Gaza: il carcere israeliano con un milione di minori è in emergenza riguardante la salute mentale

Omar Aziz

19 agosto 2022 – Palestine Chronicle

“Far del male durante un conflitto a qualsiasi bambino è fortemente inquietante”, ha affermato giovedì scorso Michelle Bachelet, l’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, esprimendo allarme per il numero di minori palestinesi uccisi questo mese da Israele.

“L’uccisione e la mutilazione di così tanti minori durante questo anno è inaccettabile“, ha continuato.

Quindi cosa dire del fatto che Israele effettua ogni anno attacchi aerei con una tecnologia militare industrializzata all’avanguardia su un’enclave assediata composta per lo più da minori?

Il diritto umanitario internazionale è chiaro. È proibito lanciare un attacco che potrebbe uccidere o ferire accidentalmente civili, o danneggiare strutture civili, in modo sproporzionato rispetto ai concreti ed espliciti obiettivi militari. Tali attacchi devono cessare,” ha detto Bachelet.

Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese il 47% dei 2,2 milioni di abitanti di Gaza sono minorenni, altri collocano la percentuale oltre il 50%.

E la popolazione di Gaza è notoriamente ammassata soprattutto all’interno degli otto campi profughi ufficialmente riconosciuti dall’UNRWA, che sono considerati alcuni dei luoghi più densamente popolati al mondo. Eppure ognuno è ancora considerato un obiettivo legittimo da parte degli aerei da guerra israeliani.

Con questa consapevolezza ciò che diventa inequivocabilmente evidente è che ogni bomba che Israele sgancia sull’enclave assediata, crimine di guerra dopo crimine di guerra, viene sganciata con la consapevolezza che i minori sono le probabili vittime.

Che si tratti di minorenni massacrati come “danni collaterali” dei cosiddetti “attacchi di precisione mirati” o colpiti semplicemente per essere palestinesi, proprio come i cinque palestinesi uccisi il 7 agosto da un attacco missilistico mentre si trovavano sulla tomba del nonno nel cimitero di Al-Falluja, a est di Jabalya. Un crimine che l’esercito israeliano ha inizialmente negato di aver commesso, una bugia che le pubblicazioni dei principali organi di informazione occidentali hanno volutamente ripetuto a pappagallo senza esitazione nonostante la comprovata reputazione di Israele di diffondere bugie e disinformazione.

 Minori che non hanno altra scelta che subire ogni ferita inferta dallo sconvolgente potere distruttivo di Israele mentre si trovano imprigionati in questa minuscola striscia di terra.

Le cifre non sono più scioccanti, ma da incubo, distopiche. Una situazione difficilmente credibile per coloro che non hanno assistito in prima persona alla realtà o prestato attenzione alle testimonianze palestinesi.

L’accademico palestinese-americano Yousef Munayyer afferma che è ora di smettere di chiamare Gaza una “prigione a cielo aperto”, ma quello che è veramente: una camera di tortura.

Immaginate un po’: un ambiente progettato con cura per incubare e infliggere traumi psicologici, sofferenza fisica e privazione economica ha prodotto proprio questo. Che sorpresa.

Secondo Save the Children, oggi l’80% dei minorenni di Gaza dichiara di vivere con depressione, dolore e paura.

Nel corso dell’attacco a Gaza del 2014 Israele ha ucciso 547 minorenni palestinesi in sette settimane. Nel maggio 2021 ne ha ucciso 67. E questo mese a Gaza sono stati uccisi almeno 17 minori.

Ma queste non sono le uniche vittime di quell’età a Gaza.

In questo momento a Gaza c’è un milione di minori brutalizzati e traumatizzati da almeno 29 aggressioni militari dal 2003, ognuno con una voce da ascoltare, con una storia da raccontare e una vita che merita molto di più.

Gli ultimi tre giorni dell’attacco sono stati davvero tragici per me. Ho avuto molti flashback delle aggressioni vissute in precedenza.

Mi hanno fatto pensare molto a dove in realtà vivo, alla prigione in cui mi trovo, sapendo che potrei morire letteralmente da un momento all’altro mentre parlo con qualcuno, mentre sono seduto, mentre guardo la TV, mentre penso a qualcosa, perché questo è quello che è successo agli altri ragazzi”.

Ma mentre i minori palestinesi cercavano di riadattarsi alla “normalità” dell’assedio e dell’impoverimento in corso dopo gli attacchi, gli esperti militari israeliani si congratulavano via etere con il primo ministro israeliano Yair Lapid per la sua operazione “pulita”.

Lunedì 9 agosto, parlando alla stazione radio FM del quotidiano Maariv [giornale popolare israeliano, ndt.], il generale Amos Yadlin, ex capo della direzione dell’intelligence militare israeliana ed esperto ricercatore di Harvard, si rallegrava:

È stato un attacco ben riuscito. È stato davvero pulito, abbiamo colpito duramente l’ala militare di Hamas (in seguito si è corretto dicendo che intendeva la Jihad islamica), abbiamo colpito marginalmente degli innocenti e non militanti, neanche un israeliano è stato colpito, ritengo che sia un risultato eccezionale” (in ebraico).

Nel frattempo il giornalista di Haaretz [quotidiano israeliano progressista, ndt.] Amos Harel e Neri Zilber dell’Israel Policy Forum [organizzazione ebraica americana che lavora per una soluzione negoziata a due Stati al conflitto israelo-palestinese, ndt.] in un podcast di un’ora di valutazione degli attacchi del 10 agosto non hanno menzionato le morti di civili palestinesi, elogiando invece i “millimetrici” attacchi di Israele.

Era già noto in quel momento che almeno 15 minori palestinesi erano stati uccisi, mettendo in luce ciò che i palestinesi affermano da decenni: la cancellazione della Palestina e la disumanizzazione dei minori palestinesi sono le fondamenta grottesche su cui fioriscono l’apartheid e la colonizzazione israeliane.

Offrendo il punto di vista di una madre sull’educazione dei figli a Gaza, la scrittrice palestinese e madre di tre figli Rana Shubair racconta a Palestine Deep Dive [Approfondimenti sulla Palestina, rivista on-line palestinese, ndt.]:

Ho cercato di proteggere (i miei figli) dal vedere le immagini in TV, ma l’ambiente in cui vivono i nostri figli non è censurato, il che significa che ovunque andranno vedranno le immagini dei martiri.

Nell’ultima aggressione (del maggio 2021) una delle amiche di mia figlia che si trovava nella sua scuola è stata uccisa. Non credo che le mie figlie l’abbiano mai davvero dimenticata perché una di loro mi dice che la vede sempre nei suoi sogni, ed è molto difficile per loro afferrare semplicemente il concetto o la nozione di morte e tutto il resto. Tutti i bambini qui a Gaza sono molto eroici, va detto, perché sono più maturi della loro età e sono stati costretti ad assorbire cose di cui i bambini di altre parti del mondo non sanno nulla. Chiedete a qualsiasi bambino qui, vi dirà che tipo di aereo ci sta sorvolando, che si tratti di un drone o di un F-16. Conoscono tutta questa terminologia di guerra, ma come genitori, cerchiamo di trovare, credo, i modi giusti per affrontare il trauma dei nostri figli.

Dopo ogni aggressione e dopo ogni mese del continuo rigido assedio di Israele e della conseguente deprivazione economica, la salute mentale dei minori di Gaza continua inevitabilmente a deteriorarsi.

Ad esempio, nel 2018 il 60% di essi riferiva di sentirsi meno al sicuro lontano dai propri genitori ma, secondo Save the Children, poco prima dei recenti attacchi questa cifra ha raggiunto il 90%.

Nel 2018 il 50% dei minorenni riferiva di avere paura e il 55% di provare sentimenti di dolore e pochi mesi prima di questo attacco il 78% affermava di sentirsi spaventato e l’84% di provare sentimenti di dolore.

Si può solo immaginare come si sentono oggi.

Nel corso di una trasmissione di Palestine Deep Dive, il Dr. Yasser Abu Jamei, Direttore del Programma di salute mentale della comunità di Gaza, ha sottolineato la natura persistente degli eventi traumatici che pone un limite all’applicabilità [a Gaza, ndt.] del [termine ndt.] disturbo nel modo in cui viene inteso dalla psichiatria occidentale, come “Disturbo da stress post-traumatico”, rendendo così difficile la vera e propria guarigione.

In primo luogo, la condizione pre-traumatica non consiste in una vita facile, tranquilla, ecc. No, si tratta di un assedio, di un’occupazione, con più di due terzi della popolazione di Gaza nella situazione di rifugiati. E parliamo di decenni. (L’inizio) di ciò non risale solo al 1967, arriva anche al 1948. Ma oltre a questo, vivi sotto assedio, e non solo, ma all’interno di questo assedio sei soggetto ad operazioni su larga scala … e come se ciò non bastasse avverti continuamente dei segnali, cose che ti ricordano gli eventi traumatici che accadono intorno a te. Ascolti il ​​telegiornale e vedi come sia critica la situazione. Guardi il cielo e senti di continuo i rumori intensi dei droni e tutto ciò ti fa tornare alla mente i brutti ricordi.

Poi, nel periodo successivo… non c’è un vero ritorno alla vita normale. C’è di nuovo la vita come al solito sotto l’occupazione, sotto i droni, sotto il blocco ecc. Direi che la tradizionale nozione occidentale di disturbo da stress post-traumatico non è applicabile ad un posto come Gaza, ma direi che la situazione a Gaza è più grave di così. Non possiamo davvero descriverlo semplicemente come un disturbo da stress post-traumatico nel significato comune del termine. No, è molto di più“.

Nel 1991 Israele ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, che afferma che tutti i minorenni hanno i diritti fondamentali alla vita, alla sopravvivenza, allo sviluppo, alla protezione dalla violenza e a un’istruzione che consenta loro di realizzare il proprio potenziale.

Eppure, sotto il suo [regime di] apartheid Israele viola impunemente questa convenzione in tutta la Palestina. Nello stesso Israele le scuole palestinesi o arabe ricevono spesso un finanziamento per ogni alunno quasi sei volte inferiore rispetto alle scuole per studenti ebrei poiché non possono essere ammesse al finanziamento da parte dell’istituzione sionista. Successivamente subiscono discriminazioni nel mercato del lavoro e sono anche soggetti alle 65 leggi razziste di Israele.

In Cisgiordania i minorenni palestinesi sono soggetti a leggi e pratiche discriminatorie. Viene loro regolarmente negato il diritto all’istruzione nel momento in cui vengono costretti ad aspettare ai posti di blocco e le loro lezioni possono essere interrotte in qualsiasi momento dall’esercito israeliano.

Secondo [l’Associazione] Defense for Children International, in Palestina ogni anno circa 500-700 minorenni palestinesi, alcuni dei quali di appena 12 anni, sono detenuti e perseguiti nei tribunali militari israeliani illegali. L’accusa più comune contro di loro è il lancio di pietre.

Il disprezzo di Israele per i diritti più fondamentali dei bambini palestinesi, incluso il diritto stesso alla vita, rivela il proposito di Israele di raggiungere una pace futura per ciò che è veramente, una palese bugia.

Ma non solo,: il travolgente silenzio della comunità internazionale mostra che la disumanizzazione dei bambini palestinesi si estende ben oltre l’apartheid di Stato di Israele.

All’indomani dell’ultimo attacco il presidente Biden ha elogiato Israele per aver “difeso il suo popolo” e i suoi sistemi militari per “aver salvato innumerevoli vite”.

Nel frattempo, questa settimana, i politici conservatori britannici in competizione per diventare il prossimo Primo Ministro, Rishi Sunak e Liz Truss, sembrano entrambi favorevoli al trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme.

Da parte dell’Occidente continua ad essere all’ordine del giorno l’istigazione in luogo delle sanzioni, senza che nulla venga proposto per scoraggiare, ogniqualvolta si verifichino, ulteriori brutali bombardamenti da parte di Israele. Le armi continuano ad affluire e la protezione diplomatica continua a fare scudo contro la giustizia.

Eppure i minori palestinesi, che saranno gli artefici di un futuro veramente stabile, dimostrano continuamente di desiderare ardentemente una vita migliore, libertà, e di niente di meno che una totale liberazione.

Con tassi di alfabetizzazione tra i più elevati a livello mondiale, formazione di compagnie di danza, società di parkour e produzione di artisti di talento come l’astro nascente rapper tredicenne MC Abdel, i minori palestinesi a Gaza stanno offrendo insegnamenti di vita al resto del mondo mentre camminano tra le macerie:

Mi piace sempre sottolineare quel lato positivo di noi che viviamo in una prigione a cielo aperto. Stiamo facendo del nostro meglio qui. Come ho detto, non abbiamo molte opportunità, ma dall’altra parte stiamo cercando di tirar fuori quelle opportunità da tutte le macerie tra cui viviamo da più di 15 anni”, dice Hind a Palestine Deep Dive.

Anche il dottor Yasser Abu Jamei illustra in maniera limpida su Palestine Deep Dive questa verità, raccontando come ha visto i bambini di Gaza indossare con orgoglio gli abiti dell’Eid [Eid Al Fitr, letteralmente “festa della rottura del digiuno”, che segna la fine del Ramadan, ndt.] che non erano stati in grado di indossare nel maggio 2021 a causa degli attacchi di Israele:

Era un abbinamento paradossale. Guidi la tua macchina o cammini per strada, vedi da un lato le macerie, le rovine e le case distrutte, e dall’altro bambini molto ben vestiti che, in mezzo alle macerie, cercano di andare a scuola e ottenere la licenza media ”.

Naturalmente, l’emergenza riguardo alla salute mentale a Gaza e le continue ingiustizie del brutale apartheid e della colonizzazione di Israele non si limitano ai minorenni, ma colpiscono i palestinesi di tutte le età.

Tuttavia ultimamente ciò che è diventato del tutto chiaro è che ogni bomba sganciata da Israele e ogni giorno che l’assedio di Gaza da parte di Israele continua, costituisceono un’ingiustizia intollerabile contro coloro che sono universalmente considerati i più innocenti: i minorenni.

Sotto l’assedio di Israele Gaza continua ad essere una prigione di un milione di minorenni e attendiamo da troppo tempo che i governi di tutto l’Occidente riconoscano finalmente questa verità per porre fine all’impunità di Israele, e che le istituzioni internazionali, comprese le Nazioni Unite, agiscano senza esitazione contro questa situazione.

Omar Aziz è Direttore Associato di Palestine Deep Dive. Ha scritto questo articolo per The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Come Ibrahim al-Nabulsi è diventato il “Leone di Nablus”

Mariam Barghouti

15 agosto 2022 Mondoweiss

Ibrahim Al-Nabulsi ha dimostrato che è possibile riaccendere lo spirito di resistenza di una nuova generazione. Ecco perché Israele lo ha ucciso.

Huda, o Um Eyad, madre di Ibrahim al-Nabulsi, combattente della resistenza ucciso a 18 anni, siede accanto alla sua unica figlia e unica sorella di Ibrahim, Shahd al-Nabulsi, 23 anni.

L’abito blu scuro di Shahd contrasta con il suo pulito velo viola. C’è una macchia sotto le sue mani, sul lato sinistro dell’abito. Leggermente più scura del resto del vestito, sembra fuori luogo. Um Eyad cattura il mio sguardo. «È il sangue di Ibrahim, questa macchia», dice. Proprio il giorno prima, il 9 agosto, Um Eyad ha perso il suo terzogenito, Ibrahim, che non avrebbe più compiuto i 19 anni in ottobre.

Nel pomeriggio, il cimitero Gharbiyyeh di Khallet al-Amoud a Nablus si è appesantito di tre corpi. Ibrahim al-Nabulsi, Hussein Taha e Islam Subuh vi riposano in pace. I tre sono stati uccisi il 9 agosto nella città vecchia di Nablus, nella Cisgiordania settentrionale occupata, in un’operazione militare israeliana in coordinamento con l’intelligence israeliana.

Um Eyad è ora facilmente riconoscibile – i social media palestinesi sono stati inondati dalla sua immagine che fendeva la folla di migliaia per lo più uomini che assistitevano al funerale dei martiri, portando il cadavere del “Leone di Nablus“.

Era un quadro diverso dalle immagini comuni di uomini che trasportano i morti. Non lo faceva perché era il corpo di una nuova icona palestinese – era suo figlio.

Il 10 agosto, all’interno della piccola sala di comunità nel quartiere Khallet Al-Amoud della Città Vecchia di Nablus, le donne sedevano in abiti neri a contrasto con le luminose sciarpe bianche sulle teste. Le spalle coperte da kuffiyeh palestinesi bianche e nere rendevano più facile a coloro che porgevano le condoglianze distinguerle dal resto della folla di donne in lutto.

Il più giovane dei martiri, Hussein Taha, aveva solo 16 anni quando fu ucciso. Sua madre e sua sorella sedevano accanto a Um Eyad, in lacrime e sorrisi stentati nel riconoscere gli ospiti che si radunavano. Anche il maggiore dei martiri, Islam Subuh, 32 anni, è stato ucciso nella battaglia, un evento che segna ora una nuova era della resistenza armata palestinese.

La stanza era piena di madri, mogli e sorelle di martiri palestinesi uccisi dal regime coloniale. Sulla scena continuavano ad arrivare autobus con le famiglie dei martiri di Jenin e altre zone della Cisgiordania. Le giovani donne della piccola città di Khallet al-Amoud si muovevano rapidamente per servire caffè – una tradizione del lutto in Palestina – e acqua per la sete delle persone in lutto col caldo.

“Gli avevo comprato un cappellino”, ha detto a Mondoweiss Shahd, 23 anni, il giorno dopo l’assassinio di suo fratello Ibrahim nel municipio a poche centinaia di metri dalla casa di famiglia. Trattenendo le lacrime, Shahd si dispera di non aver potuto darglielo. Fa un respiro e sussurra una preghiera, “al-hamdulilah [lode a Dio]”, un’espressione di umiltà e gratitudine per il proprio destino, comunemente ripetuta sia nei momenti di difficoltà che di gioia.

“Era così amato nella comunità”, ha detto a Mondoweiss Haifa, la zia di al-Nabulsi, 41 anni. “Era anche così ribelle e tenace. È cresciuto in queste strade, non sono strade facili in cui crescere, specialmente nei primi anni di infanzia”.

Ibrahim è nato nel 2003, nel pieno della Seconda Intifada, quando la città natale di Nablus era costantemente sotto assedio da parte dell’esercito israeliano.

Dalla sua nascita, ogni anno sempre più bambini palestinesi come lui venivano uccisi e arrestati dall’esercito israeliano. Proprio l’anno scorso, il 2021, è stato documentato come il più letale per i bambini palestinesi dal 2014, per via degli attacchi israeliani da parte di coloni e militari.

Incastrato tra le antiche mura

Nella Città Vecchia, ogni angolo reca le tracce di una battaglia che i palestinesi hanno combattuto contro i coloni o l’esercito israeliano. E se no le vecchie mura sono segnate da pietre più recenti, di ristrutturazioni seguite alle parziali distruzioni della città durante le invasioni.

La città vecchia di Nablus è piena di manifesti di palestinesi uccisi, da combattenti della resistenza a bambini trattenuti ai posti di blocco. Poster appena stampati con foto di al-Nabulsi e dei suoi compagni caduti decorano le pareti. Alcuni striscioni sembrano più vecchi dello stesso al-Nabulsi, ma in agosto il quartiere di Faqous nella Città Vecchia si è riempito della storia del “Leone di Nablus” palestinese.

“Fammi una foto, fammi una foto”, dice uno dei bambini, chiamandomi mentre mi dirigo verso il quartiere di Al-Faqous, alla ricerca delle tracce dell’assalto israeliano del 9 agosto.

Il bambino, con il suo cane Luka, posa con gli amici. Mentre il fotografo scatta la foto, noto una collana sul collo del ragazzo, con la foto di un altro ragazzo. La collana somiglia ad altre che avevo visto prima sul collo delle donne nella sala del lutto, immagini di familiari uccisi o imprigionati.

Gli ho chiesto chi era nella foto. «Un mio amico », dice con un sorriso timido.

Subito ho pensato che fosse suo padre, suo fratello o suo zio, perché nella cultura palestinese queste collane non servono semplicemente per commemorazione o esibizione, ma sono autentiche testimonianze della perdita di una persona cara per mano dell’occupazione. Non mi ero resa conto che la foto fosse di un altro ragazzo.

L’amico del ragazzo era Ghaith Yamin, il sedicenne ucciso a Nablus con un colpo di arma da fuoco alla testa mentre si trovava sul tetto di casa sua, vicino alla Tomba di Giacobbe, quando lo scorso 24 maggio l’esercito israeliano ha fatto irruzione nella città.

In qualche modo ho capito l’ostilità di cui parlava Haifa solo poche ore prima ricordando l’infanzia di al-Nabulsi. La continua violenza a cui hanno assistito bambini, giovani e adulti palestinesi di ogni ceto e in modi così diversi si sentiva più cocente mentre il ragazzo cercava di confortare Luka, che si era messa ad abbaiare.

La luna sorta e alta in cielo, la moschea Khudari nella Città Vecchia fa eco alla chiamata alla preghiera maghrebina, “Allahu Akbar [Dio è grande]”. Un mantra islamico che significa umiltà; i vicoli risuonano ricordando che solo Dio è grande e il resto è solo umanità. La luce dorata che baluginava pochi istanti prima è scomparsa e la porta crivellata di proiettili dove sono stati uccisi al-Nabulsi e Subuh diventa invisibile.

Un gruppo di uomini nelle vicinanze segue la mia intrusione. Eppure, se un turista fosse passato vicino non si sarebbe reso conto del delitto perpetrato lì solo due sere prima.

Il cucciolo testardo

Secondo chi l’ha conosciuto, prima di diventare un combattente della resistenza al-Nabulsi era un tipico adolescente, leale e aggressivo allo stesso tempo. Le storie che sua zia raccontava mi hanno ricordato molti uomini, un tempo ragazzi, che ho incontrato nelle città della Palestina. Al-Nabulsi è ricordato da bambino come un “Nimrood”, termine preso a prestito dalla storia biblica di Nimrod per indicare lo spirito di un ribelle che rifiuta di sottomettersi all’autorità.

I vicoli di Al-Faqous e le macerie lasciate dall’esercito israeliano all’interno dell’edificio in cui fu assassinato al-Nabulsi richiamano alla memoria le violente invasioni dell’esercito israeliano nel 2002 a Nablus e Jenin.

All’epoca, la Città Vecchia era obiettivo di una spietata campagna militare di bombardamenti e scontri di strada, che danneggiavano non solo i rifugi, i mezzi di sussistenza e le persone palestinesi, ma distruggevano anche reperti storici in una città fra le più antiche al mondo. È stato anche il momento in cui le autorità e i ministri israeliani hanno impostato la famigerata politica del “fuoco aperto”.

Quasi esattamente due decenni dopo la scena sembra familiare ai residenti. Il sangue di al-Nabulsi, o forse Subuh, è schizzato sui muri all’interno della casa demolita, segnando il luogo della loro ultima resistenza. Se non avessimo avuto le torce sarebbe stato difficile capacitarci dell’entità del crimine. In un angolo di quella che sembra essere stata usata come cucina c’era un unico sacchetto di pane pita e una padella. Tra i detriti anneriti c’era il marrone e giallo brillante di una tavoletta di cioccolato Aero, mai aperta.

La dichiarazione di due decenni fa, quando nei primi anni 2000 il governo israeliano stava decidendo di lanciare un attacco, sembra ancora attuale: “Israele agirà per sconfiggere l’infrastruttura del terrore palestinese in tutte le sue sezioni e componenti; a tal fine, sarà intrapresa una vasta azione fino a quando questo obiettivo non sarà raggiunto”. In quegli anni, intere città erano sottoposte al coprifuoco, e le persone potevano uscire di casa solo per fare la spesa ogni tre o quattro giorni ad un’ora stabilita.

La pandemia mondiale di COVID-19 ha forse dato al mondo un piccolo assaggio di cosa significhi essere costretti a rimanere chiusi in casa per lunghi periodi di tempo, anche se senza la costante minaccia di bombe e morte che incombe su di te da ogni parte. Nell’infanzia di al-Nabulsi, questa non solo era la norma, era anche imposta dai carri armati e dalle truppe paramilitari israeliane che hanno in seguito ammesso di aver commesso crimini di guerra.

Ancora ai nostri giorni i ministri israeliani giustificano quei crimini esaltandone la capacità di scoraggiare l’attività di resistenza. Eppure, più di due decenni dopo, la falsità delle affermazioni di Israele è evidente nella persistenza della resistenza palestinese. Ciò sottolinea che la strategia militare di Israele non solo si è rivelata inefficace, ma fa anche un uso ambiguo della voce “sicurezza nazionale” per nascondere le politiche criminali di pulizia etnica

Ibrahim al-Nabulsi, nato anche lui al culmine della Seconda Intifada palestinese, divenne rapidamente una leggenda nelle strade palestinesi e tra la sua generazione. La resistenza palestinese si è scontrata con carri armati, missili e distruzioni di massa. Circa un mese prima di nascere, al-Nabulsi ancora nel grembo materno, i militari israeliani demolirono un edificio di 7 piani come punizione collettiva usando l’artiglieria pesante sulle case dei civili. Solo tre anni prima, un’immagine di Faris Odeh, il bambino che affrontava un carro armato militare israeliano a Gaza, si diffuse in tutto il mondo, impersonando la battaglia tra il proverbiale David palestinese che affronta un imponente Golia israeliano.

I primi anni dell’infanzia di al-Nabulsi hanno coinciso con i crimini militari israeliani nei campi profughi di Jenin e Nablus tra il 2001 e il 2004. Nonostante la conferma e l’ampia documentazione, i comandanti e i soldati israeliani non sono ancora stati incriminati.

A quel tempo, anche la Cisgiordania stava esplodendo grazie ai combattenti della resistenza armata palestinese. Nel marzo 2002 il regime israeliano lanciò l’Operazione Scudo di Difesa, che ha una sorprendente somiglianza con l’attuale campagna lanciata esattamente 20 anni dopo nel marzo di quest’anno, Operazione Break the Wave. Che comprende l’operazione Breaking Dawn, l’attacco di tre giorni alla Striscia di Gaza in cui sono stati uccisi decine di civili, compresi molti bambini.

Un dispaccio ufficiale dell’esercito israeliano ha definito i “risultati” dell’operazione Scudo di Difesa in termini di arresto di “molti terroristi ricercati” e sequestro di “quantità enormi di armi” da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Questo ha segnato il momento in cui la strategia israeliana di sradicare sistematicamente i rifugi della resistenza palestinese ha portato all’emarginazione di gruppi armati come la Brigata dei martiri di Al-Aqsa (l’ala militare di Fatah) all’interno del panorama politico della Cisgiordania. Secondo quanto riferito, Al-Nabulsi era diventato un membro proprio di quella brigata, che, nonostante la campagna di repressione israeliana e la collusione dell’Autorità Nazionale Palestinese nel disarmo, è riuscita a sopravvivere e riorganizzarsi, stabilendo una presenza crescente anche se tenue in luoghi come Jenin e la Città Vecchia di Nablus.

Le parole della madre di al-Nabulsi, Um Eyad, mi risuonano ancora nelle orecchie quando diceva: “Non voglio concedergli nemmeno le mie lacrime. Ibrahim è un martire, al-hamdulilah». Queste parole non sembravano consolare davvero il suo dolore, ma almeno consentivano di collocarlo in una speranza di cambiamento.

Dopo essere scoppiata a gridare in ospedale quando il dottore ha annunciato scusandosi “istash-had [è stato martirizzato]”, Um Eyad ha in seguito detto a una folla di persone in lutto: “Si sbagliano se pensano di aver ucciso Ibrahim. Tutti sono Ibrahim”.

Considerando quelle parole ho pensato alla forza di questa donna, a come ha messo da parte il proprio dolore per dimostrare a tutti il vero significato del sacrificio di Ibrahim. Poi ho detto fra me e me una preghiera: che nessuna madre sia messa nella posizione di trovare in qualche modo la forza di portare come simbolo il nome del figlio ucciso.

Dopo aver raccontato diverse storie di famiglie di martiri e aver assistito al dolore di mia madre quando suo nipote fu ucciso nella Seconda Intifada, ho appreso necessariamente un diverso tipo di dolore. Non è semplicemente la perdita di un figlio, un fratello, un marito, una figlia, una sorella o una moglie: è la brutalità della perdita per mano di un regime criminale. Una volta una madre lo descrisse come qualcosa di simile a un costante bruciore nel petto.

Mai nascosto, Al-Nabulsi era connesso alla sua realtà

“È stato come un film dell’orrore, continuo a ricordare i giorni dell’invasione”, ha detto a Mondoweiss accanto al luogo dell’assassinio S., una vicina. “Era così gentile.”

Ha ricordato quando negli ultimi mesi lo vedeva camminare per la Città Vecchia, sfuggendo a diversi tentativi di omicidio israeliani.

“Continuo a non crederci”, dice Shahd, sorella di al-Nabulsi, mentre la sua piccola Mariam si slancia col magro corpo sulle scale di cemento sotto il vestito blu scuro della madre.

Nel mese prima della sua uccisione la Città Vecchia ha visto al-Nabulsi più della sua stessa famiglia. “Mi dispiace, non verrò con te sul luogo [dell’assassinio]”, mi ha detto il ricercatore palestinese residente nella Città Vecchia di Nablus Bassel Kittaneh, da un tetto di fronte alla moschea più vicina al luogo dove al-Nabulsi è stato ucciso. Ha spiegato scusandosi: “Non sono ancora pronto”.

Giorni dopo l’uccisione di al-Nabulsi, Taha e Subuh, i quartieri della Città Vecchia erano ancora pieni di vita. Nonostante la terribile perdita, c’è stata una rinnovata fiamma di sfida che il suo personaggio ha acceso – una dimostrazione di rispetto per come un giovane quale al-Nabulsi sia stato in grado di compattare la forza di uno degli apparati di sicurezza più potenti del mondo, i Servizi di sicurezza generali (Shin Bet) e l’esercito israeliano, per chiedere il suo assassinio.

Secondo testimoni e residenti della Città Vecchia di Nablus e delle città vicine, al-Nabulsi non si è mai nascosto. Quando lo si vedeva camminare non era necessariamente con orgoglio, ma con una postura che faceva pensare a uno che si assumesse delle responsabilità. Chiunque in Palestina sfogliando TikTok troverà i post di residenti di Nablus che hanno filmato Nabulsi mentre camminava per la Città Vecchia, chiamandolo per nome e scattandosi selfie con lui che sorrideva quasi imbarazzato. Era quasi come se lo stessero salutando, sapendo che prima o poi sarebbe stato martirizzato.

“Era sincero e gentile nei suoi rapporti”, mi ha detto Kittaneh.

Eppure, nonostante la forza e la sfida dimostrate da al-Nabulsi negli scontri, è discutibile che al-Nabulsi costituisse la minaccia che i media e i portavoce militari israeliani hanno fatto credere. Ma ciò che Nabulsi rappresentava – la minaccia di riaccendere lo spirito di resistenza armata in Cisgiordania – era qualcosa che Israele non era disposto a lasciar accadere. In effetti, l’esercito israeliano ha preso di mira i palestinesi sospettati di resistenza armata e li ha assassinati extragiudizialmente come parte dell’operazione ‘Breaking the Wave’.

Funzionari delle Nazioni Unite e organizzazioni per i diritti umani hanno costantemente segnalato la recente intensificazione da parte dell’esercito israeliano delle campagne contro i palestinesi, ricorrendo persino alla pratica illegale della detenzione amministrativa di avvocati per i diritti umani e usando forza letale contro manifestanti palestinesi disarmati.

Il tutto è parte di una strategia di “controllo dell’escalation”, un approccio coercitivo per controllare l’intensificarsi della resistenza in modo da porre l’altra parte in una posizione di svantaggio riducendo la sua capacità di reazione. Anche l’intelligence israeliana e le unità militari hanno dato il via libera e rilanciato la strategia di sparare per uccidere in tutta la Cisgiordania. Ciò è avvenuto mesi prima dell’attacco a Gaza nella prima settimana dell’agosto di quest’anno.

Eppure, nell’assordante sete di annessione e apartheid di Israele, Ibrahim Al-Nabulsi, non ancora 19enne, ha detto addio alla Città Vecchia di Nablus combattendo, armato solo di un fucile.

Secondo i testimoni, Israele ha usato missili a spalla ad alta tecnologia per bombardare il suo rifugio, con fori dei proiettili dappertutto sulla porta di metallo. Un filmato che si dice sia di al-Nabulsi mostra un giovane che spara goffamente con una pistola durante una precedente invasione militare. Senza un addestramento militare formale e con armi obsolete, al-Nabulsi non ha mai avuto una vera possibilità.

Il miracolo è stato che, nonostante l’attacco spietato, in qualche modo al-Nabulsi è uscito vivo dalla devastazione. La morte è stata dichiarata in ospedale circa un’ora dopo.

Il ruggito del leone per la liberazione

L’ascesa di una nuova generazione palestinese di resistenza armata sembra aver creato l’effetto contrario a ciò che l’esercito e il controspionaggio israeliani speravano in termini di “deterrenza”.

“Perfino durante l’ultima ondata di ripresa della resistenza abbiamo visto anche la nascita di nuova vita a Nablus”, ha spiegato Kittaneh a Mondoweiss. “La Città Vecchia sta riacquistando rilievo e il suo antico senso di importanza.”

Kittaneh ha scontato 15 anni con l’accusa di affiliazione alle Brigate Palestinesi Izz el-Din al-Qassam, l’ala militare di Hamas. Fu arrestato lo stesso anno in cui nacque al-Nabulsi. Con la città di Nablus che si stende all’orizzonte alle sue spalle, Kittaneh riflette sulla sua giovinezza. “Ogni generazione reagirà in modo diverso, ma ogni generazione reagirà”, dice a Mondoweiss.

Per garantire il controllo dell’escalation, Israele ha deciso di creare un effetto collettivo di shock e terrore nei palestinesi. Ciò include gli omicidi extragiudiziali di palestinesi come le decine di persone uccise nella prima metà di quest’anno, o l’incarcerazione di bambini di appena 12 anni.

Questa tattica, come ha spiegato la pluripremiata giornalista Naomi Klein, garantisce di infliggere danni emotivi, mentali o fisici in modo progressivo nel tempo, per paralizzare lentamente una popolazione fino all’inerzia. “Lo shock svanisce, ma non quando te lo aspetti, come nel momento preciso della liberazione. . . le esperienze di shock convivono con l’eredità della paura per anni “, ha spiegato Klein in un’intervista.

Le agenzie e i resoconti hanno definito il giovane combattente “comandante supremo” e “militante esperto”, ma al-Nabulsi ha vissuto un’altra vita, quella con i suoi amici e la sua famiglia. “Quando gli chiedevamo perché andasse avanti, rispondeva: ‘Sto facendo rivivere lo spirito di resistenza di un’intera generazione'”, ha detto Shahd a Mondoweiss. Sembra che la resistenza continui ad alimentarsi col riconoscere che non esiste un’infanzia palestinese.

“Quello di cui Israele non ha tenuto conto è che, quando la gente della Città Vecchia ha visto l’esercito israeliano entrare e fare irruzione a Nablus in pieno giorno per arrestare i giovani o assassinarli in quel modo orrendo…” Kittaneh si interrompe mentre dice così, fermandosi un attimo prima di continuare. “La cosa non ha spaventato di più le persone. Al contrario, ha spinto ancora di più i palestinesi verso lo scontro”.

È sempre più evidente che la profondità della sfida di al-Nabulsi e di Subuh deriva dal riconoscimento del fatto che gli è stata rubata l’infanzia, il suo stesso diritto di essere. Mi ricorda le immagini dei bambini che, per quanto piccoli e magri, in qualche modo raccoglievano la forza di affrontare i soldati, rifiutandosi di essere terrorizzati da loro.

Una ninna nanna per la famiglia

Una bambina dorme in grembo alla madre nonostante il caldo di metà pomeriggio a Nablus. Entrano ed escono donne sconosciute che si sporgono sul suo piccolo corpo per rendere omaggio alle tre famiglie che hanno perso i loro figli, uno di soli 16 anni.

“Hayat”, mi dice una donna anziana, indicando la piccola che dorme tra le sue braccia durante il funerale. È la nipote di al-Nabulsi.

«Il suo nome significa vita», dice la donna.

Se al-Nabulsi è celebrato come il “Leone di Nablus”, era anche conosciuto come lo zio giovane e ribelle, critico di tutto ciò che gli era stato detto, impegnato per la sua libertà e la libertà di tutti coloro che lo circondavano, inclusa Hayat .

Pochi giorni dopo la sua morte, la famiglia di Ibrahim si è riunita una sera nella casa di Nablus. La zia di Ibrahim ha continuato a disperarsi per l’assenza del nipote dalle loro vite. “Quando ci sediamo a tavola e la sedia di Ibrahim è vuota sentiamo la sua mancanza”, dice tristemente. “E quando in qualche modo viviamo un momento di gioia, cominciamo tutti a dire ‘se solo Ibrahim fosse con noi.'”

Mariam Barghouti è corrispondente senior dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele uccide almeno 10 palestinesi nella nuova campagna di bombardamenti contro Gaza

Ahmed Al-Sammak, Lubna Masarwa, Huthifa Fayyad da Gaza City, Palestina occupata

5 agosto 2022 – Middle East Eye

Un dirigente della Jihad Islamica è stato assassinato in un attacco che ha ucciso anche una bambina di 5 anni e ferito più di 55 civili

Nell’ultimo bombardamento contro la Striscia di Gaza di venerdì l’esercito israeliano ha ucciso almeno 10 palestinesi, tra cui una bambina di 5 anni e un importante leader militare.

Taiseer al-Jabari, capo della divisione nord delle Brigate di al-Quds (Saraya al-Quds), l’ala militare del movimento Jihad Islamica, è stato ucciso durante attacchi aerei che hanno colpito varie località di Gaza. Secondo il ministero della Sanità palestinese almeno 55 persone sono rimaste ferite.

Gli attacchi iniziali hanno colpito tre diverse zone: Khan Younis nel sud della Striscia, Shujaiya a nord e un edificio residenziale nel centro di Gaza.

L’esercito afferma di aver preso di mira la Jihad Islamica con l’operazione denominata “Breaking Dawn” [Sorgere del sole].

Hamas, che governa di fatto Gaza, e la Jihad Islamica, la seconda più importante organizzazione armata della Striscia, hanno promesso una dura risposta all’aggressione israeliana. 

Ziad al-Nakhalah, capo della Jihad Islamica, ha affermato che non ci sono limiti in questa guerra e che Tel Aviv verrà presa di mira.

Non ci sono linee rosse in questa battaglia e Tel Aviv, come tutte le città israeliane, finirà sotto i razzi della resistenza,” ha affermato.

Gaza è stata colpita da attacchi aerei e dal fuoco dell’artiglieria. La Jihad Islamica ha affermato di aver sparato 100 razzi venerdì notte come risposta iniziale.

Fawzi Barhoum, portavoce di Hamas, ha detto che le fazioni della resistenza a Gaza sono unite e pronte a rispondere con “tutta la forza”.

Nel contempo il primo ministro israeliano Yair Lapid ha affermato che il Paese “non consentirà alle organizzazioni terroristiche della Striscia di Gaza di dettare le regole” e che l’esercito israeliano continuerà ad agire contro l’organizzazione Jihad Islamica “per eliminare la minaccia che rappresenta per i cittadini di Israele.”

Un vero e proprio crimine”

Khalil Kanon vive al dodicesimo piano della Palestine Tower, un edificio nel centro di Gaza che è stato colpito venerdì durante il primo attacco aereo israeliano. Dice a MEE che il bombardamento ha ferito sua moglie e sua madre, ha terrorizzato i suoi figli e tutta la famiglia è stata macchiata di sangue.”

Stavo leggendo le notizie. Improvvisamente abbiamo sentito bombardamenti assordanti. Una mano di mia madre e una gamba di mia moglie sono state ferite, e i miei figli erano terrorizzati,” racconta Kanon.

Dopo il bombardamento, un vicino di Kanon è corso ad aiutare e ha portato fuori dall’edificio i suoi figli e sua moglie, mentre Kanon aspettava gli infermieri per aiutarli a portare via sua madre dallo stabile.

Eravamo tutti sporchi di sangue. Guarda, c’è una macchia di sangue sulla mia maglietta.

Non avrei mai pensato che questo edificio potesse essere bombardato. Che razza di vita abbiamo?”

Ahmed al-Bata, un giornalista, quando l’edificio è stato bombardato stava aspettando l’ascensore per salire al quattordicesimo piano della Palestine Tower, dove si trova il suo ufficio.

Improvvisamente ho sentito tre massicci, intensi bombardamenti,” racconta a MEE.

La scena è stata inimmaginabile. Dopo qualche minuto decine di abitanti hanno iniziato a scappare urlando. Quasi tutti erano bambini e donne. Decine di loro erano ferite. La scena era talmente orribile. È un vero e proprio crimine.”

Arresto di un leader della Jihad Islamica

L’attacco è giunto dopo giorni di blocco imposto dalle autorità israeliane agli abitanti che vivono nei pressi di Gaza, e il dispiegamento di truppe nella zona. Le misure hanno incluso la chiusura di strade e il blocco del servizio ferroviario vicino a Gaza.

L’esercito israeliano ha affermato di averle messe in atto a causa del timore di attacchi di rappresaglia da parte della Jihad Islamica a Gaza dopo l’arresto nella città di Jenin, nella Cisgiordania occupata, di un importante dirigente dell’organizzazione, Bassam al_Saadi.

Nell’incursione in città è stato ucciso anche il diciassettenne palestinese Dirar al-Kafrayni, colpito a morte dalle forze israeliane. 

Nell’incursione è stato arrestato anche il genero di Saadi, Ashraf al-Jada. Durante l’arresto la moglie di Saadi è stata ferita e portata in ospedale per essere curata. Immagini di una telecamera di sorveglianza dell’arresto di Saadi mostrano soldati israeliani che trascinano sul pavimento il sessantaduenne. Sarebbe anche stato ferito da un cane dell’esercito israeliano.

Quando si sono diffuse notizie dell’incursione mortale, gruppi di persone si sono riuniti nel campo di rifugiati di Jenin e nella vicina città di Nablus, mentre sostenitori hanno espresso solidarietà a un personaggio molto rispettato. La Jihad Islamica, considerata la seconda milizia più importante della resistenza armata palestinese dopo Hamas, ha affermato di aver messo in allerta ovunque i propri combattenti.

Ameer Makhoul, un importante attivista e scrittore palestinese, dice a MEE: “Nessuno dovrebbe essere sorpreso dall’aggressione israeliana contro Gaza e del fatto che siano stati presi di mira i dirigenti delle brigate di al-Quds e i civili.”

Makhoul ha aggiunto che il massiccio schieramento dell’esercito sul e attorno al confine con Gaza non è stato “un’iniziativa difensiva” o per prevenire la risposta della Jihad Islamica all’arresto di Saadi.

Al contrario, l’arresto è avvenuto come parte della preparazione di una nuova aggressione con obiettivi e strategie, anche se di portata limitata,” ha affermato.

Meron Rapoport, un esperto commentatore israeliano, ha affermato che la tempistica dell’operazione israeliana è stata strana e che Israele ha essenzialmente punito l’organizzazione Jihad Islamica perché non attaccasse come rappresaglia per l’arresto di Saadi, dato che il gruppo armato ha lanciato razzi solo dopo che Israele ha iniziato attacchi aerei contro Gaza.

Israele arresta un importante membro della Jihad Islamica in Cisgiordania, e il gruppo non risponde,” continua Rapoport, in riferimento all’arresto di Bassam al-Saadi all’inizio di questa settimana a Jenin.

Ma poi “Israele ha imposto il coprifuoco a decine di migliaia di abitanti nelle zone adiacenti a Gaza in base al fatto che la Jihad Islamica progettava una risposta, poi uccide importanti membri dell’organizzazione e civili a Gaza, in base al fatto che pianificavano di attaccare Israele. Il risultato, dopo che Israele avrebbe tentato di impedire attacchi della Jihad Islamica, è che ora arrivano razzi, cosa che a quanto pare non sarebbe avvenuta se Israele non avesse attaccato per primo.”

Gli USA difendono Israele, l’ONU sollecita una riduzione della tensione

In risposta al bombardamento di Gaza da parte di Israele gli Stati Uniti hanno detto che il Paese ha il “diritto di difendersi”.

L’attacco giunge poche settimane dopo che il presidente USA Joe Biden ha visitato Israele. Prima del viaggio la sua amministrazione avrebbe chiesto a Israele di rimandare ogni escalation contro i palestinesi “a dopo la visita di Biden” a metà luglio.

La richiesta è stata condannata dagli attivisti palestinesi, che hanno detto a MEE che ciò è “indicativo della vera politica degli Stati Uniti nei confronti di Israele,” in quanto gli USA non si preoccupano di come Israele tratta i palestinesi.

Nel contempo l’ONU ha emanato un comunicato più severo, affermando che non ci sono “giustificazioni” per gli attacchi contro i civili.

Sono profondamente preoccupato dalla continua escalation tra i miliziani palestinesi e Israele, compresa l’odierna uccisione mirata di un dirigente della Jihad Islamica palestinese all’interno di Gaza,” ha affermato venerdì sera in un comunicato Tor Wennesland, il coordinatore speciale dell’ONU per il processo di pace in Medio Oriente.

La continua escalation è molto pericolosa,” ha affermato Wennesland.

Israele impone dal 2007 un durissimo blocco contro la Striscia di Gaza, che secondo le associazioni per i diritti umani rappresenta una punizione collettiva per i due milioni di abitanti dell’enclave. Israele impedisce l’importazione di materiali ed attrezzature a Gaza ed ha imposto rigide restrizioni alle esportazioni, che hanno portato a una condizione di “paralisi” in molti settori dell’economia di Gaza.  

Anche l’Egitto sostiene l’assedio, controllando i movimenti in entrata e in uscita da Gaza sulla propria frontiera.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza nel maggio dello scorso anno un attacco militare israeliano contro Gaza ha ucciso più di 260 palestinesi, tra cui 66 minorenni, e sfollato almeno 72.000 persone.

In un rapporto Human Rights Watch [prestigiosa ong per i diritti umani con sede negli USA, ndt.] ha affermato che gli attacchi aerei israeliani del 2021 hanno preso di mira zone nelle cui vicinanze non c’erano prove dell’esistenza di obiettivi militari, il che rappresenta un crimine di guerra.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Sfidare Golia: come Palestine Action ha cacciato la Elbit

Huda Ammori

28 giugno 2022 – The New Arab

Huda Ammori, cofondatrice di Palestine Action [rete di attivisti filo-palestinesi che usa tattiche di disobbedienza civile contro fabbriche di armi israeliane, ndtr.], descrive l’azione diretta degli attivisti contro la fabbrica di armi Elbit Systems per il suo ruolo nel produrre armi per Israele e di come siano riusciti a estrometterla dal Regno Unito.

Armati di vernice rosso sangue, stencil fatti in casa e una macchina fotografica: eravamo pronti a prendere d’assalto 77 Kingsway, il quartier generale londinese della maggiore industria bellica israeliana, Elbit Systems. Per farci aprire la porta ed entrare nei loro prestigiosi uffici è bastato un sorriso. Siamo entrati: la vernice spruzzata ovunque nell’atrio, gli striscioni appesi, le riprese fatte e tutto finito prima che gli addetti alla sicurezza ci buttassero fuori. Ma prima di andarcene avevamo scritto una promessa sul loro muro: ritorneremo!  

E siamo ritornati.

Per creare un movimento abbastanza forte da far chiudere tutte e dieci le sedi della Elbit in Gran Bretagna dovevamo essere destabilizzanti e costanti. Azioni occasionali non sarebbero servite. Ogni minuto senza una nostra azione era un minuto in cui la Elbit avrebbe commesso un altro omicidio. Per sconfiggerli dovevamo bombardarli.  

Lottavamo contro Golia: una fabbrica di armi fondata nel 1966 con lo scopo specifico di armare le milizie sioniste per attuare la pulizia etnica del popolo palestinese. Oggi il loro modello aziendale si basa sullo sviluppo di armi sperimentali usate contro la popolazione imprigionata a Gaza ed etichettate come “testate in battaglia” e poi spedite verso Israele e altri regimi repressivi.

A luglio 2020 la Gran Bretagna ospitava dieci sedi della Elbit che producevano droni militari, software per artiglieria e acquisizione dati.   

Palestine Action è nata per cacciare dal Paese il commercio di armi israeliane. Le azioni non hanno solo preso di mira le sedi della Elbit, ma abbiamo anche fatto pressione su chi ne agevolava la capacità di operare in Gran Bretagna.

Israele non potrebbe fabbricare in modo autonomo la sua sanguinaria catena produttiva di armi. Per ottenere un prestigioso spazio per i propri uffici nel centro di Londra la Elbit aveva avuto bisogno di un agente immobiliare che chiudesse un occhio sui crimini di guerra israeliani, una carneficina che le ha permesso di fare una paccata di soldi. Ecco perché la multimiliardaria società immobiliare JLL è diventata il punto focale a livello nazionale degli attivisti autonomi. Da York a Brighton le sedi di JLL sono regolarmente state oggetto delle scritte con la vernice rossa di Palestine Action.

Con un bersaglio secondario e una palazzina di uffici nel centro di Londra da prendere sistematicamente di mira, la duplice strategia per cacciare la Elbit da Londra si è velocemente messa in moto.

A poche settimane dal lancio della campagna i ministeri israeliani degli Affari Strategici e della Difesa hanno incontrato il governo britannico per discutere su come “reprimere il nostro movimento”. Come noi, anche loro avevano capito il potere dell’azione diretta. 

È cominciata così una campagna strategica dello Stato per distruggere il nostro movimento nelle fasi iniziali della sua formazione. Passaporti rubati dalla polizia, irruzioni nelle case e una serie di arresti violenti non sono esperienze piacevoli, ma nulla a confronto con quello che succede a chi si trova dalla parte sbagliata delle armi di Elbit.

Ogni ostacolo che affrontavamo era un passo avanti verso la sconfitta del commercio israeliano di armamenti. E ogni volta che lo Stato interveniva, altre persone si offrivano di unirsi alla lotta per far chiudere Elbit. Le tattiche dello Stato hanno avuto l’effetto contrario.  

Palestine Action non faceva che rafforzarsi mentre le sedi della Elbit diventavano sempre più deboli. Il maggiore trafficante di armi israeliano è stato costretto a spendere in sicurezza cifre sempre maggiori, tra l’altro non riuscendo a tenere lontani i nostri attivisti. Le azioni sono diventate più frequenti, più dirompenti e, per la Elbit, considerevolmente più costose.

Con il tempo quello che era partito come un prestigioso edificio nel centro di Londra è diventato un posto squallido, vecchio e fatiscente. Hanno rimosso le sporgenze per impedire alla gente di arrampicarsi, tolto le decorazioni esterne in modo che non fossero abbattute dagli attivisti e assunto un servizio di sicurezza 24 ore su 24 per sorvegliare l’ingresso.

Comunque tutte le loro ulteriori misure per tener lontana Palestine Action sono continuamente fallite. Siamo andati, siamo rimasti e li abbiamo fatti chiudere mille volte.

Nell’aprile 2022 gli attivisti hanno piantato l’ultimo chiodo nella bara del quartier generale londinese di Elbit. Settimana dopo settimana abbiamo danneggiato 77 Kingsway, bloccando gli ingressi, spruzzando l’edificio di vernice rosso sangue e facendo sì che l’opinione pubblica sapesse esattamente chi si nascondeva dietro la porta.

Mentre Elbit era contrariata da tutte le continue azioni al loro quartier generale, la comunità circostante offriva agli attivisti caffè, cibo e costanti messaggi di sostegno. Man mano che cresceva la pressione sulla Elbit e sull’agenzia immobiliare che le aveva affittato la sede, l’unica opzione che restava loro era quella di andarsene.  

E infatti se ne sono andati! Proprio la settimana scorsa è stato annunciato che Elbit Systems ha abbandonato il quartier generale londinese a causa della continua campagna di azione diretta di Palestine Action durante la quale sono state arrestate 60 persone. La notizia è arrivata esattamente 5 mesi dopo la chiusura permanente della fabbrica di armi Elbit-Ferranti a Oldham.

La prova è nei fatti: l’azione diretta funziona. 

Le pressioni sui governi, le petizioni e le tattiche tradizionali delle campagne non sono mai riuscite a bloccare il traffico di armi fra Gran Bretagna e Israele. Ma nessuno riesce a fermare chi si impegna in prima persona per far chiudere le fabbriche di armamenti sulla soglia di casa nostra. 

Huda Ammori è la cofondatrice della rete azione diretta Palestine Action e ha condotto vaste ricerche e campagne contro la complicità britannica con l’apartheid israeliano. 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non rappresentano necessariamente quelle di The New Arab, della sua direzione o redazione.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Solo i palestinesi possono decidere se boicottare la Corte degli occupanti

Michael Sfard

10 maggio 2022 – +972 magazine

La Corte Suprema israeliana ha approvato l’espulsione forzata di Masafer Yatta, e si ripresenta la questione se “legittimare” i tribunali.

La sentenza della Corte Suprema israeliana della scorsa settimana, che consente al governo di trasferire con la forza la comunità palestinese della Zona di Tiro 918 nell’area di Masafer Yatta, nella Cisigordania occupata, ha riacceso l’annoso dibattito tra attivisti di sinistra e per i diritti umani in Israele: dobbiamo presentare ricorsi alla Corte Suprema sulle violazioni dei diritti dei palestinesi che vivono sotto occupazione?

Le considerazioni sulle reti sociali, anche da parte di avvocati che hanno rappresentato i palestinesi davanti alla Corte Suprema per molti anni, hanno suggerito che è giunto il momento (e forse avrebbe dovuto essere fatto prima) di boicottare i tribunali israeliani ed evitare di chiedere ai giudici di porre rimedio o tutelare dai danni ai palestinesi.

È un argomento ben noto, e la comunità di attivisti in Israele-Palestina non è la prima a sollevarlo. Questo dibattito ha avuto luogo per decenni tra i militanti per i diritti umani in tutto il mondo – nel Sudafrica dell’apartheid e negli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam, per esempio – e continua tuttora, dall’India alla Russia.

Gli attivisti che si oppongono allo status quo – soprattutto in regimi repressivi, occupanti, di apartheid, etnocratici o totalitari – quasi sempre devono lottare con una situazione di sistemi giudiziari accondiscendenti che collaborano, e a volte persino si identificano, con i crimini di quei regimi.

La questione politica se ricorrere al sistema giudiziario di un governo repressivo è pertanto importante e affascinante, benché emerga solo dove c’è una possibilità realistica che si possa ottenere qualcosa con un procedimento legale. Perché ci sia questo dubbio ci deve essere un sistema che ogni tanto conceda qualche forma di riparazione, e la domanda è quindi se sia opportuno continuare a impegnarvisi e pagare il prezzo di tale impegno o lasciar perdere del tutto.

Ad ogni modo ciò che si ottiene non è sempre una vittoria, cioè una vittoria totale in una causa. Un contenzioso può garantire quelli che si potrebbero definire “frutti secondari”: benefici collaterali che a lungo termine possono aiutare in maniera significativa la lotta contro una determinata politica, ma non sono il risarcimento diretto cercato avviando il procedimento giudiziario.

Ogni avvocato che abbia mai avuto a che fare con una causa le cui possibilità di successo sono esili conosce i benefici collaterali delle azioni giudiziarie per i diritti umani. Spesso la speranza, e persino la strategia, è che si ottengano proprio questi successi secondari. Per esempio: il tempo.

Il tempo è un vantaggio collaterale molto importante. Molte cause rimandano in modo significativo la messa in pratica di un’azione o una politica ingiuste. I processi contro l’espulsione della comunità palestinese di Khan al-Ahmar, nella Cisgiordania occupata, è durato 11 anni, finché la Corte Suprema ha deliberato a favore dello Stato. A Susiya, sulle colline meridionali di Hebron, lo stesso procedimento è durato 17 anni. La causa riguardante la Zona di Tiro 918 ha portato a un’ingiunzione temporanea che ha consentito alle comunità di continuare a vivere sulle loro terre. L’ingiunzione è rimasta in vigore per 22 anni.

Questi lunghi periodi di tempo consentono di organizzarsi politicamente, l’attivazione di pressioni diplomatiche e la garanzia di una significativa copertura mediatica –niente di tutto ciò sarebbe stato possibile se i progetti dello Stato fossero attuati rapidamente. Susiya e Khan al-Ahmar sono esempi perfetti di come il tempo possa rendere possibili l’organizzazione e una opposizione efficace, rendendo particolarmente difficile portare a termine le espulsioni forzate previste persino ora che tutti i ricorsi sono stati rigettati.

Un altro esempio di prodotto collaterale delle cause è l’informazione. Un’azione legale può mettere in luce molti dettagli riguardo a una politica o una prassi, che possono invece essere utili in una lotta sociale o politica. A volte in queste lotte le informazioni possono valere quanto l’oro.

Le azioni giudiziarie possono portare altri risultati: un procedimento legale può spesso incrementare la consapevolezza pubblica e attirare l’attenzione dei media sull’argomento sottoposto a controllo giudiziario; è un processo che dà vita a dibattiti concreti contro lo status quo e le azioni progettate dal governo, formulando nel contempo l’alternativa che dovrebbe sostituirle, contribuendo a far conoscere la lotta; obbliga lo Stato a prendere una posizione chiara che spieghi e difenda le sue azioni, e a darne conto. Sono tutti strumenti importanti in una lotta e che di rado sono ottenuti fuori dalle aule dei tribunali.

Fare ricorso o non fare ricorso

Di fronte a tutto ciò quelli che si oppongono alle azioni legali sono per lo più preoccupati dell’effetto di legittimazione di sentenze negative;, dell’inganno di una parvenza di processo equo e non di parte a favore dell’uso della forza coercitiva da parte del governo; l’impegno in queste cause di energie e risorse che potrebbero essere investite altrove. Questi sono i costi politici dei procedimenti giudiziari.

Quindi, cosa si conclude se si soppesano costi e benefici? Qual è il bilancio finale? Ricorrere o meno ai tribunali? Forse il prezzo maggiore sempre citato in questo contesto è che i procedimenti giudiziari possono portare a sentenze che legittimano i crimini. Ciò evidenzia un paradosso: più il tribunale è progressista – cioè, più è disponibile ad opporsi alle autorità e interviene a favore delle vittime delle violazioni dei diritti umani – maggiore è il costo in termini della legittimazione nel caso in cui caso si perda.

D’altro canto, più il sistema giudiziario è sottomesso, più sentenzia regolarmente a favore delle autorità e adotta la loro posizione, più si riduce il prezzo in termini di legittimazione.

Questa è una conclusione importante: il pericolo di legittimare le politiche (e il regime) è particolarmente alto nei sistemi giudiziari in cui è alta la possibilità di garantirsi delle vittorie significative. Non mi pare che questa sia la situazione in Israele. Anche se la Corte è stata tenuta tradizionalmente in grande considerazione, quell’epoca è passata sia in Israele che all’estero, sicuramente in quei contesti sociali che costituiscono il bacino di potenziali reclute e sostenitori nella lotta per porre fine all’occupazione.

Riguardo al molto tempo e alle molte energie che le cause richiedono, è chiaro che, se ci fossero mezzi alternativi di resistenza che potrebbero portare a risultati e soluzioni positive migliori dei tribunali israeliani sarebbe giusto spostare risorse su quei mezzi. Mi pare che in molti casi non ci siano alternative più efficaci ai procedimenti giudiziari.

Dall’altra parte ci sono esseri umani che sono vittime delle azioni che queste istanze cercano di impedire. Dal loro punto di vista c’è poco da perdere nel ricorrere ai tribunali. Se un’istanza fallisce, quello che succede sarebbe successo comunque, solo molto prima. In questo modo c’è almeno la speranza di garantirsi il tempo necessario per organizzare una lotta, per sfruttare l’attenzione data ai procedimenti giudiziari e per utilizzare le informazioni – parte delle quali possono essere importanti – che i processi mettono in luce.

E a volte, solo a volte, i ricorrenti ottengono una vera e propria vittoria, parziale o – in rare occasioni – totale, che impedisce un’ingiustizia: annullando la proibizione di viaggiare all’estero; limitando il furto di terre; garantendo l’accesso a terreni agricoli; cancellando la “legge sulle regolarizzazioni” [degli avamposti israeliani illegali, ndt.]; cacciando coloni da terre di proprietari privati palestinesi, come nel caso degli avamposti di Amona e di Migron.

La lealtà ai diritti umani ci autorizza a sacrificare la possibilità per una persona di evitare l’espulsione, la perdita di reddito o lo smantellamento di una comunità sull’altare di un calcolo dell’eventuali scotto di legittimare un regime repressivo?

Dopo tutte le considerazioni e valutazioni, in definitiva non sta agli avvocati o alle Ong decidere. La decisione spetta ai palestinesi. Sono loro che devono scegliere se ricorrere ai tribunali dell’occupante o boicottarli. Nel frattempo ogni anno migliaia di palestinesi optano per correre il rischio. Che sia per mancanza di alternative o per le sofferenze, questa è la scelta che stanno facendo.

Michael Sfard è avvocato specializzato in leggi sui diritti umani e umanitarie internazionali ed autore di “The Wall and The Gate: Israel, Palestine and the Legal Battle for Human Rights [Il muro e la porta: Israele, Palestina e la battaglia giuridica per i diritti umani].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I ragazzi della famiglia Bakr e la cupola di ferro dell’impunità di Israele.

Jonathan Ofir

26 Aprile 2022 – Mondoweiss

La sentenza nel caso dei ragazzi della famiglia Bakr è un’ulteriore prova che Israele non è in grado e non vuole indagare e perseguire soldati e comandanti per crimini di guerra contro i palestinesi.

Il massacro dei quattro ragazzi della famiglia Bakr (di età compresa tra 10 e 11 anni) che stavano giocando a calcio sulla spiaggia di Gaza nel 2014 è uno dei singoli eventi più noti dei 51 giorni di attacco israeliano all’enclave assediata di Gaza.

Due giorni fa un’altra bomba è caduta sulla loro memoria: la bomba dell’impunità, spedita dalla Corte Suprema israeliana.

Domenica un’istanza presentata nel 2020 da tre organizzazioni palestinesi per i diritti umani (Adalah – The Legal Center for Arab Minority Rights in Israel, Al Mezan Center for Human Rights e Palestine Center for Human Rights) per riaprire l’indagine sull’incidente è stata respinta dal tribunale.

La corte ha accolto integralmente le motivazioni del Procuratore Generale (PG), che ha accettato integralmente quelle dell’Avvocato Generale Militare (AGM), secondo cui si trattò solo di un “tragico” errore che non richiedeva l’accertamento di ulteriori responsabilità.

Nella sua sentenza, la Corte Suprema ha concluso che l’uccisione dei ragazzi “non si discostava da quanto consentito dalla legge o dagli ordini dell’esercito” fu messa in atto secondo i principi della “differenziazione” e della “proporzionalità”. Purtroppo non era stato possibile compiere con alcuna accuratezza l’atto di “differenziazione “: “non era stato possibile intraprendere ulteriori atti al fine di verificare i bersagli identificati come sospetti”. Perché sospetti? Perché quella zona della spiaggia era considerata una specie di area militare di Hamas.

La corte ha dimostrato un’estrema comprensione e perdono nei confronti dell’esercito:

Questa corte ha più volte sottolineato l’eccezionalità dell’operazione di combattimento, caratterizzata da un’elevata intensità, che richiede alle forze militari di prendere decisioni rapide sul campo e di correre rischi in condizioni di incertezza.

In base all’unicità di tali circostanze, il tribunale non ha nemmeno ritenuto necessario affrontare le lacune dell’indagine che sono stati segnalate dai ricorrenti, che osservano:

I ricorrenti hanno presentato prove che mostrano ampie lacune nell’indagine condotta dalle autorità investigative israeliane e molte contraddizioni nelle testimonianze e nelle indagini. La Corte, tuttavia, ha stabilito di non vedere alcun motivo per intervenire nella decisione del PG e non ha affrontato la sostanza di nessuno degli argomenti dei ricorrenti in merito alle lacune dell’indagine.

Inoltre vi è un sistematico conflitto di interessi:

La Corte ha anche respinto le argomentazioni di conflitto di interessi dei ricorrenti inerenti al duplice ruolo dell’AGM: l’AGM fornisce consulenza legale all’esercito prima e durante le operazioni militari e, al termine dei combattimenti, decide anche se aprire un’indagine penale e come condurla.

La più totale impunità”

I ricorrenti hanno sostenuto che “in questa sentenza la Corte Suprema concede sostanzialmente la piena licenza all’esercito israeliano di uccidere i civili nella più totale impunità. Piuttosto che valutare le decisioni dei militari durante il combattimento, la Corte ha fornito dichiarazioni generali sull’ampio margine di discrezionalità dell’ AGM e del PG”.

Questo astuto meccanismo di copertura è la ragione addotta da Israele contro [l’apertura di qualsiasi, ndt] procedimento da parte della Corte penale internazionale (CPI). Il mandato della CPI si basa sull’idea di agire quando lo Stato indagato non è in grado o non vuole indagare sulle proprie presunte gravi violazioni. Ma Israele afferma di avere un sistema giudiziario pienamente funzionante.

I ricorrenti:

La sentenza della Corte Suprema israeliana nel caso dei ragazzi della famiglia Bakr è un’ulteriore prova che Israele non è in grado e non vuole indagare e perseguire soldati e comandanti per crimini di guerra contro civili palestinesi. Questo fatto mette in evidenza la pressante necessità di indagini indipendenti ed efficaci per chiamare a rispondere dei propri atti tutti i responsabili. Questo caso illustra chiaramente gli attacchi indiscriminati e letali dell’esercito israeliano contro i civili palestinesi durante la guerra di Gaza del 2014, in cui sono stati uccisi oltre 550 minorenni, e come il sistema legale israeliano si sia adoperato per difendere l’aggressione israeliana e garantire la totale impunità e discrezionalità all’esercito israeliano. Questo caso è un’ulteriore prova della necessità che gli attori internazionali, inclusa la Corte penale internazionale, chiamino a risponderne i leader israeliani.

Sappiamo che Israele non è l’unico a godere di questa impunità. Gli Stati Uniti agiscono più o meno allo stesso modo e hanno un atteggiamento simile nei confronti della CPI, sostenendo che possono occuparsene da soli, quindi la CPI dovrebbe tenersi alla larga. Pertanto si concedono l’impunità per gravi crimini di guerra come nel caso della guerra in Iraq. Ma ora che la Russia ha invaso l’Ucraina, Putin viene rapidamente dichiarato criminale di guerra da Joe Biden (lo stesso che ha votato per l’invasione illegale dell’Iraq). Israele conta sugli Stati Uniti per sostenere la sua impunità. È un grande club di impunità, e finché c’è la Russia da condannare, questa storia, nonostante tutto, non dovrebbe fare troppo rumore.

Raji Sourani, Direttore Generale del Centro palestinese per i diritti umani, ha commentato:

Di recente molti Stati, compresi gli Stati Uniti e i Paesi europei, hanno intrapreso un’azione immediata contro gli attacchi delle forze russe contro i civili ucraini, esprimendo la loro condanna e imponendo sanzioni. Tuttavia, quando le forze israeliane uccidono i palestinesi, quei Paesi continuano a sostenere Israele. Abbiamo l’obbligo di garantire che i figli della famiglia Bakr e tutti i minori, donne, anziani e civili presi di mira e uccisi dalle forze israeliane non vengano dimenticati.

Personalmente non dimenticherò mai le foto di quei bambini nella sabbia con gli arti contorti. Le parole “differenziazione” e “proporzionalità” lacerano quella memoria con un insopportabile stridore di indifferenza, cinismo e insensibilità. È lo stesso per le molte decine di famiglie annientate. Proprio in quell’estate, 142 famiglie di Gaza persero tre o più membri. La giornalista israeliana Amira Hass scrive in “Famiglie annientate”:

La cancellazione di intere famiglie è stata una delle caratteristiche spaventose dell’assalto del 2014. Non si trattava di errori o scelte personali sbagliate da parte di un pilota o di un operatore di droni o di un comandante di brigata. Questa fu una scelta politica.

Anche quando si trattava di combattenti, “alcuni dei combattenti uccisi – vale a dire miliziani delle organizzazioni armate – non sono stati uccisi in battaglia ma nelle stesse circostanze “civili” in cui sono stati uccisi anche i loro parenti: nei loro letti, nelle loro case, durante il pasto dell’interruzione del digiuno, nei loro quartieri residenziali”, riferisce Hass. “Le azioni sistematiche e il silenzio mostrano entrambi che Israele trova ‘legittimo’ e ‘proporzionale’ uccidere intere famiglie: se uno dei loro membri è un combattente di Hamas, se un deposito di armi è tenuto nelle vicinanze o nella loro casa, o per qualsiasi altro motivo simile”.

Dunque i ragazzi Bakr sono stati annientati perché giocavano a calcio sulla spiaggia di Gaza e sono usciti da un container che si pensava fosse un centro di comando e controllo di Hamas, o un deposito di armi, o qualcosa del genere. E per quanto “tragico” sia, l’esercito di Israele [che di autodefinisce il più morale del mondo, ndr.] non può essere rimproverato per errori di giudizio “legittimi e proporzionati”. Queste sono la logica e la realtà che prevarranno finché Israele non sarà tenuto a rispondere. Più minori palestinesi soccomberanno a morti “proporzionate” mentre i piloti – i migliori e i più morali – torneranno alle loro famiglie legittime e dormiranno stretti nella loro cupola di ferro [riferimento ironico al sistema antimissilistico israeliano Iron Dome, ndt.] della negazione, convinti che non ci sarà mai un prezzo da pagare, dal momento che il sangue palestinese non vale niente, e lo dice persino la Corte Suprema.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Nega di essere palestinese o muori

Salman Abu Sitta 

17 marzo 2022 – Middle East Monitor

Nega di essere palestinese o muori.” Questo è il messaggio proposto ai rifugiati palestinesi dall’UNRWA [United Nations Relief and Works Agency, ossia Agenzia dell’ONU per il Soccorso e il Lavoro per i rifugiati palestinesi, ndtr.]. È un messaggio incredibilmente scioccante, contrario al diritto internazionale e al mandato stesso dell’UNRWA. L’UNRWA ha ceduto al ricatto americano per conto di Israele: tagliare i fondi a meno che la Palestina scompaia dai libri e dalla memoria.

Questa è la scoperta a cui siamo arrivati dopo il primo incontro con le scuole UNRWA e, tra tutti i posti, proprio in quelle a Gaza.

A settembre dell’anno scorso la Palestine Land Society [Società Palestinese della Terra] aveva lanciato un concorso fra studenti delle scuole superiori a Gaza con il titolo “Questo è il mio villaggio.” Gli studenti dovevano scrivere un tema sulle loro origini in Palestina, fare una ricerca sulle proprie radici chiedendo a genitori e nonni dei loro villaggi di origine e di come fossero diventati rifugiati durante la Nakba (Catastrofe), come fossero arrivati nei campi dell’UNRWA e di cosa sia il loro Diritto al Ritorno. Gli studenti dovevano ottenere testimonianze autentiche dalle proprie famiglie e dai vicini, condurre la propria ricerca su altre fonti e aggiungere, se possibile, foto, mappe o ricordi familiari.

Le scuole pubbliche di Gaza hanno accolto l’idea e informato gli studenti. Le scuole dell’UNRWA, per ordine del personale straniero, hanno proibito la distribuzione dei volantini di invito dell’UNRWA.

Sfidando la proibizione, abbiamo chiesto ai volontari di distribuire i volantini agli studenti ai cancelli delle scuole. La risposta è stata straordinaria. Hanno presentato domanda 1800 studenti. Prevedibilmente la maggioranza assoluta proveniva da scuole dell’UNRWA.

Quattro dei cinque finalisti erano rifugiati e provenivano da queste scuole. Alla cerimonia di premiazione i rappresentanti dell’UNRWA non si sono presentati. Assolutamente vergognoso!

In tutte le scuole abbiamo distribuito mappe della Palestina che mostrano i villaggi svuotati dei loro abitanti e quelli esistenti nel 1948. Di nuovo le scuole dell’UNRWA le hanno rifiutate per ordini superiori.

Com’è possibile che l’UNRWA volti le spalle al proprio mandato e violi il diritto internazionale?

La risposta, timida, ma poco convincente, è stata che i donatori americani, su istruzione di Israele, avevano seguito pedestremente la compiacente Unione Europea e proibito riferimenti alla storia e alla geografia palestinesi, a città e villaggi palestinesi, alla Nakba e alla pulizia etnica per evitare il taglio dei fondi ai servizi dell’UNRWA.

Un ricatto odioso: nega di essere palestinese e o morirai di fame o i tuoi figli senza le scuole vagheranno per le strade. Far tacere la Palestina, negare i crimini di guerra della Nakba, rinnegare la propria patria, la Palestina, questo è il prezzo che si deve pagare per un po’ di cibo e la privazione di un’identità, destinati a essere per sempre dei rifugiati. Neanche George Orwell avrebbe potuto immaginare un tale scenario, né Shakespeare nel suo Mercante di Venezia.

Ciò è avvenuto in nome della “Neutralità”, in un documento intitolato Framework for Cooperation between the US and UNRWA 2021-2022 (Cooperation Framework), [Quadro di Cooperazione fra gli USA e l’UNRWA 2021-2022] che equipara vittima e carnefice.

Si sa che questo documento nella sua interezza, inclusi gli allegati, definisce gli impegni fra UNRWA e gli Stati Uniti per il 2021 e il 2022 riguardo agli interventi.

Questo Quadro non costituisce un accordo internazionale e non stabilisce alcun obbligo fra le parti giuridicamente vincolante né in base al diritto internazionale né alle leggi nazionali. L’UNRWA non ha alcuna autorità per firmarlo.

Abbiamo scritto a Philippe Lazzarine, Commissario Generale dell’UNRWA, facendoglielo notare e sottolineando come, nelle scuole dell’UNRWA si impedisca agli studenti di sapere dove siano Majdal, Faluja [due villaggi palestinesi spopolati nel 1947-49 che ora si trovano in territorio israeliano, ndtr.], Isdud [l’attuale città israeliana di Ashdod, ndtr.], di cosa sia la Nakba, della cacciata del proprio popolo e della distruzione di 500 villaggi.

Questa è davvero una guerra senza precedenti contro i rifugiati e contro i palestinesi come popolo. Contrasta con il mandato dell’UNRWA, che dovrebbe essere perseguito, come stabilito dalla Risoluzione 302 dell’Assemblea Generale fermo restando il paragrafo 11 della Risoluzione 194.

Va parimenti contro l’Articolo 29(1) della Convenzione dei Diritti del Fanciullo. Cancellare la storia e geografia dei minori, negando o limitando le loro opportunità e diritti di conoscere i propri villaggi di origine, come siano diventati rifugiati, il loro diritto al ritorno e il motivo per cui è loro negato, viola tutti e cinque i commi dell’Articolo 29(1) della Convenzione.

Inoltre contravviene alle disposizioni contro le discriminazioni della Convenzione per l’Eliminazione di tutte le forme di Discriminazione Razziale – CERD (articoli 5(e)(v)) e, in base alla Convenzione per la Soppressione e la Punizione del Crimine di Apartheid (articolo 2(c)), è uno degli indicatori dell’apartheid. Fin dagli anni ’80 l’applicabilità ai palestinesi di entrambe le convenzioni è stata ampiamente analizzata dalla commissione ONU della Dichiarazione dei diritti umani (a cominciare dalla CERD) e più recentemente dal rapporto dell’ESCWA [Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale] e dai rapporti di ONG locali e internazionali come Amnesty International, Human Rights Watch e B’tselem.

Lo Statuto di Roma del 1998, la base giuridica della Corte Penale Internazionale, definisce come criminali di guerra anche i complici dei criminali di guerra. Mettere a tacere i crimini di guerra rientra fra queste violazioni. Perciò stendere un velo di silenzio sulla storia e sulla geografia palestinesi è un crimine di guerra.

Abbiamo anche scritto a Moritz Bilagher, direttore ad interim dell’’UNRWA – dipartimento Istruzione, e ad altri funzionari. Ci è stato suggerito di intitolare la mappa della Palestina da distribuire “Palestina storica.” Qui stiamo spaccando il capello in quattro. Etichettare la mappa con la dicitura “Palestina storica” annulla la distinzione fra Palestina come luogo geografico e Palestina come Stato.

La Palestina è la patria dei palestinesi da almeno 2.000 anni. Il suo popolo è conosciuto in tutto il mondo come “palestinesi”, anche nei documenti dell’UNRWA.

La Palestina come Stato è una questione politica, non sta all’UNRWA prendere una decisione in materia. Né la Palestina né Israele come Stati hanno dei confini generalmente riconosciuti, o sono riconosciuti universalmente dagli Stati membri dell’ONU.

I comitati popolari nei campi profughi hanno protestato contro questa azione con modalità che senza dubbio con il tempo si amplieranno. Un gruppo di avvocati di diritto internazionale sta mettendo a punto una memoria ufficiale sul tema che potrebbe portare a una petizione presso il Consiglio per i Diritti Umani.

Noi invitiamo tutti coloro che sono interessati a protestare contro il ricatto USA e l’asservimento dell’UNRWA.

Mandate le vostre proteste a:

UNRWA Commissioner General Philippe LazzarineLazzarini@unrwa.org

UNRWA Acting/ Head, Education Dpt, Moritz BilagherM.bilagher@unrwa.org

UNRWA Head of External Relations, Tamara AlrifaiT.alrifai@unrwa.org

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il Consiglio per i Diritti Umani adotta la prima risoluzione a favore della Palestina

31 marzo 2022 – Middle East Monitor

Martedì il Consiglio per i Diritti Umani dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ha approvato [quasi, n.d.t.] all’unanimità una risoluzione per accertare le responsabilità e per il conseguimento della giustizia in Palestina.

37 Paesi hanno votato a favore della risoluzione, 7 si sono astenuti e 3 hanno votato contro.

Il ministero palestinese per gli Affari Esteri e per gli Emigrati ha accolto positivamente la risoluzione dell’UNHRC, ringraziando gli Stati membri che hanno votato a favore della bozza di risoluzione presentata dallo Stato di Palestina.

In una dichiarazione il ministero ha affermato che il voto unanime riflette “la salda posizione degli Stati membri sull’importanza della responsabilità del regime coloniale e di apartheid israeliano”.

Secondo il comunicato, 37 Nazioni hanno votato a favore della risoluzione, tra cui Paesi arabi ed europei, la Cina e importanti Nazioni in Africa e in Asia, mentre sette si sono astenute, cioè Ucraina, Regno Unito, Camerun, Isole Marshall, India, Nepal e Honduras. Malawi, Brasile e Stati Uniti hanno votato contro la risoluzione.

Il ministero ha affermato che “il consenso internazionale e il voto in favore della risoluzione sulla Palestina è una forma di protezione per il popolo palestinese e per preservare i suoi diritti, il che condurrebbe in ultima istanza allo smantellamento del regime israeliano di apartheid,” aggiungendo che il voto è una prova “dell’impegno di queste Nazioni nel garantire che sia chiesto conto a coloro che si sono macchiati di crimini di guerra e crimini contro l’umanità a danno del popolo palestinese.

Il ministero ha sollecitato la comunità internazionale a “chiedere conto allo Stato di Israele e ai criminali di guerra israeliani” e ha sottolineato che “la politica dei doppi standard e del carattere selettivo nell’implementazione delle leggi del diritto internazionale rischia di indebolire l’ordine internazionale basato sul diritto.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Una dipendente di Google dice che la compagnia ha cercato di trasferirla in Brasile dopo che ha criticato un contratto con Israele

Michael Arria

18 marzo 2022 – Mondoweiss

Una dipendente di Google in California dice di aver subito una ritorsione dopo aver criticato il Progetto Nimbus

Una dipendente di Google dice di essere stata trasferita in Brasile per aver chiesto alla compagnia di interrompere il suo contratto con il governo di Israele

Questa settimana il Los Angeles Times ha riportato il caso di Ariel Koren, una responsabile commerciale di Google per l’Educazione. Koren, che lavorava alla direzione generale di Mountain View del gigante della tecnologia, in California, ha ripetutamente criticato il suo datore di lavoro riguardo al Progetto Nimbus, un contratto da 1,2 miliardi di dollari che coinvolge Google, i servizi internet di Amazon e Israele. Il progetto contribuisce a fornire servizi cloud per l’esercito e il governo del Paese.

Nell’ottobre 2021 Koren ha contribuito alla stesura di una lettera aperta di condanna di tale collaborazione firmata da centinaia di dipendenti di Google e di Amazon. “Non possiamo fare finta di niente quando i prodotti che fabbrichiamo vengono usati per negare ai palestinesi i loro diritti fondamentali, per scacciarli dalle loro case ed attaccarli nella Striscia di Gaza – azioni che hanno provocato indagini per crimini di guerra da parte della Corte Penale Internazionale”, vi è scritto. Noi immaginiamo un futuro in cui la tecnologia unisca le persone e renda migliore la vita per tutti. Per costruire un tale più luminoso futuro le compagnie per cui lavoriamo devono smettere di stipulare contratti con qualunque organizzazione militarizzata, negli USA e altrove.”

Koren ha citato il documento che la compagnia le ha recapitato a novembre con un ultimatum: avrebbe dovuto trasferirsi nell’ufficio di Google a San Paolo, Brasile, o essere licenziata. Secondo Koren, in seguito il suo dirigente ha ammesso che non prevedeva che lei si sarebbe trasferita in Brasile, cosa che indica che Google stava cercando con questa offerta di estrometterla dalla compagnia. “È stato semplicemente assurdo. Tutta la vicenda è stata del tutto incredibile.”

Koren ha sporto denuncia al dipartimento risorse umane di Google e una denuncia di pratica aziendale sleale presso il National Labor Relations Board (NLRB) [Agenzia governativa USA per il rispetto del diritto del lavoro, ndtr.]. Google sostiene di aver già esaminato la situazione e di non aver riscontrato prove di ritorsione. Koren attualmente lavora ancora in California e non è chiaro se verrà costretta ad andarsene.

Una petizione di sostegno a Koren è già stata firmata da oltre 12.000 persone. “I lavoratori hanno il diritto di esprimersi riguardo a come viene utilizzato il proprio lavoro, senza il timore di perdere il loro impiego – soprattutto quando si opera all’interno di contratti poco etici che violano i diritti umani”, vi si legge. “Sosteniamo le centinaia di lavoratori di Google che hanno già firmato una petizione in appoggio ad Ariel e chiediamo che Google rispetti i lavoratori che si impegnano per i diritti umani – a cominciare dalla garanzia che Ariel rimanga al suo posto.”

Un’altra petizione, scritta da colleghi di Koren, è stata firmata da oltre 500 dipendenti di Google. “Purtroppo il caso di Ariel è in linea con i pericolosi precedenti di ritorsioni di Google nei confronti di lavoratori che negli scorsi anni hanno riempito i titoli dei principali giornali – e in particolare riguardo a quei dipendenti che si sono espressi contro contratti che permettono violenze di Stato contro persone discriminate”, vi è scritto.

Lo scorso autunno, dopo che i dipendenti hanno diffuso la lettera di condanna del Progetto Nimbus, un gruppo di organizzazioni legali (compresi ‘Palestine Legal’, ‘National Lawyers Guild’ e il Centro per i Diritti Costituzionali) ha inviato una lettera di ammonimento alla compagnia relativamente ad illecite ritorsioni contro i lavoratori. “Le sottoscritte organizzazioni per i diritti civili vi chiedono di rispettare le espressioni politiche e nazionali dei vostri dipendenti e di evitare di intraprendere azioni ostili nei loro confronti”, vi si legge. “Le organizzazioni della società civile, le associazioni giuridiche progressiste e anche i mezzi di comunicazione stanno monitorando da vicino la situazione nell’ambiente di lavoro nella vostra azienda per garantire che vengano rispettati i diritti dei vostri dipendenti, dei palestinesi o di altri.”

Michael Arria

Michael Arria è il corrispondente per gli Stati Uniti di Mondoweiss. I suoi articoli sono stati pubblicati su ‘In These Times’, ‘The Appeal’ e ‘Truthout. È autore di ‘Medium Blue: The politics of MSNBC’.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’esercito israeliano è pronto ad invadere Gaza

14 Marzo 2022 – Middle East Monitor

Ieri Arab48 ha riferito che il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Aviv Kohavi, ha affermato che il suo esercito è pronto ad invadere Gaza e altre città palestinesi più efficacemente di quanto accaduto a Jenin nel 2002.

Il canale televisivo israeliano Kan 11 ha riportato il discorso di Kohavi per il 20° anniversario dell’invasione nel 2002 di Jenin e di altre città della Cisgiordania nel tentativo di soffocare la Seconda Intifada.

Il tentativo dell’esercito israeliano di fermare l’Intifada fallì nonostante i massacri e i crimini di guerra che vennero compiuti. Allora il primo ministro israeliano, il defunto Ariel Sharon, ordinò la costruzione dell’illegale muro di separazione.

Kohavi ha affermato che il piano d’azione portato avanti a Jenin nel 2002, tagliando le comunicazioni, l’acqua e l’elettricità alla città, potrebbe essere ripetuto a Gaza nel 2022, “ma in un modo più efficace”.

Kohavi ha dichiarato che “la capacità dell’esercito israeliano di occupare le città palestinesi e di amministrarle ha dato alle leadership politica e militare israeliane e ugualmente ai comandanti sul campo dell’esercito israeliano ampia credibilità che l’esercito sia in grado di raggiungere qualunque luogo.”

L’ultima invasione israeliana di Gaza è stata nel 2014, quando lo Stato di Israele ha ucciso più di 2.200 palestinesi, inclusi 551 bambini. Da allora ha effettuato un certo numero di offensive contro la striscia, l’ultima delle quali è stata a maggio 2021, quando in 11 giorni sono stati uccisi 254 palestinesi. L’esercito di occupazione bombarda periodicamente Gaza, fa volare in cielo droni da ricognizione e danneggia i raccolti nell’enclave assediata.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)