.

Benché l’attuale causa sia stata presentata inizialmente nel 2015, molti osservatori ritengono che il massacro degli ultimi due mesi da parte delle forze israeliane a Gaza abbia spinto la CPI verso un atteggiamento più attivo. La tempistica della CPI nell’annunciare il processo preliminare rivela che l’ANP ha depositato una denuncia alla fine di maggio, chiedendo alla Corte di esaminare le attuali violazioni israeliane del diritto internazionale.

Sembra evidente che la ‘Grande Marcia del Ritorno’ e la risposta vendicativa di Israele – con l’uccisione di 130 palestinesi a Gaza, quasi tutti civili disarmati – sia ciò che ha spinto la Corte Internazionale ad agire.

Nei giorni scorsi i cecchini israeliani hanno ucciso un ragazzino che cercava di scavalcare la barriera installata da Israele. Israele sostiene di dover difendere la sua sovranità territoriale, ma non è chiaro come un ragazzino disarmato metta qualcuno in pericolo, tanto meno la sovranità israeliana. Non riconosce Hamas ed ha rifiutato di definire il proprio confine con la Palestina, inclusa Gaza.

Perché venga riconosciuta e rispettata la sovranità di una Nazione, essa deve negoziare i confini con i suoi vicini. Israele ha ripetutamente rifiutato di farlo, non solo con la Palestina, ma anche con il Libano e la Siria. Nessuno Stato riconosce l’occupazione di Israele della Cisgiordania, di Gaza o delle Alture del Golan. Quindi, non può essere negoziato nessun confine internazionale e la sovranità di Israele non può essere garantita.

Attacco brutale

Dopo la morte del ragazzino Hamas ha lanciato decine di razzi su Israele, ferendo parecchi israeliani, e Israele ha inviato gli F16 di costruzione americana a bombardare Gaza. Israele lo ha descritto come il più brutale attacco sull’enclave dall’ultima vasta invasione, nel 2014.

Due ragazzi che giocavano in un parco pubblico sono stati uccisi dopo che un aereo da guerra ha sganciato una bomba su un vicino grattacielo. L’esercito israeliano ha sostenuto di avere avvertito i civili dell’attacco, come per assolversi da ogni responsabilità, ma non ha fornito prove di questo, anche dopo una richiesta in merito.

E’ strano che pochi mezzi di informazione – come questo israeliano – abbiano riferito dell’importante sviluppo legale che coinvolge la CPI. Il rapporto israeliano ha affermato che se venisse aperta un’inchiesta formale, si tratterebbe di “un passo drammatico che avrebbe conseguenze sullo status di Israele nella comunità internazionale.”

Il comunicato della Corte, di 11 pagine, invita ad informare la popolazione palestinese circa la CPI ed il ruolo che è destinata a giocare nel giudicare il caso, indirizzando il proprio staff a impostare “un sistema di informazione pubblica e attività di sensibilizzazione a beneficio delle vittime e delle comunità palestinesi colpite nella situazione della Palestina e riferire all’Aula, conformemente ai principi stabiliti nella presente decisione.”

Secondo il rapporto informativo israeliano, esso inoltre invita le vittime palestinesi a presentarsi e fornire testimonianza sulle loro sofferenze.

Ostacolo iniziale

Questo è un giorno che Israele ha paventato per anni. Questo è un giorno che ha cercato di evitare come la peste. Ha fatto di tutto per cooptare la CPI.

Il predecessore di Bensouda nel ruolo di procuratore capo, Luis Ocampo, si è venduto al miglior offerente. Ha anche detto che la Corte Suprema israeliana potrebbe legalizzare le colonie ed ha pubblicamente respinto la causa palestinese. La stessa Bensouda ha rifiutato di portare avanti questa causa, ma è stata costretta a farlo dalla giuria sopra menzionata.

Questa notizia non significa che la CPI stia realmente avviando una causa formale contro Israele. Si tratta di una fase processuale preliminare; il caso ha incontrato un iniziale ostacolo sulla strada dell’azione penale formale.

Ma se Israele continua a perseguire i propri interessi con metodi di massacro di massa, come ha fatto per anni, allora il caso potrà superare con successo ogni ostacolo che si troverà di fronte.

Richard Silverstein scrive sul blog Tikun Olam, che si occupa di rivelare gli eccessi dello stato di sicurezza nazionale israeliano. I suoi lavori sono stati pubblicati su Haaretz, the Forward, the Seattle Times e the Los Angeles Times. Ha contribuito alla raccolta di saggi dedicata alla guerra del Libano del 2006, ‘E’ tempo di parlare’ (Verso), e ha scritto un altro saggio nella raccolta ‘Israele e Palestina: prospettive alternative sullo Stato’ (Rowman &Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Israele uccide un ragazzino mentre Gaza segna 100 giorni di proteste

Ali Abunimah

13 luglio 2018, Electronic Intifada

Venerdì i cecchini israeliani hanno ucciso un ragazzino mentre i palestinesi hanno segnato più di 100 giorni delle proteste della “Grande Marcia del Ritorno” a Gaza.

Secondo il gruppo per i diritti umani Al Mezan, Uthman Rami Hillis, 14 anni, è stato ucciso da fuoco mortale.

Il gruppo ha affermato che Hillis, del quartiere di Shujaiya, è stato colpito alla schiena dalle forze israeliane schierate lungo il confine est della Striscia di Gaza.

Più di 100 persone a Gaza sono state ferite, 65 delle quali da proiettili veri.

In seguito alla notizia della sua morte, media palestinesi hanno diffuso una foto di Hillis.

Hanno anche diffuso immagini di Hillis portato via in barella dopo essere stato colpito.

Un video mostra anche scene strazianti di parenti che piangono sul corpo di Hillis nell’obitorio dell’ospedale al-Shifa di Gaza City.

Venerdì, prima della morte di Hillis, l’OCHA, agenzia di monitoraggio umanitario dell’ONU, ha informato che sono stati 21 i minori tra i circa 150 palestinesi uccisi dalle forze israeliane a Gaza dal 30 marzo, la grande maggioranza dei quali durante le proteste. Più di 4.000 sono stati feriti da proiettili veri.

Nello stesso periodo sono stati feriti quattro israeliani.

In difesa di Khan al-Ahmar

Per il sedicesimo venerdì di seguito migliaia di palestinesi si sono diretti verso il confine orientale di Gaza.

Dal 30 marzo i palestinesi hanno organizzato proteste contro l’assedio israeliano di Gaza durato 11 anni e per chiedere il diritto dei rifugiati di tornare alle terre da cui sono stati espulsi e da cui sono esclusi da Israele perché non sono ebrei.

Israele ha risposto schierando cecchini con l’ordine di sparare contro civili disarmati, compresi minori – uccisioni e mutilazioni che la procura della Corte Penale Internazionale ha avvertito potrebbero portare i dirigenti israeliani ad essere processati per crimini di guerra.

Il tema della protesta di questo venerdì è stato la solidarietà con Khan al-Ahmar, un villaggio beduino nei pressi di Gerusalemme che deve affrontare un’imminente demolizione da parte di Israele – un crimine di guerra – per far posto a nuove colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata.

A Gaza molti palestinesi hanno rivolto messaggi alla gente di Khan al-Ahmar attraverso i media locali.

Oggi siamo qui in solidarietà con i nostri fratelli e sorelle di Khan al-Ahmar,” ha detto un uomo. “Tutta Gaza è con voi.”

Un’immagine mostra un palestinese che sventola una bandiera irlandese in onore dell’ approvazione, all’inizio di questa settimana da parte del senato irlandese, di una legge che vieta l’importazione di prodotti dalle colonie israeliane.

Israele rafforza l’assedio

Mentre i palestinesi di Gaza continuano la loro rivolta contro l’assedio, nonostante il suo terribile costo, Israele risponde rafforzando ulteriormente il blocco.

Lunedì Israele ha annunciato la chiusura dell’unico valico commerciale di Gaza.

Israele ha anche ridotto da nove a sei miglia nautiche la distanza [dalla costa] entro la quale i pescatori di Gaza possono andare in mare.

Queste iniziative sono punizioni collettive contro i due milioni di persone di Gaza per gli aquiloni e i palloncini incendiari che i palestinesi hanno lanciato, provocando incendi nei prati sul lato israeliano del confine.

L’esercito tecnologicamente avanzato di Israele ha dimostrato di non essere in grado di combattere aquiloni e palloncini.

Perciò ancora una volta le autorità dell’occupazione stanno aggiungendo ulteriori sofferenze a quelle che hanno innescato la rivolta contro una situazione in cui la popolazione di Gaza- la metà della quale composta da minorenni – può solo scegliere tra morire a causa dei proiettili e delle bombe israeliani o essere ridotti in silenzio alla disperazione ed alla morte dall’assedio.

Israele afferma che consentirà l’ingresso di prodotti “umanitari” come cibo e medicine, ma funzionari dell’ONU stanno avvertendo che la chiusura del valico commerciale renderà la situazione di Gaza molto peggiore.

Ci si può attendere che la chiusura avrà conseguenze profonde e di vasta portata per i civili già disperati,” ha affermato giovedì Chris Gunness, portavoce dell’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

Gunness ha evidenziato che tra i beni di importazione vietati da Israele ci sono materiali da costruzione per i progetti educativi, sanitari, idrici, fognari e per l’igiene dell’ONU.

I sistemi idrici e fognari di Gaza sono già vicini al collasso in seguito ad anni di blocco e attacchi militari di Israele.

Infliggere sofferenze

Gisha”, un gruppo israeliano per i diritti umani che monitora il blocco di Gaza, ha affermato che Israele sta vietando ogni materiale da costruzione, non solo quelli destinati ai progetti dell’ONU – cosa che porterà rapidamente all’interruzione di qualunque attività edilizia a Gaza.

Anche le attività economiche già in difficoltà soffriranno gravissime perdite.

Il contadino Suleiman Zurub stava aspettando di spedire 2.000 cassette di patate dolci fuori dal valico. Questo raccolto probabilmente ora andrà in rovina. “I contadini sono i più danneggiati da questa decisione,” dice Zurub, citato da Gisha.

Anche Hasan Shehadeh, proprietario di una fabbrica di vestiti, deve far fronte a gravi perdite in quanto non può spedire i prodotti ai consumatori in Israele, nella Cisgiordania occupata e in Cina.

Se le cose continuano così, subirò pesanti perdite finanziarie, perché nei miei contratti ho firmato l’impegno a pagare per ogni articolo che rimane nella mia fabbrica,” dice Shehadeh secondo Gisha.

Shehadeh è anche preoccupato per le 200 persone che impiega: “La decisione di Israele danneggerà anche loro, ovviamente,” afferma.

Allerta preventiva

Gunness, dell’UNRWA, ha previsto che l’ultima chiusura porterà a un incremento della domanda di servizi dell’agenzia.

Ciò avverrà in un periodo in cui essa, che fornisce razioni alimentari d’emergenza, servizi sanitari ed educativi a centinaia di migliaia di persone a Gaza, affronta una crisi finanziaria senza precedenti in seguito al congelamento dei contributi degli USA all’inizio di quest’anno.

Circa l’80% della popolazione di Gaza è già obbligata a contare sull’assistenza umanitaria e la percentuale di disoccupazione è vicina al 50%.

In giugno l’UNRWA ha avvertito che dovrà fare importanti tagli ai suoi già ridotti servizi.

Anche prima delle ultime restrizioni israeliane, i funzionari dell’ONU hanno evidenziato indicatori di una situazione che va deteriorandosi profondamente.

Secondo l’OCHA, dal gennaio 2017 al giugno di quest’anno la percentuale di medicine essenziali senza riserve nei magazzini a Gaza è aumentata gradualmente da un terzo al 50% – il che significa che c’è meno di un mese di rifornimento per queste medicine.

In giugno il numero medio di ore di elettricità al giorno è stato di 4,5 ore, vicino al livello minimo dal gennaio 2017.

Nel contempo, nel corso dell’ultimo anno, il numero di persone che hanno dovuto chiedere in prestito denaro o cibo a familiari o amici è salito da circa uno su tre a quasi uno su due.

Complicità internazionale

L’Unione Europea, che raramente critica Israele e non ha condannato i suoi massacri di civili a Gaza, ha affermato venerdì di “attendersi che Israele revochi” la decisione di chiudere il valico commerciale.

La dichiarazione di Bruxelles non fa riferimento agli obblighi di Israele, in quanto potenza occupante, di attenersi alle leggi internazionali, compreso il divieto di punizioni collettive.

L’Ue ha persino tacitamente giustificato le azioni di Israele includendo la richiesta che “Hamas e altri attori a Gaza cessino e rinuncino ad azioni violente e provocazioni contro Israele, compreso il lancio di aquiloni e palloncini incendiari.”

Al contrario Gisha ha definito “sia illegale che moralmente perverso” il ricorso di Israele a “punizioni collettive di circa due milioni di persone a Gaza” chiudendo il valico commerciale.

Il gruppo palestinese per i diritti umani Al Mezan ha deplorato “la continua tolleranza della comunità internazionale nei confronti delle punizioni collettive della popolazione di Gaza in violazione degli obblighi giuridici in base alle leggi umanitarie internazionali.”

Al Mezan ha avvertito che Gaza sta assistendo “a un collasso sociale ed economico” e sta andando verso “un’esplosione”.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Amnesty International: la demolizione illegale e il trasferimento forzato di un villaggio di Beduini palestinesi rappresenta un crimine di guerra.

Comunicato Stampa

1 giugno 2018, Amnesty International

Le autorità israeliane devono annullare immediatamente il progetto di demolire il villaggio beduino palestinese di Khan al-Ahmar e di trasferire forzatamente la comunità che ci vive, ha dichiarato Amnesty International in vista dell’arrivo anticipato dei bulldozer previsto per il 1 giugno, dopo che la settimana scorsa la Corte Suprema di Israele ha autorizzato la demolizione.

È stato previsto che i residenti del villaggio siano trasferiti in un’area vicino a quella che era la discarica municipale di rifiuti di Gerusalemme, nei pressi del villaggio di Abu Dis.

“La scandalosa decisione presa la settimana scorsa dalla Corte Suprema di permettere all’esercito israeliano di demolire l’intero villaggio di Khan al-Ahmar è stata un colpo tremendo per le famiglie che da quasi dieci anni stanno facendo una campagna di informazione e combattono una battaglia legale per rimanere sulla loro terra e preservare le loro abitudini di vita. Procedere con la demolizione non sarebbe solo un atto di crudeltà, ma rappresenterebbe anche un trasferimento forzato, che è un crimine di guerra”, ha detto Magdalena Mughrabi, vice-direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa.

Khan al-Ahmar è abitato da circa 180 residenti della tribù beduina Jahalin. È circondato da diversi insediamenti illegali israeliani che si trovano ad est di Gerusalemme.

Da più di 60 anni, la tribù beduina Jahalin sta lottando per mantenere le proprie abitudini di vita. Dopo essere stati scacciati negli anni 1950 dalle loro terre nel deserto del Negev, hanno subito continue vessazioni, pressioni e reinsediamenti da parte dei vari governi israeliani.

Alla fine di agosto 2017, il ministro della difesa israeliani Avigdor Lieberman annunciava che entro alcuni mesi il governo avrebbe sgomberato l’intera comunità. Lo scorso 24 maggio, la Corte Suprema israeliana ha sentenziato a favore della demolizione dell’intero villaggio di Khan al-Ahmar, compresa la scuola che è stata costruita usando vecchi copertoni di auto e che fornisce istruzione a circa 170 ragazzi di cinque diverse comunità beduine.

La Corte ha deciso che il villaggio è stato costruito senza i dovuti permessi di costruzione, anche se per i Palestinesi è impossibile ottenere tali permessi nelle aree della Cisgiordania sotto controllo israeliano conosciute col nome di Zona C.

“Le autorità israeliane hanno distrutto migliaia di vite palestinesi, sottoponendo uomini, donne e bambini ad anni di traumi e di ansie con la loro politica profondamente discriminatoria di negare innanzitutto i permessi di costruzione per poi distruggere con i bulldozer case, scuole e strutture per la pastorizia”, ha detto Magdalena Mughrabi.

“Invece di continuare a punire i Palestinesi perché costruiscono senza permessi, le autorità israeliane devono smettere di costruire ed espandere i loro insediamenti illegali in Cisgiordania, ciò che rappresenterebbe un primo passo per rimuovere i civili israeliani che vivono in questi insediamenti.”

“La sentenza della Corte Suprema è estremamente pericolosa e può rappresentare un precedente ai danni di altre comunità che cercano di opporsi ai progetti israeliani di trasferirle nei centri urbani. Le autorità israeliane devono rispettare i loro obblighi legali internazionali e abbandonare ogni piano di trasferimento forzato per Khan al-Ahmar e altre comunità.”

Informazioni sul contesto

Khan al-Ahmar si trova circa due chilometri a sud della colonia di Kfar Adumin nella Cisgiordania occupata. Dal 2009, la comunità beduina che vi risiede sta combattendo contro i continui ordini di demolizione di edifici e infrastrutture, tra cui la “scuola di gomme”. Quello stesso anno, gli abitanti delle vicine colonie israeliane di Kfar Adumin, Alon e Nofei Prat hanno chiesto alla Corte Suprema israeliana di permettere all’esercito israeliano di eseguire gli ordini di demolizione già emessi.

Khan al-Ahmar è una delle 46 comunità palestinesi della Cisgiordania a rischio di trasferimento forzato, a causa dei piani di ricollocamento israeliani e delle pressioni ad andarsene che vengono esercitate sui residenti. Queste comunità si trovano nella zona designata come Area C in base agli Accordi di Oslo firmati nel 1993 da Israele e dall’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). In quest’area, che rappresenta più del 60% della Cisgiordania occupata, l’esercito israeliano ha il completo controllo sulla sicurezza. L’Amministrazione Civile israeliana, che è un corpo militare, controlla la pianificazione ambientale e urbanistica.

L’esercito israeliano ha recentemente annunciato nuovi progetti di demolizione per i villaggi di Ein al-Hilweh e Umm Jamal nella Valle del Giordano, di Jabal al Baba a est di Gerusalemme, e del 20% degli edifici nel villaggio palestinese di Susiya che si trova nelle colline a sud di Hebron.

La politica di Israele di insediare civili israeliani nei Territori Palestinesi Occupati, distruggendo arbitrariamente le proprietà palestinesi e trasferendo forzatamente gli abitanti che vivono sotto occupazione, viola la Quarta Convenzione di Ginevra ed è un crimine di guerra compreso nello statuto della Corte Penale Internazionale.

A partire dal 1967, Israele ha evacuato e trasferito forzatamente intere comunità ed ha demolito più di 50.000 case e infrastrutture palestinesi.

Traduzione di Donato Cioli

A cura di AssopacePalestina

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La paramedica di Gaza uccisa da Israele è stata colpita alla schiena

Ali Abunimah

2 giugno 2018, Electronic Intifada

Una fotografia scattata il 1^ aprile mostra la paramedica palestinese Razan al-Njjar mentre sta curando dei feriti in una tenda del pronto soccorso durante le proteste a Gaza vicino al confine con Israele. Il 1^ giugno Al-Najjar è stata colpita a morte da un cecchino israeliano mentre prestava soccorso a dimostranti feriti vicino a Khan Younis.

Nel corso dei loro continui attacchi indiscriminati contro i palestinesi che partecipavano alle proteste della ‘Grande Marcia del Ritorno’ a Gaza, svoltesi per 10 venerdì consecutivi, le forze di occupazione israeliane hanno colpito a morte un medico volontario e ferito decine di persone.

Venerdì sera, quando è stata colpita a morte, Razan Ashraf Abdul Qadir al-Najjar, di 21 anni, stava aiutando a curare ed evacuare dimostranti feriti ad est di Khan Younis.

L’associazione per i diritti umani “Al Mezan” ha affermato, citando testimoni oculari e proprie indagini, che, nel momento in cui è stata colpita, lei si trovava a circa 100 metri di distanza dalla barriera di confine con Israele ed indossava un giubbotto che la identificava chiaramente come paramedico. “Al Mezan” ha affermato che Al-Najjar è stata colpita alla schiena.

Al-Najjar era diventata famosa per il suo coraggio e perseveranza nel condurre la sua opera di soccorso nonostante l’evidente pericolo.

In precedenza era stata colpita dagli effetti dell’inalazione di gas lacrimogeni e il 13 aprile si è rotta un polso mentre correva per soccorrere un ferito. Ma Al-Najjar quel giorno si è rifiutata di andare in ospedale ed ha continuato a lavorare sul campo.

È mio dovere e mia responsabilità essere là ed aiutare i feriti”, ha detto ad Al Jazeera.

Ha anche reso testimonianza sugli ultimi momenti di vita di coloro che erano stati feriti a morte prima di lei.

Mi spezza il cuore il fatto che alcuni dei giovani feriti o uccisi abbiano espresso le loro ultime volontà di fronte a me”, ha detto ad Al Jazeera. “Alcuni mi hanno addirittura consegnato i loro effetti personali (come dono) prima di morire.”

Al-Najjar ha parlato del suo lavoro in una recente intervista televisiva che è stata ampiamente diffusa sui social media dopo la notizia della sua morte.

Molti utenti di Twitter, soprattutto di Gaza, hanno reso omaggio a al-Najjar.

I media palestinesi hanno diffuso immagini dei suoi familiari e colleghi che piangevano la sua morte.

Il dottor Ashraf al-Qedra, portavoce del ministero della sanità di Gaza, ha reso omaggio ad al-Najjar definendola una volontaria umanitaria impegnata, che non ha abbandonato il suo posto fino al punto di “offrirsi come martire”.

Mani alzate

[La foto qui sotto riprende Razan pochi istanti prima di essere uccisa da:http://www.globalist.it/world/articolo/2018/06/03/l-infermiera-palestinese-uccisa-dagli-israeliani-aveva-le-braccia-alzate-2025472.html ndt]


Il camice bianco che al-Najjar indossava, mostrato da sua madre in questo video, presenta un foro nella parte posteriore.

In una dichiarazione rilasciata sabato, il ministero della Sanità di Gaza ha affermato che al-Najjar faceva parte di un’equipe medica che “andava ad evacuare i feriti con entrambe le mani alzate, a dimostrazione del fatto di non costituire alcun pericolo per le forze di occupazione pesantemente armate.”

Le forze di occupazione israeliane hanno sparato proiettili veri direttamente al petto di Razan ed hanno ferito parecchi altri paramedici”, ha aggiunto il ministero della Sanità.

Dalla dichiarazione del ministero della Sanità non risulta chiaro quante volte al-Najjar sia stata colpita o in quale esatto punto della parte superiore del corpo. Il ministero ha anche pubblicato un video che mostra al-Najjar e i suoi colleghi che camminavano verso la barriera di confine con le mani alzate poco prima che al-Najjar venisse colpita.

Sabato il rappresentante speciale ONU per il processo di pace in Medio Oriente, Nickolay Mladenov, ha twittato che “gli operatori sanitari non sono un bersaglio. I miei pensieri e le mie preghiere vanno alla famiglia di Razan al-Najjar.”

Tuttavia Mladenov ha omesso di condannare le azioni di Israele, invitandolo invece a “calibrare il suo uso della forza.”

Sabato in migliaia hanno seguito il funerale di al-Najjar, mentre i colleghi portavano il suo corpo coperto dalla bandiera palestinese e dal camice macchiato di sangue che indossava quando è stata uccisa.

Attacchi ai medici

Al-Najjar è il secondo soccorritore ucciso dalle forze israeliane dall’inizio delle proteste della ‘Grande Marcia per il Ritorno’, il 30 marzo. Secondo il ministero della Sanità di Gaza, più di altri 200 sono stati feriti e 37 ambulanze sono state danneggiate.

Due settimane fa i cecchini israeliani hanno ucciso il paramedico Mousa Jaber Abu Hassanein.

Circa un’ora prima che venisse ucciso, Abu Hassanein aveva aiutato a soccorrere uno dei suoi colleghi, il medico canadese Tarek Loubani, che era stato ferito da un proiettile israeliano.

In seguito Loubani ha raccontato al podcast di The Electronic Intifada di essere stato colpito a una gamba mentre intorno a lui tutto era tranquillo: “Nessun pneumatico in fiamme, niente fumo, niente gas lacrimogeni, nessuno che si aggirasse davanti alla zona cuscinetto. C’era solo una squadra medica chiaramente identificabile, ben lontana da chiunque altro.”

Chirurghi di guerra

Secondo “Al Mezan” questo venerdì, come tutti i venerdì, le forze israeliane hanno sparato proiettili veri, proiettili ricoperti di gomma e candelotti lacrimogeni contro i palestinesi lungo il confine est di Gaza, ferendo circa 100 persone, 30 delle quali con proiettili veri.

I dimostranti non costituivano pericolo o minaccia alla sicurezza dei soldati, il che conferma che le violazioni commesse da queste forze sono gravi e sistematiche e si configurano come crimini di guerra”, ha affermato l’associazione per i diritti umani.

Secondo “Al Mezan”, dalla fine di marzo le forze israeliane hanno ucciso 129 persone a Gaza, compresi 15 minori, 98 delle quali durante le proteste.

Mentre Israele venerdì continuava ad aumentare il tragico bilancio, il sistema sanitario di Gaza si trovava già senza la possibilità di far fronte all’affluenza di persone ferite dall’uso evidente di proiettili a frammentazione, che provocano ferite terribili che richiedono trattamenti intensivi e complessi e lasciano spesso le vittime con disabilità permanenti.

Più di 13.000 persone sono state ferite da quando sono cominciate le proteste, comprese quelle che hanno inalato gas lacrimogeni. Delle oltre 7.000 persone che hanno subito danni diversi dai gas lacrimogeni, più della metà sono state colpite da proiettili veri.

Giovedì il Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC) ha comunicato che avrebbe fornito a Gaza due squadre di chirurghi di guerra e attrezzature mediche, per sostenere un sistema sanitario che ha affermato essere “sull’orlo del collasso”.

L’ICRC ha detto che la priorità per la sua missione di sei mesi sarebbe stata la cura delle vittime di ferite da arma da fuoco, tra cui circa 1.350 pazienti che avrebbero avuto bisogno da tre a cinque operazioni ciascuno.

Un simile carico di lavoro potrebbe travolgere qualunque sistema sanitario”, ha affermato l’ICRC. “A Gaza la situazione viene peggiorata dalla cronica carenza di medicinali, attrezzature ed elettricità.”

Baraccopoli infetta”

Le continue proteste a Gaza hanno lo scopo di rivendicare il diritto dei rifugiati palestinesi a ritornare nelle loro case e terre che sono ora in Israele e di chiedere la fine dell’assedio israeliano del territorio, che dura da oltre un decennio.

I due milioni di abitanti di Gaza sono “imprigionati dalla culla alla tomba in una baraccopoli infetta”, ha detto venerdì il responsabile dei diritti umani dell’ONU Zeid Ra’ad al-Hussein in una sessione speciale del Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani.

Zeid ha anche detto al Consiglio che ci sono “ poche tracce” del fatto che Israele stia facendo qualcosa per ridurre il numero delle vittime.

Ha confermato che “le azioni dei dimostranti di per sé stesse non sembrano costituire una minaccia immediata di morte o di ferite mortali tale che possa giustificare l’uso di forza letale.”

Zeid ha parlato al Consiglio quando esso stava prendendo in considerazione una bozza di risoluzione per avviare un’inchiesta internazionale per crimini di guerra a Gaza.

La settimana scorsa il Consiglio per i Diritti Umani ha deciso con 29 voti contro 2 di avviare un’inchiesta indipendente sulle violenze a Gaza.

Solo gli Stati Uniti e l’Australia hanno votato contro l’inchiesta, ma diversi governi dell’Unione Europea, inclusi Regno Unito e Germania, erano tra i 14 astenuti.

Medical Aid for Palestinians’, un’organizzazione benefica che ha fornito assistenza di emergenza in mezzo al crescente disastro, e una dozzina di altre organizzazioni, hanno criticato il rifiuto del governo britannico di appoggiare un’inchiesta “per accertare violazioni del diritto internazionale nel contesto delle proteste civili di massa a Gaza.”

Ma i tentativi di rendere Israele responsabile continuano, tra l’opposizione intransigente dei suoi sostenitori.

Venerdì sera il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato su una bozza di risoluzione proposta dal Kuwait, che deplora “l’uso eccessivo, sproporzionato e indiscriminato della forza da parte delle forze israeliane” e chiede “misure per garantire la sicurezza e la protezione” dei civili palestinesi.

Ha anche chiesto la fine del blocco di Gaza e deplorato “il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza contro zone civili israeliane.”

Dieci Paesi, inclusi i membri permanenti Russia e Francia, hanno votato a favore. Quattro, compresa la Gran Bretagna, contro.

Nonostante avesse i voti sufficienti per essere approvata, la risoluzione è stata resa vana dall’ambasciatrice USA Nikki Haley, che – come aveva promesso di fare – ha posto il veto del suo Paese.

Poi Haley ha proposto la sua bozza di risoluzione, che assolve Israele da ogni responsabilità per la violenza a Gaza e attribuisce tutta la responsabilità della situazione ad Hamas.

L’unico Paese che ha votato a favore sono stati gli Stati Uniti.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Quel boato? È la Palestina che scatena uno tsunami legale contro i crimini di guerra israeliani

Victor Kattan

25 maggio 2018, Haaretz

La Palestina è decisa a far cadere su Israele tutto il peso delle leggi internazionali. E sta cominciando adesso.

Questa volta il governo di Benjamin Netanyahu potrebbe essere andato troppo in là nella difesa delle azioni delle sue forze armate a Gaza. Ciò potrebbe portare al fatto che Israele sia obbligato a difendere le proprie azioni davanti a una corte di diritto internazionale.

L’affermazione del ministro della Difesa Avigdor Lieberman secondo cui “non ci sono innocenti a Gaza”, dove più di 60 palestinesi sono stati uccisi durante manifestazioni il 14 maggio, non poteva essere ignorata dalla dirigenza palestinese. Secondo il rapporto presentato dalla Palestina alla Corte Penale Internazionale (CPI), le persone colpite da cecchini e dal fuoco dell’artiglieria comprendono sei minori, un amputato alle due gambe, un infermiere e 11 giornalisti.

Se teniamo conto della decisione del presidente USA Donald Trump di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme – che in sé è stata una flagrante violazione delle leggi internazionali – nello stesso giorno in cui ha avuto luogo la sparatoria, la dirigenza palestinese ha capito di dover prendere l’iniziativa, almeno per conservare la propria credibilità agli occhi del suo stesso popolo.

Supportato dai festeggiamenti che hanno accompagnato la decisione di Trump sull’ambasciata, il primo ministro Benjamin Netanyahu sembra aver trascurato, o non avere preso sul serio, importanti iniziative diplomatiche palestinesi negli ultimi mesi che, prese insieme, potrebbero aver rovinato la festa.

Nel settembre 2017 la Palestina ha aderito all’Interpol, l’organizzazione internazionale di polizia; in aprile ha presentato una denuncia contro Israele per aver violato i suoi impegni in base alla “Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione Razziale”; e proprio la settimana scorsa il Consiglio ONU sui Diritti Umani ha deciso di inviare una commissione di inchiesta, appoggiata da quasi tutti i membri del Consiglio tranne gli USA e l’Australia, per indagare sull’uccisione di palestinesi sul confine di Gaza da parte di Israele.

Ora il ministro degli Esteri della Palestina Riyad al-Maliki ha presentato un ricorso su propria iniziativa alla Corte Penale Internazionale in cui si chiede alla procuratrice Fatou Bensouda di aprire un’indagine sui crimini commessi sul territorio dello Stato di Palestina.

La dirigenza palestinese potrebbe prendere ulteriori passi presso altre corti e tribunali internazionali, come la Corte Internazionale di Giustizia, chiedendo all’Assemblea Generale dell’ONU di fare richiesta di un parere consultivo a quella corte, se facendolo vi vedesse un beneficio politico.

Benché Israele non riconosca lo Stato di Palestina, oltre 130 Stati lo fanno. Dato che Israele sta occupando il territorio di uno Stato membro, in linea di principio la CPI ha giurisdizione in materia.

Il ricorso su propria iniziativa è stato presentato alla procuratrice Bensouda da funzionari del ministero degli Affari Esteri della Palestina. Lo Stato di Palestina ha goduto dello status di Paese osservatore nell’Assemblea Generale dell’ONU dal 29 novembre 2012, ed ha ratificato o aderito a numerosi trattati – compreso lo Statuto di Roma che ha creato la CPI.

Gli USA, per favorire Israele, potrebbero rendere questo ricorso alle leggi internazionali disagevole per i palestinesi. Nel 2015 il congresso USA ha approvato l’“Omnibus Appropriations Act” [“Legge per la Raccolta dei Finanziamenti”, ndt.] per impedire il trasferimento di un sostegno economico all’Autorità Nazionale Palestinese se questa avesse avviato “un’inchiesta giuridicamente autorizzata della Corte Penale Internazionale o avesse attivamente sostenuto un simile inchiesta, che sottoponga cittadini israeliani a un’inchiesta per presunti crimini contro i palestinesi.”

Ovviamente i consiglieri giuridici della Palestina potrebbero sostenere di non aver iniziato loro, ma solo richiesto, l’apertura di un’inchiesta: solo il procuratore può avviare un’inchiesta.

Ma comunque l’amministrazione Trump ha già tagliato gli aiuti all’UNRWA, l’agenzia ONU incaricata di occuparsi dei rifugiati palestinesi, e ha tentato di chiudere la missione diplomatica della Palestina a Washington. Queste azioni hanno eliminato gli incentivi ed i privilegi economici che il presidente Obama, e le precedenti amministrazioni USA, avevano concesso alla dirigenza palestinese.

Finora questi benefici sembravano aver evitato che la dirigenza palestinese presentasse le proprie richieste contro Israele di fronte a corti e tribunali internazionali. La minaccia di ulteriori tagli all’Autorità Nazionale Palestinese evidentemente non ha dissuaso la leadership palestinese dal prendere questa iniziativa, che potrebbe indicare che essa ha trovato altri finanziatori che la tengono a galla.

La decisione di presentare un ricorso su propria iniziativa alla CPI è significativa perché mette pressione sulla procura affinché velocizzi il terzo esame preliminare che sta già svolgendo sulla Palestina.

Questa indagine è stata aperta quando la Palestina ha aderito alla Corte nel gennaio 2015 ed attualmente è nella fase 2 di un processo in 4 fasi. (La fase 1 consiste in una valutazione informativa; la 2 si concentra sulla giurisdizione; la 3 sulla potenziale ammissibilità dei casi; la 4 esamina l’interesse della giustizia).

Il testo del ricorso della Palestina alla CPI indica che, da quando nel gennaio 2015 la Palestina ha aderito alla Corte, il ministro degli Affari Esteri della Palestina ed i suoi giuristi dell’Aia hanno inviato all’ufficio del procuratore tre comunicazioni, un’osservazione e 25 successivi rapporti mensili.

Il ricorso “chiede alla procura di indagare, in base alla giurisdizione temporale della Corte, crimini precedenti, in corso e futuri che ricadono sotto la giurisdizione della Corte, commessi in ogni parte del territorio dello Stato di Palestina.” Il ricorso chiarisce che “lo Stato di Palestina comprende i territori palestinesi occupati dal 1967 da Israele, come definiti dalla linea dell’armistizio del 1949, e include la Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e la Striscia di Gaza.”

Nella sua dichiarazione sul ricorso, l’ufficio di Bensouda ha spiegato che ciò non porta automaticamente all’apertura di un’inchiesta.” Deve ancora completare le 4 fasi di esame preliminare.

Al momento tutti i ricorsi su propria iniziativa alla CPI sono stati presentati da Paesi africani, compresi la Repubblica centro-africana (due volte), la Repubblica Democratica del Congo, le Comore, il Gabon, il Mali e l’Uganda. L’attenzione esclusiva della Corte sul continente è stato argomento di critiche, anche se John Dugard, uno dei legali che questa settimana hanno accompagnato il ministro degli Esteri palestinese alla CPI, giustamente ha sostenuto che sono gli stessi Stati africani che hanno presentato questi ricorsi.

La Palestina è stato il primo Stato non africano a presentare un ricorso su propria iniziativa ed il secondo a prevedere accuse di crimini commessi da Israele.

Il primo venne fatto dalle Comore nel 2013 riguardo a presunti crimini commessi da Israele sulla nave Mavi Marmara, una nave passeggeri con bandiera delle Comore che nel 2010 portava pacifisti verso Gaza [10 passeggeri turchi vennero uccisi durante l’attacco israeliano in acque internazionali, ndt.]. Nonostante due ricorsi, in quel caso il procuratore decise di non aprire un’inchiesta e chiuse la sua inchiesta preliminare.

Non ci sono ragioni per cui il fatto di non essere arrivati a un processo riguardo alla Mavi Marmara possa impedire al procuratore di valutare con cura le denunce palestinesi di crimini commessi nello Stato di Palestina.

È vero, la procura potrebbe avere difficoltà a raccogliere prove, in quanto Israele difficilmente collaborerà, e non è obbligato a collaborare in quanto Israele non è uno Stato membro del Trattato di Roma. Tuttavia, come ben chiarisce il ricorso, i crimini commessi da Israele a Gerusalemme est, in Cisgiordania e a Gaza “sono tra i più ampiamente documentati nella storia contemporanea.”

Questi presunti crimini includono la politica di colonizzazione di Israele, che viola direttamente lo Statuto di Roma ed è stata una delle ragioni per cui Israele non l’ha firmato nel 1998. Secondo il ricorso palestinese, come documentato dall’Ufficio Statistico Centrale di Israele, rispetto allo stesso periodo dell’anno prima c’è stato un aumento del 70% delle costruzioni di colonie tra l’aprile 2016 e il marzo 2017.

Il ricorso sostiene anche che l’esercito israeliano e i coloni hanno ucciso o ferito oltre 1.100 minori palestinesi nel solo 2017. Si riferisce alle uccisioni a Gaza del 14 maggio, alla demolizione di case a partire dal 2016, alla distruzione ed appropriazione di proprietà, alla detenzione illegittima, compresi 700 palestinesi tenuti in detenzione amministrativa che viene rinnovata indefinitamente, senza imputazioni o processo, sulla base di prove “segrete” tenute nascoste ai detenuti ed ai loro avvocati. Altre accuse, precisate in precedenti comunicazioni, osservazioni e rapporti mensili inviati all’ufficio della procura non sono state rese note.

Dei sei Stati che finora hanno fatto ricorso su propria iniziativa alla CPI, la procura ha aperto inchieste su cinque di essi: la Repubblica centro-africana (due volte), il Congo, il Mali e l’Uganda. Un altro (relativo al Gabon) è ancora nella fase 2. Rifiutando di aprire un’indagine sulla flottiglia di Gaza, la procura ha considerato i presunti crimini “non di una gravità sufficiente”. Ma è improbabile che questo argomento impedisca alla procura di indagare su presunti crimini di Israele in Cisgiordania e a Gaza, che sembrano essere molti gravi.

Se la prassi precedente insegna qualcosa, pare ci sia una notevole probabilità che la procura apra questa inchiesta sul caso palestinese. I ricorsi su propria iniziativa si sono conclusi con un processo e con arresti nei casi relativi alla Repubblica centro-africana, al Congo e all’Uganda, dove ordini di arresto sono stati emanati nel 2005 contro membri dell’Esercito di Liberazione del Signore [gruppo di guerriglia con connotazioni religiose responsabile di molte atrocità, ndt.]. I sospettati sono rimasti alla macchia per un decennio finché uno di loro, Dominic Ongwen, si è consegnato alla CPI. Il suo processo è in corso.

Il ricorso della Palestina alla CPI non rende pubblici i nomi delle persone accusate di aver commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità in Palestina, ma è probabile che comprendano autorità ai più alti livelli dello Stato, compresi politici e membri delle forze armate. 

Benché gli ingranaggi della giustizia internazionale siano lenti, sono stati messi in movimento. È solo questione di tempo, finché la procura dovrà decidere se aprire un’inchiesta. Se decidesse che ci sono informazioni sufficienti per acconsentire all’apertura di un’indagine, è probabile che chieda la presenza di persone che vorrebbe interrogare e indagare perché implicate nella perpetrazione di crimini, perché testimoni di questi crimini, oppure perché ne sono stati essi stessi vittime.

Resta da vedere se Netanyahu sarà ancora il primo ministro di Israele quando, e se, il procuratore decidesse di aprire un’inchiesta. Nel frattempo Netanyahu non solo si deve preoccupare dei suoi problemi legali in patria [per accuse di corruzione, ndt.], ma anche di potenziali problemi legali all’estero, che potrebbero sorgere in un futuro non molto lontano.

Per il momento potrebbe essere al sicuro – dato che gode di immunità da procedimenti penali in base alle leggi consuetudinarie internazionali in quanto capo del governo israeliano. Israele non fa parte dello Statuto di Roma e potrebbe sostenere che non è vincolato alle norme dello Statuto che tolgono l’immunità ai capi di Stato per crimini che ricadono sotto di esso. I giuristi della Palestina potrebbero sostenere al contrario che i capi di Stato non godono di immunità se sono responsabili di aver commesso crimini in base allo Statuto di Roma. Potrebbero affermare che le disposizioni dello Statuto che prevedono l’esclusione dell’immunità dei capi di Stato per crimini di guerra e crimini contro l’umanità riflettono le leggi internazionali consuetudinarie, che sono vincolanti per ogni Stato, compreso Israele, anche se Israele non ha ratificato lo Statuto.

In base alle leggi internazionali membri dell’esercito israeliano di rango inferiore ed ex-autorità di governo non sarebbero tuttavia immuni dalla giurisdizione penale. Se la CPI emanasse un mandato, qualunque Stato che faccia parte dello Statuto di Roma potrebbe applicare quel mandato agli israeliani menzionati se visitassero il loro territorio.

Come potrebbe proteggerli Israele? Potrebbe conferire lo status diplomatico a ex-ufficiali offrendo loro posizioni di ambasciatore in Stati che non sono parti in causa o promuovere funzionari a importanti posizioni nel governo.

In un caso tristemente noto, il Regno Unito fornì all’ex ministra israeliana Tzipi Livni [denunciata da uno studio legale di Londra per crimini durante l’operazione militare “Piombo fuso” contro Gaza nel 2008-09, ndt.] un’immunità per una “missione speciale”, addirittura una provvisoria competenza giurisdizionale, benché non avesse più un incarico di governo.

Dato che 123 Stati fanno parte dello Statuto di Roma, compresa la Palestina, importanti autorità israeliane potenzialmente implicate in crimini di guerra a Gaza o nell’attività di colonizzazione di Israele dovranno presumibilmente pianificare con cautela le proprie vacanze. E se i calcoli politici e legali in patria diventassero sfavorevoli, Netanyahu potrebbe unirsi a questo gruppo maledetto.

L’unica soddisfazione che questi funzionari israeliani potrebbero allora trovare è che un’indagine della CPI potrebbe probabilmente prendere di mira anche Hamas, date le sue azioni durante l’operazione “Margine protettivo” nel 2014. A differenza dei funzionari israeliani, i membri di Hamas, compresi i suoi principali dirigenti, non godono di immunità, e sarebbero un obiettivo molto più facile per la Corte.

Victor Kattan è ricercatore senior all’Istituto per il Medio Oriente dell’università nazionale di Singapore (NUS) e ricercatore associato alla facoltà di diritto nella NUS.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Nuove prove di crimini di guerra a Gaza inviate alla CPI

Ali Abunimah

30 aprile 2018, Electronic Intifada

Secondo Tareq Zaqoot, un ricercatore del gruppo per i diritti umani “Al-Haq”, almeno 28 palestinesi hanno perso un arto inferiore in conseguenza del fatto che cecchini israeliani hanno sparato contro i partecipanti alle manifestazioni della “Grande Marcia del Ritorno” nei pressi della frontiera di Gaza con Israele.

Zaqoot, che si trova a Gaza, e la sua collega Rania Muhareb nella città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata, hanno raccontato a “the Real News” [sito nordamericano indipendente di notizie, ndt.] come stiano documentando i crimini israeliani per ottenere giustizia a favore delle vittime.

Muhareb ha rivelato che “Al-Haq”, insieme al “Centro Palestinese per i Diritti Umani” e ad “Al Mezan”, ha già “presentato una denuncia alla Corte Penale Internazionale in cui indica i nomi delle vittime e delle uccisioni perpetrate dalle forze di occupazione israeliane dal 30 marzo.”

Non solo abbiamo specificato i nomi degli uccisi, abbiamo anche evidenziato l’intenzione di uccidere e di sparare per uccidere manifestanti palestinesi, il che rappresenta un crimine di guerra di omicidio premeditato,” ha aggiunto Muhareb.

Muhareb cita come esempio di tali prove la recente intervista tradotta da “Electronic Intifada” in cui il generale israeliano Zvika Fogel spiega l’accurato processo attraverso il quale i cecchini ricevono l’autorizzazione di sparare al “piccolo corpo” di un bambino.

Questi gruppi per i diritti umani avevano consegnato in precedenza dei dossier di prove alla CPI in cui documentavano crimini contro palestinesi nella Cisgiordania occupata e durante i precedenti attacchi israeliani contro Gaza.

All’inizio di questo mese il procuratore generale della CPI ha emanato un avvertimento pubblico senza precedenti, secondo cui i dirigenti israeliani potrebbero dover affrontare un processo per la violenza contro civili palestinesi disarmati a Gaza. Nelle ultime due settimane durante le proteste lungo il confine le forze di occupazione israeliane hanno ucciso almeno 39 palestinesi, compresi cinque minori e due giornalisti.

I manifestanti chiedono la fine dell’assedio israeliano contro Gaza e il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi espulsi ed esclusi dalle loro terre in Israele perché non sono ebrei.

Si ha notizia che domenica altri tre palestinesi sono stati uccisi dalle forze di occupazione in seguito ad incidenti in cui secondo l’esercito israeliano i palestinesi avrebbero cercato di aprire una breccia nella barriera di confine con Gaza.

Parvenza di legalità

Lunedì l’Alta Corte israeliana ha tenuto un’udienza sulle richieste di vari gruppi per i diritti umani che chiedono la revoca delle regole dell’esercito per aprire il fuoco, che hanno portato all’impressionante bilancio di morti e feriti a Gaza.

La politica dell’esercito israeliano che consente di aprire il fuoco contro manifestanti a Gaza è palesemente illegale,” ha affermato Suhad Bishara, avvocatessa di uno di questi gruppi, “Adalah”. “Questa politica concepisce i corpi umani (palestinesi) come un oggetto sacrificabile, senza valore.”

Il gruppo [israeliano] per i diritti umani “B’Tselem” ha invitato i soldati a sfidare questi ordini illegali di sparare per uccidere e mutilare.

Prima dell’udienza, i militari israeliani si sono rifiutati di rendere pubblici gli ordini di aprire il fuoco, sostenendo che sono riservati.

Israele ha cercato di presentare le proteste di massa a Gaza come un complotto orchestrato da Hamas per coprire attività “terroristiche”.

Israele non è stato in grado di mostrare alcuna prova di attività armate durante le proteste e i suoi portavoce hanno fatto ricorso a montature – come false accuse secondo cui un video diffuso in rete mostra una ragazza di Gaza che dice degli israeliani “li vogliamo uccidere.”

Lunedì, durante l’udienza, pubblici ministeri dello Stato di Israele hanno continuato a insistere con questo discorso, sostenendo che “informazioni di intelligence riservate” mostrano che le proteste fanno “parte delle ostilità di Hamas contro Israele.”

La Corte israeliana ha aggiornato la seduta senza prendere una decisione, tuttavia storicamente il suo ruolo è stato quello di fornire una parvenza di legalità alle sistematiche violazioni israeliane dei diritti umani palestinesi e di contribuire a far passare Israele a livello internazionale come uno Stato che rispetta il principio di legalità, nonostante decenni di impunità senza controlli e di comportamenti illegali.

Contro le prove

Durante il fine settimana il quotidiano [israeliano] Haaretz ha citato la dichiarazione di un anonimo ufficiale dell’esercito israeliano secondo cui “la maggior parte delle uccisioni di palestinesi da parte dell’esercito israeliano durante le proteste sul confine di Gaza sono state causate da cecchini che miravano alle gambe dei manifestanti, mentre la morte è stato un risultato non intenzionale perché il manifestante si è chinato, un cecchino ha sbagliato il colpo, un proiettile è rimbalzato o circostanze simili.” Secondo l’ufficiale, ha affermato Haaretz, “gli ordini di aprire il fuoco sul confine consentono ai cecchini di sparare solo alle gambe di persone che si avvicinano alla frontiera, e che il petto di una persona può essere preso di mira solo in presenza di un’evidente volontà dell’altra parte di utilizzare armi e di minacciare la vita di israeliani.”

Ma ciò è in netto contrasto con le prove raccolte da ricercatori per i diritti umani e l’affermazione potrebbe indicare che alcuni ufficiali israeliani sono preoccupati delle conseguenze internazionali della politica di uccisioni e mutilazioni premeditate e calcolate. La scorsa settimana Amnesty International ha dichiarato che nella maggior parte dei casi mortali che ha preso in considerazione “le vittime sono state colpite alla parte superiore del corpo, compresi testa e petto, alcune alle spalle.”

Testimoni oculari, prove video e fotografiche suggeriscono che molti sono stati uccisi o feriti deliberatamente mentre non rappresentavano alcun pericolo immediato per i soldati israeliani,” ha aggiunto Amnesty.

Allo stesso modo “Adalah” ha sostenuto che “il 94% dei feriti a morte sono stati colpiti nella parte superiore del corpo (testa, collo, volto, petto, stomaco e schiena).”

Sono stati feriti più di 5.500 palestinesi, di cui 2.000 da proiettili veri.

Nessun israeliano risulta essere stato ferito in seguito alle proteste a Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)