I palestinesi lottano per ricostruire le loro vite dopo i pogrom dei coloni in Cisgiordania

Yuval Abraham

18 gennaio 2024 – +972 Magazine

Unondata di violenze da parte dei coloni a partire dal 7 ottobre ha sottratto le terre e i mezzi di sussistenza a numerose comunità palestinesi che ora non sanno dove andare.

I figli sono tutto ciò che resta a Naama Abiyat. Incontro la ventinovenne madre di cinque figli all’interno di una tenda dalle pareti sottili dove vive nella Cisgiordania meridionale occupata; la tenda è quasi vuota, fatta eccezione per una coperta ricevuta da alcuni passanti e pochi ceppi di legno. I figli interrompono di tanto in tanto la nostra conversazione reclamando la sua attenzione e facendole capire che hanno freddo.

Fino a due mesi fa Abiyat aveva la sua stanza, una casa, un giardino e un uliveto ad Al-Qanoub, un piccolo villaggio di 40 abitanti a conduzione familiare situato a nord di Hebron. Tra l’11 ottobre e il primo di novembre, però, l’intera comunità è fuggita in seguito ad una serie di pogrom da parte di coloni israeliani provenienti dal vicino insediamento coloniale di Asfar e dall’adiacente avamposto di Pnei Kedem. I coloni hanno incendiato le case, aizzato i cani contro gli animali della fattoria e, sotto la minaccia delle armi, ordinato ai residenti di andarsene, altrimenti sarebbero stati uccisi.

Da allora Abiyat e i suoi figli vagano, senza terra e senza casa. Insieme ad altre quattro famiglie sfollate da Al-Qanoub hanno allestito tende provvisorie alla periferia della città di Shuyukh, più vicino a Hebron.

Il giorno dell’espulsione i coloni si sono rifiutati di consentire loro di portare via qualsiasi cosa dal villaggio in fiamme: la carta d’identità di suo marito, veicoli, materassi, cellulari, sacchi di olive, chiavi – “e i miei vestiti”, aggiunge uno dei figli. Tutto è stato abbandonato e in gran parte rubato. Il figlio maggiore di Abiyat, che ha 11 anni, non può più andare alla scuola vicina al villaggio perché non c’è nessuno che possa accompagnarlo.

Nei giorni precedenti la decisione della sua famiglia di fuggire dal villaggio Abiyat dormiva fuori con i suoi figli, temendo che i coloni dessero fuoco alla loro casa mentre dormivano, come era successo a uno dei suoi vicini. “Di notte chiudevamo la casa, spegnevamo le luci e poi andavamo a dormire tra gli ulivi, sotto il cielo”, dice.

Ora Abiyat è impegnata a cercare di ottenere del denaro sufficiente per comprare legna da ardere per linverno. “Sto parlando con te e tutto il mio corpo sta per esplodere”, dice. Qui è pieno di scorpioni e serpenti. I bambini si trovano in uno stato mentale difficile. Non li emoziona più niente nella vita.”

Con il pretesto della guerra, in Cisgiordania un totale di 16 villaggi palestinesi che ospitavano complessivamente oltre 1.000 persone sono stati completamente spopolati a seguito di unondata di violenza da parte dei coloni e di pogrom contro le comunità di pastori palestinesi. Separate dalle loro comunità e costrette a vivere in tende su terreni appartenenti ad altri palestinesi, le famiglie sfollate chiedono tutte la stessa cosa: poter tornare a casa.

Ci hanno detto che avevamo unora per andare via

Prima dellinizio della guerra il villaggio di Southern a-Nassariyah, nella Valle del Giordano, ospitava cinque famiglie, per un totale di 25 persone. Il 13 ottobre sono tutti fuggiti dalle loro case sotto le violente minacce dei coloni israeliani. Attualmente vivono in tende vicino al villaggio di Fasayil, su un terreno di proprietà di un abitante del luogo che ha permesso loro di restare a condizione che vadano via entro aprile. Le famiglie sfollate non sanno dove andranno dopo.

Ci hanno ridotto a fare i braccianti. Dio santo, ci hanno ridotto a fare i braccianti,dice Musa Mleihat, posando una tazza di tè su uno sgabello fuori dalla tenda divenuta la sua casa. Il giorno della sua espulsione ha perso la terra, il che ha significato perdere il sostentamento: non potendo più far pascolare il gregge, è stato costretto a vendere la maggior parte delle pecore e delle capre della famiglia.

Alcuni degli altri abitanti del villaggio hanno iniziato a lavorare come braccianti agricoli negli insediamenti coloniali vicini. Linsediamento di Tomer, ad esempio, è noto per i suoi datteri e gli ananas, e assume lavoratori palestinesi pagandoli illegalmente al disotto del minimo salariale. Molti degli sfollati dai villaggi affermano che diventare braccianti fa parte del costo dellessere costretti ad abbandonare la propria terra.

A sud-est di Ramallah anche i 180 residenti del villaggio di Wadi al-Siq sono stati espulsi con la forza a seguito di un pogrom da parte di coloni. Il 12 ottobre coloni e soldati hanno fatto irruzione nel villaggio, hanno sparato e scacciato donne e bambini prima di rapire tre uomini, ammanettarli, spogliarli, urinare su di loro, picchiarli fino a farli sanguinare e abusare sessualmente di loro.

Dopo averci bendato ci hanno detto che avevamo unora per lasciare il villaggio, dopodiché chiunque fosse rimasto sarebbe stato ucciso, racconta Abd el-Rahman Kaabna, il capo del villaggio. Tre mesi dopo lespulsione sta ancora combattendo per accettare la violenza subita, che ha traumatizzato profondamente i suoi figli, tanto che da allora continuano a bagnare il letto.

Kaabna spiega che in seguito all’espulsione tutta la sua vita è cambiata. La comunità di Wadi al-Siq è stata completamente smembrata: la maggior parte degli abitanti, compreso Kaabna, sono sparsi in tende a est e a sud della città di Ramun, mentre altri si trovano vicino alla città di Taybeh, nei pressi di Ramallah. Vivono tutti sulla terra di altri.

“Ci sentiamo estranei qui”, dice. Non abbiamo le case in cui vivevamo, con campi e pascoli aperti. Oggi vivo in un uliveto e il proprietario continua a chiedermi quanto resteremo”.

Dopo l’espulsione i figli di Kaabna, di 6 e 8 anni, non hanno ripreso a frequentare la scuola. A Wadi al-Siq cera una scuola per gli studenti fino allottava classe [in Palestina l’istruzione obbligatoria comprende dieci anni, ndt.], ma dopo che i residenti se ne sono andati, i coloni hanno rubato tutto allinterno, compresi i libri per bambini. Un mese fa hanno portato un trattore e hanno demolito tutte le nostre case”.

Il villaggio era pieno di ricordi

I coloni hanno distrutto o incendiato le case in molti dei villaggi che i palestinesi sono stati costretti ad abbandonare negli ultimi mesi, rendendo impossibile il ritorno degli ex abitanti. In questo modo, i coloni stanno completando l’intervento della politica del governo israeliano che per anni ha cercato di costringere i palestinesi a lasciare lArea C [parte della Cisgiordania occupata sotto totale controllo israeliano, ndt.]: rifiutando di riconoscere i loro villaggi, impedendo loro di accedere allacqua e allelettricità e demolendo le loro case. Secondo i dati forniti dallAmministrazione Civile, il braccio burocratico delloccupazione, allONG israeliana per i diritti di pianificazione Bimkom, tra il 2016 e il 2020 il governo ha rilasciato 348 volte più permessi di costruzione ai coloni israeliani rispetto ai palestinesi che vivono nellArea C.

Il villaggio di Zanuta, sulle colline a sud di Hebron, che prima dellinizio della guerra contava 250 residenti, è il più grande villaggio ad aver subito negli ultimi mesi la pulizia etnica da parte dei coloni. I coloni hanno successivamente distrutto la scuola del villaggio, insieme a 10 edifici residenziali. Quando gli abitanti di Zanuta hanno tentato di ritornare, un ispettore dellAmministrazione Civile ha detto loro che se avessero montato una sola tenda lesercito lavrebbe considerata una nuova costruzionee lavrebbe abbattuta.

Dopo essere fuggiti dalle loro case gli abitanti di Zanuta sono andati dispersi in sei luoghi diversi: alcuni vivono attualmente vicino al checkpoint di Meitar, all’estremità meridionale della Cisgiordania, alcuni vicino all’insediamento coloniale di Tene Omarim e altri hanno preso in affitto terreni ovunque siano riusciti a trovarne. Ci manchiamo l’un l’altro, mi dice Fayez al-Tal, un ex abitante del villaggio. “Dal giorno in cui abbiamo lasciato Zanuta non ci siamo più visti.”

Non solo gli abitanti hanno perso la maggior parte dei loro pascoli ma sono stati anche costretti a vendere la maggior parte delle loro greggi a causa delle ingenti tasse 70.000 shekel (circa 17.000 euro) a famiglia richieste per il trasporto di tutte le loro proprietà dal villaggio distrutto, lacquisto di nuove tende e baracche e del cibo per le pecore e le capre rimaste che non possono più pascolare.

Nei primi giorni della guerra gli 85 abitanti di Ein al-Rashash, un villaggio di pastori vicino a Ramallah, hanno raccolto le loro cose e sono fuggiti. “Il villaggio era pieno di ricordi della nostra infanzia”, dice uno degli abitanti. Oggi vivono in tende e baracche di alluminio che hanno costruito su un terreno roccioso vicino alla città di Duma. Non sanno cosa faranno in seguito.

Qui non ci sono coloni, ma ci sono altri problemi: lAmministrazione Civile, spiega Awdai, che viveva a Ein Rashash. Dopo che lui e altri hanno iniziato a montare le tende, un drone dell’Amministrazione Civile è arrivato e li ha fotografati. A breve potrebbe seguire un ordine di demolizione.

Il governo sostiene i coloni

Negli ultimi anni nellarea C della Cisgiordania sono stati realizzati decine di avamposti coloniali di allevamento di bestiame e sono diventati una forza trainante per l’incremento delle violenze contro i palestinesi. Tuttavia per molti ex abitanti di villaggi spopolati la paura dei coloni teppisti” non è lunica ragione del loro sfollamento, né ciò che impedisce loro di tornare a casa. Il problema più grave è rappresentato dal sostegno che i coloni ricevono dallesercito e dalla polizia israeliani.

Sappiamo come proteggerci, dice al-Tal, di Zanuta. Ma se lo facciamo i soldati ci sparano o finiamo in prigione. Il governo sostiene i coloni. In passato, racconta, quando i soldati o la polizia arrivavano nel villaggio durante un raid dei coloni arrestavano i palestinesi. Gli abitanti di ciascuno dei villaggi sfollati ripetono la stessa cosa: l’esercito protegge gli aggressori e arresta coloro che vengono aggrediti.

Il 3 gennaio si è tenuta un’udienza presso la Corte Suprema israeliana in merito ad un ricorso presentato a nome degli abitanti di Zanuta e di altri villaggi rimasti completamente o parzialmente spopolati. Lappello chiedeva allo Stato di specificare quale fosse il suo impegno rivolto a proteggere tali comunità dai coloni e chiedeva alle autorità di creare condizioni sul campo che consentissero alle comunità sfollate di tornare nelle loro terre.

Qamar Mashraki-Assad e Netta Amar-Shiff, che rappresentavano i palestinesi, hanno detto ai giudici che la polizia ignora sistematicamente le denunce sulla violenza dei coloni rifiutandosi di raccogliere prove sul campo. Inoltre lesercito non agisce in conformità con lobbligo previsto dal diritto internazionale di proteggere la popolazione occupata.

Durante ludienza, Roey Zweig, un ufficiale del Comando Centrale dellesercito, responsabile delle unità che operano in Cisgiordania e delle costruzioni nellArea C, ha affermato assurdamente che negli ultimi tempi la violenza dei coloni sarebbe in realtà diminuita grazie a misure che l’esercito avrebbe iniziato ad attuare. Nel corso delle sue osservazioni, Zweig che nel 2022, mentre prestava servizio come comandante della Brigata Samaria, aveva affermato che [il progetto di] insediamento coloniale e lesercito sono una cosa sola” – ha definito i villaggi spopolati avamposti palestinesi, ricorrendo al termine utilizzato per le comunità israeliane sulle colline della Cisgiordania che sono palesemente illegali secondo la stessa legge israeliana.

Gli abitanti di ciascuno dei villaggi spopolati conoscono i nomi dei coloni che li hanno terrorizzati e gli insediamenti o avamposti coloniali di cui fanno parte. Per mesi, se non anni, questi coloni hanno fatto di tutto per espellerli, impossessarsi delle loro terre e minacciarli violentemente.

Tuttavia, secondo un funzionario della sicurezza che ha parlato con +972 Magazine e Local Call, occuparsi delle violenze dei coloni e dellespulsione delle comunità palestinesi non rientra nel mandatodellAmministrazione Civile. Le accuse di discriminazione nei permessi di costruzione o nell’applicazione delle norme, ha detto il funzionario, dovrebbero essere “dirette altrove” perché l’Amministrazione Civile è “solo un organo esecutivo”, non “politico”.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista che vive a Gerusalemme.

(traduzione dall’Inglese di Aldo Lotta)




Un ‘genocidio culturale’: quali sono i siti storici distrutti a Gaza?

Indlieb Farazi Saber

14 gennaio 2023 – Al Jazeera

Negli ultimi 100 giorni circa 200 siti di importanza storica sono stati distrutti o danneggiati dai raid aerei israeliani contro l’enclave palestinese.

Secondo un’ong che documenta i danni di guerra ai siti storici un porto antico datato all’800 a.C., una moschea che conserva rari manoscritti e uno dei più antichi monasteri cristiani del mondo sono solo alcuni degli oltre 195 siti distrutti o danneggiati dal 7 ottobre quando è iniziata la guerra di Israele contro Gaza.

Spazzare via il patrimonio culturale di un popolo è uno dei molti crimini di guerra che il Sudafrica cita nella causa intentata contro Israele esaminata la scorsa settimana dalla Corte Internazionale di Giustizia. In essa si legge: “Israele ha danneggiato e distrutto numerosi centri di studio e cultura palestinesi”, fra cui biblioteche, luoghi religiosi e importanti siti storici antichi.

Secondo gli storici Gaza, una delle aree del mondo abitate da più tempo, è stata patria di una mescolanza di popoli almeno fin dal XV secolo a.C.

Gli imperi dell’antico Egitto, degli assiri e dei romani sono andati e venuti, dominando in momenti diversi la terra dei Cananei, gli antenati dei palestinesi, lasciando reperti del proprio patrimonio culturale. Nel corso dei secoli anche greci, ebrei, persiani e nabatei sono vissuti in questa striscia costiera.

Situata strategicamente sulla costa orientale del Mediterraneo, Gaza è sempre stata in una posizione eccellente sulle vie commerciali fra Eurasia verso l’Africa. I suoi porti l’hanno resa un polo regionale per commerci e cultura. Almeno dal 1300 a.C. la Via Maris che da Eliopolis, nell’antico Egitto, tagliava la costa occidentale di Gaza e poi entrava in Siria era il principale passaggio per i viaggiatori diretti a Damasco.

Il crimine di prendere di mira e distruggere siti archeologi dovrebbe spronare il mondo e l’UNESCO ad agire per conservare questa grande civiltà e il suo patrimonio culturale,” ha detto il ministero per il Turismo e le Antichità di Gaza dopo la distruzione della grande moschea di Omari nel corso di un attacco aereo israeliano l’8 dicembre.

Come conseguenza di quel particolare attacco, un’antica collezione di manoscritti conservata nella moschea potrebbe essere andata persa per sempre. “La collezione di manoscritti resta nelle vicinanze della moschea e al momento inaccessibile perché il conflitto è ancora in corso,” ha detto ad Al Jazeera subito dopo l’attacco padre Columba Stewart, direttore esecutivo dell’Hill Museum and Manuscript Library (HMML).

Secondo la convenzione dell’Aja del 1954, ratificata sia da palestinesi che da israeliani, si dovrebbero difendere i monumenti dalle devastazioni della guerra. Isber Sabrine, presidente di un’ong internazionale che documenta il patrimonio culturale, ha spiegato che i crimini che riguardano il patrimonio culturale fanno parte “dei danni collaterali del genocidio”.

Le biblioteche fungono da contenitori di cultura e un attacco contro di esse è un attacco contro il patrimonio culturale. Ciò che sta accadendo ora è un crimine di guerra. Contravviene alla prima convenzione dell’Aja,” dice Sabrine. “Israele sta tentando di cancellare il legame del popolo con la propria terra. È molto chiaro e intenzionale. L’eredità di Gaza fa parte del suo popolo, è la sua storia e il suo legame.”

Se il genocidio culturale cancella il patrimonio tangibile come musei, chiese e moschee, quello immateriale include costumi, cultura e manufatti. Anche questi sono stati danneggiati, come [la sede del] sindacato degli artisti palestinesi in Jalaa Street a Gaza City e i famosi vasi di argilla prodotti un tempo nel quartiere di al-Fawakhir.

In una dichiarazione ad Al Jazeera l’UNESCO ha detto: “Se la priorità è giustamente data alla situazione umanitaria, anche la protezione del patrimonio culturale in tutte le sue forme deve essere tenuta in conto. Secondo il suo mandato l’UNESCO fa appello a tutti gli attori coinvolti a rispettare rigorosamente il diritto internazionale. Un bene culturale non dovrebbe essere preso di mira o usato a scopi militari in quanto è considerato una infrastruttura civile.”

Ecco un elenco di alcuni dei siti che sono stati distrutti o danneggiati:

Musei

Ci sono quattro musei a Gaza e due sono stati spianati, come confermato ad Al Jazeera dall’International Council of Museums-Arab (ICOM-Arab).

Il Museo Rafah aveva completato un progetto trentennale di curatela di una collezione di monete antiche, piatti di rame e gioielli che ne faceva il principale museo di Gaza del patrimonio palestinese. È stato una delle prime vittime della guerra, distrutto in un attacco aereo l’undici ottobre.

Il museo Al Qarara (anche noto come il Museo Khan Younis), più ad oriente e una volta situato in cima a una collina, fu aperto nel 2016 dai coniugi Mohamed e Najla Abu Lahia che volevano conservare per le generazioni future la storia del territorio e del patrimonio di Gaza.

La collezione consisteva di circa 3.000 manufatti risalenti ai Cananei, la civiltà dell’età del Bronzo che visse a Gaza e in gran parte del Levante nel secondo secolo a.C.

Ora tutto ciò che resta del museo sono frammenti di ceramica e vetri rotti che sono schizzati fuori dalle vetrine durante un attacco aereo in ottobre.

ICOM-Arab ha detto ad Al Jazeera che a questo museo era stato dato un preavviso dalle forze israeliane di svuotarlo del suo contenuto ed evacuarlo nel sud di Gaza.

Il Mathaf al-Funduq, un piccolo museo aperto nel 2008 e ospitato nel Mathaf Hotel a Gaza nord, è stato danneggiato da bombardamenti il 3 novembre.

A Gaza City Qasr Al-Basha, o Palazzo del Pasha, del XIII secolo, fu trasformato in un museo nel 2010 dal ministero del Turismo palestinese e in mostra c’era una collezione di oggetti di periodi diversi della storia di Gaza. L’undici dicembre è stato colpito da un attacco aereo israeliano che ha danneggiato i muri, il cortile e i giardini.

Come molti degli edifici storici di Gaza, ha cambiato proprietà e funzioni parecchie volte nella sua vita. Il forte a due piani, costruito dal sultano mamelucco Zahir Baybars a metà del XIII secolo, fu un tempo sede del potere, costruito per difendersi dalle armate crociate e mongole. Durante il XVII secolo venne usato dagli Ottomani e ci abitò il comandante dell’armata francese Napoleone Bonaparte nel 1799 quando entrò a Gaza per cercare di prevenire l’incombente invasione ottomana dell’Egitto, dove i francesi avevano il quartier generale.

Prima della Nakba del 1948, quando centinaia di migliaia di palestinesi divennero rifugiati nel corso della creazione di Israele e molti fuggirono a Gaza, il palazzo servì come stazione di polizia per gli inglesi che governavano l’area e poi divenne una scuola femminile palestinese.

Biblioteche

Durante una pausa di una settimana nei bombardamenti israeliani iniziata il 24 novembre, i palestinesi hanno potuto ispezionare velocemente la vastità dei danni alla propria patria. È diventato rapidamente chiaro che molti edifici pubblici erano stati distrutti, incluso il Centro culturale Rashad El Shawa a Gaza City, un tempo sede dei colloqui di pace fra il leader dell’OLP Yasser Arafat e il presidente americano Bill Clinton negli anni ‘90. Anche la libreria comunitaria Samir Mansour, accuratamente restaurata dopo i bombardamenti israeliani del 2021, è stata gravemente danneggiata.

La biblioteca della Grande moschea Omari a Gaza City era un tempo ricolma di manoscritti rari, fra cui antiche copie del Corano, biografie del profeta Maometto e antichi tomi di filosofia, medicina e del misticismo sufi. La biblioteca, fondata dal sultano Zahir Baybars e aperta nel 1277 vantava una volta una collezione di 20.000 libri e manoscritti.

Molti dei libri e manoscritti rari là conservati andarono perduti o distrutti durante le Crociate e la prima guerra mondiale, lasciando solo 62 libri, anche questi ora distrutti in un attacco l’8 dicembre.

Un progetto di digitalizzazione di questi libri è stato completato lo scorso anno dall’Hill Museum and Manuscript Library e dalla British Library e sono ora accessibili online su HMML Reading Room.

Moschee

Il Ministero del Turismo e delle Antichità di Gaza stima che dall’inizio dell’attacco israeliano ben 104 moschee siano state danneggiate o distrutte. Sono incluse la moschea Othman bin Qashqar a Gaza City nel quartiere di Zeitoun, costruita nel 1220 sul sito dove si crede sia sepolto il bisnonno del profeta Maometto. È stata gravemente danneggiata in un attacco aereo il 7 dicembre.

La moschea Sayed al-Hashim, costruita nel XII e ricostruita nel 1850 ‘ stata danneggiata in un attacco aereo in ottobre. Questo edificio costruito di solido calcare nella città vecchia di Gaza è di grande importanza per i musulmani perché si dice che ospiti la tomba di un altro bisnonno del profeta Maometto, Hashim bin Abd Manaf. Secondo tradizioni locali sarebbe stato un mercante che si ammalò e morì nel viaggio di ritorno in Siria dalla Mecca e sia quindi sepolto in quello che ora è il sobborgo di Daraj.

La Moschea Hashim bin Abd Manaf. Foto: Abdelhakim Abu Riash/Al Jazeera

Alla costruzione della moschea fece seguito un breve intervallo di dominio crociato prima che si insediassero al potere i Mamelucchi che la ricostruirono. Fu in seguito restaurata nel 1850 sotto la guida del sultano ottomano Abdul Majide e di nuovo dopo i danni nel 1917 durante la prima guerra mondiale.

Agli inizi del presente conflitto la moschea ha preso fuoco durante un attacco aereo israeliano che ne ha danneggiato i muri e i soffitti.

La Grande moschea Omari è stata luogo di venerazione religiosa in forme diverse per circa due millenni.

Conosciuta in arabo come Al-Masjid al-Omari al-Kabir, si pensa sia stata la prima moschea costruita nella Striscia di Gaza 1.400 anni fa. L’otto dicembre è stata distrutta da un attacco aereo israeliano.

Costruita di arenaria locale per accogliere 5.000 fedeli per momenti di preghiera collettiva, tutto quello che ne rimane è il minareto dell’era mamelucca, spezzato e danneggiato.

Per la comunità era più di una moschea,” dice Sabrine. “Un signore mi ha detto che si sentiva più addolorato per la distruzione della moschea che della propria casa.”

Chiamata così dal secondo califfo islamico, Omar bin Khattab, fu costruita nel VII secolo sopra le rovine di una chiesa antica costruita nel 406, essa stessa sorta sulle fondamenta di un tempio pagano del dio cananaico della fertilità, Dagon.

Come molti siti storici che sopravvivono ai popoli che li costruirono, nasconde storie diverse. Secondo una versione Sansone, un guerriero israelita citato nell’Antico Testamento, noto perché la sua forza risiedeva nei capelli, finì sepolto fra le rovine della struttura che cadde su di lui dopo che aveva abbattuto i muri del tempio pagano. Altri dicono che il tempio cadde dopo che i Bizantini diedero alle fiamme tutti i siti pagani quando presero il potere a Gaza dal 390.

Il conquistatore ayyubita Salah al-Din riportò l’edificio al ruolo di moschea dopo che i Crociati l’avevano convertito nella cattedrale di San Giovanni Battista.

La moschea è stata usata come luogo di preghiera dalla comunità musulmana locale fin dal 1291 ed è stata il punto focale di riunioni e attività culturali.

L’anno scorso, in collaborazione con il programma per gli archivi a rischio della British Library Endangered Archives, HMML ha digitalizzato una selezione di copie uniche antiche della biblioteca della moschea che non sono disponibili “in nessun altro posto al mondo”, come ha detto ad Al Jazeera un consulente di HMML. Le opere includono un libro di poesia sufi del XIV secolo di Ibn-Zokaa e tomi di famosi giuristi gazawi, come Sheikh Skaike.

L’attacco di dicembre non è stato il primo subito dalla moschea, che era stata colpita anche il 19 ottobre e danneggiata durante la Prima Guerra Mondiale e di nuovo nell’attacco israeliano contro Gaza nel 2014.

Chiese

Il pavimento della chiesa bizantina di Jabalia, costruita nel 444, era un tempo decorato con mosaici colorati rappresentanti animali, scene di caccia e palme. I suoi muri erano adornati da 16 testi religiosi scritti in greco antico datati all’era dell’imperatore Teodosio II, che governò Bisanzio dal 408 al 450.

Il ministero per il Turismo e le Antichità palestinesi riaprì la chiesa agli inizi del 2022 dopo un restauro durato tre anni in collaborazione con l’ente francese Premiere Urgence Internationale e il British Council.

All’epoca il ministro Nariman Khella disse: “La chiesa fu scoperta nel pavimentare Salah al-Din Street e la prima cosa rinvenuta furono due tombe, una di una persona anziana e l’altra di un bambino piccolo.” Quello stesso anno un contadino scoprì nelle vicinanze una serie di mosaici con motivi intricati. Le condizioni delle tombe e dei mosaici restano incerte.

Per quanto riguarda l’antica chiesa stessa, è stata distrutta in un attacco aereo israeliano in ottobre.

Il monastero di Sant’Ilarione a Tell Umm Amer nel villaggio di Nuseirat, sulla costa, data circa al 340, durante il dominio romano della regione. Un “tell” è una collinetta dalla sommità piatta che spesso segna la posizione di una città antica.

Per ritirarsi dalla vita mondana e immergersi nella ricerca spirituale Sant’Ilarione, un cristiano che si dice sia stato il fondatore del monachesimo, costruì per sé una stanza piccola e semplice in quello che pensava fosse un angolo remoto dell’odierna città di Deir el-Balah, nella zona centrale della Striscia di Gaza. Nonostante il suo desiderio di solitudine, i pellegrini lo cercavano per la cura di malattie e come guida spirituale. Nel corso degli anni gli edifici intorno alla sua semplice stanza si espansero per poi diventare il più grande monastero del Medio Oriente.

Sui 10 ettari del santuario sorsero cinque chiese, un cimitero, una fonte battesimale e terme antiche. Mosaici e lastre in calcare decoravano i pavimenti e i muri ad accogliere i pellegrini che viaggiavano lungo la Via Maris dall’Egitto a Damasco.

Danneggiato dal terremoto del 614, il sito rimase abbandonato fino a che gli archeologi palestinesi iniziarono gli scavi alla fine degli anni ‘90. Il sito, che nel 2012 l’UNESCO ha aggiunto alla sua lista propositiva dei candidati al Patrimonio Mondiale, è stato danneggiato dai bombardamenti israeliani.

La chiesa greco-ortodossa di San Porfirio, rimasta in piedi a Zeitoun per 16 secoli, è stata colpita e danneggiata il 19 ottobre.

Considerata la terza chiesa più antica al mondo, San Porfirio fu costruita nel 425 sulle fondamenta di un antico sito pagano e chiamata con il nome del santo bizantino, che rese sua la missione di chiudere i templi pagani. Si pensa che egli sia stato seppellito all’interno della chiesa.

Come altri siti significativi, questa chiesa fu trasformata in moschea nel Settimo secolo, per poi tornare ad essere chiesa negli anni ’50 del XII con i crociati. Restaurata nel 1856, è rimasta un luogo di preghiera per la comunità cristiana di Gaza e per cercare riparo in tempo di guerra.

Nei bombardamenti israeliani del 19 ottobre 17 persone sono rimaste uccise nel crollo del tetto della chiesa. Il Patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme ha detto che prendere di mira la chiesa “costituisce un crimine di guerra”. La vicina moschea in stile ottomano di Katib al-Wilaya, costruita nel XV secolo, è stata danneggiata nello stesso attacco.

La chiesa della Sacra Famiglla, costruita nel 1974, è l’unica chiesa cattolica romana a Gaza e un rifugio per la comunità locale. È stata colpita in un raid aereo il 4 novembre. Una scuola all’interno del complesso ecclesiale è stata parzialmente distrutta.

Il Patriarca Latino di Gerusalemme conferma che schegge di proiettili degli attacchi dell’esercito israeliano contro gli edifici accanto alla chiesa della Sacra Famiglia hanno distrutto cisterne dell’acqua e pannelli solari sul suo tetto.

Altri siti antichi

Ard-al-Moharbeen, la necropoli romana, è stata riportata alla luce l’anno scorso da archeologi palestinesi e francesi dopo il ritrovamento di tombe nel corso della costruzione di nuove case.

Almeno 134 tombe romane datate tra il 200 a.C. e il 200 d.C. con scheletri ancora intatti sono state trovate in quella che si pensa sia una necropoli romana.

Sono stati scoperti due sarcofagi di piombo con decorazioni intricate, uno con motivi di vendemmia e l’altro con delfini.

Fadel Alatel, un archeologo di Gaza e parte della rete Heritage for Peace, ha lavorato in questo scavo prima del 7 ottobre. Ha detto ad Al Jazeera di aver paura di quello che potrebbe essere successo a queste rare tombe.

Sono in un’area in cui sono state lanciate bombe al fosforo bianco. I danni al sito non sono noti,” dice. “Inoltre a causa dei rigori dell’inverno e delle intense piogge questi rari ritrovamenti potrebbero andare distrutti.”

Alatel ha lavorato per conservare il patrimonio e l’archeologia di Gaza durante innumerevoli raid aerei israeliani, ma ha detto che questa volta la situazione è molto peggiore e non ha potuto ritornare al sito per prendere visione dell’entità del danno.

Forensic Architecture (FA), un’agenzia di giornalismo investigativo con sede presso la Goldsmiths University di Londra, ha documentato la distruzione al patrimonio culturale di Gaza nella sua indagine “Living Archaeology”. L’otto ottobre, il giorno dopo l’attacco di Hamas contro Israele che ha dato inizio alla guerra, i ricercatori dell’agenzia, usando tecnologia satellitare, hanno trovato la prova di 3 ampi crateri nel sito archeologico provocati dai missili israeliani.

In una relazione FA dichiara: “Questo disprezzo per il patrimonio culturale palestinese e la sua distruzione sminuiscono le rivendicazioni palestinesi a uno Stato e negano ai palestinesi il diritto fondamentale all’accesso e alla conservazione del proprio retaggio.”

Il destino di un altro sito antico, un porto, è noto. È stato distrutto.

Situato nella zona nord occidentale di Gaza, il primo porto marittimo conosciuto dell’enclave, Anthedon, noto anche come Balakhiyah o Tida, fu abitato dall’800 a.C. al 1100 d.C. o dall’era micenea agli inizi dell’epoca bizantina. Diventò una città indipendente durante il periodo ellenistico.

Dopo la scoperta delle rovine di un tempio romano e mosaici pavimentali sui 2 ettari del sito archeologico, nel 2012 fu posto dall’UNESCO nella lista propositiva dei candidati al Patrimonio Mondiale.

Altri resti datano alla fine dell’età del Ferro e ai periodi persiano, ellenistico, romano e bizantino.

L’hammam al-Sammara, o bagno turco dei samaritani, è stato distrutto l’8 dicembre. Precedente all’Islam, venne probabilmente costruito dai samaritani, una setta religiosa di etnia ebraica che visse nella zona di Zeitoun, anche noto come il quartiere ebraico. L’area aveva una fiorente comunità ebraica fino al dominio crociato nel XII secolo. L’ultima famiglia ebrea palestinese visse nel quartiere fino agli anni ‘60.

L’unica altra reliquia della storia ebraica a Gaza era il mosaico del re Davide che data al 508. Fu scoperto presso i resti di una sinagoga del VI e rappresenta il re Davide che suona un’arpa. Fu trasferito all’Israel Museum a Gerusalemme dopo la conquista israeliana di Gaza durante la guerra dei Sei Giorni nel 1967.

C’è stato un periodo in cui a Gaza City c’erano 38 bagni turchi. Molti andarono perduti durante guerre e occupazioni perché non c’erano le risorse per conservarli.

L’Hammam al-Sammara .Foto: Ahmed Jadallah/Reuters

L’hammam al-Sammara era l’ultimo rimasto. Una volta un cartello all’ingresso diceva che era stato restaurato nel 1320 dal governatore mamelucco Sangar ibn Abdullah.

Era un luogo d’incontro popolare dei gazawi per socializzare e curarsi sotto gli storici soffitti a volta. Dai pavimenti in lastre di marmo con intarsi intricati l’hammam era ancora riscaldato con le tradizionali stufe a legna e condutture.

Situata a nord est di Nuseirat, la città fortifcata di Tell el-Ajjul, o Collina dei vitelli, si trova tra il mar Mediterraneo e Wadi Gaza. Fondata tra il 2000 e il 1800 a.C., è stata danneggiata dai bombardamenti israeliani.

L’egittologo inglese William Matthew Flinders Petrie scoprì il sito negli anni ’30 dopo essersi trasferito ad oriente in Palestina dopo gli scavi della grande piramide di Giza. Qui scoprì gioielli in oro e antiche monete usate da hyksos, romani e bizantini.

Molte delle sue scoperte fatte tra il 1930 e il 1934, quando Gaza era sotto il Mandato britannico, ora si trovano a Londra nell’Istituto di Archeologia del British Museum. Altri ritrovamenti includono ceramiche importate da Cipro, bottiglie e scarabei, con molti pezzi risalenti all’età del Bronzo, circa 3.600 anni fa. i manufatti suggeriscono anche che Tell el-Ajjul fosse un tempo un polo commerciale.

Condizioni sconosciute

Le condizioni di molti altri siti storici di Gaza restano sconosciute. Secondo Alatel è difficile restare aggiornati sulla situazione sul terreno perché essa “cambia ogni cinque minuti”. A causa della pericolosità della situazione i fotografi locali non sono riusciti a ritornare in molti siti per valutare i danni.

Ecco alcuni dei siti di cui non si conoscono ancora le condizioni

Risalente al XIV secolo, il caravanserraglio Khan Younis fu costruito per soddisfare le necessità dei viaggiatori lungo la Via Maris.

Prendendo il suo nome dal suo fondatore mamelucco, Younis al-Nuruzi, il khanato, o khan, era un tipo di albergo popolare nella regione circa dal X secolo, dove i viaggiatori potevano riposare e fare una pausa durante i viaggi. Questo, costruito nel 1387, ha una moschea, un ufficio postale e magazzini.

Durante gli scavi archeologici dal 1972 al 1982 presso il cimitero di Deir el-Balah fu scoperta una collezione di bare di argilla antropomorfe uniche, datate alla tarda età del Bronzo (1550-1200 a.C.).

Situata nel quartiere Daraj, la moschea sufi di Ahmadiyyah Zawiya fu fondata nel 1336 dai seguaci dello sceicco Ahmad al-Badawi, un famoso studioso sufi del XII secolo che viveva a Gaza.

Fedeli sufi si riunivano qui per la preghiera comune i lunedì e giovedì. Ci sono state sparatorie nell’area, dice Alatel, ma non si sa ancora cosa sia successo al luogo sacro.

Tutti i nostri siti storici sono contrassegnati chiaramente, eppure gli attacchi dell’esercito israeliano con carri armati e bulldozer continuano,” dice l’archeologo. “Ma ho fiducia che tutto questo finirà. Anche se cercano di distruggere il nostro passato noi ricostruiremo il futuro di Gaza.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




100 avvocati cileni presentano denuncia alla CPI contro Netanyahu per crimini di guerra a Gaza

Redazione di Palestine Chronicle

9 gennaio 2024, Palestine Chronicle

I ricorrenti, in maggioranza di ascendenza palestinese, chiedono che sia emesso un mandato di arresto contro Netanyahu.

Circa 100 avvocati cileni hanno sporto denuncia presso la Corte Penale Internazionale (CPI) contro il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, accusandolo di commettere crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di guerra a Gaza.

Il Middle East Monitor, citando la Quds Press, ha riferito che la denuncia, presentata all’Aja il 22 dicembre, è stata diretta dall’ex ambasciatore Nelson Hadad.

I querelanti, per la maggior parte di ascendenza palestinese, chiedono che sia spiccato un mandato di arresto contro Netanyahu ed altre persone responsabili di questi presunti crimini, riferisce MEMO.

Hanno evidenziato i bombardamenti indiscriminati di Gaza dal 7 ottobre e la distruzione di interi quartieri residenziali senza far distinzione tra civili e combattenti.

Tutti i Paesi devono denunciare i criminali di guerra, assicurando che vengano ritenuti responsabili, assumano le proprie responsabilità, affrontino la punizione conformemente alle sanzioni dello Statuto di Roma e offrano riparazioni alle vittime”, avrebbe affermato Hadad.

L’obbiettivo dell’istanza è provare che a Gaza si stanno perpetrando genocidio, espulsione forzata, crimini di guerra e violazioni del diritto umanitario internazionale, conclude il rapporto.

A dicembre il Sudafrica ha presentato alla CIG tutta la documentazione necessaria, formulando accuse di crimini di guerra contro Israele per la sua guerra genocida a Gaza.

Come Sudafrica, insieme a molti altri Paesi del mondo, abbiamo concordemente ritenuto opportuno deferire questa azione dell’intero governo israeliano davanti alla CIG. Abbiamo promosso il deferimento perché riteniamo che là si stiano commettendo crimini di guerra”, ha detto il Presidente del Sudafrica Cyril Ramaphosa.

Ramaphosa ha definito “totalmente inaccettabile” che Israele “si sia fatto giustizia da solo”.

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza sono stati uccisi 23.210 palestinesi e feriti 59.167 nel corso del perdurante genocidio israeliano a Gaza iniziato il 7 ottobre.

Stime palestinesi e internazionali dicono che la maggioranza delle vittime e dei feriti sono donne e bambini.

(PC, MEMO) (Palestine Chronicle, Middle East Monitor)

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




ESCLUSIVA: LA CENSURA MILITARE ISRAELIANA VIETA DI RIFERIRE SU QUESTI OTTO ARGOMENTI

Ken Klippenstein, Daniel Boguslaw

23 dicembre 2023, The Intercept

Un insolito ordine in lingua inglese sulla guerra di Gaza rompe la segretezza e l’informalità con cui normalmente funziona la censura dell’Esercito israeliano.

Armi usate dalle forze di difesa israeliane, fughe di notizie dal gabinetto di sicurezza, storie di persone tenute in ostaggio da Hamas… sono alcuni degli otto argomenti di cui, secondo un documento ottenuto da The Intercept, in Israele ai media è vietato parlare.

Il documento, un ordine di censura indirizzato ai media dall’esercito israeliano come parte della guerra contro Hamas, non era stato segnalato in precedenza. Il promemoria, scritto in inglese, è stata una mossa insolita per la censura dell’IDF che fa parte dell’esercito israeliano da più di settant’anni.

“Non ho mai visto istruzioni come queste inviate dalla censura, a parte avvisi generali che invitavano i media a conformarsi, e anche allora erano inviati solo a determinate persone”, ha detto Michael Omer-Man, ex redattore capo della rivista israeliana +972 Magazine e oggi direttore della ricerca su Israele-Palestina presso Democracy in the Arab World Now, o DAWN, un gruppo di pressione statunitense.

Intitolato “Direttiva del Capo Israeliano della censura ai media per l’Operazione ‘Spade di Ferro’”, l’ordine non è datato ma il suo riferimento all’Operazione Spade di Ferro – il nome dell’attuale operazione militare israeliana a Gaza – chiarisce che è stato emesso qualche tempo dopo l’attacco di Hamas contro Israele il 7 ottobre. L’ordine è firmato dal capo censore delle forze di difesa israeliane, Generale di Brigata Kobi Mandelblit. (Il censore militare israeliano non ha risposto a una richiesta di commento sul promemoria.)

Il documento è stato fornito a The Intercept da una fonte che ne ha avuto una copia dall’esercito israeliano. Un documento identico appare sul sito web del governo israeliano.

“Alla luce dell’attuale situazione di sicurezza e dell’intensa copertura mediatica, desideriamo incoraggiarvi a sottoporre alla censura tutto il materiale riguardante le attività delle Forze di difesa israeliane (IDF) e delle forze di sicurezza israeliane prima che sia reso pubblico”, dice l’ordine. “Si prega di informare il proprio staff sul contenuto di questa lettera, con particolare attenzione alla redazione e ai giornalisti sul campo.”

L’ordine elenca otto argomenti di cui è vietato ai media riferire senza previa approvazione da parte della censura militare israeliana. Alcuni degli argomenti toccano questioni politiche scottanti in Israele e a livello internazionale, come rivelazioni potenzialmente imbarazzanti sulle armi usate da Israele o catturate da Hamas, discussioni sulle riunioni del gabinetto di sicurezza e sugli ostaggi israeliani a Gaza – una questione per la cui cattiva gestione il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è stato ampiamente criticato.

La nota vieta inoltre di riferire su dettagli di operazioni militari, intelligence israeliana, attacchi missilistici che abbiano colpito luoghi sensibili in Israele, attacchi informatici e visite di alti ufficiali militari sul campo di battaglia.

Le preoccupazioni circa una politicizzazione della censura militare non sono meramente ipotetiche. Il mese scorso, secondo quanto riferito, il censore israeliano si è lamentato del fatto che Netanyahu gli stesse facendo pressione affinché reprimesse alcuni media senza una ragione legittima. Netanyahu ha negato l’accusa.

Autocensura e segretezza

La Censura Militare Israeliana è un’unità situata all’interno della Direzione dell’Intelligence Militare dell’IDF. L’unità è comandata dal capo censore, un ufficiale militare nominato dal Ministro della Difesa.

Guy Lurie, ricercatore presso l’Israel Democracy Institute con sede a Gerusalemme, ha detto a The Intercept che da quando è iniziata la guerra di Israele contro Hamas più di 6.500 nuovi articoli sono stati completamente o parzialmente censurati dal governo israeliano.

Per contestualizzare la cifra, Lurie ha affermato che si tratta di circa quattro volte in più rispetto a prima della guerra, citando un articolo del quotidiano israeliano Shakuf sulle richieste di libertà di informazione. Il numero di contributi sottoposti alla censura, tuttavia, è significativamente più alto in questo momento di intenso conflitto, e Lurie ha osservato che le notizie sono sottoposte a un normale livello di censura considerando il totale dei contributi.

Il numero effettivo di nuovi articoli sottoposti a censura, tuttavia, non potrà mai essere quantificato. A causa di un sistema di strette relazioni e di una certa consapevolezza su cosa aspettarsi, i giornalisti israeliani finiscono per autocensurarsi.

“Le persone si autocensurano, non provano nemmeno a riferire le storie che sanno che non passeranno”, ha detto Omer-Man. “E questo è dimostrato proprio adesso da quanto poco i comuni israeliani sappiano dalla stampa ciò che sta accadendo a Gaza ai palestinesi”.

Sono questi modi di censura non ufficiale che danno potere alla censura in Israele, dicono gli esperti.

Nel 2022 un rapporto del Dipartimento di Stato sui diritti umani in Israele e nei territori palestinesi occupati ha affrontato la censura militare, selezionando due giornali in lingua araba nella Gerusalemme est occupata. Pur sottolineando che il censore dell’IDF non controllava gli articoli, il Dipartimento di Stato ha affermato: “I redattori e i giornalisti di quelle pubblicazioni, tuttavia, hanno riferito di essersi autocensurati per paura di ritorsioni da parte delle autorità israeliane”.

Un tempo la censura aveva un Comitato Editoriale composto da tre membri: uno della stampa, uno dell’esercito e un membro eletto pubblicamente che fungeva da presidente. Sebbene il Comitato Editoriale non esista più ufficialmente, un organismo simile, anche se informale, mantiene ancora una certa influenza.

Anche se la legge che istituisce la censura gli conferisce ampi poteri, il censore è rispettato in Israele perché è politicamente indipendente ed agisce con moderazione, soprattutto in confronto a altri paesi della regione.

“Se vedi la legge che governa la censura, è davvero draconiana in termini di autorità formali di cui dispone il censore”, ha detto Lurie a The Intercept. “Ma è mitigata da quell’accordo informale”.

Quasi tutto avviene in segreto: le discussioni del Comitato sono confidenziali, così come la maggior parte dei comunicati tra i media e la censura.

Alla domanda sul perché i procedimenti siano così segreti e perché anche le testate giornalistiche non ne parlino apertamente, un giornalista occidentale con sede in Israele e Palestina, che ha chiesto l’anonimato per evitare ritorsioni, ha dato una valutazione schietta: “Perché è imbarazzante”.

La stampa straniera e la censura

Il fatto che la nota di direttive per l’attuale guerra israeliana a Gaza sia in inglese suggerisce che sia destinato ai media occidentali. I giornalisti stranieri che lavorano in Israele devono ottenere il permesso del governo, inclusa una dichiarazione che rispetteranno la censura.

“Per ottenere un visto come giornalista devi ottenere l’approvazione del GPO (Ufficio stampa del governo) e quindi devi firmare un documento in cui dichiari che rispetterai la censura”, ha detto Omer-Man. “Questo è di per sé probabilmente contrario alle linee guida etiche di molti giornali.”

Nondimeno molti giornalisti firmano il documento. Mentre l’Associated Press, ad esempio, non ha risposto alla domanda di The Intercept sulla sua collaborazione con la censura militare, il News Wire in passato ha parlato della questione, ammettendo anche di attenersi alla direttiva.

“L’Associated Press ha accettato, come altre organizzazioni, di rispettare le regole della censura, che è una condizione per ricevere il permesso di operare come organizzazione di informazione in Israele”, ha scritto l’agenzia in un articolo del 2006. “Ci si aspetta che i giornalisti si censurino e non riportino alcun materiale proibito.”

Alla domanda se rispettasse le linee guida della censura militare israeliana e se la sua ottemperanza fosse cambiata dall’inizio della guerra, Azhar AlFadl Miranda, direttore delle comunicazioni del Washington Post, ha dichiarato a The Intercept in una e-mail: “Non possiamo condividere informazioni”, aggiungendo che “non discutiamo pubblicamente le nostre decisioni editoriali”.

Il New York Times ha dichiarato a The Intercept: “Il New York Times riporta in modo indipendente l’intero spettro di questo complicato conflitto. Non sottoponiamo le nostre corrispondenze alla censura militare israeliana”. (Reuters non ha risposto alle domande di The Intercept.)

La stampa estera che collabora con la censura è soggetta allo stesso sistema: molti articoli non passano attraverso la censura, ma alcuni argomenti prevedono che gli articoli vengano sottoposti.

“Sanno che devono trasmettere alla censura gli articoli su determinati argomenti che vogliono pubblicare “, ha detto Lurie. “Ci sono argomenti per cui i media sanno di dover ottenere l’approvazione della censura.”

Una delle cose che rende insolito l’ordine di censura scritto in lingua inglese, tuttavia, è il riferimento esplicito alla guerra con Hamas. “Non l’ho mai visto per una guerra specifica”, ha detto Lurie.

“Ci sono argomenti per cui i media sanno di dover ottenere l’approvazione della censura.”

Un argomento noto come sensibile in Israele è l’arsenale nucleare segreto del paese. Nel 2004, il giornalista della BBC Simon Wilson aveva intervistato Mordechai Vanunu, un informatore sul programma nucleare che era appena stato rilasciato dal carcere. La censura israeliana richiese copie dell’intervista, ma Wilson non accettò.

A Wilson è stato quindi impedito il rientro e il governo israeliano ha richiesto delle scuse. Inizialmente, la BBC si rifiutò di fornirne, ma alla fine il colosso mondiale dell’informazione cedette.

“[Wilson] Conferma che dopo l’intervista a Vanunu è stato contattato dalla censura e gli è stato chiesto di consegnare loro le cassette. Non lo ha fatto. Si rammarica delle difficoltà che ciò ha causato”, ha affermato la BBC nelle scuse. “Si impegna a rispettare le norme in futuro e comprende che qualsiasi ulteriore violazione comporterà la revoca del suo visto.”

Le scuse, come gran parte del lavoro della censura, sarebbero dovute rimanere segrete secondo un articolo del Guardian del 2005, ma la BBC le pubblicò accidentalmente sul suo sito web prima di rimuoverle rapidamente.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele: la fame utilizzata come arma di guerra a Gaza

Rapporto HRW

18 dicembre 2023 – Human Rights Watch

Ci sono prove che ai civili è deliberatamente negato l’accesso a cibo e acqua.

  • Nella Striscia di Gaza il governo israeliano sta utilizzando la fame dei civili come metodo di guerra, il che costituisce un crimine di guerra.

  • Governanti israeliani hanno fatto dichiarazioni pubbliche, che si riflettono nelle operazioni militari delle forze israeliane, in cui hanno manifestato la loro intenzione di privare i civili di Gaza di cibo, acqua e carburante.

  • Il governo israeliano dovrebbe smettere di attaccare beni necessari alla sopravvivenza della popolazione civile, togliere il blocco della Striscia di Gaza e riattivare [le forniture di] elettricità e acqua.

(Gerusalemme) – Oggi Human Rights Watch ha affermato che nella Striscia di Gaza occupata il governo israeliano sta affamando i civili come metodo di guerra. Le forze israeliane stanno deliberatamente bloccando l’erogazione di acqua, cibo e carburante impedendo nel contempo deliberatamente l’assistenza umanitaria, distruggendo chiaramente zone coltivate e privando la popolazione civile di beni indispensabili alla sopravvivenza.

Da quando combattenti di Hamas hanno attaccato Israele il 7 ottobre 2023 importanti dirigenti israeliani, tra cui il ministro della Difesa Yoav Gallant, il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben.Gvir e quello dell’Energia Israel Katz, hanno fatto dichiarazioni pubbliche che si riflettono nelle operazioni militari delle forze israeliane, manifestando l’intenzione di privare i civili di Gaza di cibo, acqua e carburante. Altri politici israeliani hanno pubblicamente affermato che l’aiuto umanitario a Gaza sarebbe stato condizionato o al rilascio degli ostaggi illegalmente detenuti da Hamas o alla distruzione di Hamas.

Per oltre due mesi Israele ha privato la popolazione di Gaza di cibo ed acqua, una politica incoraggiata o appoggiata da governanti israeliani di alto livello e che riflette l’intenzione di affamare i civili come metodo di guerra,” ha affermato Omar Shakir, direttore per Israele e la Palestina di Human Rights Watch. “I leader mondiali dovrebbero esprimersi contro questo abominevole crimine di guerra, che ha effetti devastanti sulla popolazione di Gaza.”

Human Rights Watch ha intervistato 11 profughi palestinesi di Gaza tra il 24 novembre e il 4 dicembre. Essi hanno descritto le loro gravissime difficoltà per garantirsi le necessità fondamentali. “Non abbiamo cibo, elettricità, internet, assolutamente niente,” ha detto un uomo che ha lasciato il nord di Gaza. “Non sappiamo come siamo riusciti a sopravvivere.”

Nel sud di Gaza gli intervistati hanno descritto la scarsità di acqua potabile, la mancanza di cibo che ha portato a negozi vuoti, lunghe code e prezzi esorbitanti. “Sei alla costante ricerca delle cose necessarie per sopravvivere,” ha detto il padre di due figli. Il 6 dicembre il Programma Alimentare Mondiale dell’ONU (WFP) ha informato che 9 su 10 nuclei familiari nel nord di Gaza e 2 su 3 nella parte meridionale di Gaza avevano passato almeno un giorno e una notte di seguito senza cibo.

Il diritto umanitario internazionale e la legislazione di guerra vietano di affamare i civili come metodo di guerra. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale prevede che affamare intenzionalmente civili “privandoli di beni indispensabili alla loro sopravvivenza, compreso l’impedimento intenzionale ai soccorsi” è un crimine di guerra. L’intenzione criminale non richiede l’ammissione da parte dell’aggressore, ma può anche essere dedotta dal complesso delle circostanze della campagna militare.

Inoltre il continuo blocco israeliano di Gaza, così come i più di 16 anni di assedio, rappresentano una punizione collettiva della popolazione civile, un crimine di guerra. In base alla Quarta Convenzione di Ginevra, come potenza occupante a Gaza Israele ha il dovere di garantire che la popolazione civile disponga di cibo e medicinali.

Il 17 novembre il WFP ha avvertito dell’“immediata possibilità” di carestia, evidenziando che l’approvvigionamento di cibo ed acqua era in pratica inesistente. Il 3 dicembre ha informato di un “grave rischio di carestia”, segnalando che il sistema alimentare di Gaza era sull’orlo del collasso. E il 6 dicembre ha dichiarato che il 48% dei nuclei famigliari nel nord di Gaza e il 38% delle persone sfollate nel sud aveva registrato “gravissimi livelli di carenza di cibo”.

Il 3 novembre il Consiglio Norvegese per i Rifugiati ha annunciato che Gaza era alle prese con “catastrofiche carenze di acqua, sanità e igiene.” Strutture per la sanificazione e desalinizzazione hanno chiuso le attività a metà ottobre a causa della mancanza di carburante ed elettricità, e secondo l’Autorità Palestinese per le Acque da allora sono rimaste inattive. Secondo l’ONU anche prima del 7 ottobre Gaza non aveva praticamente acqua potabile.

Prima dell’attuale conflitto si stimava che 1.2 milioni dei 2.2 milioni di abitanti di Gaza stessero affrontando una grave insicurezza alimentare, e oltre l’80% dipendeva dall’aiuto umanitario.

Israele mantiene un controllo complessivo su Gaza, anche sul movimento di persone e beni, sulle acque, sullo spazio aereo e sulle infrastrutture del territorio da cui Gaza dipende, così come sull’anagrafe. Ciò lascia la popolazione di Gaza, che Israele ha sottoposto per 16 anni a un blocco illegale, praticamente del tutto dipendente da Israele per l’accesso al carburante, all’elettricità, alle medicine, al cibo e a altre risorse essenziali.

Dopo l’imposizione di un “blocco totale” a Gaza il 9 ottobre, le autorità israeliane il 15 ottobre hanno ripristinato l’approvvigionamento idrico a zone del sud di Gaza e, il 21 ottobre hanno consentito l’arrivo di un ridotto aiuto umanitario attraverso il valico di Rafah con l’Egitto. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu il 18 ottobre ha detto che Israele non avrebbe consentito assistenza sanitaria “in forma di cibo e medicinali” a Gaza attraverso i suoi valichi “finché i nostri ostaggi non saranno riconsegnati.”

Il governo ha continuato a bloccare l’ingresso di carburante fino al 15 novembre, nonostante avvertimenti riguardo alle gravi conseguenze di ciò, che hanno portato alla chiusura di forni per il pane, ospedali, stazioni di pompaggio delle acque reflue, impianti di desalinizzazione e pozzi. Queste strutture, che sono state rese inutilizzabili, sono indispensabili per la sopravvivenza della popolazione civile. Benché in seguito sia stato consentito l’ingresso di limitate quantità di carburante, il 4 dicembre la Coordinatrice Umanitaria per i Territori Palestinesi Occupati dell’ONU Lynn Hastings le ha definite “assolutamente insufficienti”. Il 6 dicembre il gabinetto di guerra di Israele ha approvato un “minimo” incremento nelle forniture di carburante al sud di Gaza.

Il primo dicembre, immediatamente dopo il cessate il fuoco di sette giorni, l’esercito israeliano ha ripreso i bombardamenti contro Gaza ed ha esteso la sua offensiva di terra, affermando che le sue operazioni militari nel sud avrebbero comportato “altrettanta forza” che nel nord. Mentre politici degli Stati Uniti hanno affermato di aver sollecitato Israele a consentire l’ingresso a Gaza di carburante e aiuto umanitario allo stesso livello di quanto visto durante il cessate il fuoco, il Coordinatore delle Attività Governative del Ministero dell’Interno [israeliano] nei territori il primo dicembre ha affermato di aver bloccato ogni ingresso di aiuti. Il 2 dicembre la consegna di aiuti limitati è ripresa, ma sempre a livelli molto insufficienti, secondo l’ufficio per il coordinamento degli Affari Umanitari dell’ONU (OCHA).

Insieme al devastante blocco, gli estesi bombardamenti dell’esercito israeliano sulla Striscia hanno comportato vasti danni o distruzioni di beni necessari alla sopravvivenza della popolazione civile.

Il 16 novembre esperti dell’ONU hanno affermato che i gravi danni “minacciano di rendere impossibile la continuazione della vita dei palestinesi a Gaza”. Significativamente, come ha evidenziato l’OCHA, il bombardamento da parte delle forze israeliane il 15 novembre dell’ultimo mulino per cereali in funzione a Gaza ha fatto sì che nel prossimo futuro a Gaza non sarà reperibile la farina prodotta in loco. Inoltre l’ufficio dell’ONU per i Servizi di Progettazione (UNOPS) ha affermato che la distruzione della rete viaria ha reso ancora più difficile alle organizzazioni umanitarie distribuire aiuti a quanti ne hanno bisogno.

Forni per la panificazione e mulini, l’agricoltura e le strutture idriche e di depurazione sono stati distrutti, “ ha detto il 23 novembre alla Associated Press Scott Paul, un importante consigliere per le politiche umanitarie di Oxfam America.

Le azioni militari israeliane a Gaza hanno avuto un effetto devastante anche sul settore agricolo. Secondo Oxfam i massicci bombardamenti, accompagnati dalla carenza di combustibile e acqua, insieme all’espulsione di oltre 1.6 milioni di persone verso il sud di Gaza, hanno reso praticamente impossibili le attività agricole. In un rapporto del 28 novembre l’OCHA ha affermato che nel nord il bestiame sta morendo di fame a causa della mancanza di foraggio e acqua, e che i campi sono sempre più abbandonati e danneggiati per la mancanza di carburante per pompare acqua per l’irrigazione. I problemi esistenti, come la scarsità di acqua e l’accesso ridotto alla coltivazione della terra nei pressi della barriera di confine, hanno aggravato le difficoltà che gli agricoltori locali, molti dei quali sono stati sfollati, dovevano già affrontare. Il 28 novembre l’Ufficio Centrale di Statistica palestinese ha affermato che Gaza sta soffrendo una perdita nella produzione agricola di almeno 1.6 milioni di dollari al giorno.

Il 28 novembre il Settore della Sicurezza Alimentare Palestinese, guidato dal WFP e dalla FAO, hanno informato che oltre un terzo dei terreni agricoli nel nord [di Gaza] è stato danneggiato dalle ostilità. Immagini satellitari esaminate da Human Rights Watch indicano che dall’inizio dell’offensiva di terra israeliana il 27 ottobre terreni agricoli, compresi orti, serre e coltivazioni nel nord di Gaza sono stati distrutti, a quanto pare dalle forze israeliane.

Il governo israeliano dovrebbe smettere immediatamente di affamare i civili come metodo di guerra, afferma Human Rights Watch. Dovrebbe attenersi al divieto di attacchi contro beni necessari alla sopravvivenza della popolazione civile e togliere il blocco della Striscia di Gaza. Il governo dovrebbe ripristinare l’accesso all’acqua e all’elettricità e consentire l’ingresso di cibo, medicinali e carburante disperatamente necessari a Gaza, anche attraverso il valico di Kerem Shalom.

I governi coinvolti dovrebbero chiedere a Israele di porre fine a queste violazioni. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, il Canada, la Germania e altri Paesi dovrebbero anche sospendere l’assistenza militare e la vendita di armamenti a Israele finché le sue forze continueranno a commettere impunemente gravi e massicce violazioni che rappresentano crimini di guerra contro i civili.

Con l’uso crudele della mancanza di cibo come arma di guerra il governo israeliano sta aggravando la punizione collettiva dei civili palestinesi e il blocco degli aiuti umanitari,” ha affermato Shakir. “La crescente catastrofe umanitaria a Gaza richiede una risposta urgente e concreta da parte della comunità internazionale.”

Il contesto

Gli attacchi guidati da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre hanno ucciso almeno 1.200 israeliani e cittadini di altri Paesi, e più di 200 persone sono state prese in ostaggio, azioni che rappresentano crimini di guerra. Il bombardamento e l’offensiva di terra di Israele che ne sono derivati hanno provocato, secondo le autorità di Gaza, più di 18.700 palestinesi uccisi, tra cui più di 7.700 minorenni.

L’OCHA ha informato che al 10 dicembre il bombardamento della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano ha distrutto più di metà delle infrastrutture civili, comprese più di 50.000 unità abitative, come affermato dal ministero dei Lavori Pubblici e dell’Edilizia a Gaza, così come ospedali, scuole, moschee, panetterie, reti idriche, fognarie ed elettriche. Secondo l’OCHA nella Striscia di Gaza solo il 4 e 5 novembre sette strutture idriche, tra cui serbatoi d’acqua a Gaza City, nel campo profughi di Jabalia e a Rafah, sono state direttamente colpite ed hanno subito gravissimi danni.

I ripetuti e palesemente illegali attacchi dell’esercito israeliano contro strutture, personale e trasporti sanitari hanno ulteriormente distrutto il settore medico-sanitario di Gaza, colpendo quindi la possibilità per la popolazione di accedere a cure salvavita, compresa la prevenzione di malattie, deperimento e morte legati alla malnutrizione, esacerbando le terribili conseguenze della mancanza di cibo. “Se non riusciamo a rimettere in piedi questo sistema sanitario vedremo più persone morire di malattie che per i bombardamenti,” ha affermato il 28 novembre Margareth Harris, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Conseguenze sul piano umanitario

Il 13 ottobre le autorità israeliane hanno emanato un ordine impossibile da rispettare di evacuazione dal nord di Gaza entro 24 ore a più di un milione di persone. Da allora, e mentre le condizioni nel nord peggioravano, centinaia di migliaia di persone sono state sfollate nei governatorati di Rafah e Khan Younis nel sud, dove è diventato sempre più difficile garantire i mezzi di sopravvivenza. In base alle leggi umanitarie internazionali l’evacuazione deve essere attuata in condizioni che garantiscano che gli sfollati abbiano accesso senza impedimenti all’aiuto umanitario, compresi cibo e lavoro sufficienti. In caso contrario ciò rappresenta un’espulsione forzata.

Le conseguenze umanitarie delle azioni militari di Israele a Gaza sono state molto gravi. Durante le prime otto settimane di ostilità il nord di Gaza è stato il centro dell’intensa offensiva di terra e aria dell’esercito israeliano. Salvo che durante il cessate il fuoco di sette giorni iniziato il 24 novembre, durante il quale convogli dell’ONU hanno portato ridotte quantità di farina e gallette ad alto contenuto energetico, l’arrivo degli aiuti al nord è stato in gran parte interrotto. Secondo l’OCHA tra il 7 novembre e almeno fino al 15 novembre nessuna dei forni per il pane del nord era in funzione a causa della mancanza di carburante, acqua, farina di frumento e per danni strutturali.

Secondo il WFP a Gaza c’è un grave rischio di carenza di cibo e di carestia. Funzionari dell’ONU hanno affermato che 1.9 milioni di persone, oltre l’85% della popolazione di Gaza, sono sfollati interni, aggiungendo che in una zona meridionale sempre più ridotta nella Striscia di Gaza le condizioni potrebbe diventare “persino più infernali”.

Il 5 dicembre il capo dei servizi umanitari dell’ONU Martin Griffiths ha affermato che la campagna dell’esercito israeliano nel sud di Gaza ha portato a condizioni “apocalittiche”, rendendo impossibili significativi interventi umanitari.

Il 6 dicembre l’unico impianto di desalinizzazione nel nord di Gaza ha smesso di funzionare e l’acquedotto che fornisce acqua al nord da Israele è rimasto chiuso, accentuando i rischi di disidratazione e di malattie trasmesse dall’acqua derivanti dal consumo di acqua da sorgenti non sicure. Il 14 dicembre gli ospedali sono stati particolarmente colpiti, con solo un ospedale su 24 nel nord di Gaza in funzione e in grado di accettare nuovi pazienti, anche se fornendo servizi limitati.

Dall’11 ottobre in tutta Gaza la crisi umanitaria si è aggravata con una persistente interruzione della corrente elettrica, così come con una serie di blocchi delle comunicazioni che ha impedito alle persone l’accesso ad affidabili informazioni sulla sicurezza, sui servizi medici d’urgenza e ha ostacolato gravemente le operazioni umanitarie. Il 18 novembre l’OCHA ha affermato che l’interruzione delle telecomunicazioni tra il 16 e il 18 novembre, il quarto dal 7 ottobre, “ha portato a un quasi totale blocco della già problematica distribuzione di assistenza umanitaria, compresa l’assistenza salvavita a persone ferite o intrappolate sotto le macerie in conseguenza degli attacchi aerei e degli scontri”. Il 14 dicembre c’è stato un’altra interruzione delle telecomunicazioni. “

Immagini satellitari visionate da Huma Rights Watch indicano che fin dall’inizio dell’offensiva di terra dell’esercito israeliano il 27 ottobre orti, serre e terreni coltivati sono stati distrutti, a quanto pare dalle forze israeliane, aggravando le preoccupazioni per la gravissima insicurezza alimentare e la perdita di mezzi di sussistenza. Immagini satellitari indicano che la distruzione di terreni agricoli è continuata nel nord di Gaza durante il cessate il fuoco di sette giorni iniziato il 24 novembre e terminato il 1 dicembre, quando l’esercito israeliano aveva il controllo diretto della zona.

Mentre durante il cessate il fuoco di 7 giorni terminato il primo dicembre per la prima volta dal 7 ottobre il governo israeliano ha consentito l’ingresso nella Striscia di Gaza di un continuo e leggermente maggiore afflusso di aiuti umanitari, compreso gas da cucina, aveva in precedenza deliberatamente impedito l’ingresso di generi di soccorso nelle quantità necessarie per oltre un mese, imponendo un assedio che ha colpito tutta la popolazione civile. Ciò ha contribuito a una situazione umanitaria catastrofica con conseguenze di vasta portata, con oltre l’80% della popolazione sfollata internamente, molta della quale ospitata in condizioni di sovraffollamento, malsane e insalubri nei rifugi dell’ONU nel sud. Gli aiuti che sono entrati durante il cessate il fuoco “sono stati a malapena percepiti rispetto alle enormi necessità di 1.7 milioni di sfollati,” ha detto il 27 novembre il portavoce dell’ONU Stephane Dujarric.

Durante il cessate il fuoco sono entrati a Gaza circa 200 camion al giorno, comprese quattro cisterne che trasportavano 130.000 litri di carburante e quattro di gas da cucina. In confronto prima del conflitto entrava a Gaza ogni giorno una media di 500 camion di cibo e prodotti e 600.000 litri di carburante al giorno, necessari solo per far funzionare gli impianti per l’acqua e la desalinizzazione. Come sono ripresi i bombardamenti e le forze israeliane sono avanzate verso sud, l’accesso agli aiuti è stato di nuovo seriamente ostacolato. Il 5 dicembre per il terzo giorno consecutivo l’OCHA ha informato che a Gaza solo il governatorato di Rafah aveva ricevuto una ridotta distribuzione di aiuti. Ha affermato che nel vicino governatorato di Khan Younis la distribuzione di aiuti è stata largamente interrotta a causa dell’intensità degli scontri.

Testimonianze di civili a Gaza

Human Rights Watch ha parlato con 11 civili sfollati dal nord di Gaza verso la presunta sicurezza nel sud a causa dei pesanti bombardamenti, del timore di imminenti attacchi aerei o perché Israele ha ordinato loro di andarsene. Molti affermano di essersi spostati varie volte prima di arrivare a sud, mentre lungo il loro viaggio hanno lottato per trovare un rifugio adeguato e sicuro. Nel sud hanno trovato rifugi sovraffollati, mercati vuoti, prezzi alle stelle e lunghe file per ridotte quantità di pane e acqua potabile. Per proteggere la loro identità in tutte le interviste Human Rights Watch utilizza pseudonimi.

Devo camminare per tre chilometri per avere 4 litri (di acqua)” dice il trentenne Marwan, scappato il 9 novembre a sud con la moglie incinta e due figli. “E non c’è cibo. Se lo trovassimo, sarebbe in scatola. Nessuno di noi sta mangiando bene.”

Quello che abbiamo è tutto troppo poco,” dice Hana, 36 anni, scappata dalla sua casa nel nord a Khan Younis, nel sud con suo padre, la moglie di lui e suo fratello l’11 ottobre. Dice che nel sud non sempre hanno accesso ad acqua potabile e sono obbligati a bere acqua non potabile e salata.

Lavarsi è diventato un lusso, afferma, a causa della mancanza di mezzi per scaldare l’acqua, per cui devono andare a cercare della legna. Nelle situazioni disperate, dice, finiscono persino col bruciare vecchi vestiti per cucinare. Il processo di preparazione del pane presenta delle difficoltà a causa della scarsità di ingredienti che non possono permettersi. “Facciamo del pane cattivo perché non abbiamo tutti gli ingredienti e non possiamo comprarli,” afferma.

Majed, 34 anni, scappato a sud con la moglie e quattro figli sopravvissuti verso il 10 di novembre dice che, mentre la situazione nel sud è disastrosa, è incomparabile con quello che lui e la sua famiglia hanno dovuto sopportare nel nord. Sono stati in una zona nei pressi dell’ospedale al-Shifa a Gaza City per oltre un mese dopo che il 13 ottobre la loro casa era stata bombardata uccidendo il figlio di sei anni di Majed:

In quei 33 giorni non abbiamo mangiato pane perché non c’era farina,” afferma. “Non c’era acqua, a volte compravamo acqua per 10 (dollari) a tazza. Non sempre era potabile. A volte (l’acqua che abbiamo bevuto) era del bagno e altre del mare. I mercati della zona erano vuoti. Non c’era neppure cibo in scatola.”

Taher, 32 anni, scappato con la sua famiglia l’11 novembre, descrive condizioni simili a Gaza City nelle prime settimane di novembre: “La città era priva di ogni cosa, di cibo e acqua,” dice. “Se trovavi cibo in scatola i prezzi erano altissimi. Abbiamo deciso di mangiare solo una volta al giorno per sopravvivere. Abbiamo finito i soldi. Abbiamo deciso di avere solo l’indispensabile, di avere meno di tutto.”

Standard internazionali e le prove di azioni deliberate

Affamare i civili come metodo di guerra è vietato in base all’articolo 54 (1) del Primo Protocollo Aggiuntivo della Convenzione di Ginevra (Protocollo I) e dell’articolo 14 del Secondo Protocollo Aggiuntivo della Convenzione di Ginevra (Protocollo II). Benché Israele non abbia aderito ai protocolli I e II, il divieto viene riconosciuto come riflesso del diritto umanitario consuetudinario internazionale sia in conflitti internazionali che non internazionali. Le parti di un conflitto non devono “provocare deliberatamente (una carestia)” o provocare deliberatamente “il fatto che la popolazione soffra la fame, in particolare privandola delle fonti o dei rifornimenti di cibo.”

Alle parti in guerra è vietato anche attaccare i beni indispensabili per la sopravvivenza della popolazione civile, come cibo e medicinali, zone agricole e impianti dell’acqua potabile. Sono obbligate a fornire assistenza umanitaria rapida e senza restrizioni a tutti i civili in stato di necessità e a non bloccare deliberatamente gli aiuti umanitari o limitare la libertà di movimento del personale dell’assistenza umanitaria. In ognuna delle precedenti quattro guerre a Gaza dal 2008 Israele ha garantito il flusso di acqua potabile ed elettricità a Gaza ed ha aperto i valichi israeliani per la distribuzione di aiuti umanitari.

Le prove dell’intenzione di utilizzare deliberatamente la mancanza di cibo come metodo di guerra possono essere rintracciate nelle affermazioni pubbliche di politici coinvolti nelle operazioni militari. Ci si può aspettare che i seguenti politici israeliani di alto livello possano aver giocato un ruolo significativo nel definire le politiche rispetto a consentire o bloccare il cibo e altri beni di prima necessità per la popolazione civile.

Il 9 ottobre il ministro della Difesa Yoav Gallant ha detto: “Stiamo imponendo un assedio totale contro (Gaza). Niente elettricità, niente cibo, niente acqua, niente carburante, tutto chiuso. Stiamo combattendo contro animali umani e dobbiamo agire di conseguenza.”

Il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir il 17 ottobre ha detto in un tweet: “Finché Hamas non rilascerà gli ostaggi, l’unica cosa che dovrebbe entrare a Gaza sono centinaia di tonnellate di esplosivo dal cielo, neppure un grammo di aiuto umanitario.”

Il ministro dell’Energia Israel Katz, che ha raccontato di aver ordinato il taglio di elettricità e acqua, ha detto l’11 ottobre:

Per anni abbiamo fornito a Gaza elettricità, acqua e carburante. Invece di ringraziarci, hanno inviato migliaia di animali umani a massacrare, uccidere, violentare e rapire bambini, donne e anziani. Per questo abbiamo deciso di interrompere la fornitura di acqua, elettricità e carburante e ora l’impianto di produzione di energia locale è crollato e a Gaza non c’è elettricità. Continueremo a mantenere un rigido assedio finché Israele e il mondo non saranno liberati della minaccia di Hamas. Ciò che è stato non ci sarà più.”

Il 12 ottobre Katz ha detto:

Aiuti umanitari a Gaza? Neppure un interruttore verrà acceso, non verrà aperta neppure una valvola, neppure un camion di carburante entrerà finché gli ostaggi israeliani non torneranno a casa. Umanità contro umanità. Che nessuno ci dia lezioni di moralità.”

Il 16 ottobre ha detto:

Ho appoggiato l’accordo tra il primo ministro Netanyahu e il presidente Biden per la fornitura di acqua al sud della Striscia di Gaza perché è in linea anche con gli interessi israeliani. Sono totalmente contrario a togliere il blocco e a lasciar entrare a Gaza prodotti per ragioni umanitarie. Il nostro impegno è verso le famiglie degli assassinati e gli ostaggi rapiti, non verso gli assassini di Hamas e la gente che li ha aiutati.”

Il 4 novembre il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha dichiarato che “per nessuna ragione” deve entrare carburante a Gaza. Poi, come riportato dal Jerusalem Post, ha definito la decisione del gabinetto di guerra israeliano di consentire l’ingresso nella Striscia di una piccola quantità di carburante “un grave errore” e ha affermato: “Si ponga termine immediatamente a questo scandalo e si impedisca che carburante entri nella Striscia”.

In un video postato in rete il 4 novembre il colonnello Yogev Bar-Shesht, vice capo dell’Amministrazione Civile [ente militare che governa i territori occupati, ndt.] ha affermato in un’intervista da Gaza: “Chiunque torni qui, se ritornerà in seguito, troverà terra bruciata. Niente case, niente agricoltura, niente di niente. Non hanno futuro.”

Il 24 novembre, in un’intervista televisiva con la CNN, Mark Regev, consigliere del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha affermato che Israele ha privato Gaza di carburante dal 7 ottobre per rafforzare la posizione di Israele quando si tratterà di negoziare con Hamas il rilascio degli ostaggi. “Se lo avessimo fatto (consentire l’ingresso di carburante) … non avremmo mai avuto la restituzione dei nostri ostaggi,” ha detto.

Il 1 dicembre il coordinatore delle attività di governo nei territori del ministero dell’Interno, generale Ghassan Alian, ha affermato che l’ingresso di carburante e aiuti a Gaza era stato interrotto dopo che Hamas aveva violato le condizioni dell’accordo di cessate il fuoco. Il suo ufficio ha confermato la sua dichiarazione in risposta a una domanda del Times of Israel sostenendo: “”Dopo che l’organizzazione terroristica Hamas ha violato l’accordo e in più ha sparato contro Israele, l’ingresso di aiuti umanitari è stato bloccato nel modo previsto dall’accordo.”

Fin dal 7 ottobre altre fonti ufficiali hanno chiesto di limitare l’ingresso di aiuti umanitari a Gaza, affermando che ciò è utile agli obiettivi dell’esercito israeliano.

Il primo ministro Netanyahu il 5 dicembre ha risposto a una domanda riguardo al fatto che Israele potrebbe perdere un’arma di pressione contro Hamas se consentisse l’ingresso di maggiori aiuti umanitari a Gaza affermando: “Gli sforzi bellici sono sostenuti da quelli umanitari… ciò perché seguiamo le leggi di guerra in quanto sappiamo che, se ci fosse un collasso – epidemie, pandemie e infezioni dovute alla falda freatica – ciò porrebbe fine alla guerra.”

Il ministro della Difesa Gallant ha affermato: “Ci viene chiesto di consentire il minimo dal punto di vista umanitario perché la pressione militare possa continuare.”

Tzachi Hanegbi, consigliere per la sicurezza nazionale di Israele, ha detto il 17 novembre a una conferenza stampa: “Se c’è un’epidemia, i combattimenti finiranno. Se ci sono una crisi umanitaria e una protesta internazionale, in quelle condizioni non riusciremo a continuare a combattere.”

Il 18 ottobre l’ufficio del primo ministro ha annunciato che Israele non avrebbe impedito agli aiuti umanitari di entrare a Gaza dall’Egitto in seguito a pressioni degli USA e di altri alleati internazionali:

Alla luce della richiesta del presidente Biden Israele non ostacolerà soccorsi umanitari dall’Egitto finché si tratterà solo di cibo, acqua e medicinali per la popolazione civile del sud della Striscia di Gaza.”

Distruzione della produzione agricola e impatto sulla produzione di cibo

Durante le operazioni di terra nel nord di Gaza a quanto sembra le forze israeliane hanno distrutto la produzione agricola accentuando la carenza di cibo con effetti a lungo termine. Ciò ha incluso la distruzione di coltivazioni, campi e serre.

L’esercito israeliano ha affermato di condurre operazioni militari nella zona di Beit Hanoun, e anche in una zona agricola imprecisata a Beit Hanoun, per scoprire tunnel e altri obiettivi militari.

Campi e frutteti a nord di Beit Hanoun, per esempio, sono stati i primi ad essere danneggiati durante le ostilità in seguito alle operazioni di terra israeliane alla fine di ottobre. Bulldozer hanno scavato nuove strade, aprendo la via per veicoli militari israeliani.

Da metà novembre, dopo che le forze israeliane hanno preso il controllo della stessa area nel nordest di Gaza, immagini satellitari mostrano che frutteti, campi e serre sono stati sistematicamente distrutti, lasciando sabbia e polvere. L’8 dicembre Human Rights Watch ha chiesto un commento all’esercito israeliano, ma non ha ricevuto risposta.

Gli agricoltori della zona avevano piantato coltivazioni come alberi di agrumi, patate, pitaya [frutti originari dell’America centro-meridionale, ndt.] e fichi d’india, contribuendo al sostentamento dei palestinesi di Gaza. Altre coltivazioni includono pomodori, cavoli e fragole. Alcuni appezzamenti sono stati distrutti in un giorno. Gli alberi di agrumi, come i cactus della pitaya, richiedono anni di cure per maturare prima di dare frutti.

Immagini satellitari ad alta definizione mostrano che sono stati usati bulldozer per distruggere campi e piantagioni. Si vedono camion e montagne di terra sui limiti dei precedenti appezzamenti.

Che si tratti di distruzioni deliberate, di danni dovuti alle ostilità o all’impossibilità di irrigare o lavorare la terra, nel nord di Gaza i terreni agricoli sono stati drasticamente ridotti fin dall’inizio delle operazioni di terra israeliane.

Anche nel sud di Gaza aziende agricole e contadini sono stati colpiti. Action Against Hunger [ong francese che lotta contro la fame nel mondo, ndt.] ha scoperto che delle 113 aziende agricole del sud di Gaza interpellate tra il 19 e il 31 ottobre il 60% ha affermato che le proprie attività o coltivazioni sono state danneggiate, il 42% di non avere accesso all’acqua per irrigare i campi e il 43% di non essere in grado di raccogliere i prodotti.

Rettifica

18/12/2023: Questo comunicato stampa è stato aggiornato per riportare la data di ottobre in cui il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che Israele non avrebbe consentito assistenza umanitaria a Gaza “nella forma di cibo e medicinali” attraverso i suoi valichi “finché gli ostaggi (israeliani) non saranno restituiti.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




CONFLITTI ARMATI. Necessaria un’indagine internazionale urgente che indaghi sui crimini di guerra israeliani dopo che dei civili palestinesi sono stati sepolti vivi nell’ospedale Kamal Adwan di Gaza

16 dicembre 2023 – Euro-Med Human Rights Monitor

Ginevra – Secondo quanto riferito lesercito israeliano avrebbe seppellito vivi dei civili palestinesi all’esterno dellospedale Kamal Adwan nella città di Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza, dopo nove giorni consecutivi di assedio totale dell’area, tra raid e orribili atrocità. È necessaria l’apertura di un’indagine internazionale indipendente sui fatti riportati, ha affermato Euro-Med Human Rights Monitor in un comunicato stampa diffuso sabato.

Sulla base di testimonianze che lorganizzazione con sede a Ginevra ha ricevuto dai media e dal personale medico sul posto, questa mattina, prima di lasciare la struttura medica, i bulldozer israeliani hanno seppellito vivi dei civili palestinesi nel cortile dellospedale. Dei testimoni hanno detto che tra i cumuli di terra era visibile almeno uno dei corpi e hanno confermato che la vittima è stata ferita prima di essere sepolta e uccisa.

Secondo Euro-Med Monitor i bulldozer dell’esercito israeliano sono entrati questa mattina nell’ospedale e hanno completamente distrutto la sua sezione sud lasciando dietro di sé, dopo diversi giorni di assedio e attacchi ininterrotti, una grande devastazione. L’organizzazione per i diritti umani riferisce che nove giorni fa i carri armati israeliani avevano cinto d’assedio lospedale mentre i cecchini prendevano il controllo degli edifici circostanti e sparavano su chiunque passasse.

Le squadre di Euro-Med Monitor continuano a documentare ciò che è accaduto oggi all’ospedale Kamal Adwan e hanno sottolineato la necessità di aprire un’indagine internazionale sulle orribili violazioni di cui la struttura è stata testimone negli ultimi giorni contro pazienti, sfollati e personale medico nel quadro di un deliberato e sistematico attacco di Israele, a partire dal 7 ottobre, contro le strutture sanitarie della Striscia di Gaza.

Lunedì 11 dicembre l’esercito israeliano ha bombardato in maniera mirata il reparto maternità dellospedale, uccidendo due donne e i loro due bambini e amputando le gambe di una terza donna. Il giorno successivo (martedì 12 dicembre) i militari hanno arrestato il direttore dellospedale, il dottor Ahmed Al-Kahlot, e hanno trasferito più di 70 operatori sanitari dallospedale a una destinazione sconosciuta.

Da allora i soldati hanno preso più volte dassalto lospedale, trasformando i suoi tetti e gli edifici in caserme militari e hanno imposto un assedio totale a coloro che erano intrappolati allinterno privandoli di cibo e acqua. Un testimone oculare che ha chiesto lanonimato per timore di ritorsioni ha affermato che i soldati israeliani 48 ore dopo l’invasione dellospedale e l’imposizione di un rigido assedio hanno ordinato a tutti gli uomini, compreso il personale medico, di riunirsi nel cortile dellospedale. Li hanno poi separati in gruppi di cinque e li hanno fotografati per confermare la loro identità.

L’esercito israeliano ha successivamente costretto ad uscire in gruppi la maggior parte delle persone intrappolate nellospedale, tra cui 65 feriti, 12 bambini in terapia intensiva, sei neonati prematuri, 2.500 sfollati e 100 membri del personale medico. A quasi 10 metri dall’ospedale hanno costretto i maschi a togliersi tutti i vestiti, ad eccezione dei boxer. Hanno tenuto le vittime all’aperto per sei ore prima di arrestarne circa 50-60; gli altri sono stati rilasciati e costretti a recarsi nelle scuole adibite a rifugio. Circa 50 pazienti, insieme alle loro famiglie, e cinque medici e infermieri, sono stati trattenuti in uno dei reparti dellospedale senza cibo, acqua o elettricità.

Durante il raid i soldati hanno distrutto i cancelli esterni dellospedale, parte dell’edificio amministrativo e la farmacia; hanno bruciato il magazzino dei medicinali prima di demolirlo; hanno distrutto il pozzo dell’acqua, il generatore di elettricità e la centrale per l’erogazione dell’ossigeno; hanno scavato una grande fossa nel cortile dell’ospedale e hanno riesumato circa 26 corpi di persone morte che, non potendo essere sepolte nei cimiteri a causa degli attacchi israeliani in corso, erano state precedentemente seppellite nel cortile. I bulldozer israeliani hanno rimosso i corpi in modo umiliante, afferma Euro-Med Monitor, violandone la dignità.

Euro-Med Monitor fa sapere che, sebbene l’esercito israeliano abbia pubblicato un’immagine con quattro individui che lasciano un ospedale con dei Kalashnikov nel tentativo di dipingerli come miliziani, la sua indagine iniziale ha rivelato che le persone raffigurate sono un medico qualificato, un infermiere e due civili sfollati, a cui i soldati hanno imposto di impugnare le armi degli agenti di sicurezza israeliani posti a guardia dei cancelli dell’ospedale.

Euro-Med Monitor ha ricevuto testimonianze che confermano che in ospedale un uomo anziano è stato recentemente lasciato morire di fame mentre un altro è stato ucciso da un cane dell’esercito israeliano che gli è stato aizzato contro. Altri, tra cui due pazienti, oltre ai bambini, sono morti nel reparto di terapia intensiva per non aver potuto ricevere cure mediche adeguate. L’organizzazione per i diritti umani afferma che le atrocità commesse dalle forze israeliane nell’ospedale Kamal Adwan fanno parte dei ripetuti e sistematici attacchi dell’esercito israeliano contro strutture sanitarie e ambulanze con i loro equipaggi, in corso dal 7 ottobre, che mirano a distruggere il sistema sanitario della Striscia di Gaza e costituiscono un crimine di guerra secondo le norme del diritto internazionale umanitario.

Euro-Med Human Rights Monitor sottolinea che ospedali, strutture mediche e veicoli sono obiettivi civili che godono di una protezione speciale ai sensi del diritto internazionale umanitario e del diritto bellico. Pertanto, la protezione specifica cui hanno diritto gli ospedali non viene meno sempre che non vengano utilizzati da una parte in conflitto per commettere, al di fuori delle loro funzioni umanitarie, una azione dannosa verso il nemico”. Le leggi umanitarie internazionali – leggi che Israele viola palesemente – sottolineano che il personale medico deve essere protetto e autorizzato a svolgere il proprio lavoro.

Finora Israele non ha fornito alcuna prova concreta che dimostri che gli ospedali nella Striscia di Gaza vengano utilizzati per scopi diversi dall’impiego sanitario. Euro-Med Monitor ha espresso grave preoccupazione per la trasformazione degli ospedali di Gaza da parte dell’esercito israeliano in caserme militari, postazioni di cecchini e centri di detenzione per personale medico, pazienti e sfollati interni, considerando in particolare il gran numero di civili feriti nella Striscia a causa del genocidio in corso da parte di Israele nei confronti dei palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele ammette di possedere munizioni al fosforo bianco

Redazione di MEMO

12 dicembre 2023 – Middle East Monitor

Ieri l’esercito di occupazione israeliano ha ammesso di possedere munizioni contenenti fosforo bianco dopo che la Casa Bianca ha espresso preoccupazione sull’uso di tali materiali incendiari in attacchi contro il Libano del sud.

La radio ufficiale dell’esercito israeliano ha affermato: “Abbiamo proiettili fumogeni contenenti fosforo bianco destinati alla mimetizzazione e non con lo scopo di attaccare o provocare incendi.”

Come molti eserciti occidentali, l’esercito israeliano possiede anche ordigni fumogeni contenenti fosforo bianco.”

In precedenza ieri il portavoce del Consiglio Nazionale di Sicurezza statunitense alla Casa Bianca, John Kirby, ha affermato che gli Stati Uniti sono preoccupati per i resoconti secondo cui a ottobre Israele avrebbe usato munizioni al fosforo bianco fornite dagli Stati Uniti in un attacco contro il Libano del sud, aggiungendo: “Abbiamo visto le informazioni. Certamente siamo preoccupati di questo. Faremo domande per provare a capire un po’ di più.”

A fine ottobre, Amnesty International ha reso noto prove secondo cui l’esercito israeliano ha usato fosforo bianco nei suoi attacchi in Libano.

All’epoca l’organizzazione aveva affermato in una dichiarazione: “Un attacco alla città di Dhayra il 16 ottobre deve essere indagato come crimine di guerra, perché è stato un attacco indiscriminato che ha ferito almeno nove civili e danneggiato obiettivi civili ed è stato perciò illegittimo.”

Il Laboratorio delle Prove di Crisi di Amnesty International ha verificato video e foto che mostrano l’uso di granate fumogene al fosforo bianco a Dhayra il 16 ottobre.”

[L’organizzazione] ha spiegato che il fosforo bianco è un’arma incendiaria “’progettata principalmente’ per provocare incendi e bruciare le persone, escludendo l’uso delle armi incendiarie per altri scopi, come le cortine fumogene.”

Ha aggiunto che “il fosforo bianco può incendiarsi nuovamente quando esposto all’ossigeno anche settimane dopo che è stato impiegato.”

Le bombe al fosforo sono armi internazionalmente proibite secondo la convenzione di Ginevra del 1980, che stabilisce la proibizione dell’uso del fosforo bianco come arma incendiaria contro gli esseri umani e l’ambiente.

Si è scoperto che Israele ha usato il fosforo bianco anche contro la popolazione civile a Gaza assediata, dove l’occupazione ha ucciso oltre 18.200 palestinesi e ne ha feriti circa 50.000.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




“Allarmante”: i palestinesi accusano il procuratore generale della CPI di parzialità dopo la visita in Israele

Mat Nashed e Zena Al Tahhan

9 dicembre 2023 – Al Jazeera

Sebbene la CPI rappresenti un’alternativa ai tribunali israeliani, nessun mandato di arresto è stato emesso contro politici e comandanti militari israeliani

Cisgiordania occupata – Il 2 dicembre Eman Nafii è stata una delle decine di palestinesi invitati a un incontro con il procuratore generale della Corte Penale Internazionale nella Cisgiordania occupata Karim Khan. In quanto moglie del prigioniero palestinese detenuto da più anni in Israele, Nafii voleva parlare a Khan di suo marito e dell’occupazione israeliana.

Ma Khan ha passato la maggior parte dell’incontro a parlare prima che i suoi collaboratori dessero a Nafii e ad altre vittime palestinesi solo 10 minuti per condividere le loro storie.

Le persone erano arrabbiate. Gli hanno detto: ‘Sei venuto per ascoltarci 10 minuti? Come possiamo venire a parlarti delle nostre vicende in 10 minuti?” dice Nafii ad Al Jazeera.

Una delle donne (tra noi) era di Gaza. Ha perso 30 membri della sua famiglia nella (guerra in corso). Ha gridato: ‘Come possiamo spiegare questo in 10 minuti?’”

Benché alla fine Khan abbia ascoltato le vittime per circa un’ora, i palestinesi temono che egli applichi un doppio standard concentrando il suo impegno contro Hamas e ignorando i gravi crimini che Israele è accusato di aver perpetrato in oltre due mesi di una guerra letale.

Molti sono stati delusi del fatto che Khan abbia accettato un invito israeliano a visitare le comunità e le zone israeliane attaccate da Hamas il 7 ottobre rifiutando invece l’invito dei palestinesi a visitare centinaia di colonie illegali e posti di blocco israeliani e campi di rifugiati nella Cisgiordania occupata.

Durante la sua visita di 3 giorni Israele non ha consentito a Khan di entrare a Gaza, dove dal 7 ottobre Israele ha ucciso più di 17.000 persone ed espulso dalla propria casa la maggioranza dei 2.3 milioni di abitanti dell’enclave assediata.

La maggior parte delle persone uccise sono donne e minori, mentre migliaia di giovani ora sono stati rastrellati, molti denudati e portati in località sconosciute. Alcuni giuristi hanno segnalato che le atrocità di Israele a Gaza potrebbero presto configurare un genocidio.

Secondo politici, vittime e giuristi palestinesi, nonostante le crescenti prove e le continue atrocità, Khan ha evidenziato scarso interesse nel mettere seriamente sotto inchiesta Israele.

Khan si è dimostrato entusiasta di iniziare questa indagine (nei territori occupati) dopo il 7 ottobre. Ciò è allarmante,” afferma Omar Awadallah, che monitora le organizzazioni ONU per i diritti umani come membro dell’Autorità Palestinese, l’entità politica che governa la Cisgiordania.

(L’Autorità Palestinese) gli ha attribuito la competenza retroattivamente a partire dal 2014. (Khan) non può dire di non vedere i crimini commessi (nei territori occupati) dal 2014 fino al 7 ottobre,” ha detto Awadallah ad Al Jazeera.

Un’alternativa possibile?

Il 2 gennaio 2015 lo Stato di Palestina ha firmato lo Statuto di Roma, attribuendo alla CPI la competenza per indagare su atrocità come crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio nella Cisgiordania occupata e a Gaza.

L’iniziativa era stata accolta come una vittoria dalle associazioni per i diritti umani palestinesi e israeliane, che ne avevano abbastanza del sistema giudiziario israeliano perché non puniva politici, militari e coloni israeliani responsabili di crimini come il furto di terre e uccisioni extragiudiziarie nei territori occupati.

Secondo Yesh Din, un’organizzazione israeliana per i diritti umani che si oppone alla colonizzazione illegale in Cisgiordania, i palestinesi vittime di soldati israeliani hanno meno dell’1% di probabilità di ottenere giustizia se presentano una denuncia in Israele.

Secondo un esperto giuridico di Al Mezan, un’organizzazione per i diritti umani che chiede giustizia per Gaza, benché la CPI rappresenti un’alternativa ai tribunali israeliani, nessun mandato di arresto è stato emesso contro politici o militari israeliani per aver commesso crimini di guerra e contro l’umanità a Gaza e in Cisgiordania.

Abbiamo sottoposto parecchie analisi legali e prove all’ufficio del procuratore generale anche prima che Khan venisse eletto” dice ad Al Jazeera l’esperto, che chiede di rimanere anonimo per timore di rappresaglie da parte delle autorità israeliane. “Pensiamo che l’ufficio (di Khan) abbia già sufficienti prove per emettere mandati di arresto contro dirigenti politici e militari israeliani.”

Dopo essere tornato dalla sua visita di tre giorni in Israele e Cisgiordania, Khan ha rilasciato una dichiarazione in cui ha appena accennato alle crescenti prove che coinvolgono Israele nella commissione di crimini contro l’umanità, come quello di apartheid in Cisgiordania e crimini di guerra in Cisgiordania e Gaza.

Khan ha semplicemente affermato che la sua visita non era “di natura investigativa” e ha chiesto a Israele di rispettare i principi giuridici di “distinzione, precauzione e proporzionalità” nella sua campagna di bombardamenti e nell’offensiva di terra in corso a Gaza.

Khan ha utilizzato un tono diverso quando si è riferito agli attacchi di Hamas il 7 ottobre, definendoli “gravi crimini internazionali che sconvolgono le coscienze dell’umanità.”

Il comunicato di Khan ha indignato le vittime palestinesi che aveva incontrato brevemente a Ramallah.

Ciò che ci ha veramente contrariati è stato quello che ha scritto dopo la visita,” afferma Nafii. “Non avrebbe dovuto tracciare un’equivalenza tra la vittima e i suoi assassini. Volevamo che dicesse agli israeliani di smettere di fare quello che stanno facendo ai detenuti e di (fermare) quello che stanno facendo a Gaza.”

Al Jazeera ha inviato alcune domande scritte all’ufficio di Khan che accolgono le critiche palestinesi alla sua visita in Cisgiordania e al suo comunicato. L’ufficio ha risposto inviando ad Al Jazeera alcune precedenti dichiarazioni di Khan senza rispondere ad alcuna delle domande.

Politicamente compromesso?

Nel settembre 2021 Khan aveva affermato che avrebbe dato minore priorità ai crimini commessi dalle forze statunitensi in Afghanistan e concentrato la sua indagine sulle atrocità commesse dai talebani e dallo Stato Islamico ISKP (ISIS-K) nella provincia del Khorasan.

I critici pensano che Khan si sia inchinato alle pressioni politiche da parte degli Stati Uniti, uno Stato che non aderisce allo Statuto di Roma e che aveva sanzionato il predecessore di Khan per aver osato aprire un’indagine contro le truppe americane in Afghanistan.

Ma Khan ha giustificato la propria decisione sostenendo che la Corte ha risorse limitate e che i talebani e lo Stato Islamico hanno commesso crimini più gravi. Ora i palestinesi temono che Khan possa far ricorso a una giustificazione simile per indagare contro Hamas ma non contro Israele.

Non abbiamo ancora visto un procuratore generale che prenda seriamente in considerazione la questione della Palestina, il che dimostra che tutto il sistema delle leggi internazionali è stato fatto a pezzi,” afferma Diana Buttu, una giurista palestinese.

Butto aggiunge che la CPI è di fatto diventata un tribunale che agisce per gli interessi politici di potenti Stati occidentali invece che in base a principi strettamente giuridici.

Cita la decisione di Khan di incriminare il presidente russo Vladimir Putin per crimini di guerra commessi durante l’invasione russa dell’Ucraina.

La CPI è diventata un tribunale politico che è riuscito ad emettere un’incriminazione contro Putin. Ma, dopo otto settimane da quello che è presumibilmente il peggior disastro (a Gaza) per mano dell’uomo, il procuratore generale è rimasto in silenzio ed è venuto (in visita) su richiesta di Israele.”

Nafii è d’accordo e aggiunge che Khan non può sostenere di non sapere o di essere all’oscuro delle atrocità israeliane contro i palestinesi.

Quante persone vuole vedere morte prima di parlare?” dice ad Al Jazeera. “Vorrei che fosse abbastanza coraggioso da dire la verità e dirla pubblicamente.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Nella guerra di Israele a Gaza le redazioni sono diventate campo di battaglia

Somdeep Sen


8 dicembre 2023, Al Jazeera

E nella battaglia su come viene raccontata la guerra da Gaza, i giornalisti sono le vittime principali.

Non molto tempo fa il mondo è stato testimone di immagini fortemente contrastanti.

Da un lato abbiamo visto sui nostri schermi il giornalista televisivo palestinese Salman al-Bashir visibilmente distrutto dal dolore alla notizia della morte del suo collega Mohammad Abu Hatab. Hatab era in onda 30 minuti prima. Tornato a casa Hatab e undici membri della sua famiglia sono stati uccisi in un attacco aereo israeliano.

Al-Bashir era in lacrime: “Non ne possiamo più. Siamo esausti, siamo qui vittime e martiri in attesa della morte, uno dopo l’altro, e nessuno si preoccupa di noi o della immane catastrofe e del crimine a Gaza”. Poi si è tolto l’equipaggiamento protettivo aggiungendo: “Nessuna protezione, nessuna protezione internazionale, nessuna immunità verso nulla, questo equipaggiamento protettivo non ci protegge e nemmeno i caschi”.

Abbiamo visto anche le immagini della CNN, attentamente preparate e selezionate, che seguono l’operazione di terra dell’esercito israeliano a Gaza. Ci è stato detto che la CNN era “integrata” all’esercito. Come condizione per entrare a Gaza con il supporto aereo israeliano, i media sono tenuti a “presentare all’esercito israeliano tutto il materiale e i filmati all’esercito israeliano per la revisione prima della pubblicazione”. La CNN aveva accettato.

Se non era già abbastanza evidente, i media e il giornalismo sono diventati un campo di battaglia fondamentale in questa guerra Israele-Gaza. E nella lotta su come viene raccontata la guerra i giornalisti sono stati le vittime principali.

Il 3 dicembre Shima El-Gazzar, giornalista palestinese della rete Almajedat, è stata uccisa insieme ai suoi familiari in un attacco aereo israeliano sulla città di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.

Il 23 novembre un attacco aereo sulla sua casa nel campo profughi di Nuseirat, al centro di Gaza, è costato la vita al giornalista Muhammad Moin Ayyash e a circa 20 membri della sua famiglia.

Il 19 novembre Bilal Jadallah, direttore di Press House-Palestine, un’organizzazione non-profit che sostiene lo sviluppo dei media palestinesi indipendenti, è stato ucciso da un attacco aereo israeliano contro la sua auto.

Il 7 novembre è stato riferito che il giornalista palestinese Mohammad Abu Hasira è stato ucciso insieme a 42 membri della sua famiglia in un attacco aereo israeliano sulla sua casa vicino a Gaza City.

Solo due giorni prima i media avevano riportato che Mohamed al-Jaja, un altro operatore dei media per Press House-Palestine, era stato ucciso insieme a sua moglie e due figli in un attacco aereo nel nord di Gaza.

Il 30 ottobre anche Nazmi al-Nadim, vicedirettore delle finanze e dell’amministrazione della TV palestinese, è stato ucciso in un attacco aereo insieme ai suoi familiari.

Il 26 ottobre, il mondo ha visto il capo dell’ufficio arabo di Al Jazeera Wael Dahdouh seppellire “moglie, figlio, figlia e nipote” uccisi in un attacco aereo sul campo di Nuseirat. In una dichiarazione l’esercito israeliano ha affermato che stava prendendo di mira “infrastrutture terroristiche nell’area”.

Il 13 ottobre Issam Abdallah, eminente giornalista di Reuters– che indossava indumenti protettivi con sopra la dicitura “stampa” – è stato ucciso da un razzo israeliano lanciato attraverso il confine tra Israele e Libano.

In totale, secondo il Committee to Protect Journalists (CPJ) [organizzazione indipendente e senza scopo di lucro che promuove la libertà di stampa in tutto il mondo, ndt.] nel periodo dei due mesi tra il 7 ottobre e il 6 dicembre dentro e intorno alla Striscia di Gaza sono stati uccisi 63 giornalisti e operatori dei media, per lo più palestinesi. Jonathan Dagher, responsabile dell’ufficio Medio Oriente di Reporter Senza Frontiere, ha dichiarato: “Ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza è una tragedia per il giornalismo… La situazione è drammatica. Chiediamo la protezione dei giornalisti nella Striscia e che sia consentito l’ingresso nel territorio a giornalisti stranieri che possano lavorare liberamente”.

Tuttavia la battaglia non riguarda solo chi potrà riferire di questa guerra. È anche una battaglia su come viene raccontata la guerra. Sono importanti le parole, le frasi e le immagini utilizzate in onda per descrivere gli eventi sul campo.

Durante una conversazione John Collins, professore di studi globali alla St Lawrence University e direttore del quotidiano indipendente Weave News, mi diceva: “Le parole costruiscono per noi la realtà. In tempo di guerra le parole usate dai giornalisti dovrebbero aiutarci a chiarire cosa sta succedendo e perché. Ma troppo spesso quelle parole servono a distrarci, a fuorviarci o a proteggere i potenti dalle loro responsabilità”.

Questo giornalismo fuorviante avviene a un livello molto elementare nel modo in cui le morti palestinesi vengono descritte nelle notizie. Mentre si dice che i palestinesi sono “morti”, gli israeliani vengono “uccisi”. La seconda formulazione riconosce un’azione attiva di uccisione da parte di qualcuno, ma la prima è passiva. Come a dire che nessuno è responsabile delle morti palestinesi o suggerire – come ha fatto il portavoce militare israeliano tenente colonnello Richard Hecht in seguito all’attacco al campo profughi di Jabalia – che le morti palestinesi siano semplicemente un’inevitabile “tragedia di guerra”.

Certamente una minimizzazione del bilancio delle vittime palestinesi è stata fatta anche dal presidente Biden quando ha messo in dubbio l’accuratezza dei numeri, visto che il Ministero della Sanità a Gaza è gestito da Hamas. Ha detto: “Sono sicuro che degli innocenti siano stati uccisi, ed è il prezzo da pagare nell’intraprendere una guerra… Ma non credo al numero che i palestinesi stanno dando”. Tale accusa ha effettivamente piantato il seme del dubbio sull’effettiva gravità della sofferenza palestinese, con diversi organi di stampa che hanno valutato e riportato il modo in cui il Ministero della Salute ha calcolato le vittime – questo mentre le agenzie umanitarie internazionali insistono che i numeri del ministero sono effettivamente affidabili.

Anche il modo in cui i media inquadrano il “perché”, il “come”, e il “cosa accadrà dopo” di questa guerra in corso, influenza l’opinione pubblica. In qualità di studioso di disinformazione e propaganda Nicholas Rabb ha scoperto che “la retorica fuorviante e la copertura incessantemente unilaterale” da parte dei media statunitensi e israeliani ha consentito la “demonizzazione acritica dei palestinesi”.

Ciò include i media di destra negli Stati Uniti che seminano allarme su un’imminente “Giornata globale della Jihad” indetta da Hamas. Un funzionario della Sicurezza Nazionale ha affermato che non c’erano prove credibili di una minaccia imminente sul suolo americano. Tuttavia, dopo aver ascoltato un discorso conservatore alla radio ed essersi allarmato per un imminente “Giorno della Jihad”, un uomo di 71 anni ha aggredito la sua inquilina, una donna palestinese americana, prima di pugnalarne a morte il figlio di sei anni.

Il gruppo Honest Reporting, che monitora e denuncia i pregiudizi anti-israeliani nei media, ha anche sollevato questioni etiche sui fotoreporter residenti a Gaza che lavorano con aziende del calibro di Reuters, Associated Press, CNN e New York Times e su come siano riusciti a catturare immagini dalle aree di confine forzate il 7 ottobre. Si chiedeva: “Cosa stavano facendo lì così presto in quello che normalmente sarebbe stato un tranquillo sabato mattina? È stato coordinato con Hamas? Le rispettabili agenzie di stampa che hanno pubblicato le loro foto avevano approvato la loro presenza in territorio nemico, insieme agli infiltrati terroristi?”

Mentre tutte le agenzie accusate negavano con veemenza le accuse secondo cui fossero a conoscenza dell’attacco, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha cavalcato la cosa e ha detto: “Questi giornalisti sono complici di crimini contro l’umanità, le loro azioni sono contrarie all’etica professionale”.

Indignati per gli attacchi ai giornalisti, al giornalismo indipendente e alla rappresentazione della guerra da parte dei media, 750 giornalisti hanno firmato una lettera aperta chiedendo la protezione dei giornalisti. La lettera incoraggia inoltre i giornalisti a “dire tutta la verità senza timore o favoritismi” e a utilizzare “termini precisi e ben definiti dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani” come “apartheid”, “pulizia etnica” e “genocidio” nei servizi giornalistici. La lettera si conclude dicendo: “Riconoscere che distorcere le nostre parole per nascondere prove di crimini di guerra o di oppressione dei palestinesi da parte di Israele è una negligenza giornalistica e un’abdicazione alla limpidezza morale. L’urgenza del momento non può essere sottovalutata. È necessario cambiare rotta”.

Considerando la crisi umanitaria a Gaza pochi possono negare l’urgenza di questo momento. Tuttavia, solo il tempo dirà se ciò si tradurrà nel riconoscimento dell’importanza di proteggere i giornalisti e il giornalismo in un momento di crisi estrema.

Somdeep Sen è professore associato di Studi sullo Sviluppo Internazionale presso l’Università di Roskilde in Danimarca. È autore di Decolonizing Palestine: Hamas between the Anticolonial and the Postcolonial (Decolonizzare la Palestina: Hamas tra anticoloniale e postcoloniale, Cornell University Press, 2020).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La Palestina è il genocidio che noi, popolo ebraico, possiamo fermare

Amanda Gelender

24 novemebre 2023 – Middle East Eye

Non possiamo consentire che l’anima morale dell’ebraismo muoia a causa del nostro silenzio collettivo sulla guerra genocida contro i palestinesi a Gaza

Mi siedo per scrivere questa lettera d’amore al mio amato popolo ebraico, mentre un genocidio si svolge sul mio schermo.

Questa lettera sgorga dal mio cuore verso i vostri. È un appello all’azione per risollevarci in solidarietà con la Palestina. Ho tanta profonda tenerezza per noi, la nostra storia e le orgogliose tradizioni che abbiamo mantenuto attraverso secoli di indicibili ingiustizie.

Sono cresciuta come alcuni di voi andando alla sinagoga in una comunità ebraica progressista americana. Celebrare e sostenere Israele era parte di quello che significava essere ebrea dal punto di vista culturale e religioso. Quando sono arrivata per la prima volta a comprendere quanto stava realmente succedendo nei territori palestinesi occupati avevo 18 anni ed ero iscritta al primo anno di college. Una coetanea ebrea mi parlò dei soprusi che Israele commette nel nostro nome.

Non sono orgogliosa di ammettere che il fatto che lei fosse ebrea fu probabilmente la sola ragione per cui le diedi ascolto: mi era stato insegnato dalla mia comunità che solo il popolo ebraico può realmente capire quanto Israele sia importante per la nostra sicurezza e il nostro benessere. Ripensandoci, vorrei aver creduto prima ai palestinesi.

I palestinesi hanno autorità sulla loro lotta per la libertà. Ma l’indottrinamento e il timore instillatimi in quanto bambina ebrea era troppo forte da superare finché la bolla del sionismo è scoppiata. Quando sono arrivata ad apprendere per la prima volta la dimensione della continua brutalità di Israele contro il popolo palestinese ho stentato a crederci. Gli adulti ebrei della mia famiglia mi parlavano di giustizia, diritti umani e dell’obbligo morale degli ebrei di coltivare il cambiamento sociale e di “migliorare il mondo” (tikkun olam). 

Com’è possibile che il mio popolo possa omettere la verità riguardo all’apartheid e all’occupazione israeliane? Mi è stato insegnato che Israele venne fondato su un pezzo di terra vuoto, non che le bande terroristiche sioniste fecero irruzione nei villaggi uccidendo 15.000 palestinesi e cacciandone altri 750.000 durante la Nakba [la pulizia etnica del 1947-49, ndt.]. Semplicemente non ne sapevano niente, come me?

L’inganno sionista

La posizione secondo cui “chiunque critichi Israele è antisemita” è diventata sempre più debole di fronte alla crescente lista di crimini di guerra commessi da Israele. Se tutto quello che mi era stato detto riguardo a Israele non era vero, cos’altro era falso?

E cosa significa continuare a far parte della comunità ebraica, dato che di fatto tutti i miei coetanei ebrei sono ancora tacitamente o attivamente coinvolti nella menzogna del nazionalismo sionista?

Una volta svanita la negazione, è arrivata la rabbia. Persone di cui ci fidavamo ci avevano mentito; siamo stati ingannati in modo che sostenessimo uno Stato di apartheid che maltratta minorenni e tortura senza pietà nel nostro nome. Giovani ebrei, compresa me, sono stati coinvolti in un continuo genocidio contro il popolo palestinese durato 75 anni.

Ci sono state terribili, inimmaginabili violazioni dei diritti umani commesse con la scusa di proteggere le vite degli ebrei, quando in realtà una tranquilla pace coloniale è possibile solo attraverso la continua repressione dei palestinesi. Non c’è nessuna sicurezza per chi è sotto occupazione.

Ci è stato insegnato che Israele rappresenta una speranza di rifugio ritagliato per gli ebrei dopo l’Olocausto, qualcosa di prezioso che dobbiamo proteggere a ogni costo. Era “l’unica Nazione per il popolo ebraico”, la nostra patria, il nostro retaggio: Israele.

Ci è stato insegnato [che abbiamo] un intrinseco diritto su un pezzo di terra dall’altra parte del mondo. Israele era una seconda, possibile patria per noi, ma la storia guarda caso ometteva il fatto che la Palestina è l’unica patria per i palestinesi, che hanno posseduto la terra per generazioni.

Israele continua a negare ai palestinesi il diritto di visitarla e il diritto inalienabile di tornare inpatria, ma in quanto ebrea nata in California posso visitarla quando voglio e Israele mi pagherà persino per andarci a vivere su terra rubata ai palestinesi.

Non ci è stato insegnato che Israele è totalmente finanziato dagli USA e funge da avamposto strategico dell’Occidente imperialista per l’estrazione di materie prime, la sperimentazione di armi, l’addestramento della polizia statunitense e altro. Nessuno mi ha detto che la nascita di Israele ha richiesto la morte di palestinesi, una pulizia etnica opportunamente nascosta sotto il tappeto in modo che il popolo ebraico possa avere qualcosa di scintillante e pulito; che è una Nazione militarizzata fondata su mucchi di corpi di palestinesi bruciati, una patria ebraica costruita su fosse comuni di nativi.

Lotta per la libertà contro la colonizzazione

La storia di Israele non è nuova. È ben nota ai popoli colonizzati in tutto il mondo. Perpetua lo stesso suprematismo bianco, la menzogna colonialista che i coloni arrivati all’isola della Tortuga (nel Nord America) dissero a se stessi per giustificare il genocidio dei popoli indigeni: in nome del progresso, della modernità e della democrazia il colonizzatore deve demolire, uccidere e distruggere.

In base a questa menzogna il colonizzatore deve saccheggiare la terra come destino manifesto, dall’Atlantico al Pacifico, e uccidendo violentemente quanti più “terroristi nativi selvaggi” possibile per espandere le conquiste territoriali e costruire case sicure per le famiglie di coloni.

La Palestina non è impegnata in una guerra santa, è una lotta per la libertà dal colonialismo. I palestinesi non hanno scelto il popolo ebraico perché colonizzasse la loro terra e hanno il diritto morale e giuridico di resistere all’occupazione indipendentemente da chi sia l’occupante. La sicurezza degli ebrei è destinata al fallimento finché continuerà la violenta occupazione della Palestina. La nostra liberazione è strettamente collegata a ciò.

Siamo in un momento senza precedenti nella storia. Si sta svolgendo un genocidio davanti ai nostri occhi, mentre corpi sono ammassati in fosse comuni fuori dagli ospedali bombardati e dai campi profughi. Un movimento di solidarietà globale con la Palestina ha penetrato il velo di benessere occidentale, un’evasione dalla prigione dell’assedio.

E mentre l’esercito israeliano appoggiato dagli USA continua a far piovere bombe sul popolo di Gaza assediato, molti del mio popolo ebraico stanno seduti a guardare, o lo stanno appoggiando attivamente.

Con il nostro silenzio noi popolo ebraico nel mondo siamo co-firmatari di questo genocidio. Molti hanno considerato che è “troppo complicato”, con la minaccia di essere allontanati da amici, famiglia e colleghi. Non vogliamo rischiare conseguenze concrete.

Deludente asimmetria

Ma famiglie palestinesi vengono uccise nel sonno, brutalizzate con il fosforo bianco incendiario, prese di mira da cecchini nei reparti di maternità degli ospedali, fatti morire di fame e disidratati, senza acqua potabile e obbligati a marce della morte. Stanno estraendo morti, bambini insanguinati dalle polverose rovine di macerie bombardate.

Eppure i miei coetanei ebrei in Occidente dicono che sono loro a temere un genocidio. Questa deludente asimmetria deve finire, in modo che possiamo concentrare risorse e attenzione verso quelli che affrontano una minaccia concreta di eliminazione in questo massacro della dignità umana assolutamente evitabile.

La richiesta dei palestinesi in questo momento è chiara: cessate il fuoco subito. Fine dell’assedio contro Gaza e dell’occupazione illegale. Rispetto del diritto al ritorno. I palestinesi ci stanno chiedendo di testimoniare il loro genocidio, fare pressione sui nostri rappresentanti per un immediato cessate il fuoco e boicottare quanti stanno traendo profitto dall’occupazione illegale. Ogni giorno senza cessate il fuoco il numero di morti aumenta e Israele cancella altre famiglie dall’anagrafe.

La Palestina è il genocidio che il popolo ebraico può fermare. Non abbiamo potuto intervenire per bloccare la morte dei nostri predecessori nei campi della morte, ma possiamo e dobbiamo fermare questo genocidio dal continuare un giorno in più. Non sprechiamo il nostro urgente e sacro dovere sfruttando la sofferenza degli ebrei come scudo e clava per la violenza contro i palestinesi.

Se vi considerate persone ebree con una coscienza comprenderete che questo massacro non ha una giustificazione morale o giuridica. Questo è il momento di parlare. I palestinesi non possono aspettare che la storia li risarcisca, perché, mentre scrivo questa lettera di amore e rabbia a voi, miei fratelli ebrei, i bombardamenti aerei continuano a colpirli.

Non possiamo consentire che l’anima morale dell’ebraismo perisca con il suono del nostro silenzio collettivo sul genocidio. La nostra voce sia una preghiera per i nostri antenati ebrei e una benedizione per i nostri discendenti dicendo una volta per tutte: mai più.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Amanda Gelender è una scrittrice ebrea americana antisionista che vive in Olanda. Fa parte del movimento di solidarietà con i palestinesi dal 2006.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)