Nakba nella Valle del Giordano: le esercitazioni dell’esercito israeliano gettano il caos tra i palestinesi

Shatha Hammad da Khirbet Humsa al-Fawqa, Cisgiordania occupata

15 maggio 2019 – Middle East Eye

Cacciati dalle loro case perché Israele testa le proprie armi, la commemorazione di quest’anno degli avvenimenti del 1948 vede nuove espulsioni.

A Khirbet Humsa al-Fawqa, sul pavimento di una tenda abitata giacciono giocattoli sparpagliati. Per i bambini del villaggio i giochi sono finiti quando l’esercito israeliano ha dichiarato l’area zona militare proibita e nelle prime ore di domenica ha obbligato la comunità palestinese ad andarsene dalle proprie abitazioni.

In seguito a un ordine di espulsione di quattro giorni prima, ai 98 abitanti è stato vietato l’accesso alle loro abitazioni per tre giorni. L’esercito li ha informati che tra maggio e giugno verranno cacciati 12 volte per tre giorni ciascuna.

Ai palestinesi è stato detto che le abitazioni sarebbero state nel raggio di gittata dei proiettili dei carri armati poiché l’esercito israeliano utilizza l’area per effettuare esercitazioni militari.

La mattina dell’espulsione Mohammed Sulaiman Abu Qabbash, padre di cinque figli, li ha accompagnati in una vicina comunità ed è corso indietro nel tentativo di proteggere le tende e le pecore. Il trentacinquenne è andato avanti e indietro controllando ansiosamente la zona. Ha aspettato che i soldati israeliani arrivassero e lo buttassero fuori.

Nei prossimi tre giorni dormiremo all’aperto. Non abbiamo alternative, non possiamo opporci a una potenza simile,” ha detto Mohammed a Middle East Eye.

Se la comunità rifiuta di andarsene quando gli viene ordinato rischia l’espulsione con la forza, l’esproprio delle greggi e una multa retroattiva.

In base alle leggi internazionali cacciare dalle proprie case gli abitanti di un territorio occupato è considerato trasferimento forzato di persone protette, il che costituisce un crimine di guerra. Ma gli abitanti delle comunità palestinesi nella Valle del Giordano conoscono bene tali devastanti politiche israeliane.

La valle, una striscia di terra fertile che corre a ovest lungo il fiume Giordano, è abitata da circa 65.000 palestinesi.

Dal 1967, quando l’esercito israeliano ha occupato la Cisgiordania, Israele ha trasferito almeno 11.000 suoi cittadini ebrei nella Valle del Giordano. Alcune delle colonie in cui vivono sono state interamente costruite su terre palestinesi di proprietà privata.

Da quando è iniziata l’occupazione, circa il 46% della Valle del Giordano è stata dichiarata dall’esercito israeliano zona militare proibita.

Circa 6.200 palestinesi risiedono in 38 comunità in luoghi destinati a usi militari e devono ottenere un permesso delle autorità israeliane per entrare e vivere nelle loro comunità.

In violazione del diritto internazionale l’esercito israeliano non solo scaccia regolarmente in modo temporaneo le comunità, ma a volte demolisce anche case e infrastrutture.

Oltre a subire espulsioni temporanee, le famiglie palestinesi che vi vivono devono affrontare una miriade di limitazioni nell’accesso a risorse e servizi. Nel contempo la confisca di terre da parte di Israele ha espropriato risorse naturali a favore dei coloni.

Vivere la Nakba

Il digiuno durante l’espulsione e le temperature che hanno raggiunto i 40° hanno raddoppiato le difficoltà di questo Ramadan, dice Khadija Abu Qabbash mentre si prepara ad andarsene. La donna incinta, madre di cinque figli, la mattina ha lavato a mano una pila di vestiti. La sua figlia di 15 anni, Deema, l’ha aiutata a stendere in gran fretta i panni ad asciugare prima che arrivassero i soldati israeliani.

Questa mattina abbiamo accompagnato fuori i bambini ed ora la macchina è tornata a prenderci,” dice a MEE mentre piange. “Non potrò cucinare niente per iftar [pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadan, ndtr.]. Ci dovremo accontentare di cibo in scatola.”

Le forze israeliane espellono regolarmente le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa. Tuttavia in genere le espulsioni avvengono durante il giorno, mentre agli abitanti è consentito tornare alla sera.

Non so se stanno effettivamente facendo esercitazioni militari. A volte ci cacciano e non fanno niente. Intendono obbligarci ad andarcene per sempre,” dice Khadija.

Le attività di Israele nella Valle del Giordano sono state ben documentate da gruppi per i diritti umani e da Ong locali, che affermano che l’obiettivo di queste misure è cacciare i palestinesi e soffocare il loro sviluppo nella zona.

Essendo assolutamente strategica, i politici israeliani, anche prima delle recenti affermazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu riguardo ai suoi progetti di annettere zone della Cisgiordania occupata, hanno chiarito in varie occasioni che la Valle del Giordano rimarrà in ogni caso sotto il loro controllo.

Nel 2013 negoziati di pace sono stati rifiutati da Israele quando è stata ipotizzaa la cessione di parte del controllo sulla valle.

Commentando l’evacuazione di Khirbet Humsa al-Fawqa di domenica, Walid Assaf, capo della Commissione Nazionale per la Resistenza al Muro e alle Colonie dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha detto in un comunicato che ci sono stati tentativi con l’intervento di legali per bloccare l’espulsione temporanea, ma non si è potuto mettere in discussione l’ordine militare israeliano.

Proprio come hanno cacciato i palestinesi dale loro case nel 1948, oggi stanno facendo lo stesso. Non cederemo,” ha aggiunto Khadija, riferendosi alla Nakba, la pulizia etnica della Palestina storica da parte delle milizie sioniste 71 anni fa, che si commemora ogni anno il 15 maggio.

Qui non vogliono palestinesi”

Principalmente composte di pastori, le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa si alzano alle 3 del mattino per mungere le proprie pecore e preparare il formaggio prima di andare ai mercati della vicina cittadina di Tubas.

Harb Abu Qabbash, 40 anni, dice a MEE che ogni famiglia possiede circa 300 pecore. Dato che è difficile spostarle fuori dalla zona, quando i palestinesi vengono evacuati molti degli agnelli rimangono indietro e spesso muoiono di fame senza nessuno che si occupi di loro.

Aggiunge che durante le esercitazioni militari migliaia di ettari di orzo e grano rischiano di essere bruciati. Secondo Harb ciò avviene regolarmente. “Il nostro maggior timore è che una bomba cada su una delle nostre tende. Se ciò accadesse sarebbe una catastrofe e perderemmo tutto,” dice Harb.

Gli israeliani vogliono impossessarsi della zona e svuotarla dei suoi abitanti. Non vogliono palestinesi qui,” aggiunge.

Nel 2005 hanno demolito le nostre tende e infrastrutture con il pretesto che erano state costruite senza permesso. Quando facciamo richiesta di un permesso loro non lo concedono.”

Quando non devono affrontare un’evacuazione, le esercitazioni militari e le demolizioni, i palestinesi della comunità lottano per approvvigionarsi dell’acqua sufficiente per le loro necessità sotto l’occupazione israeliana.

Ogni famiglia con le sue pecore utilizza un totale di due o tre serbatoi d’acqua al giorno,” dice Harb.

Per trasportare il camion cisterna alla comunità ci vogliono due ore. C’è un pozzo d’acqua a cinque minuti da qui, ma l’esercito israeliano ci ha vietato di utilizzarlo e lo ha destinato all’uso esclusivo dei coloni israeliani.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 23 aprile – 6 maggio 2019 (due settimane)

Nella Striscia di Gaza e in Israele, tre giorni di intense ostilità hanno provocato l’uccisione di 25 palestinesi (tra cui tre minori e due donne incinte) e quattro civili israeliani. Tra i feriti 153 palestinesi e 123 israeliani.

Lo scontro ha raggiunto il culmine tra il 3 e il 6 maggio, in seguito al ferimento di due soldati israeliani durante le proteste settimanali per la “Grande Marcia di Ritorno” (GMR) del 3 maggio. A quanto riferito, il ferimento sarebbe stato opera di un cecchino palestinese, al quale ha fatto seguito l’attacco dell’aeronautica israeliana contro le postazioni di Hamas e l’uccisione di due suoi membri. Nei giorni successivi, le forze israeliane hanno colpito circa 320 obiettivi in Gaza, mentre gruppi armati palestinesi hanno sparato quasi 700 tra missili e proiettili di mortaio contro Israele. Secondo prime valutazioni, a Gaza sono state distrutte 41 abitazioni e altre 16 sono state gravemente danneggiate e rese inabitabili. Sono state danneggiate anche 13 strutture scolastiche, un centro sanitario e varie reti elettriche. Un accordo informale per il cessate il fuoco, raggiunto attraverso mediazione egiziana e delle Nazioni Unite, è entrato in vigore nella prima mattina del 6 maggio e risulta rispettato al momento della pubblicazione del presente rapporto.

Inoltre, in proteste svolte il 26 aprile ed il 3 maggio vicino alla recinzione israeliana di Gaza nell’ambito delle manifestazioni per la GMR, le forze israeliane hanno sparato e ucciso due palestinesi, ferendone altri 370 circa. Secondo fonti mediche palestinesi, di tutti i palestinesi feriti durante proteste tenute nel periodo di riferimento [del presente rapporto] , 237 sono stati ricoverati in ospedale; 91 di questi presentavano ferite da armi da fuoco.

Il 30 aprile, in risposta al lancio di missili da Gaza verso il mare, effettuato da gruppi armati palestinesi, le autorità israeliane hanno ridotto da 15 a 6 miglia nautiche la zona di pesca consentita lungo la costa meridionale di Gaza. Il 4 maggio, in un contesto di crescenti ostilità, le autorità israeliane hanno proibito tutte le attività di pesca al largo della costa di Gaza. Inoltre, il valico pedonale di Erez e il valico per le merci di Kerem Shalom, entrambi controllati da Israele, sono stati chiusi al transito di persone e merci; fanno eccezione determinati viaggiatori (internazionali) e l’importazione di carburante per la Centrale Elettrica di Gaza.

Il 20 aprile, al checkpoint di Za’tara (Nablus), le forze israeliane hanno sparato e ferito un 20enne palestinese che, presumibilmente, aveva tentato di pugnalare un soldato israeliano; per le ferite riportate, l’aggressore è deceduto il 27 aprile in un ospedale israeliano e il suo corpo è ancora trattenuto dalle autorità israeliane. Nessun israeliano risulta ferito nell’episodio. Ciò porta a sei, dall’inizio del 2019, il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane in attacchi e presunti attacchi. In un altro episodio, avvenuto il 29 aprile, vicino al villaggio di Ya’bad (Jenin), un palestinese è stato colpito e ferito dalle forze israeliane, presumibilmente dopo aver aperto il fuoco contro una postazione militare israeliana.

In aree [di terra, interne alla Striscia e] adiacenti alla recinzione perimetrale ed [in aree di mare,] al largo della costa di Gaza, in circa 30 occasioni estranee alle proteste per la GMR, le forze israeliane, in applicazione delle restrizioni di accesso, hanno aperto il fuoco di avvertimento, provocando il ferimento di tre palestinesi. In uno degli episodi, due pescatori palestinesi sono stati arrestati e le loro imbarcazioni sono state confiscate dalle forze navali israeliane.

In Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, in numerosi scontri con le forze israeliane, complessivamente sono rimasti feriti 63 palestinesi. Ciò rappresenta una riduzione significativa di circa il 63%, rispetto alla media quindicinale di 170 feriti registrata, fino ad ora, nel 2019. 17 palestinesi [dei 63] sono stati feriti nella città di Nablus, durante scontri con le forze israeliane che stavano accompagnando coloni israeliani in visita alla Tomba di Giuseppe. Altri due palestinesi sono rimasti feriti nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya) durante scontri scoppiati nel corso della protesta settimanale contro le restrizioni all’accesso e l’espansione degli insediamenti. Altri 40 feriti si sono avuti ad Al ‘Eizariya, nella città di Abu Dis, nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme) e nella città di Qalqiliya, in scontri seguiti a cinque operazioni di ricerca-arresto condotte da forze israeliane. Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 141 di queste operazioni, il 4% delle quali ha provocato scontri.

A Gerusalemme Est e nella zona C della Cisgiordania, citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 41 strutture di proprietà palestinese, sfollando 38 persone e creando danno ad altre 121. 37 strutture [delle 41 citate] erano a Gerusalemme Est e 4 nella Zona C. Nella sola giornata del 29 aprile, le autorità israeliane hanno demolito 31 strutture in diversi quartieri di Gerusalemme Est, segnando il maggior numero di strutture demolite in un solo giorno a Gerusalemme Est da quando, nel 2009, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori palestinesi occupati (OCHAoPt) ha avviato sistematicamente il monitoraggio delle demolizioni. Il 3 maggio, il Coordinatore Umanitario Jamie Mc Goldrick, insieme ai Capi dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro per i Profughi della Palestina nel Vicino Oriente (UNRWA) e dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR), hanno rilasciato una dichiarazione congiunta che invita Israele al rispetto del diritto internazionale e a porre fine alla distruzione di proprietà palestinesi a Gerusalemme Est.

Il 25 aprile, le autorità israeliane hanno demolito una casa nel villaggio di Az Zawiya (Salfit), nella zona B, con motivazione “punitiva”, sfollando una famiglia di sette persone, di cui cinque minori. La casa apparteneva alla famiglia di un palestinese di 19 anni accusato di aver ucciso, il 17 marzo 2019, vicino all’insediamento israeliano di Ariel (Salfit), un soldato israeliano e un colono israeliano, oltre ad aver ferito un altro soldato. Il giovane fu ucciso da forze israeliane in un successivo episodio. Dall’inizio del 2019, questa è la quinta demolizione del genere. Nel 2018 tali demolizioni furono sei e nove nel 2017.

In Cisgiordania sono stati registrati tredici attacchi attribuiti a coloni israeliani, con conseguente ferimento di tre palestinesi e danni a proprietà palestinesi. Nel villaggio di Kafr Ni’ma (Ramallah), un gruppo di coloni israeliani, alcuni dei quali armati, hanno aggredito fisicamente e ferito tre palestinesi che stavano misurando terreni. Inoltre, in cinque episodi verificatesi nelle ultime due settimane, coloni israeliani, accompagnati dall’esercito israeliano, hanno vandalizzato proprietà palestinesi nella zona della sorgente di Ein Harrasheh, ed un parco pubblico nella zona B del villaggio Al Mazra’a Al Qibliya (Ramallah); secondo fonti della comunità locale, i coloni hanno lanciato pietre contro due case, hanno molestato palestinesi ed hanno vandalizzato tubature dell’acqua e infrastrutture del parco. Nel villaggio di ‘Urif (Nablus), dopo che coloni avevano lanciato pietre contro una scuola per ragazzi e contro le case circostanti, sono scoppiati scontri che hanno visto palestinesi contrapposti ai coloni ed alle forze israeliane che li accompagnavano. In altri cinque episodi verificatisi a Burqa (Ramallah), Isla (Qalqiliya), Huwwara (Nablus) ), al Ganoub (Hebron) e nella zona H2 della città di Hebron, coloni israeliani hanno vandalizzato 51 ulivi, hanno bucato le gomme di dodici veicoli palestinesi, hanno spruzzato scritte “questo è il prezzo” su quattro case palestinesi e danneggiato un negozio. Dall’inizio del 2019, la media bisettimanale [14 giorni] di attacchi di coloni (con vittime palestinesi o danni alle proprietà) ha registrato un aumento del 40% rispetto alla media bisettimanale [14 giorni] del 2018, e del 133% rispetto al 2017.

Media israeliani hanno riferito di nove episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli di coloni israeliani; una colona israeliana è stata ferita e diversi veicoli sono stati danneggiati.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, controllato dall’Egitto, è rimasto aperto per tre giorni in entrambe le direzioni e quattro giorni in una direzione. Un totale di 2.662 persone, tra cui 1.451 pellegrini, sono entrati a Gaza e 2.466 ne sono usciti, tra cui 1.603 pellegrini.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Rapporto sulla Protezione dei Civili nei Territori Palestinesi occupati

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Notre Dame di Gaza: anche le nostre moschee e chiese stanno bruciando

Ramzy Baroud

25 aprile 2019, MondoWeiss

Mentre la guglia alta 91 metri della cattedrale di Notre Dame a Parigi crollava tragicamente dal vivo in televisione, i miei pensieri si sono avventurati nel campo profughi di Nuseirat, dove ho passato la mia infanzia nella Striscia di Gaza.

All’epoca, sempre in televisione, vidi un piccolo bulldozer scavare disperatamente in mezzo ai detriti della moschea del mio quartiere. Sono cresciuto nei pressi della moschea. Ho passato molte ore là con mio nonno, Mohammed, un rifugiato dalla Palestina storica [ossia dal territorio diventato lo Stato di Israele, ndt.]. Prima che diventasse un profugo, mio nonno era un giovane imam di una piccola moschea nel suo villaggio di Beit Daras, distrutto da molto tempo.

Mohammed e molti della sua generazione trovarono conforto nella costruzione della propria moschea nel campo di rifugiati appena arrivati nella Striscia di Gaza alla fine del 1948. La nuova moschea in un primo tempo venne edificata con fango indurito, ma in seguito venne rifatta in mattoni, e poi in cemento. Passò lì la maggior parte del tempo, e quando morì il suo corpo vecchio e debole venne portato nella stessa moschea per un’ultima preghiera, prima di essere sepolto nell’adiacente cimitero dei martiri. Quando ero ancora un bambino soleva prendermi per mano e camminavamo insieme verso la moschea durante le ore di preghiera. Quando invecchiò e poteva a malapena camminare ero invece io a tenerlo per mano.

Ma al-Masjid al-Kabir – la Grande Moschea, in seguito rinominata moschea di al-Omari – è stata totalmente polverizzata dai missili israeliani durante la guerra estiva contro Gaza iniziata l’8 luglio 2014.

Centinaia di case di preghiera palestinesi erano state prese di mira dall’esercito israeliano nelle guerre precedenti, soprattutto nel 2008-09 [operazione Piombo Fuso, ndt.] e nel 2012 [operazione Pilastro di Difesa, ndt.]. Ma la guerra del 2014 fu la più brutale e ancora più distruttiva. Migliaia di persone vennero uccise e molte ferite. Niente rimase immune alle bombe israeliane. Secondo i dati dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina 63 moschee vennero totalmente distrutte e 150 danneggiate in quella sola guerra, spesso con dentro persone che vi avevano cercato rifugio. Nel caso della mia moschea, dopo una lunga e estenuante ricerca vennero estratti due corpi. Non avevano nessuna possibilità di essere salvati. Se fossero sopravvissuti alle esplosioni letali sarebbero stati schiacciati dalle enormi solette di calcestruzzo.

A dir la verità calcestruzzo, cemento, mattoni e strutture fisiche di per sé non hanno molta importanza. Siamo noi a dar loro importanza. Le nostre esperienze collettive, le nostre sofferenze, gioie, speranze e fede rendono un luogo di culto quello che è.

Fin dal XII° secolo molte generazioni di francesi cattolici hanno assegnato alla cattedrale di Notre Dame i suoi significati stratificati e il suo simbolismo.

Mentre il fuoco consumava il tetto di quercia e buona parte della struttura, cittadini francesi e molti in tutto il mondo hanno assistito sbalorditi. È come se le memorie, le preghiere e le speranze di una Nazione radicate nel tempo venissero improvvisamente svelate, levandosi tutte in una volta con le colonne di fumo e fuoco.

Ma proprio i mezzi di comunicazione che informavano dell’incendio di Notre Dame sembravano dimenticare la distruzione di ogni cosa che consideriamo sacra in Palestina, mentre, giorno dopo giorno, la macchina da guerra israeliana continua a spazzar via, distruggere con i bulldozer e dissacrare.

È come se le nostre religioni non meritassero rispetto, nonostante il fatto che la Cristianità sia nata in Palestina. È lì che Gesù vagò tra colline e valli della nostra patria storica insegnando alla gente la pace, l’amore e la giustizia. La Palestina è fondamentale anche per l’Islam. L’ Haram al-Sharif [la Spianata delle Moschee, nella città vecchia di Gerusalemme, ndt.], dove si trovano la moschea di Al-Aqsa e la Cupola della Roccia, è il terzo luogo più sacro per i musulmani di tutto il mondo. Eppure i luoghi santi cristiani e musulmani sono assediati, spesso spogliati e distrutti in base a dictat militari. Inoltre gli estremisti messianici ebrei protetti dall’esercito israeliano vogliono demolire Al-Aqsa e per molti anni il governo israeliano ha fatto scavi sotto le sue fondamenta.

Tuttavia niente di tutto ciò è fatto in segreto; lo sdegno internazionale rimane in sordina. In effetti molti ritengono giustificate le azioni israeliane. Alcuni si sono lasciati ingannare dalle ridicole spiegazioni offerte dall’esercito israeliano secondo cui bombardare le moschee è una necessaria misura di sicurezza. Altri sono stati motivati dalle loro stesse cupe profezie religiose.

Tuttavia la Palestina è solo un microcosmo di tutta la regione. Molti di noi si sono abituati alle orripilanti distruzioni portate avanti da frange di gruppi di miliziani contro patrimoni mondiali dell’umanità in Siria, Iraq e Afghanistan. Le più clamorose tra queste sono state la distruzione di Palmira in Siria, dei Buddah di Bamyan in Afghanistan e della Grande Moschea di al-Nuri a Mosul [in Iraq, ndt.].

Niente tuttavia potrebbe essere confrontato con quello che l’esercito di invasione USA fece all’Iraq. Non solo gli invasori violarono un Paese sovrano e ne brutalizzarono la popolazione, devastarono anche la sua cultura che risale all’inizio della civilizzazione umana. Anche solo nel periodo immediatamente successivo all’invasione provocarono il saccheggio di oltre 15.000 antichità irachene, compresa la “dama di Warka”, nota anche come la Monna Lisa della Mesopotamia, un artefatto sumero la cui storia risale al 3.100 a. C.

Ho avuto il privilegio di vedere molti di questi oggetti durante una visita al museo dell’Iraq solo qualche anno prima che venisse saccheggiato quando le forze USA non protessero il luogo. All’epoca i curatori iracheni avevano migliaia di pezzi preziosi nascosti in un sotterraneo in previsione di una campagna di bombardamenti USA. Ma niente avrebbe potuto preparare il museo alla ferocia scatenata dall’invasione di terra. Da allora la cultura irachena è stata largamente ridotta dagli stessi invasori occidentali che hanno devastato quel Paese in oggetti sul mercato nero. Il valoroso lavoro dei guerrieri della cultura irachena e dei loro colleghi in tutto il mondo ha cercato di ripristinare parte della dignità rubata, ma ci vorranno molti anni perché la culla della civiltà umana ricuperi il suo onore svanito.

Ogni moschea, ogni chiesa, ogni cimitero, ogni oggetto d’arte e ogni manufatto è significativo perché è carico di significato, il significato conferito loro da coloro i quali hanno costruito o cercato in essi una fuga, un momento di conforto, di consolazione, di speranza, di fede e di pace.

Il 2 agosto 2014 l’esercito israeliano ha bombardato la storica moschea di al-Omari nel nord di Gaza. L’antica moschea datava al VII° secolo e da allora ha rappresentato per il popolo di Gaza un simbolo di resilienza e di fede.

Mentre Notre Dame bruciava ho pensato anche ad al-Omari. Mentre il fuoco nella cattedrale francese è stato probabilmente casuale, le case e i luoghi di culto palestinesi sono stati presi di mira volontariamente. I responsabili israeliani devono ancora essere chiamati a risponderne.

Ho pensato anche a mio nonno, Mohammed, il gentile imam con la bella barbetta bianca. La sua moschea era la sua unica evasione da un’esistenza difficile, un esilio che è finito solo con la sua morte.

Su Ramzi Baroud

Ramzy Baroud è giornalista, autore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, UCSB.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA del periodo 9 – 22 aprile 2019 (due settimane)

Nella Striscia di Gaza, il 12 aprile, nei pressi della recinzione israeliana che delimita la Striscia, un 15enne è stato ucciso e circa 450 altri palestinesi sono stati feriti nel corso delle proteste tenute nel contesto delle manifestazioni per la “Grande Marcia di Ritorno”.

Secondo fonti mediche palestinesi, di tutti i palestinesi feriti nel corso delle proteste svolte durante il periodo di riferimento, 200 hanno richiesto un ricovero ospedaliero; 71 di questi presentavano ferite da armi da fuoco.

In aree [di terraferma] adiacenti alla recinzione perimetrale [lato interno della Striscia] e [di mare], al largo della costa di Gaza, le forze israeliane, per far rispettare le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi], hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 35 occasioni non collegate a proteste, causando il ferimento di un palestinese. Un minore palestinese è morto per le ferite riportate il 4 aprile; secondo quanto riferito, era stato colpito durante il tentativo di infiltrarsi in Israele. In circostanze diverse, le forze israeliane hanno arrestato nove palestinesi, tra cui due minori; secondo quanto riferito, tentavano di entrare in Israele attraverso la recinzione perimetrale. Inoltre, in un’occasione, le forze israeliane sono entrate nella Striscia, ad est di Rafah, ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, in numerosi scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane 405 palestinesi. Sale quindi a oltre 1.400 il numero di palestinesi feriti dall’inizio dell’anno. In un episodio rilevante verificatosi il 9 aprile durante scontri nella zona di Hebron controllata da Israele (H2), le forze israeliane hanno sparato numerose bombolette lacrimogene all’interno di un complesso scolastico maschile. Come conseguenza, 350 palestinesi [dei 405 riportati sopra], prevalentemente studenti, hanno avuto bisogno di trattamento medico per inalazione di gas. Il 18 aprile, durante scontri con forze israeliane verificatisi nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme), una scuola femminile dell’UNRWA [Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi] è stata evacuata a causa delle bombolette di gas lacrimogeno cadute all’interno del complesso. Altri 13 palestinesi sono rimasti feriti nelle operazioni di ricerca-arresto condotte dall’esercito israeliano in Al ‘Eizariya ed Hizma a Gerusalemme, ed in An Nabi Saleh e Al Mazra’a al Qibliya a Ramallah. Complessivamente sono state condotte 170 operazioni di ricerca-arresto, durante le quali sono stati arrestati 155 palestinesi. Altri cinque palestinesi sono rimasti feriti nei villaggi di Kafr Qaddum (Qalqiliya) e di Ni’lin (Ramallah) nel corso delle proteste settimanali contro l’espansione degli insediamenti.

La maggior parte delle rimanenti lesioni (evidenziate nel prosieguo del rapporto) sono state prodotte nel corso di scontri che hanno visto il protagonismo di coloni.Complessivamente, quasi il 90% delle lesioni registrate nel periodo di riferimento sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno richiedenti cure mediche, il 4% da proiettili di gomma, il 2% da aggressioni fisiche e l’1% da armi da fuoco.

Coloni israeliani hanno effettuato 12 aggressioni che hanno causato il ferimento di 23 palestinesi e danni a proprietà palestinesi [segue dettaglio]. In due distinti episodi verificatisi il 13 e il 18 aprile nella zona H2 della città di Hebron,  coloni hanno attaccato, con spray al peperoncino, quattro palestinesi, di cui due donne. Altri 19 palestinesi sono stati feriti da coloni (o da soldati che li accompagnavano) in scontri conseguenti all’ingresso di coloni in villaggi palestinesi; due di tali villaggi si trovano nel Governatorato di Ramallah (Turmus’ayya e Al Mazra’a al Qibliya) e due nel Governatorato di Nablus (Urif e Burin). Inoltre, coloni israeliani hanno vandalizzato quattro trattori nel villaggio di Qaryut (Nablus) e 23 auto in ‘Ein Yabrud (Ramallah); in quest’ultima località hanno anche spruzzato scritte sui muri di tre case. Ad ‘Asira al Qibliya (Nablus), nel tentativo di appropriarsene, coloni hanno recintato circa 50.000 m2 di terra attigua all’insediamento colonico di Yitzhar, ma di proprietà palestinese. Vicino all’insediamento-avamposto [cioé, non legalizzato da Israele] di Adei Ad (Ramallah), palestinesi hanno riferito che, in un’area il cui accesso richiede un preventivo accordo con le autorità israeliane, sono stati vandalizzati 55 ulivi.

In occasione delle festività pasquali, per facilitare l’ingresso dei coloni ad un sito archeologico interno al villaggio palestinese di Sabastiya (Nablus), dal 21 aprile, i soldati israeliani hanno chiuso una strada ed hanno preso il controllo dei tetti vicini come punti di osservazione; in conseguenza di ciò, i residenti sono costretti ad utilizzare strade alternative. Inoltre, durante il periodo di riferimento, vicino al villaggio di Tuqu’ (Betlemme), un palestinese è morto, a quanto riferito, dopo essere stato investito da un veicolo guidato da un colono (non incluso nel totale riportato sopra).

28 strutture di proprietà palestinese sono state demolite, sfollando 33 persone e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 100; tutte le proprietà, tranne tre, sono state demolite per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele [segue dettaglio]. Dieci delle strutture erano situate in cinque Comunità dell’Area C; 15, tra cui sette abitazioni, si trovavano in diverse località a Gerusalemme Est. Sempre a Gerusalemme Est, una stalla per cavalli e un magazzino sono stati demoliti nel quartiere Silwan di Wadi Yasul; in questo caso la Corte distrettuale israeliana aveva respinto tre appelli presentati da residenti palestinesi che contestavano gli ordini di demolizione. Le altre demolizioni avvenute nel periodo di riferimento sono state eseguite per motivi “punitivi”: di queste, due appartamenti si trovavano nella zona A della città di Hebron ed appartenevano alla famiglia di un palestinese accusato di aver ucciso un colono israeliano il 7 febbraio. L’altra era una abitazione in zona B, nel villaggio di Kobar (Ramallah), appartenuta ad un palestinese accusato di aver perpetrato un attacco che, nei pressi dell’insediamento di Ofra (Ramallah), provocò la morte di un bambino e il ferimento di altri sette coloni israeliani; successivamente, il 12 dicembre, l’uomo fu ucciso dalle forze israeliane. Le demolizioni a Silwan e Kobar [di cui sopra] hanno innescato scontri con le forze israeliane, durante i quali due palestinesi sono rimasti feriti. Inoltre, il 15 aprile, le forze israeliane hanno confiscato un camion che trasportava materiale per un progetto idrico da realizzare nell’area di Tubas e finanziato da donatori.

Il 10 aprile, un colono che transitava vicino al villaggio di Tuqu’, in Hebron, è rimasto ferito nel suo veicolo, colpito da un martello lanciato da un palestinese. Secondo resoconti di media israeliani, tra il 20 e il 22 aprile, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani che viaggiavano sulla strada 443, nell’area di Ramallah, e sulla strada 60, nelle aree di Hebron e Betlemme, causando danni ad almeno quattro veicoli.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto (controllato dall’Egitto) è stato aperto per cinque giorni in entrambe le direzioni e quattro giorni in una direzione. Un totale di 3.387 persone, tra cui 1.510 pellegrini, sono entrati a Gaza; 3.244, tra cui 1.577 pellegrini, ne sono usciti.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




I palestinesi cittadini di Israele discutono se boicottare le elezioni

Henriette Chacar e Edo Konrad

7 aprile 2019 +972 Magazine

Dopo quattro anni di uno dei governi più ostili ai palestinesi in Israele, i cittadini arabi stanno discutendo quale sia il modo migliore per far progredire la loro lotta, se partecipare o boicottare le prossime elezioni della Knesset [parlamento israeliano].

Molti palestinesi cittadini di Israele, frustrati dal fallimento delle politiche interne dei partiti arabi e vessati da attacchi continui da parte di politici di tutto lo spettro partitico, stanno esprimendo riserve sul votare alle elezioni di questa settimana. Nonostante un tasso di partecipazione al voto storicamente elevato, un piccolo ma rilevante movimento sta spingendo i cittadini palestinesi a boicottare le elezioni.

L’aspro dibattito contrappone i palestinesi che chiedono il boicottaggio delle elezioni a quelli che vedono la partecipazione al sistema politico come uno dei pochi strumenti disponibili per contrastare la persecuzione israeliana contro i palestinesi – sia il 20% della sua popolazione che Israele definisce una “minaccia demografica”, sia i milioni di palestinesi nei territori occupati che vivono sotto il governo israeliano ma non possono votare.

La discussione è antica quanto lo è Israele. Ma quest’anno gli appelli al boicottaggio si sono fatti più rilevanti e accesi di quanto lo siano stati per anni. Gli attivisti hanno attaccato manifesti in tutte le città di Israele incoraggiando i cittadini palestinesi a restare a casa nel giorno delle elezioni, e importanti politici, giornalisti e addirittura stelle dell’hip hop palestinesi hanno dato il loro appoggio.

Il contrasto è sconvolgente, se si considera quanto i cittadini palestinesi fossero elettrizzati nel recarsi alle urne nelle elezioni del 2015. Dopo che la destra israeliana innalzò la soglia elettorale nel tentativo di escludere i partiti palestinesi, i quattro maggiori partiti palestinesi si unirono in un’unica coalizione per poter sopravvivere. La Lista Unita promise di dare priorità alle esigenze dei palestinesi cittadini di Israele dopo decenni di divisioni e lotte politiche intestine. Fu uno spartiacque per i palestinesi in Israele – la Lista Unita conquistò 13 dei 120 seggi della Knesset, il miglior risultato dalla fondazione dello Stato.

Tuttavia la promessa di unità coincise con uno dei più pericolosi governi israeliani che i cittadini palestinesi abbiano mai visto. L’ultimo governo Netanyahu ha cercato di demolire interi villaggi, ha approvato leggi che sancivano la segregazione etnica e razziale ed ha fomentato una nuova ondata di razzismo contro i cittadini arabi. Poi, nel giugno 2018, la Knesset ha approvato la legge sullo Stato-Nazione ebraico, che sancisce a livello costituzionale la supremazia ebraica in Israele. Il crescendo è arrivato quando la Lista Unita – che comprendeva palestinesi comunisti, islamisti e nazionalisti – si è scissa in due.

“Nel momento stesso in cui loro diventano più oppressivi noi dobbiamo rispondere con ancora maggior forza”, ha detto a +972 Magazine la parlamentare Aida Touma-Sliman, del partito ebreo-arabo Hadash. La comunità palestinese, in quanto “minoranza oppressa e perseguitata”, ha bisogno di essere rappresentata in parlamento, ha sostenuto Touma-Sliman, se non per promuovere i diritti e le esigenze dei palestinesi, per “smascherare l’ipocrisia e gli atteggiamenti razzisti (del governo)”.

“Stiamo aiutando l’opinione pubblica a capire che questa non è democrazia”, ha detto Touma-Sliman.

Punto e a capo

Nasreen Hadad Haj-Yahya, un’attivista sociale e politica che vive a Taybeh, una cittadina nel centro di Israele, ritiene che l’astensione palestinese dal voto sia ciò che vuole la destra – “per far finta che noi non esistiamo”, ha spiegato. “Purtroppo siamo stati delegittimati a tal punto che, oggi, persino la sinistra preferisce perdere un altro turno elettorale piuttosto che collegarsi agli elettori arabi.”

“Non biasimo (chi boicotta le elezioni) perché so quanto sia difficile votare quando sai che il tuo voto non conta niente”, ha detto Hadad Haj-Yahya. I partiti palestinesi sono sempre stati all’opposizione, il che significa che non hanno mai appoggiato alcuna politica governativa, per non parlare di quelle di grandi conseguenze. “Moralmente, è molto difficile far parte di un governo che continua ad opprimere il popolo palestinese in Cisgiordania e a Gaza.”

E’ proprio per questo che Hadad Haj-Yahya è contraria al boicottaggio. “Questa mancanza di speranza, la sensazione che non vinceremo mai – non fa che indebolirci. Non possiamo permetterci di alzare le mani e dire che aspetteremo di vedere che cosa accadrà in questo Paese. Dobbiamo prendere in mano le cose e cercare di promuovere i nostri interessi”, ha sostenuto.

Ma per i palestinesi che invitano al boicottaggio, la lotta riguarda qualcosa di più grande del mettere semplicemente in crisi il governo. Rifiutano l’idea stessa di far parte di un’istituzione che incarna la supremazia ebraica.

“Se partecipo alle elezioni della Knesset, questo significa che attribuirgli legittimità”, ha detto Nizar Hawari, organizzatrice sociale e politica di Tarshiha, una cittadina della Galilea. Hawari, che ha 58 anni, ha detto di aver boicottato le elezioni fin da quando ha avuto il diritto di votare. Non l’ha convinta ad andare a votare nemmeno la Lista Unita, che lei ritiene abbia unito gli elettori palestinesi con la promessa di una maggior rappresentanza, non con un programma politico.

Hawari ha aggiunto che andare a votare non ha fatto che peggiorare le cose, frenando le lotte popolari e creando “un ostacolo al progetto di liberazione nazionale palestinese.”

Secondo Hawari l’alternativa sta nel tornare alla mobilitazione locale, di base. Il movimento di boicottaggio rappresenta un risveglio politico che potrebbe dare nuova energia alla popolazione palestinese e “riportare la nostra lotta al punto di partenza.” La campagna non terminerà martedì, ha affermato, e i militanti del boicottaggio “trasformeranno i nostri principi in un’azione continua.”

Gli attivisti per il boicottaggio hanno appeso manifesti in tutte le città di Israele che invitano i cittadini palestinesi a non partecipare alla “democrazia militare” di Israele. Alcuni di loro hanno costituito un gruppo che si è denominato ‘Campagna popolare per il boicottaggio delle elezioni del parlamento sionista’.

“Lo Stato ebraico ci priva dei diritti civili, non perché sia diminuito il numero di coloro che dicono di rappresentarci nella Knesset, ma perché ci tratta come un problema demografico”, stava scritto in un post sulla pagina Facebook del gruppo fin da fine febbraio.

Gli organizzatori della campagna di boicottaggio non hanno accettato di essere intervistati per questo articolo.

Un altro post diceva: “I partiti politici arabi si stanno inserendo nel sistema coloniale israeliano e ne stanno minando gli stessi fondamenti per la liberazione dal colonialismo, attraverso un’alternativa che coinvolga tutti i mezzi politici, sociali ed economici.”

Votare in massa

Nonostante ciò che credono i leader ebrei israeliani di tutto lo spettro politico, i cittadini palestinesi storicamente hanno preso molto sul serio la loro cittadinanza e il loro diritto al voto, ha detto Hillel Cohen, che è a capo del Dipartimento di Studi Islamici e del Medio Oriente presso l’università ebraica di Gerusalemme.

Nei 18 anni seguenti alla creazione di Israele, il nascente Stato ha posto i palestinesi che erano riusciti a restare nel Paese dopo il 1948 sotto un regime militare, che ha limitato la loro libertà di movimento ed espropriato la loro terra.

Cohen ha spiegato che, mentre alcuni volevano privare completamente o parzialmente i nuovi cittadini arabi del diritto di voto, il primo ministro David Ben Gurion premette perché invece ottenessero il diritto a votare, una decisione che prese in parte per ottenere il sostegno della comunità internazionale.

La posizione di Ben Gurion prevalse, ha detto Cohen. E benché il governo militare non vietasse tecnicamente agli arabi di votare, interferì pesantemente nel processo, anche incarcerando o deportando gli attivisti in prossimità delle elezioni.

Al tempo stesso, la dirigenza israeliana creò diversi partiti arabi satellite guidati da leader locali con stretti legami col Mapai [partito di sinistra israeliano, antecedente del partito laburista, ndtr.]. Attraverso questi partiti strettamente controllati, il governo era in grado di garantire un’alta affluenza di elettori che avrebbe costituito un affidabile bacino di sostegno.

La media dell’affluenza al voto tra i palestinesi si aggirava intorno all’85% fino alla fine del governo militare. Ma anche dopo che non furono più sotto il giogo del governo militare, i palestinesi continuarono a partecipare alla elezioni israeliane in numero relativamente alto. Alla fine degli anni ’80 i cittadini palestinesi formarono i primi partiti arabi non satelliti e nel 1992 queste liste arabe indipendenti ebbero la funzione di un blocco parlamentare di sostegno per l’affermazione del governo di minoranza di Yitzhak Rabin quando sosteneva gli Accordi di Oslo nella Knesset.

I cittadini palestinesi per la maggior parte hanno continuato a partecipare al processo democratico nel corso degli anni. Tuttavia l’affluenza palestinese al voto registrò un crollo all’inizio degli anni 2000, dopo che la polizia uccise 13 palestinesi – 12 dei quali cittadini di Israele – in quelli che sono diventati famosi come i fatti dell’ottobre 2000.

Da allora, la violenza della polizia, spesso letale, e la mancata attribuzione delle responsabilità incisero profondamente nella comunità palestinese in Israele. Ci vollero 15 anni e la creazione della Lista Unita per riportare i numeri dei palestinesi votanti ai livelli precedenti all’ottobre del 2000.

Secondo Yousef Makladeh, che è a capo di Statnet, un istituto di ricerca che si occupa della comunità araba in Israele, quel numero potrebbe nuovamente diminuire in occasione delle elezioni di quest’anno. Il recente sondaggio di Makladeh segnala che solo il 55% dei cittadini palestinesi intende votare martedì – il 9% in meno rispetto al 2015. Inoltre Makladeh ha detto che, mentre solo il 18% degli elettori arabi hanno sostenuto i partiti sionisti nelle ultime elezioni, il suo sondaggio mostra che tale percentuale è salita al 30%.

“Ci sono 940.000 arabi che possono votare in Israele”, ha detto Makladeh. “Se si considera l’accanimento contro i palestinesi di Israele, iniziato con gli incendi nel 2016, proseguito con l’uccisione di Umm al-Hiran e culminato con la legge sullo Stato-Nazione ebraico – tutto ciò ha spinto i cittadini palestinesi a stare a casa e non votare.” Non intendono più cercare di integrarsi nella società israeliana, ha aggiunto.

Intanto, oltre il 70% degli arabi afferma di volere che i loro rappresentanti eletti facciano parte di una coalizione di governo, cosa che Makladeh spiega come risultato della delusione per la Lista Unita. “Molti elettori arabi ritengono che la Lista Unita non sia riuscita a migliorare le loro condizioni di vita, che non li abbia aiutati a mettere più cibo in tavola. Si sono stancati di loro ed ora chiedono politiche pragmatiche.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 26 febbraio – 11 marzo (due settimane)

A Gaza, durante il periodo di riferimento, le dimostrazioni e gli scontri del venerdì lungo la recinzione perimetrale, hanno provocato l’uccisione di due palestinesi, entrambi 23enni, ed il ferimento di altri 556; inoltre un palestinese di 22 anni è morto per le ferite riportate il venerdì precedente (22 febbraio).

I due palestinesi di cui sopra, sono stati uccisi con armi da fuoco l’1 e l’8 marzo, durante le proteste svolte nelle zone di Deir al Balah e di Rafah. Dal 30 marzo 2018, data di inizio delle proteste collegate alla “Grande Marcia di Ritorno”, 193 palestinesi sono stati uccisi e 26.625 sono stati feriti. Secondo il Ministero della Sanità palestinese, dei [556] feriti registrati nel periodo di riferimento, 269 sono stati ricoverati in ospedale; 79 di questi hanno riportato ferite da armi da fuoco. Al lancio da parte di palestinesi di proiettili, palloncini incendiari e ordigni esplosivi verso Israele, hanno fatto seguito diversi attacchi aerei israeliani e bombardamenti contro siti militari appartenenti, secondo quanto riferito, a gruppi armati palestinesi e contro porti: risultano danneggiati due siti e tre barche da pesca.

Il 6 marzo, nel corso di ulteriori proteste e azioni correlate con la “Grande Marcia di Ritorno”, è stato ucciso un 15enne e altri 66 palestinesi sono rimasti feriti. Queste ulteriori proteste includono le dimostrazioni tenute sulla spiaggia, vicino alla recinzione perimetrale, nella parte nord della Striscia, e il tentativo, da parte di una flottiglia di barche, di rompere il blocco navale, nonché le attività notturne presso la recinzione; nel corso di queste ultime si è fatto uso di ordigni esplosivi contro le forze israeliane.

Nelle Aree ad Accesso Riservato, imposte da Israele sia sulla terraferma che al largo della costa di Gaza, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 32 occasioni estranee alle dimostrazioni sopraccitate. In tre casi, quattro pescatori palestinesi sono stati feriti, altri sette pescatori sono stati arrestati e due imbarcazioni sono state confiscate dalle forze navali israeliane. In un altro caso, le forze israeliane hanno arrestato due palestinesi che, secondo quanto riferito, tentavano di infiltrarsi in Israele attraverso la recinzione perimetrale. In tre casi, le forze israeliane sono entrate nella Striscia, nelle aree di Beit Lahiya e Beit Hanoun, ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e scavi in prossimità della recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, in due occasioni, tre palestinesi sono stati uccisi e due membri delle forze israeliane sono rimasti feriti [di seguito il dettaglio]. Nelle prime ore del 4 marzo, le forze israeliane hanno sparato e ucciso due palestinesi che percorrevano in auto la strada principale vicino al villaggio di Kafr Ni’ma (Ramallah). Le autorità israeliane sostengono che si sarebbe trattato di un tentativo deliberato di speronamento. Fonti locali palestinesi hanno segnalato che i due palestinesi, insieme ad un altro che è stato arrestato, hanno investito una jeep militare accidentalmente, provocando il ferimento di due membri delle forze israeliane. I corpi dei due palestinesi sono ancora trattenuti dalle autorità israeliane. Il 10 marzo, nella zona di Jericho, a un posto di blocco volante sulla strada 90, un altro automobilista palestinese di 22 anni è stato colpito ed ucciso dalla polizia israeliana; a quanto riferito, il giovane avrebbe ignorato l’alt della polizia. Altri due passeggeri sono fuggiti. Le autorità israeliane hanno aperto un’indagine, nella convinzione che l’autista non si sia fermato perché i passeggeri erano implicati in attività criminali. Queste ultime morti portano a dieci il numero di palestinesi uccisi in Cisgiordania dalle forze israeliane dall’inizio del 2019 ad oggi.

Il 5 marzo, nel quartiere di As Salaymeh nella zona H2 di Hebron controllata da Israele, tre minori, di età compresa tra uno e quattro anni, sono morti nell’incendio della loro casa. Secondo fonti palestinesi, i servizi di soccorso sono stati ritardati dal fatto che, per le ambulanze e i vigili del fuoco, l’accesso all’area richiede un coordinamento preventivo con le autorità israeliane.

In Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, in numerosi scontri con le forze israeliane sono complessivamente rimasti feriti 26 palestinesi: un calo significativo di circa l’82%, rispetto alla media di ferimenti (146 ogni due settimane) registrata finora nel 2019. Dei 26 citati, 13 sono rimasti feriti negli scontri scoppiati nel villaggio di Kafr Qaddum (Tulkarm) durante le proteste settimanali contro l’espansione degli insediamenti israeliani; otto hanno subìto lesioni nel corso di un’altra protesta svolta a Beit Sira (Ramallah) per chiedere il rilascio dei corpi dei due palestinesi uccisi vicino a Kafr Ni’ma [vedi sopra]. Infine, altri cinque sono rimasti feriti negli scontri avvenuti durante due operazioni di ricerca-arresto condotte dalle forze israeliane nella città di Nablus. Complessivamente, le forze israeliane hanno condotto 173 operazioni di questo tipo, il 45% delle quali è culminato in scontri. La metà delle lesioni è stata causata da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche, circa il 38% da proiettili di gomma, l’8% da aggressioni fisiche e il 4% da proiettili di arma da fuoco. Inoltre, le forze israeliane, sostenendo che erano stati piantati su “terra di stato” [dichiarata tale da Israele], hanno sradicato 135 ulivi appartenenti a [palestinesi del] Campo profughi di Arub e della zona di Khallet ad Dab’a.

Sette attacchi attribuiti a coloni israeliani hanno provocato il ferimento di tre palestinesi e danni a proprietà palestinesi [di seguito il dettaglio]. Nel villaggio di Jaba (Gerusalemme), coloni israeliani hanno lanciato pietre contro un veicolo che viaggiava sulla Strada 60, ferendo due palestinesi, mentre nella zona H2 della città di Hebron hanno causato lesioni ad un altro palestinese spruzzandogli liquido al peperoncino. In altri tre episodi, i residenti di Burin e di Urif (entrambi a Nablus) e Far’ata (Qalqiliya) hanno riferito che i coloni hanno danneggiato circa 50 ulivi di proprietà palestinese. Nell’episodio avvenuto in ‘Urif, dopo che coloni avevano lanciato pietre contro la scuola e case circostanti, si sono innescati scontri tra palestinesi e coloni sostenuti dalle forze israeliane che li accompagnavano. In un altro caso nel villaggio di Far’ata, palestinesi hanno riferito che coloni provenienti dall’avamposto di Gilad hanno gettato diversi animali morti in un pozzo; sul caso i palestinesi hanno presentato una denuncia alle autorità israeliane. In un altro episodio, avvenuto in Khirbet nella zona di Tawamin, coloni israeliani dell’insediamento di Susiya (Hebron) hanno distrutto un tratto di una recinzione di 200 metri che delimitava terreni agricoli, un cancello e dieci serbatoi d’acqua; anche in questo caso il proprietario ha presentato una denuncia alla polizia israeliana. Nell’area della Valle del Giordano, un cane di proprietà di coloni ha attaccato e ferito un vitello di proprietà di una famiglia palestinese della comunità di Ein al Hilweh. Sono stati segnalati altri due episodi avvenuti il 10 ed 11 marzo nella zona H2 di Hebron: coloni israeliani hanno molestato attivisti internazionali che accompagnavano dei bambini alla scuola di Qurdoba. La polizia israeliana presente sul luogo ha disperso sia i coloni che gli attivisti.

Sono state demolite 18 strutture di proprietà palestinese, sfollando 42 persone e creando danno ad altre 67: tutte le strutture, tranne una, sono state demolite per la mancanza di permessi rilasciati da Israele. 12 di queste strutture, erano nell’Area C e 5 a Gerusalemme Est. La struttura rimanente, una abitazione situata nel villaggio di Kobar (Ramallah) in zona B, è stata demolita il 7 marzo; apparteneva alla famiglia di un palestinese arrestato e accusato di aver compiuto un attacco che, nel dicembre 2018, provocò la morte di due soldati israeliani: si è trattato quindi di una demolizione “punitiva”. Dall’inizio del 2019 questa è la seconda demolizione punitiva; nel 2018, con la stessa motivazione furono demolite sei abitazioni. Il 7 marzo, nella comunità beduina di Arab ar Rashaydiya (Betlemme) le forze israeliane hanno confiscato sette latrine ricevute in donazione.

Secondo quanto riportato da media israeliani, in tre diverse circostanze, il 26 febbraio e 6 il marzo, tre veicoli di coloni israeliani in transito nei pressi di Tur e Hizma (entrambi a Gerusalemme) e Deir Qaddis (Ramallah) hanno subìto danni per il lancio di pietre da parte di palestinesi. A seguito di tali episodi le forze israeliane hanno condotto operazioni di ricerca-arresto.

Per la prima volta in cinque anni, pellegrini diretti alla Mecca sono stati autorizzati ad attraversare il valico di Rafah (tra Gaza e l’Egitto) sotto controllo egiziano; durante il periodo di riferimento, il valico è stato aperto per nove giorni in entrambe le direzioni. Sono entrate a Gaza 1.413 persone e ne sono uscite 3.948, di cui 1.559 pellegrini.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

12 marzo: in due episodi, accaduti nella zona (H2) della città di Hebron e a Salfit, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo due palestinesi di 41 e 23 anni.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Rapporto OCHA del periodo 12 – 25 febbraio (due settimane)

A Gaza, durante le manifestazioni del venerdì e gli scontri presso la recinzione perimetrale, un ragazzo palestinese è stato ucciso e altri 449 palestinesi sono rimasti feriti; un altro ragazzo è morto per le ferite riportate in precedenza.

Secondo fonti israeliane, in diverse occasioni, i manifestanti hanno lanciato ordigni esplosivi, palloni incendiari ed hanno tentato di violare la recinzione, provocando il ferimento di un ufficiale della polizia di frontiera israeliana. L’uccisione del ragazzo, un quattordicenne, è avvenuta il 22 febbraio durante una manifestazione di protesta ad est della città di Gaza: le forze israeliane lo hanno colpito al petto con arma da fuoco. Il secondo ragazzo, un 16enne, è morto il 12 febbraio, per le ferite riportate l’8 febbraio, nella zona di Deir al Balah, durante una circostanza simile: era stato colpito alla testa da una bomboletta di gas lacrimogeno lanciata dalle forze israeliane. Questi episodi portano a 40 il numero di minori palestinesi uccisi dalla fine di marzo 2018 nel contesto della “Grande Marcia di Ritorno”. Cinque di questi sono stati uccisi dall’inizio del 2019. Secondo il Ministero della Sanità palestinese, dei 449 palestinesi feriti durante il periodo di riferimento, 228 sono stati ricoverati in ospedale; tra questi 92 erano stati feriti con armi da fuoco.

Altri 165 palestinesi e un soldato israeliano sono rimasti feriti nel corso di ulteriori manifestazioni di protesta e iniziative contestuali alla “Grande Marcia di Ritorno”, comprese le dimostrazioni che si sono svolte il 12 e il 19 febbraio vicino alla recinzione, sulla spiaggia a nord di Gaza, in contemporanea con il tentativo, attuato da una flottiglia di barche, di rompere il blocco navale. In prossimità della recinzione sono aumentate le proteste notturne, con incendio di pneumatici ed il lancio di ordigni esplosivi contro le forze israeliane. In seguito al ferimento di un soldato, l’esercito israeliano ha sparato colpi di carro armato contro due postazioni militari palestinesi nel nord di Gaza, senza provocare vittime.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 44 occasioni. In due degli episodi, tre pescatori sono rimasti feriti, altri quattro sono stati arrestati e due imbarcazioni sono state confiscate dalle forze navali israeliane. Ad est della città di Gaza e di Khan Younis, in due occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza e hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale. In altri due episodi, cinque palestinesi sono stati arrestati mentre tentavano di infiltrarsi in Israele.

In Cisgiordania, nel corso di numerosi scontri, 139 palestinesi e due soldati israeliani sono rimasti feriti. Due terzi dei ferimenti si sono verificati negli scontri scoppiati nel corso di sei operazioni di ricerca-arresto. Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 156 operazioni di ricerca-arresto. Il 21 febbraio, all’interno dell’area (H2) della città di Hebron sotto controllo israeliano, le forze israeliane hanno sparato bombolette di gas lacrimogeno all’interno di un complesso scolastico; per 30 studenti e tre insegnanti è stato necessario un trattamento medico per inalazione dei gas. A quanto riferito, in precedenza vi era stato il lancio di pietre da parte degli studenti palestinesi. Nel villaggio di Al Mughayyir (Ramallah), durante una protesta settimanale contro la violenza dei coloni e l’espansione degli insediamenti, sono rimasti feriti altri tre palestinesi; ed ancora altri tre nel villaggio di Urif (Nablus), sempre durante una protesta. Quasi il 70% del totale dei ferimenti è stato causato dall’inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche, il 7% da proiettili di gomma e il 7% da armi da fuoco.

Presso la Moschea di Al Aqsa / Complesso del Monte del Tempio e le aree circostanti la Città Vecchia di Gerusalemme, la tensione è in aumento in seguito a proteste, ad arresti ed a restrizioni di accesso. Il 17 febbraio, all’interno del Complesso, la polizia israeliana ha posto delle catene all’ingresso dell’edificio Bab Ar Rahma, chiuso dalle autorità israeliane dal 2003. Nei giorni successivi, palestinesi hanno protestato contro questa misura, si sono scontrati con le forze israeliane e due palestinesi sono rimasti feriti. Il 22 febbraio, palestinesi hanno fatto irruzione nell’edificio; qui hanno pregato, per la prima volta dopo 16 anni. A Gerusalemme Est, tra il 18 e il 25 febbraio, le forze israeliane hanno arrestato circa 100 palestinesi, la maggior parte nella Città Vecchia; inoltre a molti palestinesi, inclusi personaggi pubblici e religiosi, hanno vietato, per periodi variabili, l’ingresso nel Complesso.

Undici episodi, nei quali sono coinvolti coloni israeliani, hanno provocato il ferimento di cinque palestinesi e danni alle loro proprietà. Nei pressi delle Comunità di Al Farisiya (Valle del Giordano), Khirbet al ‘Idd (Hebron) e Kisan (Betlemme), tre palestinesi sono stati aggrediti fisicamente da coloni; un quarto è stato accoltellato. Inoltre, coloni israeliani hanno lanciato pietre contro auto palestinesi vicino al checkpoint di Huwwara (Nablus), hanno vandalizzato dieci auto a Ras Karkar (Ramallah) e altre 22 automobili, quattro case e una moschea a Iskaka (Salfit). Su quest’ultimo episodio la polizia israeliana ha aperto un’indagine. In altri tre casi, coloni hanno sradicato 600 ulivi di proprietà palestinese vicino ad Ash Shuyukh (Hebron), mentre nei villaggi di Beitillu e Al Mughayyir (entrambi a Ramallah) hanno abbattuto 60 ulivi ed hanno danneggiato 9.000 m2 di terreno. In due distinti episodi in Farisiya Nabe ‘Ghazal (Tubas) e nel villaggio di Burqa (Nablus), coloni israeliani avrebbero rubato bestiame e prodotti agricoli palestinesi. Con questi episodi salgono a 47, dall’inizio del 2019, il numero di aggressioni perpetrate da coloni e risultanti in ferimenti di palestinesi o danni alle proprietà; in equivalenti periodi di tempo, le aggressioni erano state 38 nel 2018 e 29 nel 2017.

Le autorità israeliane hanno demolito 26 strutture di proprietà palestinese, incluse parti di tre condotte idriche, sfollando 44 persone e provocando danno a migliaia di altre. Tutte le demolizioni erano motivate dalla mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele. Le tre condotte idriche distrutte, erano tutte in Area C; approvvigionavano di acqua, o stavano per approvvigionare, i villaggi Beit Dajan e Beit Furik a Nablus (18.000 persone), oltre che 13 Comunità di pastori nell’area Masafer Yatta di Hebron (1.200 persone) e la Comunità beduina di Wadi Abu Hindi a Gerusalemme (320 persone); tutte queste Comunità soffrono di gravi carenze idriche, soprattutto in estate. Le ultime due condotte erano state finanziate da donatori internazionali e fornite come assistenza umanitaria. Sette delle strutture demolite, tra cui cinque abitazioni, erano in Gerusalemme Est e le loro demolizioni hanno provocato lo sfollamento di 38 persone [delle 44 sopraccitate]. Due delle abitazioni colpite si trovavano nella Comunità di Bir Onah, nel sud della Città; la Barriera separa questa Comunità dal resto di Gerusalemme.

In Cisgiordania, secondo quanto riportato dai media israeliani, in sei episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie, palestinesi hanno ferito tre coloni israeliani ed hanno danneggiato diversi veicoli. In due di questi episodi, avvenuti il 16 e il 19 febbraio nei pressi dei villaggi di Hizma e Al ‘Isawiya (Gerusalemme), tre coloni israeliani in transito sono stati feriti da pietre lanciate da palestinesi mentre, nei governatorati di Gerusalemme e Ramallah, sei auto, colpite da pietre e bottiglie incendiarie, hanno subito danni. La maggior parte di tali episodi sono stati seguiti da operazioni di ricerca-arresto condotte dalle forze israeliane.

A Gaza, il 23 febbraio, la polizia di Hamas ha disperso con la forza un’assemblea di attivisti di Fatah. Organizzazioni per i Diritti Umani hanno riferito che circa 90 membri del movimento Fatah sono stati convocati successivamente dalla polizia, alcuni dei quali rimangono in carcere.

Nel contesto di una disputa con l’Autorità palestinese, il 17 febbraio, le autorità di Hamas hanno assunto il controllo del valico di Kerem Shalom, al confine tra Gaza ed Israele. Il movimento delle merci da e per la Striscia di Gaza è continuato senza interruzione.

Durante il periodo relativo a questo Rapporto, il valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto (sotto controllo egiziano), è rimasto aperto per 10 giorni in entrambe le direzioni. 1.320 persone sono entrate a Gaza e 2.983 ne sono uscite.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




L’escalation delle punizioni collettive israeliane contro i palestinesi

Nada Awad

21 febbraio 2019, Al Shabaka

Nel 2017 le autorità israeliane hanno trasferito con la forza la palestinese Nadia Abu Jamal da Gerusalemme, dopo la demolizione della casa della sua famiglia nel 2015. Inoltre l’Istituto di Previdenza Nazionale israeliano ha revocato la tessera sanitaria e altri documenti di previdenza sociale ai tre figli di Abu Jamal, due dei quali soffrono di patologie croniche. Questi ordini sono stati misure punitive dopo che suo marito, Ghassan, è stato ucciso mentre avrebbe effettuato un presunto attacco. Essi dimostrano l’ incremento di politiche israeliane che puniscono individui palestinesi per reati che non hanno commesso.

Israele ha fatto uso di punizioni collettive contro i palestinesi fin dall’inizio dell’occupazione militare nel 1967, attraverso demolizioni di case e guerra psicologica ed economica contro le famiglie di presunti attentatori – in violazione del diritto internazionale. Tali misure, applicate in tutti i Territori Palestinesi Occupati (TPO), sono state intensificate dalle autorità israeliane nei confronti delle famiglie e dei parenti di presunti attentatori soprattutto a Gerusalemme est e in particolar modo dal 2015.

Per esempio, i parlamentari israeliani negli ultimi anni hanno proposto leggi che legalizzerebbero azioni come quelle attuate contro Abu Jamal, mettendo lo Stato ufficialmente in grado di revocare lo status di residenza permanente a membri della famiglia di presunti attentatori. Nel dicembre 2018 il parlamento israeliano ha approvato in prima lettura una proposta di legge che consentirebbe il trasferimento forzato di famiglie di presunti attentatori palestinesi dalle città in cui vivono ad altre zone della Cisgiordania. Netanyahu ha espresso il suo appoggio al disegno di legge dichiarando: “L’espulsione di terroristi è uno strumento efficace. Per me i vantaggi superano i danni. I giuristi dicono che è contro la legge per come è prevista, e sarà sicuramente una sfida giuridica, ma non ho dubbi sulla sua efficacia.”

Questo articolo segnala l’ aumento delle punizioni collettive di Israele contro le famiglie di presunti attentatori attraverso azioni come i trasferimenti forzati, la demolizione di case e la guerra economica, e suggerisce le possibilità di contrastare i tentativi di Israele di inserire questi metodi nella legislazione per usarli per intensificare l’espulsione dei palestinesi da Gerusalemme.

L’ incremento dei trasferimenti forzati

I trasferimenti forzati sono stati il cuore della politica di Israele per raggiungere e conservare una maggioranza ebraica a Gerusalemme fin dalla sua annessione di fatto nel 1967. (1) Per raggiungere questo obiettivo demografico Israele attua una pianificazione edilizia discriminatoria per limitare la crescita della popolazione palestinese, mentre la legislazione israeliana rende difficile ai palestinesi sia vivere che trasferirsi nella città.

I palestinesi che vivevano a Gerusalemme dopo il 1967 ricevettero lo status di residenti permanenti. La legge sull’ “Ingresso in Israele” rende facile allo Stato revocare lo status di residenza permanente tramite l’attribuzione al ministero dell’Interno della prerogativa di annullare le residenze dei palestinesi in base ai seguenti criteri: vivere all’estero per oltre 7 anni; ottenere una cittadinanza straniera o la residenza permanente all’estero; non poter dimostrare che il “centro della propria vita” è in Israele; e, dal 2018, “contravvenire alla lealtà” nei confronti di Israele.

Tale revoca dei diritti di residenza è uno strumento diretto di trasferimento forzato, poiché i palestinesi in questa situazione non possono avere nemmeno il diritto di essere fisicamente presenti a Gerusalemme. Queste leggi sulla residenza a Gerusalemme limitano anche il ricongiungimento familiare per i palestinesi residenti a Gerusalemme con membri della famiglia che non hanno la residenza a Gerusalemme o la cittadinanza israeliana. Per i palestinesi residenti a Gerusalemme che scelgono di riunirsi alla famiglia in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza o nella diaspora, la conseguenza è la revoca dei loro diritti di residenza a Gerusalemme, che prelude al loro trasferimento forzato fuori dalla città.

Dall’adozione dell’ordine temporaneo del 2003 fino alla legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele, a chi fa richiesta di ricongiungimento familiare è impedito di ricevere lo status di residenza permanente. In altri termini, un palestinese non gerosolimitano che sposa un palestinese gerosolimitano non può ottenere lo status di residenza permanente, ma gli vengono invece rilasciati permessi temporanei se il ministero dell’Interno israeliano accoglie la richiesta di ricongiungimento familiare. Questa politica pone i palestinesi di Gerusalemme a rischio di venir separati dalla loro famiglia e spesso li costringe a lasciare Gerusalemme per vivere con i coniugi che non hanno i permessi; di conseguenza perdono il loro diritto a vivere lì. Dal 1967 ci sono state 14.500 revoche di residenze di palestinesi, delle quali 11.500 attuate dal 1995.

Nell’ottobre 2015 il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che il governo stava esaminando “l’abolizione del ricongiungimento familiare” e “la revoca dello status di residenza e cittadinanza alle famiglie degli attentatori.” É stato questo il caso di Nadia Abu Jamal, originaria di un villaggio della Cisgiordania. Dopo aver sposato Ghassan e dopo una lunga procedura di ricongiungimento familiare, ha ottenuto il permesso di residenza temporanea per vivere a Gerusalemme, che rinnovava ogni anno. In seguito ad un presunto attentato da parte di suo marito il ministero dell’Interno ha ordinato a Nadia di lasciare la città e ha iniziato a rifiutare il rilascio di qualunque permesso che lei richiedesse. Nel gennaio 2017 la polizia ha arrestato Nadia in casa dei suoi suoceri, dove era andata a stare dopo la demolizione di casa sua, e l’ha trasferita con la forza fuori Gerusalemme.

Lo schema del caso Abu Jamal è stato da allora riproposto su più ampia scala. Dopo un presunto attacco nel 2017 il ministero dell’Interno israeliano ha dichiarato: “D’ora in poi chiunque organizzi, pianifichi o intenda condurre un attacco saprà che la sua famiglia pagherà un caro prezzo per la sua azione.” Aryeh Deri [all’epoca ministro dell’Interno del partito religioso Shah, ndtr.], parlando a nome del ministero, ha avvertito che “le conseguenze saranno severe e di vasta portata.”

Le “conseguenze di vasta portata” sono state chiare nel caso di Fadi Qunbar, accusato di aver compiuto un attacco con l’automobile nel luglio 2017. Deri ha revocato lo status di residenza permanente alla madre sessantunenne di Qunbar, oltre a 11 permessi di ricongiungimento familiare della sua famiglia estesa. Tra le 11 persone che hanno perso il diritto di vivere a Gerusalemme c’era il marito della figlia della sorellastra di Qunbar. La grande ampiezza con cui Deri ha applicato la legge ha segnato un chiaro ampliamento dell’estensione della revoca punitiva della residenza. Tutti i membri della famiglia di Qunbar stanno aspettando una decisione riguardo ad un possibile loro trasferimento forzato fuori dalle loro case.

Il caso di Qunbar è solo un esempio di come Israele abbia intensificato le misure di punizione collettiva in certi casi, stabilendo un precedente che spiana la strada a leggi che consentono che tali pratiche vengano utilizzate in modo esteso. Nel 2016 e 2017 i legislatori israeliani hanno presentato almeno quattro proposte di legge che fornirebbero una base giuridica alla revoca dei permessi di residenza sia alle persone che si presume abbiano compiuto un attacco che alle loro famiglie allargate. Tre dei quattro disegni di legge erano emendamenti all’articolo 11 della legge sull’ingresso in Israele.

Il primo [emendamento], P/20/2463, consente al ministero dell’Interno di revocare lo status di residenza permanente a presunti attentatori e ai loro familiari, oltre ai diritti relativi alla legge sulla Previdenza Nazionale e ad altre leggi. “Non c’è logica nel garantire eguali diritti a residenti che agiscono contro lo Stato e dargli la possibilità di godere dei servizi sociali che spettano a chi è residente permanente nello Stato di Israele”, sancisce la legge. Subito dopo, l’emendamento P/20/2808 stabilisce che il ministero dell’Interno possa cancellare un visto o lo status di residenza permanente di “membri della famiglia di una persona che compia un atto terroristico o abbia contribuito a compiere tale atto attraverso conoscenza, aiuto, incoraggiamento e sostegno prima, durante o dopo l’attuazione dell’atto terroristico”. L’emendamento P/20/3994 “attribuisce al ministro dell’Interno l’importante diritto di avere potere discrezionale relativamente alla commissione di atti terroristici.” E, come citato prima, nel dicembre 2018 è stata approvata in prima lettura alla Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] la legge P/20/3458, che consentirebbe “l’espulsione delle famiglie di terroristi per ragioni nazionaliste”. Essa conferirebbe all’esercito israeliano l’autorità di “espellere le famiglie degli aggressori che compiono o cercano di compiere un attacco terroristico” entro sette giorni. Sollecita il trasferimento forzato delle famiglie di presunti aggressori palestinesi in ogni area della Cisgiordania.

Inoltre, nel marzo 2018, il parlamento israeliano ha approvato un emendamento alla legge sull’ingresso in Israele che consente la revoca punitiva dello stato di residenza dei palestinesi sulla base di “violazione della lealtà”. Questa revoca è vietata in base all’articolo 45 dei Regolamenti dell’Aja della Quarta Convenzione di Ginevra, che proibisce esplicitamente alla potenza occupante di pretendere lealtà dalla popolazione occupata. Utilizzando un criterio così vago come la lealtà, Israele può revocare lo status di residenza di ogni palestinese di Gerusalemme.

Guerra psicologica ed economica

Nel 2015 il gabinetto di sicurezza israeliano ha confermato la demolizione della casa di un presunto attentatore come pratica punitiva legittima ed ha auspicato il divieto di nuova costruzione nel luogo della casa demolita e la confisca della proprietà stessa. Dal novembre 2014 l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha cassato 11 casi in cui famiglie di Gerusalemme si erano appellate contro gli ordini di demolizione, confermando la decisione dell’esercito israeliano di demolire o sigillare le case per punizione. Su cinque case sigillate e confiscate, tre sono state riempite di cemento, rendendo irreversibile la chiusura. Questo lascia senza casa le famiglie dei presunti attentatori e li rende sfollati interni.

Queste misure intervengono dopo un’interruzione di dieci anni delle demolizioni di case. Una commissione militare israeliana nel 2005 ha concluso che le demolizioni punitive di case portavano a risultati controproducenti, facendo sì che le autorità di governo israeliane sospendessero questa pratica con alcune eccezioni, prima di riprenderla nel 2014.

Inoltre, come forma di punizione collettiva contro le famiglie, Israele trattiene i corpi dei palestinesi uccisi durante presunti attacchi. Nel 2016 il parlamento israeliano ha approvato un emendamento alla legge israeliana antiterrorismo del 2016, che conferisce questa autorità alla polizia. Da ottobre 2015 Israele ha trattenuto i corpi di 194 palestinesi, 32 dei quali sono tuttora negli obitori israeliani. (2) In molti casi i corpi sono stati restituiti a determinate condizioni alle famiglie per la sepoltura dopo una lunga battaglia legale. Le condizioni richieste dalle autorità israeliane per il rilascio includono una sepoltura immediata – impedendo così l’autopsia – che deve inoltre avvenire di notte e a cui può partecipare un numero limitato di persone autorizzate.

Le nuove misure di punizione collettiva hanno anche preso di mira i mezzi di sussistenza delle famiglie. Attraverso la legge per il contrasto al terrorismo del 2016 il ministro della Difesa israeliano ha emesso parecchi ordini di confisca di denaro contro famiglie di presunti attentatori. Il ministro ha dichiarato che la confisca è lecita in base al fatto che il denaro costituisce un indennizzo per l’attacco. Nell’agosto 2017 le forze di polizia israeliane hanno fatto irruzione in diverse case appartenenti alle famiglie di presunti attentatori e confiscato grosse somme di denaro. Per esempio, il ministro della Difesa israeliano ha confiscato 4.000 dollari alla famiglia Manasra dopo che nel 2015 l’esercito israeliano ha ucciso Hasan Manasra, di 15 anni, durante un presunto accoltellamento in una colonia di Gerusalemme.Questa nuova misura di punizione collettiva ha lo scopo di mantenere le famiglie di presunti attentatori nel timore di rappresaglie e prende di mira le loro fondamentali risorse economiche.

Con un’altra iniziativa che costituisce un precedente, il governo israeliano ha intentato due cause civili contro la moglie e i quattro figli di Fadi Qunbar e contro la moglie e i cinque figli di Misbah Abu Sbeih, che avrebbero compiuto presunti attacchi a Gerusalemme est nell’ottobre 2016. Nella causa contro la famiglia di Qunbar è stato chiesto il pagamento di 2,3 milioni di dollari, mentre in quella contro la famiglia di Abu Sbeih è stato imposto il pagamento di una somma che ammontava a oltre un milione di dollari. La Procura distrettuale di Gerusalemme ha affermato: “Questa causa, che ha origine da un atto terroristico in cui sono stati uccisi dei soldati, ha lo scopo di recuperare alle casse dello Stato le spese sostenute in eventi di questo tipo, e di mandare un chiaro messaggio che lo Stato regolerà anche i conti a livello civile con chi ha perpetrato atti ostili.” L’ufficio ha anche affermato: “Alla luce del fatto che il terrorista ha provocato il danno, ai suoi eredi legali spetta farsene carico e indennizzare lo Stato in merito.”

Le famiglie dei presunti attentatori spesso si trovano isolate dalla società, che teme misure di rappresaglia. Attualmente le vittime di punizioni collettive da parte Israele sono sempre più riluttanti a lottare o a riferire violazioni, per paura di ulteriori rappresaglie delle autorità israeliane. A distanza di mesi e a volte di anni dalle punizioni collettive, i palestinesi spesso sperano che il loro silenzio possa tutelarli da ulteriori misure punitive. Questa paura delle rappresaglie e la concomitante erosione della solidarietà tra palestinesi, come risultato della crescente arbitrarietà del potere di rappresaglia statale, ha accresciuto l’impunità di Israele relativamente alle sue violazioni dei divieti internazionali di punizioni collettive.

Direttive della legislazione internazionale

La legislazione internazionale sui diritti umani sancisce il divieto di punizione collettiva. L’articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra afferma che “nessun individuo protetto può essere punito per un reato che non ha personalmente commesso. Le pene collettive e analogamente tutte le misure di intimidazione o terrorismo sono proibite”.

Oltretutto il trasferimento forzato di palestinesi è una violazione del diritto internazionale in quanto i palestinesi sono considerati una popolazione protetta. Infatti gli enti internazionali hanno ripetutamente affermato lo status di Gerusalemme come città occupata, definendo il popolo palestinese “persone protette”. L’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra vieta il trasferimento forzato della popolazione palestinese protetta e lo considera un crimine di guerra. Se utilizzato in modo sistematico e diffuso, lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale lo considera un crimine contro l’umanità. (3) Le misure israeliane di punizione collettiva violano anche il divieto di distruzione e appropriazione della proprietà delle persone protette.

Inoltre l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2016 ha dichiarato che “oltre a costituire una punizione collettiva, la mancata restituzione [alle famiglie] dei cadaveri contrasta con gli obblighi di Israele come potenza occupante secondo la Quarta Convenzione di Ginevra (articoli 27 e 30) e viola il divieto di tortura e maltrattamenti.”

Ad Israele è anche fatto divieto di cercare di usare lo stato di emergenza o le ragioni di sicurezza per giustificare la violazione delle norme giuridiche stabilite dalla legislazione internazionale sui diritti umani. La Commissione Diritti Umani dell’ONU ha sottolineato che il divieto di punizione collettiva non è derogabile, neanche in stato di emergenza. Eppure Israele adduce sistematicamente ragioni di sicurezza per incrementare le politiche punitive contro la popolazione palestinese con l’obiettivo del loro trasferimento forzato.

In base ai principi del diritto consuetudinario internazionale gli Stati terzi sono tenuti a impedire violazioni in corso del diritto umanitario attraverso indagini, incriminazioni, rifiuto di aiuti o crediti e cooperazione per porre fine alla grave violazione, incluse misure di rappresaglia contro gli Stati responsabili delle violazioni. Tuttavia l’opposizione della comunità internazionale all’uso di Israele delle punizioni collettive raramente si è spinta oltre il livello di condanna verbale. Sta ai palestinesi e al movimento di solidarietà coi palestinesi fare pressioni sulla comunità internazionale e su Israele perché cessino queste violazioni.

Contrastare le punizioni collettive

1. É indispensabile per i palestinesi ed i loro alleati sensibilizzare i media e la società civile sull’uso da parte di Israele delle punizioni collettive come mezzo di trasferimento forzato e considerarlo come un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità. Ciò può contribuire a rendere prioritario il problema nell’agenda dell’ONU.

2. I palestinesi dovrebbero anche fare pressione sulla Corte Penale Internazionale (CPI) perché aggiunga la punizione collettiva al suo elenco di crimini perseguibili. L’attuale indagine preliminare della CPI su potenziali violazioni del diritto internazionale in tutti i Territori Palestinesi Occupati (TPO) dovrebbe essere monitorata, in quanto costituisce un banco di prova per una legge internazionale relativa alla punizione collettiva. La definizione da parte della CPI della punizione collettiva come atto criminale sarebbe un passo verso la fine dell’impunità israeliana, che consentirebbe di perseguire questa violazione di diritti umani fondamentali.

3. Ê quindi indispensabile assistere le vittime sottoponendo i loro casi di punizione collettiva alla sezione della CPI dedicata a facilitare la partecipazione delle vittime.

É rendendo responsabili i criminali di guerra israeliani che le politiche di punizione collettiva contro i palestinesi, che portano al loro trasferimento forzato da Gerusalemme, potranno cessare.

Note:

  1. In base allo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, la deportazione o il trasferimento forzato di popolazione significa “spostamento forzato delle persone coinvolte attraverso espulsione o altri atti coercitivi dall’area in cui sono legittimamente presenti, in assenza di motivi contemplati dal diritto internazionale.”

  2. Dati dell’unità di monitoraggio Al-Haq, 12 gennaio 2018

  1. Benché l’imposizione di punizioni collettive sia stata considerata un crimine di guerra nel rapporto della ‘Commissione sulla Responsabilità’ creata dopo la Prima Guerra Mondiale e negli statuti del Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda e del tribunale speciale per la Sierra Leone, non è stata inclusa come tale nello Statuto di Roma.

Nada Awad

Nada Awad è una palestinese nata a Gerusalemme. Attualmente lavora come assistente ricercatrice all’Istituto Muwatin per la Democrazia e i Diritti Umani dell’università di Birzeit [università palestinese nei pressi di Ramallah, ndtr.]. Ha conseguito un dottorato in Relazioni Internazionali e Sicurezza Internazionale della facoltà di Scienze Politiche a Parigi. In precedenza è stata responsabile del dipartimento legale presso il Community Action Center (Università di Al-Quds) [maggiore istituzione accademica palestinese a Gerusalemme, ndt.], dove si è occupata della questione dei trasferimenti forzati di palestinesi da Gerusalemme. Ha lavorato anche in ricerche di archivio presso l’Istituto per gli Studi sulla Palestina.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 29 gennaio – 11 febbraio 2019 (due settimane)

Nella Striscia di Gaza, durante le proteste della “Grande Marcia di Ritorno”, le forze israeliane hanno ucciso due minori palestinesi; 530 i feriti registrati.

Altri due palestinesi sono morti per le ferite precedentemente riportate. I due ragazzi, di 14 e 17 anni, sono stati uccisi, venerdì 8 febbraio, con armi da fuoco, in due episodi verificatisi nei pressi della recinzione perimetrale. Secondo le Associazioni per i diritti umani, entrambi gli episodi si sono verificati ad una distanza compresa fra tra i 60 e i 250 metri dalla recinzione e i due ragazzi non rappresentavano una minaccia per le forze israeliane. Lo stesso giorno, secondo fonti israeliane, i palestinesi hanno lanciato ordigni esplosivi contro le forze israeliane ed hanno tentato di violare la recinzione con Israele, ma non vi sono stati ferimenti di israeliani. Gli altri due morti, entrambi uomini, non sono sopravvissuti alle ferite riportate nelle precedenti manifestazioni del 18 e 29 gennaio: uno era stato ferito con arma da fuoco e l’altro era stato colpito da una bomboletta di gas lacrimogeno. Una delle manifestazioni si era svolta sulla spiaggia per protestare contro il blocco navale. Dopo questi ultimi fatti, salgono a 263 le uccisioni di palestinesi nel contesto delle proteste tenute a Gaza dal marzo 2018; nel numero sono compresi 49 minori. Secondo il Ministero della Salute di Gaza, delle 530 persone ferite durante il periodo di riferimento 248 sono state ricoverate; tra queste 64 erano state colpite con armi da fuoco. I rimanenti sono stati assistiti sul campo.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 40 occasioni non riconducibili alle proteste [di cui sopra]. In uno degli episodi un palestinese è rimasto ferito. Inoltre, cinque ragazzi palestinesi sono stati arrestati, secondo quanto riferito, mentre tentavano di infiltrarsi in Israele. In altre tre occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza e, nelle vicinanze del recinto perimetrale, hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo.

Il 10 febbraio, a sud-est di Rafah, in seguito all’inalazione di un gas tossico, effuso dagli egiziani all’interno di un tunnel per il contrabbando, due palestinesi (un lavoratore e un membro delle forze di sicurezza palestinesi) sono morti e altri due membri della sicurezza sono rimasti feriti. Dal 2013 la maggior parte dei tunnel per contrabbando sono stati distrutti o bloccati dalle autorità egiziane, tuttavia alcuni restano ancora operativi.

In Cisgiordania, in due presunte aggressioni avvenute nei pressi di checkpoint israeliani, due palestinesi, tra cui una ragazza, sono stati uccisi dal fuoco delle forze israeliane ed un altro ragazzo è rimasto ferito. Nel primo caso, il 30 gennaio, al posto di controllo di Az Zaayyem (Gerusalemme), una guardia di sicurezza privata israeliana ha sparato e ucciso una ragazza palestinese di 16 anni che, presumibilmente, aveva tentato di effettuare una aggressione con coltello; il suo corpo è stato trattenuto dalle forze israeliane. Nel secondo caso, avvenuto il 4 febbraio vicino al checkpoint di Al Jalama (Jenin), le forze israeliane hanno sparato e ucciso un 20enne e ferito un ragazzo di 16 anni. Secondo i media israeliani, le vittime avevano lanciato un congegno esplosivo artigianale da una motocicletta in transito. In entrambi i casi non è stato riferito alcun ferimento di israeliani. Dall’inizio del 2019, in attacchi o presunti attacchi effettuati in Cisgiordania, sono stati uccisi dalle forze israeliane tre palestinesi, tra cui un minore.

Il 7 febbraio, in un bosco alla periferia di Gerusalemme Ovest, una 19enne israeliana, proveniente dall’insediamento [colonico] di Teqoa, è stata violentata e accoltellata a morte. È accusato dell’omicidio un palestinese arrestato dalle forze israeliane a Ramallah il giorno seguente, nel corso di una operazione [di polizia].

In Cisgiordania, 35 palestinesi, tra cui almeno undici minori, sono stati feriti dalle forze israeliane durante proteste e scontri. Quasi la metà dei ferimenti (16) sono stati registrati nel villaggio di Al Mughayyir (Ramallah), durante la dimostrazione settimanale contro l’espansione degli insediamenti colonici su terra palestinese. In questo villaggio, durante il precedente periodo di riferimento (26 gennaio), coloni israeliani avevano ucciso un residente e ferito altre nove persone. Altri 13 palestinesi sono rimasti feriti in scontri verificatisi durante operazioni di ricerca-arresto tenute nei villaggi di Biddu e Al ‘Eizariya (entrambi a Gerusalemme), nel Campo profughi di Jenin e nei villaggi di Al Bireh e Abu Shukheidim (entrambi a Ramallah). Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 163 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 117 palestinesi, tra cui nove minori. Delle lesioni registrate durante il periodo di riferimento, il 34% è stato causato da armi da fuoco, il 31% da inalazioni di gas lacrimogeno richiedenti cure mediche, il 31% da proiettili di gomma e il restante 4% da altri mezzi.

Sempre in Cisgiordania, le forze israeliane hanno predisposto almeno 68 checkpoint “volanti” e, in almeno 80 occasioni, hanno effettuato controlli tramite “checkpoint parziali” (checkpoint non presidiati in modo continuo), aumentando ritardi e tempi di percorrenza, e rendendo difficoltoso l’accesso delle persone ai servizi e ai luoghi di lavoro. Questi provvedimenti rappresentano un incremento del 110% rispetto alla media settimanale del 2018. In un caso, le forze israeliane, hanno negato a tre donne, insegnanti palestinesi, l’accesso alla loro scuola attraverso l’unico checkpoint di accesso al villaggio di Beit Iksa (Gerusalemme): la motivazione addotta era che i loro nomi non comparivano nell’elenco corrispondente al checkpoint.

A Gerusalemme Est e nella Zona C, a motivo della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate quindici strutture: 39 palestinesi sono stati sfollati e sono stati [variamente] compromessi i mezzi di sussistenza di altri 70 circa. Secondo quanto riferito, sette delle dieci strutture prese di mira a Gerusalemme Est, tutte residenziali, sono state demolite dai proprietari al ricevimento delle ordinanze definitive di demolizione; questo ha evitato di incorrere in ulteriori multe. Le altre cinque strutture erano situate in Area C. Nel complesso, in Cisgiordania, dall’inizio del 2019 sono state demolite o sequestrate da Israele 48 strutture.

Il 6 febbraio, nella Valle del Giordano settentrionale, per consentire all’esercito israeliano le esercitazioni di addestramento, le forze israeliane hanno sfollato circa 400 palestinesi, per tempi fino a 14 ore. Ciò ha interrotto le attività lavorative e l’accesso ai servizi di due Comunità di pastori, Khirbet ar Ras al Ahmar e Hammamat al Maleh, situate in un’area designata [da Israele] come “zona per esercitazioni a fuoco”. Le Comunità situate in tali zone vivono in un contesto coercitivo e sono sottoposte al rischio di trasferimento forzato.

Sempre in Area C, nella Valle del Giordano settentrionale, le autorità israeliane hanno sradicato circa 500 alberi, hanno spianato 4.000 m2 di terra coltivata e danneggiato una rete di irrigazione; la motivazione è che l’area è dichiarata [da Israele] “terra di stato”. L’episodio è avvenuto il 6 febbraio, nel villaggio di Bardala (Tubas) e ha colpito i mezzi di sostentamento di sette famiglie. In un episodio simile, accaduto il 22 gennaio durante il precedente periodo di riferimento, nel villaggio di Safa (Hebron), vicino all’insediamento di Bat Ayin, le autorità sradicarono 1.250 alberi di proprietà palestinese.

Altri 425 alberi e 14 veicoli sono stati vandalizzati e un palestinese è rimasto ferito, in aggressioni ad opera di coloni israeliani [segue dettaglio]. Nei pressi del villaggio di Jibiya (Ramallah), coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito un palestinese di 20 anni. Secondo fonti locali palestinesi, in tre diversi episodi accaduti in At Tuwani e Sa’ir (entrambi a Hebron) e Jalud (Nablus), un totale di 425 alberi di proprietà palestinese sono stati vandalizzati dai coloni israeliani. Inoltre, in altri quattro episodi separati accaduti nei villaggi di Al Lubban ash Sharqiya, Huwwara (entrambi a Nablus), Al Khalayleh e a Gerusalemme, coloni israeliani hanno forato le gomme di 14 veicoli palestinesi ed hanno spruzzato scritte offensive, mentre nel Villaggio di Deir Dibwan (Ramallah) hanno cercato di incendiare una moschea. La tendenza all’aumento delle violenze dei coloni registrata negli ultimi anni è continuata nel 2019 con una media di sette attacchi settimanali risultanti in lesioni o danni materiali, rispetto ai cinque nel 2018 e tre nel 2017.

Su strade prossime a Ramallah e Gerusalemme, secondo quanto riferito dai media israeliani, durante vari episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi, sono rimasti feriti due coloni israeliani e almeno tre veicoli sono stati danneggiati.

Il valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, è rimasto aperto in entrambe le direzioni. 1.125 persone sono entrate a Gaza e 3.191 ne sono uscite. Dall’inizio dell’anno, il valico è rimasto aperto per 28 giorni.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Falsa giustizia: le responsabilità dell’Alta Corte israeliana per la demolizione di case di palestinesi e la loro spoliazione

B’Tselem

Pubblicazione , Sintesi, febbraio 2019

All’inizio del settembre 2018, dopo anni di azioni legali, i giudici dell’Alta Corte di Giustizia israeliana (ACG) hanno deciso che non sussistevano ostacoli giuridici per la demolizione degli edifici nella comunità di Khan al-Ahmar – situata a circa 2 chilometri a sud della colonia di Kfar Adumim – in quanto le costruzioni del centro abitato erano “fuorilegge”.

La decisione della sentenza, secondo cui la distruzione della comunità non è altro che una questione di “applicazione della legge”, riflette fedelmente il modo in cui Israele ha elaborato per anni la sua politica riguardo alle costruzioni dei palestinesi in Cisgiordania. A livello di dichiarazioni formali, le autorità israeliane considerano la demolizione di case palestinesi in Cisgiordania come una semplice questione di abusi edilizi, come se Israele non avesse obiettivi a lungo termine in Cisgiordania e se la materia non avesse implicazioni di vasta portata per i diritti umani di centinaia di migliaia di individui, compresa la loro possibilità di sopravvivere, guadagnarsi da vivere e gestire la propria vita quotidiana.

La Corte Suprema ha totalmente accolto questo punto di vista. In centinaia di sentenze e decisioni stilate nel corso degli anni sulla demolizione di abitazioni palestinesi in Cisgiordania i giudici hanno considerato la politica urbanistica israeliana come legale e legittima, concentrandosi quasi sempre solo sulla questione tecnica se i ricorrenti avessero permessi edilizi. Di volta in volta i giudici hanno ignorato l’intenzione sottintesa nelle politiche israeliane e il fatto che, in pratica, queste politiche impongono un divieto generalizzato di costruzione per i palestinesi. Hanno anche ignorato le conseguenze di queste politiche per i palestinesi: condizioni di vita più dure – a volte decisamente terribili – per il fatto di essere obbligati a costruire case senza permessi, e l’assoluta incertezza riguardo al futuro.

A. Politica di pianificazione in Cisgiordania

L’apparato che si occupa di pianificazione istituito da Israele in Cisgiordania è al servizio della sua politica di promozione ed espansione dell’appropriazione israeliana della terra in tutta la Cisgiordania. Quando si tratta della pianificazione per i palestinesi, l’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano nei territori palestinesi occupati, ndtr.] cerca di ostacolare l’ampliamento, riducendo al minimo la dimensione delle comunità e incentivando la densità delle costruzioni, con lo scopo di impadronirsi di quanto più terreno possibile a beneficio degli interessi israeliani, soprattutto per l’espansione delle colonie. Ma quando pianifica per le colonie, la cui stessa fondazione è in primo luogo illegale, l’Amministrazione Civile agisce esattamente al contrario: la pianificazione riflette le necessità attuali e future delle colonie, e mira ad includere quanta più terra possibile nel piano generale in modo da impossessarsi di quante più risorse della terra possibili. Questa pianificazione porta a uno sviluppo dispendioso di infrastrutture, alla perdita di zone rurali naturali e alla rinuncia di spazi aperti.

Israele ottiene questi risultati con vari mezzi. Primo, proibisce ai palestinesi di costruire su circa il 60% dell’Area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale ma temporaneo controllo israeliano, ndtr.], che equivale a circa il 36% di tutta la Cisgiordania. Lo fa applicando una serie di definizioni giuridiche per vaste aree (con classificazioni che ogni tanto si sovrappongono): “terre dello Stato” (circa il 35% dell’Area C), “zone per l’addestramento militare” (circa il 30% dell’Area C), o “competenza delle colonie” (circa il 16% dell’Area C). Queste classificazioni sono utilizzate per ridurre in modo significativo l’area a disposizione per lo sviluppo dei palestinesi.

Secondo, Israele ha modificato la legge giordana di pianificazione che si applica alla Cisgiordania, sostituendo molte delle sue disposizioni con quelle di un’ordinanza militare che trasferisce ogni potere di pianificazione in Cisgiordania al Consiglio Supremo dell’Amministrazione Civile ed elimina la rappresentanza palestinese nelle commissioni urbanistiche. Di conseguenza, l’Amministrazione Civile è diventata l’unica ed esclusiva autorità per la pianificazione e lo sviluppo in Cisgiordania, sia per le comunità palestinesi che per le colonie.

Terzo, Israele sfrutta il proprio potere esclusivo sul sistema di pianificazione allo scopo di impedire di fatto ogni sviluppo dei palestinesi e incrementare la densità abitativa persino sul rimanente 40% della terra, in cui non vieta a priori la costruzione da parte dei palestinesi. Nell’ottobre 2018, durante un incontro alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], il capo dell’Amministrazione Civile ha detto che, in conformità con le istruzioni di funzionari del governo, attualmente non c’è nessun piano regolatore per i palestinesi.

Tuttavia, per mantenere la parvenza di un sistema di pianificazione che funzioni correttamente, lo Stato sostiene che i piani regolatori per le comunità palestinesi devono rispettare gli schemi stilati dalle autorità del Mandato britannico negli anni ’40 – che definivano la suddivisione in zone per l’uso dei terreni per l’intera Cisgiordania – anche se questi piani sono ad anni luce di distanza dalle attuali necessità della popolazione. Indubbiamente l’Amministrazione Civile ha stilato centinaia di piani schematici speciali per le comunità palestinesi. Ma, mentre l’obiettivo dichiarato era di sostituire i piani del periodo del Mandato, anche quelli nuovi sono stati concepiti per ridurre l’edificazione. Non sono altro che piani di delimitazione, che sostanzialmente tracciano una linea attorno al perimetro delle zone edificate dei villaggi sulla base di fotografie aeree.

I dati illustrano chiaramente i risultati di questa politica:

  • Richieste per ottenere permessi edilizi: secondo i dati dell’Amministrazione Civile, dal gennaio 2000 a metà del 2016 i palestinesi hanno presentato 5.475 richieste per avere una concessione edilizia. Solo 226 (circa il 4%) sono state accolte.

  • Ordini di demolizione: nel corso degli anni, l’Amministrazione Civile ha emesso migliaia di ordini di demolizione per strutture palestinesi. Secondo i dati dell’Amministrazione Civile, dal 1988 al 2017 sono stati emanati 16.796 ordini di demolizione; 3.483 (circa il 20%) sono stati messi in atto e 3.081 (circa il 18%) sono ancora oggetto di procedimenti giudiziari. Fino al 1995 l’Amministrazione Civile ha emesso meno di 100 ordini di demolizione all’anno. Tuttavia, dal 1995 – l’anno in cui è stato firmato l’accordo ad interim [degli accordi di Oslo, ndtr.] – il loro numero è costantemente aumentato. Dal 2009 al 2016 l’Amministrazione Civile ha emesso annualmente una media di 1.000 ordini di demolizione.

  • Demolizioni: secondo i dati di B’Tselem, dal 2006 (l’anno in cui B’Tselem ha iniziato a registrare la demolizione di case) fino al 2018, Israele ha demolito almeno 1.401 unità abitative palestinesi in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme est), provocando il fatto che almeno 6.207 persone – compresi almeno 3.134 minorenni – abbiano perso le proprie case. Nelle comunità palestinesi non riconosciute dallo Stato, molte delle quali devono affrontare la minaccia di espulsione, Israele distrugge ripetutamente case. Dal 2006 al 2018 Israele ha demolito più di una volta le case di almeno 1.014 persone – compresi 485 minori – che vivono in queste comunità.

La pianificazione per le colonie israeliane è l’esatto contrario della situazione nelle comunità palestinesi. Con la sola eccezione delle colonie nella città di Hebron, tutte le colonie sono state fondate in spazi aperti. Inoltre sono stati predisposti piani regolatori generosi e molto dettagliati praticamente per tutte le colonie, sostituendo gli antiquati piani dell’epoca del Mandato britannico che erano in vigore lì. I nuovi piani includono una nuova definizione delle aree coerente con le necessità di comunità moderne. Includono terre per uso collettivo, spazi verdi e terreni per l’espansione e lo sviluppo, ben oltre quanto necessario in base al tasso di incremento normale della popolazione. L’Amministrazione Civile ha anche costruito una nuova rete di strade per collegare le varie colonie le une con le altre e queste con l’altro lato della Linea Verde (il confine tra il territorio sovrano di Israele e la Cisgiordania), che restringe e limita lo sviluppo dei palestinesi.

B. Le sentenze dell’ACG: totale approvazione del sistema di pianificazione

Nel corso degli anni i palestinesi hanno presentato centinaia di ricorsi all’ACG, chiedendo la revoca degli ordini di demolizione dell’Amministrazione Civile. Nella maggioranza dei casi l’ACG ha emesso provvedimenti inibitori provvisori che proibiscono allo Stato di demolire strutture in attesa di sentenza. Tuttavia c’è un alto prezzo da pagare per questa situazione di stallo. La Corte spesso emette ordini temporanei che non solo vietano le demolizioni da parte di Israele, ma non consentono neanche agli abitanti palestinesi di costruire case o edifici pubblici, collegarsi ai servizi ed effettuare riparazioni, neppure quelle essenziali, su edifici esistenti, condannandoli a un prolungato stato di limbo e all’incertezza riguardo al loro futuro.

Molti ricorsi sono stati bocciati dai giudici, che hanno rigettato ogni argomentazione di principio riguardo alla politica di pianificazione che Israele mette in atto in Cisgiordania. A volte la Corte non ha neppure esaminato le argomentazioni. Altri ricorsi sono stati ritirati dai ricorrenti, a volte dopo che lo Stato ha affermato di non aver intenzione a quel punto di mettere in pratica gli ordini di demolizione e si è impegnato a fornire ai ricorrenti un preavviso nel caso in cui dovesse modificare la propria posizione. Tuttavia, per quanto ne sa B’Tselem, non c’è stato neppure un caso in cui i giudici abbiano accolto un ricorso presentato dai palestinesi contro una demolizione della propria casa.

1. Accettazione dello spossessamento di palestinesi in vaste zone della Cisgiordania

I giudici non hanno trovato niente da ridire nel fatto che la terra della Cisgiordania sia stata dichiarata “terra dello Stato” o “zona di addestramento”. Nonostante abbia ascoltato le argomentazioni che mettono in discussione la legittimità di questo modo di procedere, in ognuno di questi casi la Corte ha accettato gli argomenti dello Stato secondo cui le costruzioni dei palestinesi sono illegali e di conseguenza le strutture devono essere demolite.

La Corte Suprema ha sempre accettato la posizione dello Stato secondo cui i palestinesi, a differenza dei coloni, non hanno il permesso di costruire su “terre dello Stato”. In ricorsi in cui lo Stato ha sostenuto che la costruzione in questione si trova su terre dichiarate “zona di addestramento militare”, la Corte non ha neppure affrontato la reale questione del fatto che la zona sia stata dichiarata area chiusa. Persino quando i ricorrenti hanno esplicitamente sollevato questa argomentazione, non ha neppure preso in esame se questa designazione sia stata giusta o legittima. Al contrario, in questi casi le udienze si sono limitate alla questione se i ricorrenti fossero di fatto “residenti permanenti” delle zone di tiro. In base agli ordini militari solo quella condizione avrebbe consentito loro di stare lì. In tutti i casi in cui finora è stata presa una decisione, i giudici hanno accettato l’argomentazione dello Stato secondo cui i ricorrenti non sono “residenti permanenti” e ha approvato la demolizione delle loro case.

2. Riconoscere ragionevole e legittimo il sistema di pianificazione

I giudici dell’ACG hanno considerato legittimi e necessari i cambiamenti fatti da Israele alla legge di pianificazione giordana, nonostante la proibizione stabilita dalle leggi internazionali contro la potenza occupante di realizzare cambiamenti alle leggi locali, salvo rare eccezioni che non si applicano a questo caso. Nel prendere questa decisione hanno ignorato il fatto che i cambiamenti hanno consentito a Israele di consolidare e prendere il controllo di tutto il sistema di pianificazione, di escludere i palestinesi da ogni commissione e impedire loro di avere un ruolo nel decidere del proprio futuro. Questo cambiamento ha aperto la strada alla successiva istituzione di due sistemi di pianificazione paralleli: uno per i palestinesi e l’altro per i coloni.

Inoltre i giudici hanno stabilito che il sistema di pianificazione per i palestinesi riflette le necessità degli abitanti. I giudici sono stati assolutamente disposti ad accettare che piani regolatori antiquati – disegnati oltre ottant’anni fa dal Mandato britannico – siano ancora applicati ai villaggi palestinesi, ma non alle colonie israeliane; hanno stabilito che gli schemi che l’Amministrazione Civile ha stilato per le comunità palestinesi sono ragionevoli e corrispondono alle necessità degli abitanti. I giudici non hanno dato alcuna importanza al fatto che i piani regolatori siano identici, inflessibili, non presentino alcuno spazio pubblico e che ogni futuro sviluppo debba essere realizzato all’interno dell’area già edificata del villaggio. I giudici hanno anche stabilito che le commissioni edilizie dell’Amministrazione Civile prendono in considerazione in modo corretto e professionale le domande di licenza edilizia dei palestinesi, benché non ci siano rappresentanti dei palestinesi nelle commissioni, e non hanno prestato la minima attenzione allo scarsissimo numero di richieste approvate.

Dato questo punto di partenza, i giudici esaminano i ricorsi come se l’applicazione delle leggi per la pianificazione e la costruzione fosse l’unico problema in questione. Di conseguenza non accettano i ricorsi, come se il problema non fosse altro che una questione di applicazione di leggi edilizie. Chiedono che i ricorrenti esauriscano tutte le inutili procedure che il sistema offre e sono inorriditi quando i ricorrenti “si fanno giustizia da soli” e – in assenza di qualunque altra alternativa – costruiscono senza permesso.

3. Riconoscimento implicito della politica israeliana

La Corte fornisce anche un implicito timbro di approvazione legale alla politica israeliana. Lo fa attraverso due metodi principali.

A. Nasconde le differenze tra i vari schemi di pianificazione: nelle loro sentenze sulla costruzione nelle comunità palestinesi i giudici della Corte Suprema hanno anche citato sentenze che trattano la pianificazione delle colonie o all’interno stesso di Israele. Hanno fatto lo stesso anche nei casi contrari: in sentenze riguardanti la pianificazione per colonie o all’interno di Israele, i giudici hanno citato sentenze riguardanti piani regolatori per la popolazione palestinese. Il rimando a precedenti giuridici è tipico del sistema giudiziario israeliano. Tuttavia i vari sistemi di pianificazione sono sostenuti da valori diversi e sono destinati a salvaguardare interessi in conflitto. Un sistema il cui obiettivo è pianificare a favore della popolazione – come quello applicato alle colonie e alle comunità ebraiche in Israele – non è affatto come uno schema il cui obiettivo è di iniziare, portare avanti e legalizzare la sistematica spoliazione della popolazione, come quello in vigore per le comunità palestinesi. Mettere tutto quanto insieme elimina le differenze, rendendo apparentemente etico e valido un sistema palesemente illegittimo.

B. Riferimenti selettivi alle disposizioni delle leggi internazionali: l’ACG ha anche riconosciuto valido il sistema di pianificazione trasmettendo il messaggio che la pianificazione attuata per i palestinesi rispetta quanto previsto dalle leggi umanitarie internazionali (LUI). Ciò viene ottenuto principalmente citando in modo selettivo le LUI, in modo da creare l’impressione che la politica israeliana sia in linea con esse, e ignorando altre disposizioni, come la proibizione di addestramento militare o di fondazione di colonie nella zona occupata.

È particolarmente evidente l’indifferenza dei giudici rispetto al fatto che la messa in pratica della politica di pianificazione israeliana implica la violazione della proibizione assoluta di trasferimento forzato, benché siano state portate davanti alla Corte denunce riguardanti la violazione di questa norma. La proibizione rimane persino se le persone lasciano le proprie case non per propria libera scelta, per esempio a causa di condizioni di vita insopportabili provocate dalle autorità impedendo loro l’accesso alle reti idrica ed elettrica, trasformando la zona in cui vivono in area per l’addestramento militare o con la ripetuta distruzione delle loro case. La violazione di questo divieto è un crimine di guerra.

C. Una giustizia illusoria.

Nonostante le enormi differenze tra il sistema di pianificazione che Israele ha definito per la popolazione palestinese in Cisgiordania e quello per i coloni, l’ACG le ha considerate identiche. Durante una delle sessioni dell’ACG tenuta nel 2018 sulla questione di ricorsi contro la demolizione di Khan al-Ahmar, il giudice Hanan Melcer ha persino detto – riguardo all’applicazione di leggi di pianificazione per palestinesi e coloni – che “a tutti si applica la stessa legge.”

Eppure la politica di pianificazione ed edificazione di Israele per i coloni è l’esatto contrario di quella applicata ai palestinesi. Nonostante a volte i coloni facciano le vittime – lupi vestiti di agneli – è sufficiente guardare semplicemente alla situazione sul terreno per vedere l’immenso divario tra la pianificazione per i coloni e per i palestinesi. Dall’occupazione della Cisgiordania oltre cinquant’anni fa, Israele ha costruito quasi 250 nuove colonie – la cui stessa fondazione è vietata dalle leggi internazionali – e solo una comunità palestinese. E quest’unica comunità è stata costruita per trasferirvi beduini che vivevano su terre che Israele ha destinato all’espansione di una colonia. In altre parole, persino la fondazione di quest’unica comunità era destinata a rispondere a necessità israeliane. Allo stesso tempo Israele ha fondato un sistema che non consente ai palestinesi di ottenere permessi edilizi e dedica notevoli sforzi per imporre e applicare rigide restrizioni su qualunque costruzione o ampliamento per la popolazione palestinese.

È inimmaginabile il divario tra questa situazione e quella descritta in migliaia di decisioni dell’ACG – in cui i giudici hanno scritto di “mani pulite” e di “faticose misure correttive”, hanno accettato qualunque argomento dello Stato riguardo alla pianificazione per la popolazione palestinese e hanno fatto una sintesi consentendo allo Stato di demolire le case dei ricorrenti e di consegnarli a condizioni di vita disastrose. Mentre la Corte non scrive le leggi, determina le politiche o le applica, i giudici hanno sia l’autorità che il dovere di stabilire che le politiche di Israele sono illegali e di proibire la demolizione delle case. Invece, ripetutamente, hanno scelto di dare alle politiche la loro approvazione e di convalidarle pubblicamente e giuridicamente.

Così facendo non solo i giudici della Corte Suprema non hanno assolto ai loro doveri, hanno anche giocato un ruolo fondamentale nel consolidare ancor di più l’occupazione e l’impresa di colonizzazione e nello spogliare ulteriormente i palestinesi delle loro terre.

È ragionevole pensare che i giudici siano ben consapevoli, o lo dovrebbero essere, delle fondamenta giuridiche che stanno consolidando con le loro sentenze e delle devastanti implicazioni di queste sentenze, comprese le violazioni del divieto delle Leggi Umanitarie Internazionali di trasferimento forzato. Quindi anche loro – insieme al presidente del consiglio, ai ministri, al capo di stato maggiore e ad altri alti gradi dell’esercito – hanno una responsabilità personale nella perpetrazione di tali crimini.

Per Israele, il principale vantaggio di conservare un “sistema di pianificazione” per la popolazione palestinese è che ciò conferisce al sistema una parvenza di correttezza e funzionalità, operando in apparenza in base alle leggi internazionali e israeliane. Ciò consente allo Stato di affermare che i palestinesi scelgono di costruire “illegalmente” e di farsi giustizia da soli – come se avessero alternative – giustificando così la demolizione delle case e le continue restrizioni nella pianificazione. Tuttavia il tentativo di mascherare il sistema di pianificazione nei territori occupati come se fosse corretto non è altro che uno stratagemma propagandistico. Un sistema di pianificazione dovrebbe riflettere gli interessi degli abitanti ed essere al servizio delle loro necessità. Ma per definizione l’equilibrio di potere sotto un regime di occupazione è ineguale. I funzionari del regime di occupazione non rappresentano la popolazione occupata, che non può partecipare al sistema che regola e governa la sua vita, né ai processi di pianificazione e legislativi, né all’emanazione di ordini militari, né alla commissione che nomina i giudici.

A volte pare che lo Stato stesso ne abbia avuto abbastanza dello sforzo insito nel conservare le apparenze. Mappare edifici, passare per le procedure della commissione, scrivere risposte ai ricorsi ecc. ecc., tutto ciò porta via tempo, impegno e risorse preziosi, anche se Israele ha a sua disposizione legioni di avvocati, enormi risorse finanziare, sistemi di pianificazione per fare il suo volere e un sistema giudiziario volontariamente votato alla farsa. Contrapposta a questa potenza congiunta c’è una popolazione con scarsa rappresentanza e poche risorse, persone che hanno vissuto per oltre mezzo secolo sotto un regime militare in cui libertà e sopravvivenza sono precarie. Tuttavia i dirigenti dello Stato sono insoddisfatti del ritmo e del tasso di spoliazione, trovando frustrante dover aspettare mesi e anni perché i tribunali raggiungano il verdetto a cui lo Stato mira.

Pertanto negli ultimi anni Israele ha intensificato i suoi tentativi di evitare – o persino cancellare – le procedure giuridiche relative alla demolizione di strutture palestinesi. La volontà di Israele di fare a meno dell’apparenza testimonia soprattutto la sua sicurezza che non sarà chiamato a dover subire significative conseguenze interne o internazionali per aver violato la legge. La legittimità dei nuovi ordini è stata discussa dall’ACG proprio in questi giorni. Ciò significa che, paradossalmente, alla Corte Suprema viene ora chiesto di considerare la cancellazione della finzione nella cui creazione ha giocato un importante ruolo.

Indipendentemente dal fatto che i giudici dell’ACG scelgano di avallare la cancellazione della finzione, essi hanno costruito un solido edificio per supportare la legittimazione giuridica della spoliazione della terra del popolo palestinese. Quanta cura si prenderanno nell’aggiungere una bella mano di vernice a questa struttura nei prossimi giorni? Insisteranno nel mantenere la finzione? In fin dei conti, questa è una questione di immagine secondaria. Ciò non dovrebbe sviare l’attenzione dalla situazione di furto e spoliazione che Israele ha creato e che i giudici continuano a consentire, giustificare e avvallare.

(traduzione di Amedeo Rossi)