L’accesso all’acqua potabile è un diritto dell’umanità. Perché in Palestina no?

Ramzy Baroud

15 aprile 2019, Middle East Monitor

Il libero accesso all’acqua potabile è un diritto fondamentale dell’umanità. Non si tratta solo di una asserzione dettata dal buon senso, ma di un vero e proprio obbligo legale sancito dal diritto internazionale. Nel novembre 2002 la Commissione ONU per i Diritti Economici, Sociali e Culturali adottò il “Commento Generale nr.15” riguardante il diritto all’acqua: “Il diritto umano all’acqua è indispensabile per condurre una vita di umana dignità. È un prerequisito per la realizzazione di altri diritti umani” (Articolo I.1)

Ma il dibattito sull’acqua come diritto dell’umanità si concluse solo anni dopo, con la Risoluzione 64/292 del 28 luglio 2010 dell’Assemblea Generale dell’ONU. Essa riconosceva esplicitamente “il diritto all’acqua potabile pulita e sicura come diritto umano essenziale per il pieno godimento della vita e di tutti gli altri diritti umani”.
Ha perfettamente senso: senza acqua non c’è vita. Tuttavia, come accade per qualunque altro diritto umano, sembra che alla Palestina venga negato anche questo.

La crisi idrica si sta abbattendo sull’intero mondo ma l’area più colpita è proprio il Medio Oriente. Le siccità legate al cambiamento climatico, le perturbazioni improvvise, la mancanza di una pianificazione centralizzata, i conflitti militari, tra le altre cose, hanno prodotto un senso di insicurezza idrica senza precedenti.

La situazione però si fa ancora più complicata in Palestina, dove la crisi idrica si collega direttamente al contesto politico più generale dell’occupazione israeliana: l’apartheid, gli insediamenti ebrei illegali, l’assedio e la guerra. Ma mentre è stata posta ragionevolmente molta attenzione sugli aspetti militari dell’occupazione israeliana, le politiche coloniali dello Stato in materia di acqua hanno attirato decisamente meno attenzione, nonostante siano un problema pressante e critico.

Secondo Ashraf Amra, il controllo totale dell’acqua è stata una delle prime politiche messe in atto da Israele dopo l’istituzione del regime militare a seguito dell’occupazione di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Striscia di Gaza nel giugno 1967. Le politiche discriminatorie di Israele, che usa e abusa delle risorse idriche palestinesi, può definirsi vero e proprio “apartheid idrico”.

Il consumo eccessivo di acqua di Israele, l’uso irregolare delle dighe, la negazione del diritto dei palestinesi ad avere la propria acqua o a scavare nuovi pozzi, hanno tutti conseguenze ambientali enormi e probabilmente irreversibili, danneggiando in maniera fondamentale l’intero ecosistema acquatico.

In Cisgiordania, Israele usa l’acqua per consolidare la dipendenza dei palestinesi dall’occupazione, usando una forma crudele di dipendenza economica per mantenere i palestinesi in un rapporto subalterno. Tale modello è supportato dal controllo delle frontiere, i checkpoint militari, la riscossione di tasse, le chiusure, i coprifuochi militari e la negazione dei permessi edilizi. La dipendenza idrica è parte integrante di questa strategia.

L’ “Accordo ad interim sulla Cisgiordania e la Striscia di Gaza”, conosciuto come l’Accordo di Oslo II, firmato nel settembre del 1995 a Taba, in Egitto, inasprì le iniquità di Oslo I firmato nel settembre 1993: oltre il 71% delle falde acquifere palestinesi furono messe a disposizione di Israele, mentre solo il 17% furono assegnate ai palestinesi.
Ancora più sconvolgente, il nuovo accordo incoraggiava un meccanismo volto a forzare i palestinesi a comprare la loro stessa acqua da Israele, rinforzando ancora di più il rapporto di sudditanza clientelare della Autorità Palestinese nei confronti dello Stato occupante. La compagnia idrica israeliana Mekorot, ente interamente governativo, abusa dei suoi privilegi per premiare o punire i palestinesi a suo piacimento. Nell’estate del 2016, ad esempio, l’intera comunità palestinese nella Cisgiordania occupata fu privata di acqua perché l’Autorità Palestinese non era riuscita a pagare le ingenti somme necessarie a ricomprare quell’acqua proveniente dalle stesse fonti naturali palestinesi.
Sconcertante, vero? Eppure c’è ancora chi si chiede come mai gli accordi di Oslo abbiano fallito nel tentativo di portare la tanto agognata pace nel territorio.

I numeri di questo apartheid idrico parlano chiaro: un palestinese in Cisgiordania usa in media 72 litri di acqua al giorno, un israeliano ne consuma dai 240 ai 300. Le responsabilità politiche di questa disuguaglianza nella distribuzione delle risorse d’acqua disponibili sono da attribuirsi non solo alla crudele occupazione israeliana ma anche alle politiche poco lungimiranti della leadership palestinese.
La situazione a Gaza è addirittura peggiore: il territorio sarà ufficialmente “inabitabile” entro il 2020, secondo un rapporto delle Nazioni Unite.
È letteralmente l’anno prossimo. La principale causa di questa sinistra previsione è proprio la crisi idrica di Gaza.

Secondo uno studio dellOxfam, “meno del 4% dell’acqua corrente [di Gaza] è potabile e il mare circostante è inquinato dagli scarichi fognari.” La ricerca dell’Oxfam si concludeva indicando la correlazione tra l’inquinamento idrico e il drastico aumento delle patologie renali nella Striscia di Gaza. La crisi idrico-sanitaria di Gaza si sta inasprendo anche per le frequenti chiusure dell’unica centrale elettrica operativa dell’enclave, demolendo qualsiasi speranza di trovare un rimedio.

La società statunitense RAND Corporation ha comprovato che un quarto di tutte le malattie diffuse nella zona assediata della striscia di Gaza hanno origine nella carenza di acqua. Altrettanto drammatiche sono le stime della RAND secondo cui, stando ai dati dell’Organizzazione Internazionale della Sanità, il 97% dell’acqua presente a Gaza è inadatta al consumo umano. Una situazione che in termini di sofferenza umana non può che definirsi orribile.

Gli ospedali della Striscia di Gaza stanno cercando di affrontare le grosse epidemie di malattie e patologie causate dall’acqua sporca, ma gli mancano strumenti adeguati, sono vessati dai continui tagli alla corrente elettrica e soffrono essi stessi dalla mancanza di acqua pulita. “L’acqua è spesso assente ad Al-Shifa, il più grande ospedale di Gaza” – prosegue il rapporto della RAND – “e anche quando l’acqua c’è, dottori e infermiere non riescono a sterilizzare le proprie mani per effettuare interventi chirurgici a causa della sua cattiva qualità”.
Secondo la piattaforma multimediale sull
ambiente Circle of Blue, dei due milioni di residenti a Gaza, solo il 10% ha accesso ad acqua pulita e potabile.
“I miei figli si ammalano perché manca l’acqua”, racconta a Circle of Blue Madlain Al-Najjar, madre di sei figli residente nella Striscia di Gaza, “soffrono spesso di vomito e diarrea. Spesso so riconoscere che l’acqua non è pulita, ma non abbiamo alternative”.

Il giornale inglese The Independent ha raccontato la storia di Noha Sais, madre ventisettenne di cinque figli residente a Gaza. “Nell’estate del 2017, tutti i figli di Noha si ammalarono improvvisamente, vomitando senza sosta, e furono ricoverati. Le acque putride del Mediterraneo di Gaza li avevano avvelenati”.

Il più giovane, Mohamed, un bambino di 5 anni vigoroso e in salute, contrasse un virus ignoto dal mare che si impadronì completamente del suo corpo e del suo cervello. Tre giorni dopo il viaggio, andò in coma. Dopo una settimana era già morto.”

Come Noha racconta al giornale, “I dottori dissero che l’origine dell’infezione era un germe proveniente dall’acqua di mare inquinata, ma che non potevano stabilire esattamente quale fosse. Dissero solo che se mai mio figlio si fosse ripreso, non sarebbe mai più stato lo stesso, che sarebbe stato un vegetale.”

Molti casi simili sono stati registrati in tutta Gaza, e non se ne vede la fine. Le politiche idriche di Israele sono solo una sfaccettatura di una ben più ampia guerra contro i palestinesi con l’intento di rafforzare il controllo coloniale.

A giudicare dalle testimonianze, i sionisti non hanno certo fatto “fiorire il deserto”, come afferma la propaganda israeliana. Da quando si è insediata sulle macerie di più di cinquecento città e villaggi palestinesi distrutti tra il 1947 e il 48, Israele ha fatto l’esatto opposto.

La Palestina contiene un potenziale di colonizzazione di cui gli arabi non necessitano né sono in grado di sfruttare”: queste sono le parole che il padre fondatore di Israele e primo Primo Ministro David Ben Gurion scriveva a suo figlio nel 1937. L’Israele sionista, tuttavia, ha fatto molto più che “sfruttare” quel “potenziale di colonizzazione”; ha anche assoggettato la Palestina storica a una estenuante e cruenta campagna di distruzione che non si è ancora conclusa, e che è probabile si protragga fin quando i sionisti prevarranno in Israele e nella Palestina occupata. È una ideologia razzista, egemonica e sfruttatrice. Se l’accesso all’acqua pulita è a tutti gli effetti un diritto dell’umanità, perché allora il mondo permette che Israele faccia della Palestina e dei suoi abitanti una eccezione?

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Maria Monno)




Israele usa la tecnologia per non dover fare i conti con quel che sta facendo ai palestinesi.

Ofri Ilany

4 aprile 2018, Haaretz

Nell’estate del 2017, i siti di notizie israeliani raccontavano di una nuova tecnologia sviluppata nei laboratori dell’IDF (Forze di Difesa Israeliane): un software per combattere la sindrome da stress post-traumatico. Inizialmente si prevedeva un utilizzo del programma tra i soldati al fronte: li avrebbe allenati a identificare gli “elementi di minaccia” e avrebbe aumentato la loro resistenza allo stress post-traumatico. Lo sviluppo (di questo software, n.d.t.) venne pubblicizzato nel periodo in cui era stato reso noto che a 143 soldati che avevano combattuto a Gaza nel 2014 era stato ufficialmente diagnosticato il Disturbo da Stress Post-Traumatico (DPTS). La società israeliana, da allora, è andata avanti velocemente, lasciandosi alle spalle la sanguinosa incursione a Gaza per far fronte a innumerevoli altre questioni. Ma, per i soldati rientrati, l’orrore non è scomparso. Le urla di terrore, i corpi in pezzi e la sensazione di impotenza si ripresentano in flashback quando meno te l’aspetti. Gli ebrei israeliani erano quasi tutti convinti che la guerra a Gaza fosse giusta e necessaria, e le truppe fortemente motivate che hanno assaltato i quartieri di Gaza erano sostenute da dimostrazioni di incoraggiamento, canzoni confortanti di cantanti famosi ed esortazioni di rabbini militari e personalità televisive. Tuttavia, a quanto pare, mandare la Generazione Y a fare incursioni militari in zone densamente abitate lascia qualche segno sulle loro anime. E Israele, come affronta il problema? Inventa una nuova tecnologia, ovvio. “Formazione dell’attenzione”, questo è il nome che le ha dato il responsabile della divisione per la sanità mentale delle forze di terra, che spiega che tale metodo migliorerebbe le prestazioni e ridurrebbe il tasso di abbandono del servizio militare. E in futuro, a quanto si dice, ci sarà un sistema di cura del trauma attraverso la realtà virtuale, con magari anche il supporto del MDMA (anche conosciuta come ecstasy). Questi potrebbero essere sviluppi decisamente importanti, ma racchiudono anche il problema fondamentale di Israele: la convinzione che per ogni ostacolo ci sia una soluzione tecnologica. Nei suoi anni da Primo Ministro, Benjamin Netanyahu ha cercato di alzare il morale israeliano a livelli mai visti prima. Molti israeliani provano una costante sensazione di euforia, come se vivessero dentro un’utopia divenuta realtà. Il giornalista Israel Harel aveva ragione quando ha scritto, nell’editoriale della scorsa settimana, che Israele è in piena fioritura. La vecchia Israele, spaventata e in preda all’ansia, è diventata oggi una società sicura di sé che gode della prosperità del proprio Stato. Negli ultimi due anni, anche quella sorta di paranoia che un tempo era caratteristica degli israeliani è stata rimpiazzata da un nuovo tipo di mentalità: tutto è meraviglioso, siamo forti, siamo popolari, tutti ci amano e noi amiamo noi stessi. In realtà, Israele ha fatto in modo di superare molti dei problemi che la preoccupavano in passato con l’aiuto di soluzioni tecnologiche. I missili che minacciavano le aree di confine vengono oggi intercettati dall’Iron Dome. Le ondate di rifugiati africani sono state bloccate da un muro. La crisi idrica è stata contenuta da impianti di desalinizzazione. La minaccia demografica viene contrastata dai passi avanti nei trattamenti per l’infertilità. E il BDS viene combattuto dall’impegno di squadre addestrate di persone che rispondono e fanno propaganda sui social media. Perfino l’ “intifada dei coltelli” è stata neutralizzata da una qualche specie di algoritmo che permetteva di identificare il potenziale attentatore addirittura prima che lui sapesse di esserlo. Praticamente per ogni minaccia il Paese ha prodotto una soluzione tecnologica appropriata. È stata creata una toppa per ogni strappo nella sicurezza. Tutto ciò può essere considerato alquanto impressionante e ammirevole. Ma in realtà non è stato risolto alcun problema politico. I palestinesi sono ancora qui ed è chiaro che sono la maggioranza nell’area compresa tra il mare e il fiume Giordano. Quindi la situazione resta invariata solo grazie ai mezzi di brutale coercizione. Lo Stato ebraico ha sviluppato una eccezionale capacità di gestione delle masse umane su larga scala. Con l’aiuto di muri, checkpoint, alleanze, ormoni, software e altri sistemi sofisticati, gestisce la popolazione palestinese e quella ebraica in modo da limitare la pressione esercitata sul regime. Usando la tecnologia del “freno alla storia”, è stata in grado di rallentare processi storici che sembravano inevitabili. Ma, col passare del tempo, la tensione insita nel regime sionista relativamente a chi non gode dei diritti politici sta spingendo le autorità a impiegare misure sempre più disperate. La gaudente Israele anela a reprimere la propria consapevolezza dei palestinesi e smania per buttarli fuori dal sistema, altrimenti dovrà riconoscere che qui ci sono altri esseri umani con aspirazioni legittime. Queste non sono persone come te, ci dicono, loro sono “minacce”, mostri di videogame che devono essere eliminati per passare al prossimo livello. E continuano a spuntar fuori in ogni momento. A questo punto, abbiamo fatto ricorso alla manipolazione tecnologica su noi stessi per fare una specie di allenamento mentale, in modo che saremo in grado di affrontare questa sfida. Siamo arrivati, così, alla situazione in cui centinaia di cecchini sparano a manifestanti disarmati e li uccidono al ritmo di 10 al giorno, e nessuno si rifiuta di obbedire agli ordini. Durante la prima intifada, ma anche nella seconda, una cosa del genere avrebbe provocato shock e orrore. Ma ora non più. Ci siamo allenati, usando l’ideologia, la religione, gli algoritmi, la mindfulness, qualunque cosa, per raggiungere uno stato di consapevolezza che ci permette di superare l’istinto elementare della compassione che normalmente sorge spontaneo davanti alla sofferenza umana. Le migliaia di persone dall’altra parte della barricata vengono descritte con ogni tipo di etichetta. I politici e gli analisti le dipingono come ribelli, provocatori, terroristi, nemici, infiltrati, islamici, antisemiti, addirittura omofobi. Ma, come amano dire i commentatori televisivi, a scanso di equivoci queste cose, che hanno braccia e gambe e teste, si chiamano anche “esseri umani”. E il loro rifiuto di accettare una vita in cui sono intrappolati è esattamente ciò che li rende umani. Il loro principale crimine, quello per il quale vengono colpiti dai lacrimogeni, da pallottole di gomma e da colpi d’arma da fuoco, è aver osato apparire nel nostro campo visivo proprio quando stavamo per sederci a mangiare matza e haroset (pane azzimo e marmellata densa di frutta e noci, cibi tipici della pasqua ebraica, n.d.t.). Un anno fa, Israele ha cercato di oscurare quasi completamente il 50° anniversario dell’occupazione. Da allora, la sua arroganza è aumentata, e oggi programma le celebrazioni per il 70° anniversario della sua nascita, questo mese, come un’orgia onanistica. Autorizzati dalle dichiarazioni d’amore di Donald Trump, Netanyahu e il suo governo aspirano a incenerire una volta per tutte il progetto palestinese, con 70 ore di danze Hora. Ma a questo punto qualcuno dovrebbe andare a rovinargli la festa. Quindi, in un certo senso, le marce palestinesi sono motivo di speranza, perché costringono gli Israeliani a ricordarsi che vivono in questa terra insieme a un altro popolo, che ha le proprie aspirazioni. Con o senza l’appoggio di Trump, dovremo tenerne conto. O forse potremmo sviluppare nuove tecnologie di auto-inganno e cercare altri modi di curare la psiche dei cecchini che sparano ai civili lungo il confine. Funghi allucinogeni, magari.
(Traduzione: Elena Bellini)