Gerusalemme: palestinesi rischiano lo sgombero a seguito di una demolizione

Gerusalemme: palestinesi rischiano lo sgombero a seguito di una demolizione

Settanta abitanti affermano che se le autorità israeliane autorizzeranno la demolizione del loro edificio nella Gerusalemme est occupata rimarranno senza casa.

Zena Al Tahhan

9 novembre 2021 – Al Jazeera

 

Al-Tur, Gerusalemme Est occupata – A Gerusalemme, nel quartiere di al-Tur, circa 70 palestinesi, di cui più o meno la metà minori, sono a rischio di sgombero forzato in attesa di una decisione del tribunale israeliano sul destino dell’edificio di cinque piani in cui vivono.

Il 4 novembre le autorità di occupazione israeliane hanno informato i residenti che avrebbero potuto restare nelle loro case ancora una settimana prima che l’edificio venisse demolito per l’assenza di una licenza edilizia.

Gli abitanti hanno dichiarato ad Al Jazeera che domenica gli è stato proposto un altro ultimatum: pagare 200.000 shekel (55.572 euro) rimborsabili e avere tempo fino alla fine del mese per effettuare da sé la demolizione, o [lasciare che] lo Stato lo faccia per loro – al costo di due milioni di shekel (558.000 euro).

Hussein Ghanayem, l’avvocato dei condomini, ha affermato di aver presentato ricorso lunedì e che giovedì è prevista un’udienza in tribunale per stabilire quali misure potranno essere intraprese dalle autorità.

Il condominio di cinque piani si trova nell’abitato di Khallet al-Ain, all’interno del quartiere di Al-Tur (pronuncia At-Tur), noto anche come Jabal al-Zaytun (Monte degli Ulivi). Secondo l’avvocato, come nel caso di molte altre case della zona, fin dalla sua costruzione nel 2012, senza il rilascio da parte israeliana di una licenza edilizia, il palazzo ospita i 70 abitanti appartenenti a 10 famiglie.

Le organizzazioni per i diritti umani e i palestinesi hanno da tempo documentato il rifiuto delle autorità israeliane di rilasciare licenze edilizie nella Gerusalemme Est occupata, il che secondo le Nazioni Unite fa parte di un “regime di pianificazione restrittivo” che “rende virtualmente impossibile per i palestinesi ottenere permessi di costruzione, impedendo lo sviluppo di alloggi, infrastrutture e mezzi di sussistenza adeguati”.

Gli abitanti hanno scelto di rimanere nell’edificio fino all’arrivo dei bulldozer. Hanno ripetutamente chiesto di ottenere un permesso e hanno trascorso quasi nove anni nei tribunali combattendo contro l’ordine di demolizione, ma riferiscono che ogni volta si sono dovuti scontrare col rifiuto da parte delle autorità di occupazione con vari pretesti.

“Restiamo qui fino a quando non verranno e ci obbligheranno ad andarcene”, ha detto lunedì mattina la 47enne Rania al-Ghouj, mentre stava facendo colazione con i familiari nel suo appartamento al piano terra.

Lei e altri inquilini affermano di non avere i 200.000 shekel da versare allo Stato, né di voler demolire da sé l’edificio a causa dei rischi per la sicurezza.

“È uno sgombero forzato collettivo. Non c’è niente che possiamo fare a questo punto”, fa eco Iyad, il figlio 25enne di Rania.

“Pensano che se demoliranno le nostre case si libereranno di noi – non sanno che questo aumenterà solo la nostra resilienza”, aggiunge Iyad, mentre infila il falafel in un pezzo di ka’ak, una qualità di pane palestinese con sesamo tipico di Gerusalemme.

Da quando si sono trasferite nell’edificio le famiglie hanno pagato mensilmente alla municipalità di Gerusalemme controllata da Israele sanzioni per un totale di 75.000 shekel (20.917 euro) all’anno per famiglia per aver vissuto in un “edificio senza licenza”. Pagano anche un’elevata tassa di proprietà nota come Arnona in ebraico, così come gli onorari degli avvocati. Molti di loro dicono di essere indebitati, mentre altri affermano di non potersi permettere di prendere una casa in affitto in un’altra zona.

Secondo l’avvocato Ghanayem il terreno è proprietà privata di un membro della famiglia Abu Sbeitan, che possiede degli appartamenti nell’edificio. Ma egli afferma che le autorità di occupazione hanno rifiutato di concedere una licenza edilizia, sostenendo che il terreno “è destinato ad uso pubblico”. L’avvocato riferisce ad Al Jazeera che le autorità hanno dichiarato di voler invece costruire una scuola da destinare a quel territorio.

Secondo le Nazioni Unite solo il 13% della Gerusalemme Est occupata, che Israele ha annesso dopo la guerra del 1967, gran parte della quale è già stata edificata, è attualmente destinata ad opere di sviluppo e di tipo residenziale dei palestinesi.

“Una pianificazione inadeguata e inappropriata dei quartieri palestinesi ha portato al diffuso fenomeno delle costruzioni ‘abusive’ e della demolizione di strutture da parte delle autorità israeliane”, ha affermato l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA).

Circa il 57% di tutta la terra nella Gerusalemme est occupata è stato espropriato, anche a proprietari palestinesi privati, sia per la costruzione di colonie illegali che per la destinazione di zone territoriali ad “aree verdi e infrastrutture pubbliche”. Il restante 30%, osserva l’OCHA, comprende “aree escluse dal piano regolatore” in cui è vietata la costruzione.

‘Prosciugare i nostri nervi’

Myassar Abu Halaweh, una giovane madre di tre figlie, si è trasferita nell’edificio con suo marito nel 2013 dopo aver venduto parte del suo oro per permettersi un acconto per l’acquisto dell’appartamento, all’epoca del valore di 86.600 euro.

La 31enne ha detto ad Al Jazeera che la decisione del 4 novembre è stata uno shock per i residenti, che speravano di ricevere prima o poi una licenza edilizia.

“Nel corso degli ultimi nove anni ci siamo sempre trovati di fronte alla stessa situazione – abbiamo già ricevuto diversi ordini di demolizione, ma non ci siamo arresi – abbiamo continuato a fare ricorso contro le decisioni”, dice Abu Halaweh. “L’anno scorso abbiamo avuto delle indicazioni in base alle quali avremmo ottenuto la licenza, quindi io e mio marito abbiamo iniziato a investire di più nella nostra casa”.

“Questa doveva essere la casa in cui sistemarci. È come se ti rimandassero al punto di partenza quando finalmente cominci a vedere la tua vita procedere come dovrebbe.”

Mi sono laureata mentre vivevo in questa casa, in essa ho partorito, vi ho cresciuto le mie figlie. Essa è testimone dell’amore che abbiamo coltivato nella nostra famiglia. Il tempo che ci abbiamo trascorso durante il coronavirus!” prosegue con le lacrime che le rigano il viso, finché la figlia più piccola, Mariam di cinque anni, l’abbraccia e le dà un bacio.

“Ci stanno stressando, prosciugandoci finanziariamente ed emotivamente”, dice, aggiungendo che lei e suo marito stanno ancora pagando il costo dell’appartamento.

“Resteremo qui, in una tenda. Perché dovremmo partire con tanta facilità? Questo non è diverso da Sheikh Jarrah. Settanta persone senza casa sono un’altra Nakba [castrofe in arabo, in riferimento all’espulsione dei palestinesi nel 1947-49, ndtr.]”.

Nessun luogo dove espandersi

At-Tur è uno dei quartieri palestinesi più sovraffollati di Gerusalemme. Sui terreni del quartiere sono state costruite due colonie israeliane illegali, mentre l’espansione è bloccata dai vicini villaggi palestinesi, dalle strade dei coloni e dal muro di separazione.

Secondo Bimkom – un’organizzazione israeliana per i diritti composta da urbanisti e architetti – il “nucleo storico” di At-Tur “presenta una notevole densità abitativa e non ha quasi nessuno spazio per l’edilizia residenziale”.

L’organizzazione per i diritti legati alla progettazione urbana ha osservato che “l’unica speranza di espansione è a nord-est, dove si trova l’abitato non riconosciuto di Khallet al-Ain”, ma che lì è stata proposta la progettazione di un parco nazionale, per cui “ulteriori complessi abitativi sono considerati illegali in quanto costruiti su aree non destinate all’edilizia abitativa”.

Nel 2014 Bimkom scriveva: “Gli abitanti di At-Tur, principalmente quelli che si trovano nelle aree non riconosciute e non pianificate, vivono sotto la costante minaccia di demolizioni di case e ordini di evacuazione”.

Ghanayem riferisce ad Al Jazeera di difendere nella zona di Khallet al-Ain gli abitanti di altri 155 edifici e abitazioni prive di licenza.

“Dal 1967 ad oggi non hanno creato un piano regolatore che soddisfi le esigenze degli abitanti di At-Tur”, afferma Ghanayem. “L’edificio di At-Tur è privo di licenza non perché le persone non la vogliono ottenere, ma a causa della situazione in cui le persone vivono”,  aggiunge, rilevando il drammatico aumento della popolazione del quartiere rispetto alla mancanza di licenze rilasciate dal Comune di Gerusalemme.

Secondo gli organi di informazione israeliani domenica il comune ha presentato una mappa strutturale per At-Tur e la vicina città di al-Issawiya che dovrà essere discussa e approvata dalle autorità. Non è chiaro se il piano consentirà agli abitanti di ottenere le licenze, processo lungo e costoso sia per fabbricati esistenti che nuovi.

Secondo l’OCHA almeno un terzo di tutte le case palestinesi nella Gerusalemme est occupata è privo di licenza edilizia, il che mette potenzialmente a rischio di sgombero più di 100.000 abitanti.

Le ONG locali e le organizzazioni per i diritti hanno a lungo indicato una serie di pratiche e politiche israeliane a Gerusalemme volte ad alterare il rapporto demografico a favore degli ebrei, un obiettivo definito nel piano generale del comune del 2000 nei termini di “mantenere una solida maggioranza ebraica nella città”.

Secondo le organizzazioni per i diritti umani l’espansione illegale delle colonie, la demolizione di case palestinesi e le restrizioni allo sviluppo urbanistico sono alcune delle modalità principali utilizzate per realizzare questo obiettivo.

‘Nessuna scusa

Tornando a casa della famiglia al-Ghouj, Iyad, che vive con i suoi genitori, insieme ai suoi due figli, moglie e fratelli nel loro appartamento con tre camere da letto, dice ad Al Jazeera che spera che i suoi figli “avranno un futuro migliore” del suo.

“Non c’è nessuna alternativa per noi, nessun posto dove andare. Ci sono spazi enormi qui, non ci sono scuse per proibirci di ottenere una licenza”, sostiene Iyad, indicando il grande spazio aperto adiacente all’edificio.

“Il mondo dovrebbe venire a vedere l’ingiustizia in cui vive il popolo palestinese, l’umiliazione. Non siamo né i primi né gli ultimi ad affrontare tutto questo.

Assistiamo al proliferare di costruzioni in colonie come Modi’in, o a come in Cisgiordania un gruppo di coloni piazza case mobili e pochi anni dopo diventa una colonia”, dice Iyad.

Fayez Khalafawi, 60 anni, la cui famiglia possiede due appartamenti nell’edificio, è d’accordo.

“Se facciamo venire a vivere qui i coloni, otterranno un permesso in 24 ore e lo Stato farà di tutto per loro”, dice ad Al Jazeera.

“Il Comune di Gerusalemme non vuole palestinesi in città”.

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Khan al-Ahmar: peggio di un crimine di guerra

Nota redazionale: pubblichiamo solo ora questo articolo del 9 luglio 2018 relativo alla minaccia di demolizione del villaggio di Khan al-Ahmar. All’epoca la distruzione e la deportazione degli abitanti vennero bloccate da un ricorso all’Alta corte israeliana. Lo abbiamo tradotto ora, dopo che la corte ha deciso di dare il via libera alla demolizione, in quanto riteniamo che i punti affrontati nell’articolo siano molto utili per capire le ragioni di questo accanimento e perché l’UE si sia finora mobilitata in difesa del villaggio.

 

La demolizione di Khan al-Ahmar è più di un semplice crimine di guerra

Mentre l’imminente distruzione di Khan al-Ahmar è un gravissimo problema umanitario e molto probabilmente un crimine di guerra, molti hanno trascurato l’importanza strategica di questo piccolo villaggio per il futuro del conflitto israelo-palestinese

+972

 Edo Konrad – 9 luglio 2018

 

Gli abitanti di Khan al-Ahmar hanno passato le ultime settimane in attesa dell’arrivo dei bulldozer israeliani per demolire completamente il loro villaggio e deportare tutte le 170 persone che vi abitano, un’iniziativa che secondo organizzazioni dei diritti umani e qualche governo europeo rappresenterebbe un crimine di guerra.

Ma mentre la situazione umanitaria e la legalità della demolizione e della deportazione rappresentano un grave problema, la maggior parte delle informazioni mediatiche e dell’attivismo relativo a Khan al-Ahmar ha trascurato l’importanza strategica di questo piccolo villaggio.

Khan al-Ahmar si trova nella E1, nome di un’area di 12 km2  situata tra Gerusalemme e la colonia di Ma’ale Adumim, in Cisgiordania. Per decenni Israele ha sperato di costruire delle colonie in quell’area per collegare le due città. Così facendo dividerebbe in due la Cisgiordania, portando a quello che nel corso degli anni è stato descritto come il colpo di grazia alla soluzione dei due Stati.

In una dichiarazione pubblicata alla fine della scorsa settimana, la missione locale dell’Unione Europea ha condannato duramente i progetti israeliani di demolire Khan al-Ahmar, insieme alla progettata costruzione di una colonia nella E1, affermando che “aggravano le minacce per la praticabilità della soluzione dei due Stati e danneggiano ulteriormente le prospettive di una pace definitiva.”

“Questo è un campanello d’allarme per i membri più importanti dell’Unione Europea,” ha spiegato Daniel Seidemann, avvocato e attivista che dirige l’Ong israeliana “Gerusalemme terrestre”, e che ha passato gli ultimi 20 anni a monitorare come il cambiamento del paesaggio della città stia rendendo sempre più difficile una soluzione politica. “Se dovesse distruggere il villaggio nonostante l’impegno europeo, probabilmente Israele ne patirà le conseguenze.”

+972 ha parlato lunedì [9 luglio 2018, ndtr.] con Seidemann del perché Netanyahu voglia correre un tale rischio per un piccolo villaggio, delle implicazioni geopolitiche della E1 e di come probabilmente l’amministrazione Trump gestirà la crisi.

 

Nelle scorse settimane Khan al-Ahmar è stato la centro dell’attenzione mondiale. Perché il governo israeliano è così deciso a deportare una comunità talmente piccola?

“È una domanda da un milione di dollari. Khan al-Ahmar recentemente è finito sulle prime pagine dei giornali, ma è rimasto latente e oggetto di grande attenzione per molti anni, a tal punto che se svegli capi di Stato europei alle 3 del mattino e gli chiedi cos’è Khan al-Ahmar, sono in grado di risponderti. Quello che questi capi di Stato hanno continuato a dire ai dirigenti israeliani è che deportare con la forza la popolazione civile sotto occupazione è un crimine di guerra. Non lo avete ancora fatto, quindi non fatelo. Non vi possiamo difendere se lo fate, quindi lasciate stare.”

“La domanda è perché Israele voglia esporsi in questo modo. La scorsa settimana 12 consoli generali sono stati nel villaggio. Perché rischiare così tanto per un piccolo accampamento? È chiaro che si tratta di un’ossessione partita dai più alti livelli in Israele. Che viene da Netanyahu. [La minaccia di distruzione di] Khan al-Ahmar non avrebbe potuto avvenire senza il consenso e l’appoggio del primo ministro.”

 

Khan al-Ahmar si trova nell’area estremamente delicata nota come E1, tra Gerusalemme e la colonia di Ma’ale Adumim. Perché è così importante?

“Per quanto disperata e notevolmente problematica sia la situazione di Khan al-Ahmar, non avrebbe ricevuto l’attenzione che ha sollevato se non fosse nella E1, la zona che determinerà se potrà esistere o meno uno Stato palestinese sostenibile e con continuità territoriale. Khan al-Ahmar è diventato il problema umanitario del giorno. L’E1 è diventata il problema geopolitco degli ultimi 23 anni.

“Considera che Gerusalemme è al centro, e immediatamente a est di Gerusalemme, in Cisgiordania, a metà strada dal Mar Morto, c’è Ma’ale Adumim, la terza più grande colonia in Cisgiordania con circa 40.000 abitanti. Fin da metà degli anni ’90, quando Netanyahu è andato per la prima volta al potere, è stata intenzione del governo israeliano costruire un enorme collegamento verso Ma’ale Adumim con decine di migliaia di unità abitative. L’E1 è il settore tra Gerusalemme e Ma’ale Adumim.

 

In un documento del 2012 la sua organizzazione ha affermato che l’E1, “se edificata, è un punto di svolta, forse il punto finale” per la soluzione dei due Stati. Ce lo può spiegare?

“Fin dal momento in cui Ma’ale Adumim è stata fondata, è stata vista come una colonia da giorno del giudizio, in quanto può distruggere la sostenibilità della soluzione dei due Stati, perché smembrerebbe, frammenterebbe e spezzerebbe qualunque possibile Stato palestinese, e dividerebbe la Cisgiordania in un cantone settentrionale di Ramallah e uno meridionale di Betlemme ed Hebron.

“C’è una ragione per cui ogni amministrazione prima di Trump si è opposta a edificare lì. Quando Ariel Sharon iniziò la costruzione nel 2004, il presidente Bush e la segretaria di Stato Condoleeza Rice lo bloccarono dopo un grave conflitto all’interno della Casa Bianca sulla scelta di intervenire.”

 

Qualche anno fa Netanyahu tentò di costruirvi ma si piegò alle pressioni internazionali. Ora che c’è Trump alla Casa Bianca il governo sta preparando il terreno per l’operazione?

“Netanyahu ha proceduto nella E1 dal 30 novembre 2012 come rappresaglia per l’accettazione della Palestina come Stato osservatore non-membro all’Assemblea Generale dell’ONU. Le pressioni internazionali sono riuscite a bloccare le costruzioni, e da allora non è andata avanti. Ora credo che ci siano pressioni da parte del suo governo per procedere nella E1, e quello a cui stiamo assistendo è che Netanyahu sta facendo di tutto tranne andare avanti. Invece stiamo vedendo ogni possibile fase preliminare.

“Dal punto di vista di Israele la E1 è un’importante terreno edificabile. Per i palestinesi è un terreno edificabile devastante. Ma a prescindere, è il terreno più conteso della Cisgiordania, soprattutto perché riguarda i confini di un futuro status permanente. Così quando gli americani sono intervenuti non hanno detto ‘Questo non è Palestina, giù le mani.’ Hanno detto: ‘Volete la E1? Bene. È una questione che riguarda lo status permanente, negoziatelo e non imponete il risultato finale.’”

“La gente di Khan al-Ahmar è finita nel mirino di Netanyahu in quanto si trova in un’area su cui c’è una disputa titanica. E’ anche la più evidente esemplificazione di un crimine di guerra, e c’è anche una popolazione particolarmente vulnerabile. Per cui prendi le implicazioni geopolitiche della E1 e le crude implicazioni umanitarie di Khan al-Ahmar, le metti insieme e hai la miscela perfetta per il BDS [movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, ndtr.].”

 

L’attuale iniziativa è il risultato della completa mancanza di impegno di Trump in merito? Cos’altro ci si può aspettare come conseguenza?

“Personalmente ho sentito dire due cose da membri di alto livello del governo. Un’opinione è che la E1 non preoccupa i palestinesi, possono aggirarla. La seconda è che Trump non ha cambiato la politica USA sulla E1.”

“Riguardo a Khan al-Ahmar è impossibile sapere se la demolizione avrà luogo o no. Quello che posso dirti è il presentimento che in un modo o nell’altro Khan al-Ahmar stia per diventare un punto di svolta. Se la demolizione viene bloccata, è chiaro che l’unica ragione sarà il serio, conseguente, articolato impegno internazionale da parte delle principali capitali europee. Questa è una lezione che sarà presa in considerazione sia a Gerusalemme che in Europa. Per quanto possa essere un personaggio problematico, Netanyahu può essere affrontato e può essere dissuaso.

Il secondo scenario è che vada comunque avanti con la demolizione, nel cui caso il messaggio sarà forte e chiaro: ‘Chi ha bisogno di Londra, Parigi, Berlino e Bruxelles quando abbiamo Varsavia e Budapest?’”

 

Perché è diverso da Susya, per esempio, il villaggio che è riuscito a evitare un’imminente demolizione con il sostegno della comunità internazionale?

“Penso che Susya fosse una prova generale per Khan al-Ahmar. Ma annettere Susya, cosa che in ogni caso non auspico, non avrebbe impedito la praticabilità di uno Stato palestinese. Con Khan al-Ahmar c’è l’alchimia di avere un problema umanitario molto grave, che ti obbliga a vedere le cose in bianco e nero, strettamente connesso al dramma geopolitico della E1, che sta chiaramente diventando uno dei problemi più controversi di qualunque futuro negoziato. Unire la questione geopolitica a quella umanitaria all’apice della loro gravità è un’atto da esplosione nucleare.”

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Alta Corte israeliana autorizza crimine di guerra

I giudici israeliani danno l’approvazione definitiva a un crimine di guerra a Khan al-Ahmar

The Electronic Intifada

Tamara Nassar – 5 settembre 2018

 

 

L’Alta Corte israeliana ha dato l’approvazione definitiva alla deportazione della comunità palestinese di Khan al-Ahmar, nella Cisgiordania occupata.

Il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem afferma che la decisione renderà i giudici complici di un crimine di guerra se la demolizione – che dovrebbe avvenire a giorni – avrà luogo.

Inizialmente la corte a maggio aveva approvato la demolizione dell’intero villaggio, ma l’azione era stata temporaneamente sospesa a luglio, dopo che gli avvocati dei circa 200 abitanti di Khan al-Ahmar avevano presentato due ricorsi all’Alta Corte.

I giudici hanno accettato uno dei ricorsi ed hanno tenuto un’udienza in agosto.

Mercoledì l’Alta Corte l’ha respinto, ha revocato la sospensione provvisoria e ha dato alle autorità israeliane il via libera per espellere gli abitanti entro una settimana.

Il giornale israeliano “Haaretz” [di centro sinistra, ndtr.] ha affermato che i giudici “hanno detto che il principale problema di questo caso non era se si dovesse portare a termine l’espulsione, ma dove sarebbero stati risistemati gli abitanti.”

Israele vuole deportare a forza gli abitanti di Khan al-Ahmar in una zona nei pressi di una discarica nota come al-Jabal ovest.

Uno dei giudici ha respinto la richiesta degli abitanti di sospendere l’evacuazione finché non avranno trovato un luogo alternativo per andare a vivere ed ha criticato il loro rifiuto di vivere nei pressi della discarica.

Molto prima della decisione della corte di mercoledì Israele ha iniziato i preparativi per la demolizione del villaggio.

 

Non c’è giustizia nei tribunali israeliani

Nella loro sentenza, i giudici dell’Alta Corte israeliana “hanno descritto un mondo immaginario con un sistema di pianificazione uguale per tutti che prende in considerazione le necessità dei palestinesi, come se non ci fosse mai stata un’occupazione,” ha detto mercoledì B’Tselem.

“La realtà è diametralmente opposta a questa fantasia: i palestinesi non possono costruire legalmente e sono esclusi dai meccanismi decisionali che determinano come saranno le loro vite,” ha aggiunto l’associazione. “I sistemi di pianificazione sono esclusivamente destinati a beneficiare i coloni.”

“Questa sentenza mostra ancora una volta che chi è sotto occupazione non può chiedere giustizia nei tribunali dell’occupante,” ha affermato B’Tselem.

 

I dirigenti israeliani festeggiano un crimine di guerra

I dirigenti israeliani hanno lodato i giudici per aver approvato la deportazione della comunità, che in base alle leggi internazionali è un crimine di guerra.

Secondo le leggi che governano un’occupazione militare, un occupante può spostare persone in caso di necessità militari. Ma Israele vuole espellere gli abitanti di Khan al-Ahmar dalla zona est di Gerusalemme, dove è impegnato in un’intensa colonizzazione – anche questa in violazione delle leggi internazionali.

Yuli Edelstein, il presidente del parlamento israeliano e membro del partito di governo Likud, si è vantato su twitter che “la pressione” da parte dell’Unione Europea non sia riuscita a bloccare la decisione della corte.

“In Israele c’è una legge e chiunque è uguale di fronte ad essa,” ha affermato Edelstein – l’esatto contrario della realtà.

Diplomatici europei hanno fatto visita a Khan al-Ahmar nello scorso anno per mostrare il proprio sostegno alla comunità, ma, a parte un tale atto simbolico, l’Unione Europea – che fornisce ad Israele notevoli somme in aiuti e commercio – non ha preso nessuna iniziativa per chiedere conto ad Israele.

Allo stesso modo l’UE non ha fatto niente quando Israele ha demolito o confiscato scuole o altri edifici per i palestinesi che essa o suoi Stati membri hanno finanziato.

Pare che diplomatici europei abbiano detto a media israeliani che continuare con la demolizione di Khan al-Ahmar “innescherebbe una reazione da parte di Stati membri dell’UE.”

Ma, visto il lungo elenco di mancate reazioni dell’UE, simili avvertimenti dovrebbero essere presi con una notevole dose di scetticismo.

Anche il ministro della Difesa Avigdor Lieberman si è rallegrato per la decisione della corte, twittando che “Khan al-Ahmar sarà evacuato.”

Ha lodato i giudici per “una decisione coraggiosa e necessaria di fronte ad una campagna ipocrita orchestrata da Abu Mazen (il capo dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas), dalla sinistra e dai Paesi europei.”

Fino a mercoledì sera i portavoce dell’UE non avevano ancora rilasciato una reazione alla decisione della corte.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Politica estera UE e demolizione del villaggio di Khan al-Ahmar

Il momento della verità per la politica UE su Israele/Palestina

Che gli Stati europei diano un seguito alle loro minacce ed ai loro avvertimenti in merito alla demolizione di Khan al-Ahmar oppure no definirà in notevole misura l’importanza dell’UE e la sua capacità di influire sulla politica israeliana nei confronti dei palestinesi

+972

 

Di Michael Schaeffer Omer-Man – 5 settembre 2018

 

Le potenze europee stanno per dover fare una scelta fondamentale nella prossima settimana. Due mesi dopo che cinque Stati europei pare abbiano messo in guardia Israele che la demolizione e la deportazione di Khan al-Ahmar avrebbe “innescato una reazione” da parte dei suoi alleati, mercoledì [5 settembre] la Corte Suprema israeliana ha dato il suo beneplacito definitivo al fatto che la demolizione prosegua.

  • Insieme al villaggio di Susya, a sud della Cisgiordania, l’UE ha dichiarato, apparentemente in modo arbitrario, Khan al-Ahmar come una delle poche linee da non superare nella pluridecennale politica israeliana di demolizione di case palestinesi ed espansione del suo piano di estensione delle colonie nei territori occupati (per una spiegazione del perché, vedi l’intervista di Edo Konrad con l’esperto di Gerusalemme Daniel Seidemann).
  • Ogni volta che piccoli e fatiscenti villaggi nell’Area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale ma temporaneo controllo di Israele, ndtr.] stanno per essere distrutti, arrivano file di diplomatici. Dichiarazioni di condanna ed occasionali ammonizioni vengono diffuse nell’etere.

Finora questo approccio ha funzionato parzialmente. Ma le cose sono cambiate negli ultimi due anni: la principale differenza è che l’attuale Casa Bianca – la cui politica in Medio Oriente è guidata da personaggi sfacciatamente di destra e a favore dei coloni come Jared Kushner [genero e consigliere per il Medio Oriente di Trump, ndtr.] e David Friedman [attuale ambasciatore USA in Israele e proprietario di una casa in una colonia, ndtr.]  – non si preoccupa più di quello che Israele fa ai palestinesi. E se le importa, non è disposta a mormorare neppure un minimo segno di disapprovazione.

Ciò significa che le potenze europee, per dirla senza mezzi termini, dovranno decidere se opporsi o stare zitte riguardo al loro impegno nei confronti di Khan al-Ahmar. Anche se dovessero agire, è improbabile che lo facciano come blocco unitario, data la nascente amicizia di Israele con governi di estrema destra europei, che detengono il potere di veto effettivo nel sistema di politica estera consensuale dell’UE. I governi dovrebbero quindi intervenire singolarmente.

Tenendo conto su quante poche questioni la comunità internazionale ha intenzione di prendere una posizione nei confronti di Israele, e che i dirigenti dell’UE si sono assunti la responsabilità di tracciare una linea rossa più o meno coerente su Khan al-Ahmar, le risposte di Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Italia saranno fondamentali per determinare il destino dell’impegno internazionale sulla questione palestinese.

Con gli Stati Uniti non più interessati ad applicare neppure pressioni simboliche su Israele, le potenze europee, che detengono leve economiche significative, dovranno dimostrare se i loro avvertimenti sono effettivamente serie minacce o parole vuote. Se non reagiscono con una qualche sorta di sanzioni o di misure punitive, avranno perso quel poco che è rimasto della loro deterrenza per porre fine alla continua campagna del governo israeliano per rendere la soluzione dei due Stati (sostenuta dall’UE) un’idea obsoleta.

Ma è improbabile che simili punizioni vengano imposte. Le minacce diplomatiche non sono quasi mai fatte con l’intenzione di darvi seguito; per questo le conseguenze non sono mai specificate o accennate. Israele crede da tempo che sia così, ed ora comincia a mettere ulteriormente alla prova i confini della sua impunità – una cosa che ha fatto sempre più audacemente negli ultimi anni.

La conseguenza è che l’attuale governo israeliano, e i governi futuri, saranno incoraggiati a diventare ancora più aggressivi nel riscrivere le norme che governano il proprio comportamento: in questo caso, quelle che regolano con quanta rapidità può portare avanti la sua silenziosa annessione, un pezzo alla volta, della Palestina nei prossimi anni.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)