Rapporto OCHA 24 gennaio – 6 febbraio 2017 (due settimane)

Il 25 gennaio, sulla strada 60, vicino all’insediamento colonico di Kokhav Ya’akov (Gerusalemme), un 24enne palestinese è stato ucciso, con armi da fuoco, dalle forze israeliane: il giovane si era schiantato con la sua auto contro i blocchi di cemento posti di fronte alla fermata dell’autobus per i coloni israeliani. Nessun israeliano è rimasto ferito.

Due ulteriori episodi di speronamento con auto, al checkpoint di Beituniya (Ramallah) e all’ingresso dell’insediamento colonico di Adam (Gerusalemme), si sono conclusi con il ferimento di quattro membri delle forze di sicurezza israeliane e l’arresto dei due presunti responsabili (un uomo e una donna). In un altro caso, verificatosi il 25 gennaio vicino al villaggio di Abud (Ramallah), le forze israeliane hanno sparato e ferito un palestinese, presumibilmente dopo che questi aveva aperto il fuoco contro una torre militare israeliana. Le autorità israeliane hanno consegnato cinque cadaveri di palestinesi sospettati di aggressioni contro israeliani, mentre altri sei corpi sono ancora trattenuti.

Nei Territori palestinesi occupati, nel corso di molteplici scontri con le forze israeliane, un palestinese è stato ucciso ed altri 36 sono rimasti feriti. L’uccisione del giovane 19enne, così come cinque dei ferimenti, sono stati registrati il 29 gennaio, nel Campo profughi di Jenin, nel corso di una operazione di ricerca. La maggior parte delle altre lesioni si sono verificate, in scontri simili, durante operazioni di ricerca-arresto; durante le manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya); e nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale con Israele.

Il 6 febbraio, un gruppo armato di Gaza, secondo quanto riferito, ha lanciato contro Israele un razzo, caduto in un’area aperta e senza causare feriti o danni. In risposta, le forze israeliane hanno effettuato una serie di attacchi aerei e cannoneggiamenti di carri contro obiettivi appartenenti, secondo quanto riferito, a gruppi armati; durante uno degli attacchi aerei, ad ovest di Beit Lahia (Gaza Nord), sono stati feriti due civili palestinesi. Sono stati segnalati danni ai siti presi di mira e ad immobili civili attigui, compresi terreni agricoli ed un allevamento di polli.

Nella Striscia di Gaza, in almeno 52 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti o in avvicinamento ad Aree ad Accesso Riservato (ARA) imposte da Israele su terra ed in mare. Non sono stati segnalati feriti, ma il lavoro di agricoltori e pescatori è stato più volte interrotto. In altri sei casi, le forze israeliane hanno arrestato otto civili palestinesi, tra cui tre minori, che, presumibilmente, avevano tentato di entrare illegalmente in Israele attraverso la recinzione perimetrale controllata da Israele. Inoltre, in tre distinti episodi, le forze israeliane sono entrate in Gaza ed hanno svolto operazioni di spianatura del terreno e scavi nei pressi della recinzione perimetrale, mentre in un altro caso, hanno arrestato due pescatori ed hanno sequestrato la loro barca.

Sempre a Gaza, due civili palestinesi sono stati feriti da un residuato bellico (ERW) esploso mentre stavano lavorando su un terreno agricolo nel Campo profughi di Nuseirat.

A Gerusalemme Est e in Area C, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito 19 strutture di proprietà palestinese, sfollando 67 persone, tra cui 38 minori, e colpendo i mezzi di sostentamento di altri 36. In quattro comunità dell’Area C, sempre per mancanza dei permessi necessari, le autorità israeliane hanno sequestrato 12 metri di tubature ed otto macchine/attrezzature per costruzione; tra queste un veicolo utilizzato per la realizzazione di un progetto finanziato dal Fondo Umanitario per i Territori Palestinesi occupati.

Sempre in Area C, nel villaggio di Kharas (Hebron), le autorità israeliane hanno sradicato circa 500 alberi di ulivo di proprietà palestinese, sostenendo che erano stati piantati in aree designate [da Israele] come “terra di stato”. Altri 26 alberi di proprietà palestinese sono stati danneggiati nei pressi del villaggio di Bruqin (Salfit), durante la costruzione di una nuova rete idrica che servirà la zona di insediamento colonico di Barkan.

Il 1 e il 2 febbraio, le forze israeliane hanno rimosso circa 250 coloni israeliani residenti nella colonia avamposto di Amona (Ramallah), insieme a centinaia di altri israeliani che erano venuti a protestare contro la rimozione. I media israeliani hanno riferito che, negli scontri che hanno avuto luogo durante l’operazione, sono rimasti feriti 42 addetti alla sicurezza e 15 manifestanti; 13 persone sono state arrestate. Il 6 febbraio, le forze israeliane hanno iniziato a demolire le strutture esistenti nella colonia. Questi eventi hanno fatto seguito ad una sentenza del 2014, della Alta Corte di Giustizia di Israele, che ordinava la rimozione dei coloni e la demolizione dell’avamposto che era stato edificato su terreno privato palestinese. La sentenza, tuttavia, non conteneva disposizioni che autorizzino i proprietari palestinesi di accedere ai loro terreni.

Durante lo smantellamento dell’insediamento di Amona (di cui sopra), le forze israeliane hanno bloccato, in tutto il governatorato di Ramallah, 12 punti di accesso. Tra questi, il principale checkpoint ad est della città di Ramallah, la strada principale che collega i villaggi di Silwad ed Ein Yabrud, ed un tratto di 15 km della Strada 60, costringendo le persone a fare lunghe deviazioni. Il blocco ha pesato sul movimento di decine di migliaia di palestinesi, in particolare sui pendolari tra la Cisgiordania settentrionale e quella meridionale. Alcune delle chiusure erano ancora in atto alla fine del periodo di riferimento [del presente Rapporto].

Il 24 gennaio, una organizzazione di coloni israeliani ha preso possesso di un deposito nella Città Vecchia di Gerusalemme in seguito ad una sentenza, emessa il 20 dicembre 2016 dall’Alta Corte israeliana; il provvedimento è a sfavore di due famiglie [palestinesi]: otto persone, tra cui due minori.

In circostanze diverse, sei palestinesi sono stati feriti e 500 alberi sono stati vandalizzati da coloni israeliani. Il 4 febbraio, coloni israeliani si sono scontrati con palestinesi che partecipavano ad una manifestazione contro le attività di insediamento nel villaggio di At-Tuwani (Hebron); negli scontri sono rimasti feriti cinque coloni israeliani e tre palestinesi. Due palestinesi sono stati feriti in seguito al lancio di pietre contro i loro veicoli nei pressi di Al Lubban ash Sharqiya (Nablus) e di Huwwara (Nablus). Un altro palestinese, mentre si recava al proprio terreno, è stato fisicamente aggredito e ferito da coloni israeliani provenienti, secondo quanto riferito, dall’insediamento avamposto di Adei Ad (Ramallah). Nei pressi del villaggio di Al Khadr (Betlemme), più di 500 alberi e alberelli di proprietà palestinese sono stati vandalizzati da coloni israeliani.

I media israeliani hanno riportato 26 casi, tutti nella zona di Betlemme, di lanci di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani, con conseguente ferimento di quattro coloni, tra cui un bambino, e danni a diversi veicoli.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto per quattro giorni (dal 28 al 31 gennaio) in entrambe le direzioni: è stata consentita l’uscita dalla Striscia di Gaza a 2.624 persone e il rientro a 3.095. Questa è la prima volta, dall’inizio del 2017, che l’attraversamento viene aperto in entrambe le direzioni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 9 febbraio due palestinesi sono rimasti uccisi e cinque sono rimasti feriti in seguito al crollo di un tunnel che corre lungo il confine tra Gaza e l’Egitto; non sono completamente chiare le circostanze dell’incidente.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Migliaia di arabi ed ebrei marciano insieme a Tel Aviv contro il razzismo e le demolizioni di case

  1. Nota redazionale: nel presente articolo gli autori utilizzano costantemente ed esclusivamente i termini “arabo/i” ed “ebreo/i” intendendo “palestinesi con cittadinanza israeliana” e “israeliani ebrei”. Si tratta del modo in cui sono solitamente denominati i due gruppi in Israele. Pur non condividendo questo modo di definirli, per correttezza rispetto agli autori abbiamo conservato queste categorie anche nella traduzione.

Inoltre sulla morte del palestinese ucciso durante l’evacuazione del villaggio beduino viene riportata solamente la versione della polizia contraddetta da testimonianze e da un video.

di Jack Khoury e Or Kashti |. 5 febbraio 2017 | Haaretz

I promotori sostengono che la protesta, in cui i discorsi sono stati fatti in arabo e in ebraico, è una nuova fase della lotta civile di ebrei e arabi.

Migliaia di persone, arabi ed ebrei, hanno marciato sabato sera [4 febbraio 2017] a Tel Aviv in una manifestazione di protesta contro le demolizioni di case delle scorse settimane a Kalansua e a Umm al-Hiran e contro ulteriori misure di demolizione di altre case.  

Gli organizzatori hanno detto che circa 5000 manifestanti hanno partecipato al corteo, che è iniziato all’incrocio tra le due strade King George ed Allenby e si è concluso nella piazza Dizengoff.

Alcune associazioni ebraiche e arabe hanno partecipato all’organizzazione della protesta, che i promotori hanno definito come una nuova fase della lotta civile degli ebrei e degli arabi. I discorsi sono stati fatti in arabo e in ebraico e i dimostranti hanno sventolato sia bandiere israeliane che palestinesi.

Amal Abu Sa’ad, la vedova di Yakub Abu al-Kiyan, che è stato ucciso il mese scorso durante le operazioni di demolizione delle case illegali del villaggio beduino non autorizzato di Umm al-Hiran, nel Negev , ha parlato ai manifestanti: “È importante per me essere qui e parlarvi e trasmettere il messaggio al primo ministro e ai suoi ministri. Nonostante la vostra rozza istigazione, il razzismo e una discriminazione nella legislazione, nella sua applicazione, nelle infrastrutture e nei servizi pubblici, non riuscirete a creare divisioni tra i cittadini del Paese. Voi che siete qui oggi siete la prova che ebrei e arabi possono e vogliono vivere insieme e con uguali diritti.”

Amal Abu Sa’ad ha chiesto al governo di istituire una commissione d’inchiesta indipendente per indagare sull’evacuazione di Umm al-Hiran. Al-Kiyan è stato ucciso dalla polizia quando con la sua auto ha investito e ucciso il sergente maggiore della polizia Erez Levi e ferito un altro graduato.

Il parlamentare Ayman Odeh, leader della Lista Unita [coalizione di partiti della minoranza palestinese in Israele, ndt] ha fatto un discorso e ha detto: “Oggi sono venute qui migliaia di persone, arabi ed ebrei, da tutto il Paese per protestare vivamente contro l’attacco del governo alla popolazione araba, per chiedere l’uguaglianza, il riconoscimento dei villaggi non autorizzati e una commissione d’inchiesta ufficiale dello Stato per analizzare tutti i fatti riguardanti la brutale evacuazione di Umm al-Hiran”

Il parlamentare Dov Khenin (Llista Unita) ha detto: “ Le migliaia di persone che hanno manifestato questa sera a Tel Aviv esprimono una voce di speranza e di intelligenza nei confronti di un governo che sceglie l’istigazione e l’odio. Sappiamo che l’istigazione è l’ultimo rifugio di quelli che hanno fallito.”

L’alto comitato arabo di inchiesta (the Higher Arab Monitoring Committee) ha reso nota la decisione di appellarsi a Israele e all’opinione pubblica internazionale. Centinaia di cittadini ebrei hanno partecipato alle recenti proteste contro le demolizioni di case, ha detto Raja Za’atra di Hadash [partito comunista che fa parte della coalizione Lista Unita , ndt], che presiede il sottocomitato del partito incaricato delle pubbliche relazioni con l’opinione pubblica israeliana.

Za’atra ha detto che dalla costituzione della Lista Unita, un maggior numero di politici della comunità araba ritiene di importanza strategica la costruzione di ponti per il dialogo e la collaborazione con le forze democratiche presenti nella società israeliana. Ha aggiunto che questo è particolarmente vero alla luce dell’aumento del razzismo e dei duri attacchi del primo ministro Benjamin Netanyahu e del suo governo contro la popolazione araba e contro la democrazia.

(traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Rapporto OCHA del periodo 10 – 23 gennaio 2017 (due settimane)

In Cisgiordania, nel corso di tre distinti episodi, le forze israeliane hanno ucciso, con armi da fuoco, tre palestinesi.

Tra essi un minore 17enne, ucciso il 10 gennaio all’ingresso del villaggio di Tuqu’ (Betlemme), durante scontri che hanno visto lanci di pietre e di bottiglie incendiarie. Gli altri due morti sono un 32enne palestinese, ucciso lo stesso giorno, in circostanze controverse, durante una operazione di ricerca nel Campo profughi di Al Far’a (Tubas) ed un uomo di 44 anni, ucciso il 17 gennaio ad un posto di blocco vicino alla città di Tulkarem: a quanto riferito, avrebbe tentato di pugnalare un soldato israeliano. Secondo i media, le autorità israeliane hanno aperto un’indagine sul primo episodio.

In Area C e Gerusalemme Est, per mancanza dei permessi edilizi israeliani, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 44 strutture, sfollando 17 palestinesi, tra cui cinque minori, e coinvolgendone altri 3.300. Due dei casi più rilevanti sono avvenuti in Area C, presso due piccole comunità di pastori: a Jericho (Al Jiftlik-Abu al ‘Ajaj) e Nablus (Tell al Khashabeh) dove sono state demolite 19 strutture, di cui 15 fornite come assistenza umanitaria. Sempre in Area C, vicino alla città di Hebron (Al Buweib), le autorità israeliane hanno distrutto parte di una strada agricola, colpendo la sussistenza di circa 3.000 persone. Altre 11 strutture non abitative sono state demolite nella zona di Jabal al Mukabber di Gerusalemme Est, dove viveva l’autore dell’aggressione dell’8 gennaio scorso [aggressione con camion, riportata nel Rapporto precedente]: 45 persone sono state colpite da queste demolizioni.

Sempre in seguito all’aggressione con camion dell’8 gennaio, la municipalità di Gerusalemme ha consegnato notifiche avverso circa 80 edifici della zona di Jabal Al Mukabber, relative a “violazioni di pianificazione e zonizzazione”. Una prima valutazione effettuata da OCHA prevede che, se sarà dato seguito a tali notifiche, più di 240 famiglie (circa 1.200 persone) che vivono negli edifici coinvolti rischieranno lo sfollamento. È stato anche riferito che la casa di famiglia del colpevole, prima della demolizione punitiva, è stata oggetto di provvedimenti da parte delle autorità.

In Cisgiordania, durante molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 26 palestinesi, tra cui dodici minori. Il numero più alto di ferimenti (10) sono stati registrati nella città di Ar Ram (Gerusalemme), durante scontri scoppiati nel corso di una demolizione. Altri scontri, con conseguenti ferimenti, si sono verificati durante le manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Ni’lin (Ramallah); all’entrata della città di Hizma (Gerusalemme) e nel villaggio Tuqu ‘(Betlemme); in seguito all’ingresso di coloni israeliani alla Tomba di Giuseppe nella città di Nablus; infine, durante quattro operazioni di ricerca-arresto.

In totale, in Cisgiordania, nel periodo di riferimento, le forze israeliane hanno condotto 199 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 288 palestinesi. Il numero più alto di operazioni (67) e di arresti (97) si è avuto nel governatorato di Gerusalemme.

Nella Striscia di Gaza, in almeno 38 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso – o hanno sparato direttamente contro – palestinesi presenti o in avvicinamento ad Aree ad Accesso Riservato (ARA), imposte da Israele su terraferma ed in mare. Come risultato, sono stati segnalati cinque palestinesi feriti, tra cui tre pescatori e una bambina di dieci anni. In altri sei casi, le forze israeliane hanno arrestato undici palestinesi: due commercianti che stavano attraversando il valico di Erez controllato da Israele, cinque pescatori in mare e altri tre civili che cercavano di entrare illegalmente in Israele.

Secondo fonti dei Consigli di villaggio, in due distinti episodi verificatisi a Beit Lid (Tulkarem) e Turmus’ayya (Ramallah), 56 alberi di proprietà palestinese sono stati vandalizzati da coloni israeliani. Inoltre, a Burqa (Nablus), un palestinese è stato fisicamente aggredito e ferito da un gruppo di coloni israeliani mentre lavorava sul proprio terreno. In Cisgiordania coloni israeliani ed altri gruppi israeliani sono entrati in diversi siti religiosi, innescando con palestinesi alterchi e scontri conclusi senza feriti. I siti interessati comprendono il Complesso Al Haram Ash Sharif / Monte del Tempio a Gerusalemme Est, un santuario nel villaggio Sabastiya (Nablus) e le Piscine di Salomone nel villaggio di Al-Khader (Betlemme).

I media israeliani hanno riportato 17 casi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli di coloni israeliani: sono stati segnalati danni a diversi veicoli, ma nessun ferito. Inoltre, nell’attraversamento di Shu’fat (Gerusalemme Est), la metropolitana leggera ha subito danni per lancio di sassi da parte di palestinesi.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è rimasto chiuso in entrambe le direzioni. Nel corso del 2016 il valico è stato parzialmente aperto per soli 44 giorni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, inclusi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 25 gennaio, all’ingresso dell’ insediamento di Kochav Ya’akov (Ramallah), le forze israeliane hanno ucciso un palestinese nel corso di una presunta aggressione tramite speronamento con auto; non sono stati segnalati feriti israeliani.

Il 26 gennaio, il Ministero degli Interni israeliano ha annunciato la revoca dei “permessi di ricongiungimento familiare” ad un certo numero di membri della famiglia del palestinese che, l’8 gennaio, ha messo in atto una aggressione contro soldati israeliani.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Centinaia di persone in Israele e nei territori palestinesi occupati denunciano l’incursione mortale a Umm al-Hiran

19 gennaio 2017 Ma’an News

Betlemme (Ma’an) – Mercoledì cittadini palestinesi con cittadinanza israeliana e loro sostenitori sono scesi in strada in Israele e nei territori palestinesi occupati per protestare contro un attacco per espellere una comunità beduina nel Negev, che si è trasformato in omicida ieri nelle prime ore del giorno, con la morte in circostanze controverse di un cittadino palestinese con cittadinanza israeliana e di un ufficiale di polizia israeliano.

Centinaia di dimostranti si sono riuniti a Umm al-Hiran, dove il residente beduino Yaqoub Moussa Abu al-Qian, di 47 anni, è stato colpito a morte da un poliziotto israeliano, che ha sostenuto che l’insegnante di matematica stava perpetrando un attacco con l’auto che ha ucciso l’ufficiale di polizia Erez Levi, di 34 anni.

Tuttavia numerosi testimoni e dirigenti palestinesi con cittadinanza israeliana hanno messo in dubbio la versione dei fatti delle forze di sicurezza israeliane, sostenendo che i poliziotti hanno aperto il fuoco su Abu al-Qian benché non rappresentasse un pericolo, causando il fatto che abbia perso il controllo del veicolo e abbia disgraziatamente investito Levi. Il parlamentare della Knesset Ayman Odeh, capo della Lista Unitaria, che rappresenta partiti guidati da palestinesi con cittadinanza israeliana, è stato ferito alla testa e alla schiena durante l’incursione, benché ci siano versioni contrastanti tra testimoni e poliziotti su come sia rimasto ferito e da chi.

In seguito all’attacco mortale l’Alto Comitato di Controllo per i cittadini arabi di Israele, una commissione del parlamento israeliano, la Knesset, ha dichiarato tre giorni di lutto nelle cittadine e nei villaggi israeliani a maggioranza palestinese.

Il comitato ha anche fatto appello ai cittadini palestinesi di Israele per lanciare uno sciopero generale giovedì [19 gennaio], ed agli insegnanti per discutere dei recenti fatti di Umm al-Hiran con gli studenti.

Si sono tenute manifestazioni in altre città israeliane a maggioranza di popolazione palestinese, come Yaffa, Qalanswane, Shifa Amr, Baqa al-Gharbiya, Sakhnin e Umm al-Fahm, in cui i dimostranti sventolavano bandiere palestinesi e gridavano slogan contro quelle che denunciavano come politiche ‘razziste’ israeliane.

Il gruppo israeliano per i diritti umani Gush Shalom ha informato che ci sono state manifestazioni anche a Gerusalemme, Haifa e Acre, in cui risiedono folte comunità palestinesi, così come in numerose università.

Secondo Gush Shalom, durante un raduno a Tel Aviv il membro della Knesset e cittadino palestinese di Israele Issawi Freij ha condannato l’incremento di demolizioni di case e la violenza della polizia che prende di mira i cittadini palestinesi di Israele.

Freij ha sostenuto che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha incrementato queste politiche nel tentativo di distrarre l’opinione pubblica israeliana dalle continue indagini a suo carico per corruzione.

“Il primo ministro vuole individuare un nemico su cui i suoi elettori possano sfogare la loro rabbia,” ha detto Freij a centinaia di dimostranti. “Questo nemico che il primo ministro ha preso di mira e stigmatizzato sono io, un cittadino arabo dello Stato di Israele e membro del parlamento israeliano, insieme a tutti i miei concittadini arabi, un totale del 20% dei cittadini di Israele. Dobbiamo essere i capri espiatori!”

Gush Shalom ha riferito che a Tel Aviv i manifestanti hanno gridato slogan come “Ebrei e arabi rifiutano di essere nemici” e “Netanyahu è pericoloso, corrotto e razzista.”

La deputata della Knesset Aida Touma-Sleiman, citata dal “Times of Israel” [giornale israeliano senza indipendente online. Ndtr.], avrebbe detto che una protesta più ampia è stata organizzata davanti alla Knesset a Gerusalemme per lunedì [23 gennaio] mattina.

Nel contempo nella Striscia di Gaza assediata, il movimento Hamas ha organizzato un corteo nel campo di rifugiati di Jabaliya per condannare l’evacuazione forzata di Umm al-Hiran.

Il dirigente di Hamas Muhammad Abu Askar ha detto che il movimento solidarizza con tutto il popolo palestinese, compresi gli abitanti di Umm al-Hiran, nonostante tutti i problemi che attualmente sta affrontando la Striscia di Gaza. L’ agenzia di stampa Quds ha riferito che anche a Ramallah, nella Cisgiordania occupata, i palestinesi sono scesi in strada per appoggiare Umm al-Hiran e per denunciare l’uccisione di Abu al-Qian.

Intanto giovedì i deputati della Lista Unitaria Ahmad Tibi e Usama Saadi hanno presentato alla Knesset un nuovo disegno di legge che propone il congelamento per dieci anni della demolizione di case costruite da palestinesi in Israele senza permessi rilasciati dal governo per organizzare un piano regolatore e di sviluppo complessivo.

“Non è un caso che ci siano decine di migliaia di case colpite da ordini di demolizione ” nelle comunità palestinesi di Israele, ha detto Tibi a Radio Israel. “Non è un fatto genetico. Non ci sono piani di sviluppo, né piani regolatori, nessuna crescita.”

Gruppi per i diritti hanno da lungo tempo sostenuto che le demolizioni nei villaggi beduini non riconosciuti da Israele sono una politica fondamentalmente tesa a togliere di mezzo la popolazione indigena palestinese dal Negev e a trasferirla in township [nome delle città per neri nel Sudafrica dell’apartheid. Ndtr.] definite dal governo per fare spazio all’espansione delle comunità di ebrei israeliani.

All’inizio del corrente mese, le forze israeliane hanno anche demolito 11 case di proprietà di cittadini palestinesi di Israele nella città di Qalansawe, nel centro di Israele, provocando scontri tra i palestinesi e la polizia israeliana, mentre Amnesty International Israele ha condannato possibili violazioni dei diritti umani ed ha accusato le forze israeliane di agire per “motivazioni politiche”.

Intanto mercoledì Netanyahu ha emesso un comunicato piangendo la morte del poliziotto israeliano, definendo l’incidente un “attacco con un veicolo” premeditato e parte di una “minaccia omicida”, in quanto la polizia israeliana ha affermato che Abu al-Qian era un sostenitore del cosiddetto Stato Islamico.

Il primo ministro ha scartato la possibilità di congelare le demolizioni nelle comunità palestinesi in Israele. “Lo Stato di Israele è, soprattutto, uno Stato di diritto, in cui ci sarà un’applicazione equa. Questo incidente non solo non ci fermerà, ma ci rafforzerà. Consoliderà la nostra determinazione ad applicare la legge ovunque,” ha affermato.

Con un’allusione appena velata ai parlamentari della Lista Unitaria, Netanyahu ha continuato esortando “chiunque, soprattutto se membro della Knesset, ad essere responsabile, a smetterla di alimentare l’animosità e di incitare alla violenza.”

Secondo il Jerusalem Post, mercoledì anche il ministro della Giustizia Ayelet Shaked [del partito di estrema destra “Casa Ebraica”. Ndtr.] ha accusato i deputati della Lista Unitaria di incitare alla violenza.

Tuttavia, gruppi per i diritti umani come “Coesistenza del Negev”, il “Forum per l’Uguaglianza Civile” e la “Coalizione delle Donne per la Pace”, che hanno contribuito ad organizzare le proteste di mercoledì in Israele, attribuiscono la responsabilità della violenza mortale direttamente al governo israeliano.

“La responsabilità diretta per l’odierna escalation pericolosa e per lo spargimento di sangue nel villaggio di Umm al-Hiran nel Negev ricade su coloro che hanno preso la decisione di distruggere un villaggio beduino esistito per decenni, raderlo totalmente al suolo e cancellarlo dalla faccia della terra, di espellere gli abitanti e creare una “comunità” ebraica al suo posto,” hanno affermato i gruppi, citati da Gush Shalom.

Sarah Leah Whitson, direttrice esecutiva del ramo per il Medio Oriente dell’ong Human Rights Watch (HRW) ha detto che gli avvenimenti di Umm al-Hiran hanno seguito “una modalità d’azione che prevede l’uso eccessivo della forza da parte della polizia israeliana.”

“Come in Cisgiordania, Israele discrimina i beduini e i palestinesi in generale all’interno dei propri confini nelle sue politiche di pianificazione, che intendono massimizzare il controllo della terra per le comunità ebraiche. Israele dovrebbe fare un’inchiesta sulle uccisioni, obbligare i responsabili a risponderne e rinunciare al progetto discriminatorio di radere al suolo Umm al-Hiran.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Le ragioni per cui l’attaccante palestinese a Gerusalemme non è stato scoraggiato.

Amira Hass | 9 gennaio, 2017 |Haaretz

Fadi al-Qanbar conosceva tutte le conseguenze della sua azione, le ha viste molte volte prima, ma i palestinesi considerano le ritorsioni israeliane come parte naturale di una politica complessiva nei loro confronti, non come una reazione.

Che Fadi-al-Qanbar abbia programmato l’attacco di domenica con il camion a Gerusalemme oppure che si sia trattato di una decisione presa d’impulso, sapeva benissimo quale punizione collettiva era in serbo per la sua famiglia.

Sapeva che il suo corpo non sarebbe stato restituito alla famiglia per la sepoltura – un atto particolarmente umiliante e doloroso. Sapeva che i suoi parenti sarebbero stati immediatamente arrestati e picchiati durante la detenzione. Che alcuni avrebbero potuto essere cacciati dal lavoro che hanno a Gerusalemme Ovest .Che le parenti prive di una carta d’identità israeliana sposate a residenti di Gerusalemme si sarebbero trovate espulse dalle loro case e separate dai loro figli. La sua famiglia sarebbe stata perseguitata dalla polizia e dalle autorità dello Stato, sapeva queste cose da mesi, e forse da anni, che la casa della famiglia sarebbe stata demolita. Tutte queste cose sono successe ad altri aggressori palestinesi di Gerusalemme Est.

Nel solo quartiere di Jabal Mukkaber, negli ultimi sei mesi del 2015 Israele ha demolito tre case e sigillato altre due. Tutte appartenevano a famiglie di terroristi. “Sigillare” significa versare cemento nell’appartamento fino a pochi centimetri dal soffitto.

Secondo Hamoked – il Centro per la Difesa degli Individui –, tra il luglio del 2014 e la fine di dicembre del 2016 Israele ha demolito 35 case palestinesi e ne ha sigillate altre sette; di queste sei e quattro rispettivamente erano a Gerusalemme Est.

Il fatto che i genitori, i figli, i nonni, i nipoti e le nipoti che hanno perso le loro case e che non avevano niente a che fare con l’attacco è irrilevante. Israele e i giudici della Suprema Corte considerano le demolizioni come una punizione legittima e un efficace strumento di deterrenza nei confronti di coloro che pensano di compiere un attacco terroristico.

Inoltre, Qanbar sicuramente sapeva che i suoi figli non soltanto avrebbero sofferto della perdita del padre ma che sarebbero diventati o violenti o isolati, e che, se in età scolare, i loro risultati scolastici ne avrebbero sofferto come anche la loro salute. Ma non è stato scoraggiato.

Il fallimento della deterrenza

Gli analisti e i politici nel caso di Qanbar hanno trovato ogni genere di ragioni del fallimento della deterrenza: lo Stato islamico; un attacco dovuto all’emulazione; l’essere stato un ex detenuto ( un’ apparentemente falsa rivendicazione fatta da Hamas che Israele si è affrettata a fare propria) e un incitamento dell’Autorità palestinese riguardante il possibile spostamento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme. Come al solito le interpretazioni sono fuorvianti e fuori luogo.

Un gruppo di soldati in divisa non è una visione neutrale per qualsiasi palestinese. Quelli sono l’aspetto e la divisa di chi irrompe a decine ogni notte nelle case dei palestinesi, di chi uccide donne e minori ai checkpoint, di chi viene mandato ad attaccare la Striscia di Gaza e di chi accompagna le forze della Amministrazione Civile per demolire le cisterne d’acqua, i gabinetti chimici, le baracche di lamiera e le tende. Il fatto che gli israeliani abbiano cancellato questi avvenimenti dalla loro agenda non significa che non esistano.

Senza dubbio gli israeliani ritengono che senza queste misure di deterrenza il numero degli aggressori palestinesi sarebbe più alto. O al contrario che vi sarebbe una maggiore repressione. I palestinesi, tuttavia, considerano le ritorsioni israeliane come una parte naturale di una politica complessiva nei loro confronti, non come una reazione. Quando Israele non demolisce come misura punitiva , sta demolendo non consentendo di costruire e di svilupparsi. Quando non arresta la gente per attacchi mortali o per averli presumibilmente progettati, Israele arresta bambini per cercare di reprimere la lotta popolare. Con o senza attacchi mortali espande le colonie, strangola l’economia palestinese e pianifica espulsioni forzate dai villaggi e dalle case di Gerusalemme.

Così il motivo per cui questi episodi non organizzati e individuali non si sono trasformati in una più ampia insurrezione non deve essere attribuito all’ intrinseca abilità israeliana di produrre sofferenze sempre maggiori. Per quanto Hamas cerchi di dare pubblicità a questo attacco quale prova che l’Intifada di Gerusalemme non è morta, è chiaro che la gente più in generale non è interessata a ciò. Nonostante la frammentazione sociale e geografica, una dirigenza debole e litigiosa, nel popolo palestinese c’è una maturità politica che è consapevole della inevitabilità dell’insurrezione, ma che si devono aspettare tempi migliori.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Primo fine settimana del 2017: Israele ha demolito le case di 151 palestinesi, circa quattro volte la media dello scorso anno

Amira Hass – 7 gennaio 2017 Haaretz

L’amministrazione civile dell’IDF [l’esercito israeliano] sta adempiendo alla promessa di Netanyahu di demolire per vendetta le case degli arabi.

La promessa del primo ministro Benjamin Netanyahu ai coloni dell’avamposto illegale di Amona di applicare la legge “equamente”, demolendo le case di arabi, sta essendo pienamente rispettata.

Il numero di edifici palestinesi demoliti nella prima settimana del gennaio 2017 è quasi quattro volte maggiore della media settimanale nel 2016: 20 strutture. Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), nel 2015 la media era stata di 10 alla settimana.

Nell’area C, sotto totale controllo civile e militare israeliano, tra lunedì e giovedì l’Amministrazione Civile dell’esercito israeliano ha demolito 65 strutture e 7 cisterne per la raccolta di acqua piovana in comunità palestinesi. Il Comune di Gerusalemme ha demolito altre due case a Gerusalemme est. Circa 151 persone, compresi 90 bambini, vivevano negli edifici che sono stati demoliti.

Lunedì, il giorno in cui la commissione Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset [il parlamento israeliano. Ndtr.] ha discusso l’annessione a Israele della cittadina di Ma’aleh Adumim (a est di Gerusalemme), l’amministrazione civile e l’esercito israeliano hanno demolito dodici capanne in legno e lamiera – di cui otto utilizzate come abitazioni – in due comunità beduine della tribù Jahalin, a sud della colonia; tre baracche a Bir al-Maskub e nove a Wadi Sneysel. In totale 84 persone, 68 delle quali bambini, sono rimaste senza tetto nel giro di poche ore.

Lo scorso agosto l’amministrazione civile ha demolito strutture in quelle comunità. Ma i residenti non hanno un altro posto in cui vivere e sono state obbligate a costruire nuove baracche. Negli anni ’90 dozzine di famiglie della tribù Jahalin furono espulse dalla zona per consentire l’espansione della colonia.

Martedì l’amministrazione civile ha demolito 49 strutture a Khirbet Tana, nel nordovest della valle del Giordano: 13 strutture abitative, 9 gabinetti mobili e per il resto costruzioni agricole di vario genere. Ventotto adulti e 22 bambini hanno perso la casa a causa delle demolizioni. Altre 71 persone sono state danneggiate dalla distruzione delle strutture agricole.

Circa 40 famiglie (250 tra uomini e donne) vivono in quell’antico villaggio di grotte a est del villaggio di Beit Furik. In quattro precedenti incursioni lo scorso anno l’amministrazione civile ha demolito 150 baracche, ovili, tende e varie strutture igieniche – così come una scuola che è stata costruita grazie a fondi europei. Durante l’attacco di martedì, è stato anche consegnato un ordine di interruzione dei lavori per la nuova scuola, che sta per essere costruita, di nuovo con donazioni europee. L’Alta Corte di Giustizia [israeliana] ha respinto un ricorso degli abitanti di Khirbet Tana contro l’ordine di abbandonare definitivamente le loro case, ma i residenti hanno semplicemente costruito nuove abitazioni e una scuola perché si rifiutano di abbandonare il villaggio in cui le loro famiglie hanno vissuto molto prima del 1948 e prima che l’IDF dichiarasse la zona servitù militare.

Mercoledì una consistente forza militare ha fatto un’incursione sulle terre del villaggio di Tekoa, a sudest di Betlemme. Qui i bulldozer dell’amministrazione civile hanno demolito sette cisterne per l’acqua piovana e altre tre rimesse per scopi agricoli. Il capo del consiglio di villaggio ha raccontato ad Haaretz che una delle cisterne era stata scavata 25 anni fa, mentre le altre erano più recenti. Circa 180 persone dipendono da quelle cisterne per la loro vita. E giovedì mattina l’amministrazione civile ha demolito una struttura agricola nel villaggio di Jinsafut, a est di Qalqiliyah, in Cisgiordania.

A metà dicembre l’Amministrazione Civile ha detto ad Haaretz di essere in possesso di 11 macchine agricole, per lo più trattori, confiscate a contadini palestinesi dopo che l’IDF ha trasformato le loro terre nella zona settentrionale della valle del Giordano in servitù militare.

I palestinesi devono pagare all’Amministrazione Civile un’ammenda di qualche migliaio di shekel [1.000 shekel= 247 €. Ndtr.] per il rilascio di ogni trattore, e impegnarsi a non commettere una seconda volta l’ “infrazione”. Nel 2016 solo due trattori sono stati restituiti, previo pagamento dell’ammenda. Oltre ad uso agricolo, i trattori servono anche a trasportare acqua agli abitanti ed ai loro armenti dalle sorgenti che si trovano a qualche chilometro dalle stalle. Israele non consente alle comunità palestinesi residenti in zone sotto il suo controllo di collegarsi alle infrastrutture idriche.

Il 21 dicembre un altro trattore è stato confiscato ai contadini nel nord della valle del Giordano, dopo che avevano tentato di raggiungere le loro terre sul lato orientale dell’autostrada 90 (chiamata come quel sostenitore del trasferimento della popolazione palestinese, l’ex ministro Rehavam Ze’evi [del partito di estrema destra Modelet e assassinato nel 2001 da un palestinese. Ndtr.]).

Negli ultimi tre mesi del 2016 l’IDF ha condotto 20 esercitazioni di addestramento con proiettili letali sulla terra delle comunità palestinesi nella zona settentrionale della valle del Giordano. Secondo l’organizzazione israeliana dei diritti umani B’Tselem, queste esercitazioni significano che a circa 220 persone – compresi circa 100 minori delle comunità di Al-Ras al-Ahmar, Khirbet Khumsa e Abzik – è stato ordinato di lasciare temporaneamente le proprie case in 19 diverse occasioni.

B’Tselem ha segnalato che nel villaggio di Al-Farisiyah, che non è stato evacuato, l’esercito ha proibito agli abitanti di portare al pascolo le greggi nelle terre circostanti, poi si è addestrato su terreni coltivati e vi ha persino sistemato bagni provvisori. Inoltre le truppe hanno dissodato parte delle terre dell’area per rendere più agevole il passaggio dei mezzi militari, e in questo modo hanno provocato ulteriori danni ai terreni agricoli.

L’ufficio del portavoce dell’IDF ha detto ad Haaretz che “le zone di servitù militare, soprattutto nella valle del Giordano, e in generale in Giudea e Samaria, sono state dichiarate tali con un’ordinanza dell’autorità del comando militare della regione fin dagli anni ’70, in base a necessità di sicurezza. Gli abitanti che si trovano in quelle zone di addestramento lo stanno facendo in violazione della legge.

“Prima di ogni addestramento militare, si prendono iniziative con lo scopo di evitare danni fisici o alle proprietà, tali come controlli a vista, pattugliamenti, piazzando protezioni e dialogando con gli abitanti della zona attraverso l’Amministrazione Civile. Durante le esercitazioni, agli abitanti viene richiesto di lasciare la zona delle manovre. Le attività menzionate al riguardo sono state approvate dalla Corte Suprema in richieste che sono state presentate in modo simile,” ha affermato l’ufficio del portavoce dell’IDF.

Martedì 20 dicembre 2016 Dafna Banai, di Machsom Watch [associazione di pacifiste israeliane che controllano il comportamento dei militari nei Territori Occupati. Ndtr.] ha riferito: “Tutti i sentieri che collegano la valle del Giordano palestinese alle località di Aqraba, Beit Furik e Tubas, in Cisgiordania, sono ora bloccati da mucchi di terra, fossati, enormi massi e cancellate chiuse. Persino quelli aperti negli scorsi anni sono stati ora nuovamente interrotti.”

“Solo il cancello di Gokhia, che separa la valle del Giordano da Nablus e Tubas oggi è aperto (da domenica, secondo gli abitanti del posto). Tutto ad un tratto non ci sono “ragioni di sicurezza”, né “pericolo per i palestinesi perché l’area è utilizzata per le manovre militari” – da sempre, quando le manovre sono in corso, il cancello è aperto (per consentire il libero passaggio ai mezzi militari senza perdita di tempo ogni volta che deve essere aperto o chiuso). Nei pressi del cancello si vedono tre veicoli blindati e soldati annoiati. Si sta di nuovo svolgendo un’esercitazione militare nella valle del Giordano. Siamo entrate ad Al-Ras al-Ahmar, ma non abbiamo potuto andare oltre il primo accampamento a causa del fango spesso. Stava piovendo a dirotto quella mattina e tutta la regione si è trasformata in un grande pantano,” ha scritto.

“Da mezzogiorno alle 16,30 del pomeriggio la strada che sale a Tyassir ed il resto della Cisgiordania sono state interrotte a causa delle manovre militari. Si vedevano lunghe file di veicoli palestinesi da Al-Malih, dove due soldati annoiati stavano bloccando il traffico. I soldati non avevano nessuna idea di quando sarebbe stata riaperta la strada,” ha raccontato Banai.

“I palestinesi, per lo più maschi, lavoratori a giornata sulla strada di casa dal loro lavoro nelle colonie, stavano ad oziare sulla strada, fumando. Qualcuno ci ha domandato di chiedere ai soldati di lasciarli andare a casa – qui, là, a 200 metri di distanza, a Al-Burj. Ma i soldati sostenevano di avere l’ordine di non lasciar passare nessuno, senza eccezioni. Eravamo anche in contatto telefonico con Mahdi, che si trovava sull’altro lato (occidentale) del blocco, ed ha parlato di lunghe code in attesa anche là. Peggio di tutto, bambini dell’asilo e delle elementari (come Rina, di 5 anni) hanno dovuto aspettare sulla strada per 4-5 ore! Gironzolavano in mezzo ai carri armati israeliani, chiedendo un po’ di cibo ai soldati; non avevano mangiato niente dalla mattina,” ha scritto.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA 13 – 26 dicembre 2016 ( due settimane)

Nel corso di due diversi scontri, le forze israeliane hanno ucciso, con armi da fuoco, due palestinesi 19enni.

Uno degli scontri è scoppiato il 17 dicembre nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme), dopo una demolizione punitiva (vedi sotto), l’altro durante una operazione di ricerca-arresto effettuata il 22 dicembre nel villaggio di Beit Rima (Ramallah).

Ulteriori scontri, con conseguenti ferimenti di palestinesi, sono scoppiati nel villaggio di Beit Ummar (Hebron), dopo i cortei funebri di accompagnamento dei corpi di due palestinesi che erano stati trattenuti dalle forze israeliane, ma anche durante operazioni di ricerca-arresto e nel corso delle manifestazioni settimanali nei villaggi di Kafr Qaddum (Qalqiliya) e di Ni’lin (Ramallah). Complessivamente, nel periodo di riferimento, le forze israeliane hanno ferito 72 palestinesi, di cui almeno otto minori.

Nello stesso periodo sono state registrate sei aggressioni e presunte aggressioni palestinesi, che hanno causato l’uccisione di un aggressore palestinese e il ferimento di due coloni israeliani. In particolare, il 14 dicembre, nella città vecchia di Gerusalemme, le forze israeliane hanno ucciso un 21enne palestinese che, con un cacciavite, aveva colpito un poliziotto israeliano di frontiera; nel corso di questo episodio è stato ferito un astante palestinese di 13 anni. Inoltre, due coloni israeliani sono rimasti feriti in due distinte aggressioni, con coltello e con arma da fuoco, rispettivamente presso gli insediamenti di Efrat (Betlemme) ed Hallamish (Ramallah). I due aggressori sono riusciti a fuggire. Infine tre tentate aggressione che non hanno causato ferimenti: un tentativo di accoltellamento al checkpoint di Jaljuliya (Qalqiliya), un presunto speronamento con auto al checkpoint di Qalandiya (Gerusalemme) ed una aggressione con arma da fuoco al checkpoint di Al Jalama (Jenin).

Finora, nel 2016, in Cisgiordania, nel corso di episodi collegati al conflitto, sono stati uccisi 101 palestinesi, 80 di questi durante aggressioni e presunte aggressioni contro israeliani. Numeri in diminuzione, rispetto ai 145 uccisi nel 2015.

Il 23 dicembre, un 15enne palestinese è morto per le ferite riportate nel Campo profughi di Al Jalazunun (Ramallah), nell’ottobre 2016, quando le forze israeliane spararono e lo colpirono durante scontri all’ingresso del Campo.

Le autorità israeliane hanno restituito alle loro famiglie i cadaveri di 16 palestinesi sospettati di aver perpetrato attacchi contro israeliani; alcuni dei corpi erano stati trattenuti per diversi mesi. Allo stato attuale, sono ancora trattenuti dalle autorità israeliane i corpi di altri 11 presunti aggressori palestinesi, alcuni da otto mesi.

Secondo quanto riferito dai media israeliani, nove soldati israeliani sono rimasti feriti in due distinti episodi di lancio di pietre: presso il villaggio di Beit Ummar (Hebron) e nel Campo profughi di Shu’fat (Gerusalemme).

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto quasi 180 operazioni di ricerca ed hanno arrestato più di 240 palestinesi; tra queste, una operazione di ricerca all’interno dell’Università Birzeit (Ramallah) e un’altra presso una associazione giornalistica (Hebron); nelle due sedi sarebbero stati confiscati diversi computer. La quota più alta di operazioni (46) e di arresti (100) è stata rilevata nel governatorato di Gerusalemme. Tre commercianti palestinesi sono stati arrestati al valico di Erez [Israele] mentre rientravano a Gaza.

In zona C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato undici strutture, sfollando un palestinese e coinvolgendone altri 250. Una delle strutture sequestrate era una roulotte, fornita alla Comunità di Al Mirkez in Masafer Yatta da un’organizzazione umanitaria, perché fosse impiegata come centro di prima assistenza sanitaria. La Comunità si trova in una zona destinata all’addestramento militare e designata dalle autorità israeliane come “zona per esercitazioni a fuoco”. Tali aree costituiscono quasi il 30% dell’Area C e sono abitate da più di 5.000 palestinesi.

Per consentire esercitazioni militari, le forze israeliane hanno temporaneamente sfollato, per diverse ore in due giorni diversi, circa 90 persone, tra cui 40 minori, della Comunità pastorale di Ibziq nel nord della Valle del Giordano. Per tale Comunità questo è il quarto sfollamento nel corso degli ultimi due mesi. Durante questo periodo, presso la Comunità pastorale di Khirbet Yarza, una esercitazione simile ha provocato danni ad una conduttura per l’acqua che era stata precedentemente fornita come assistenza umanitaria: penalizzati 65 palestinesi. Queste esercitazioni inaspriscono ulteriormente il contesto coercitivo che spinge i residenti ad abbandonare le aree di residenza.

Il 22 dicembre, a Kafr ‘Aqab nella zona di Gerusalemme Est, le forze israeliane hanno demolito la casa di famiglia di un palestinese che lo scorso ottobre aveva messo in atto una aggressione a Sheikh Jarrah, nel corso della quale furono uccisi due israeliani. Una donna e cinque minori palestinesi sono stati sfollati e altri due sono stati coinvolti. Questa demolizione ha innescato scontri vicino al Campo profughi di Qalandiya, durante i quali le forze israeliane hanno sparato e ucciso un palestinese (citato sopra). Il Coordinatore Umanitario per i Territori Occupati, Robert Piper, ha invitato [14 novembre 2016] le autorità israeliane a fermare la pratica delle demolizioni punitive che, essendo una forma di punizione collettiva, è illegale in base al diritto internazionale.

Coloni israeliani hanno fisicamente aggredito un contadino palestinese del villaggio di Deir Istiya (Salfit) che stava coltivando il suo terreno agricolo nei pressi dell’insediamento colonico di Immanuael; il suo trattore è stato danneggiato. Inoltre, coloni israeliani ed altri gruppi si sono introdotti in vari siti religiosi, tra cui il complesso Al Haram Ash Sharif / Monte del Tempio a Gerusalemme Est, un santuario religioso nel villaggio di Haris Kifl a Salfit e la Tomba di Giuseppe nella città di Nablus.

Nell’arco delle due settimane, i media israeliani hanno anche riferito undici episodi di lancio di pietre ed aggressioni con armi da fuoco ad opera di palestinesi contro veicoli israeliani: in nessun caso sono state riportate vittime, ma danni a diversi veicoli. Inoltre è stato riferito che, nei pressi dell’insediamento Gush Etzion, vicino a Betlemme, un colono israeliano è stato ferito da palestinesi nel corso di un distinto episodio di lancio di pietre contro veicoli israeliani.

Dopo gli spari e i lanci di pietre (di cui sopra) da parte di palestinesi contro coloni israeliani, le forze israeliane hanno bloccato temporaneamente sette strade principali, impedendo l’accesso veicolare a servizi e mercati per migliaia di palestinesi: il villaggio di Hizma (Gerusalemme), i villaggi An Nabi Saleh, Deir Nidham, Rantis, Deir Ibzi’, Umm Safa e il collegamento tra la città di Al Bireh e il Campo profughi di Al Jalazun (tutti a Ramallah). Alcune di queste strade risultavano ancora bloccate al termine del periodo di riferimento [26 dicembre 2016].

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto, per i casi umanitari, per tre giorni (17-19 dicembre): è stata consentita l’uscita dalla Striscia di Gaza a 1.869 persone ed il rientro a 466. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, dall’inizio del 2016, circa 20.000 persone sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Il testo della risoluzione del Consiglio di Sicurezza sulle colonie israeliane

“Le colonie israeliane non hanno alcuna validità legale, costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale”.

https://www.un.org/press/en/2016/sc12657.doc.htm

Il Consiglio di Sicurezza,

riconfermando le sue risoluzioni sull’argomento, comprese le 242 (1967), 338 (1973), 446 (1979), 452 (1979), 465 (1980), 476 (1980), 478 (1980), 1397 (2002), 1515 (2003 e 1850 (2008),

guidato dalle intenzioni e dai principi della Carta delle Nazioni Unite e riaffermando, tra le altre cose, l’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la forza,

riconfermando l’obbligo di Israele, potenza occupante, di attenersi scrupolosamente ai suoi obblighi legali ed alle sue responsabilità in base alla Quarta Convenzione di Ginevra riguardanti la protezione dei civili in tempo di guerra, del 12 agosto 1949, e ricordando il parere consuntivo reso dalla Corte Internazionale di Giustizia il 9 luglio 2004,

condannando ogni misura intesa ad alterare la composizione demografica, le caratteristiche e lo status dei territori palestinesi occupati dal 1967, compresa Gerusalemme est, riguardante, tra gli altri: la costruzione ed espansione di colonie, il trasferimento di coloni israeliani, la confisca di terre, la demolizione di case e lo spostamento di civili palestinesi, in violazione delle leggi umanitarie internazionali e importanti risoluzioni,

esprimendo grave preoccupazione per il fatto che le continue attività di colonizzazione israeliane stanno mettendo pericolosamente in pericolo la possibilità di una soluzione dei due Stati in base ai confini del 1967,

ricordando gli obblighi in base alla Roadmap del Quartetto, appoggiata dalla sua risoluzione 1515 (2003), per il congelamento da parte di Israele di tutte le attività di colonizzazione, compresa la “crescita naturale”, e lo smantellamento di tutti gli avamposti dei coloni costruiti dal marzo 2001,

ricordando anche l’obbligo, in base alla Roadmap del Quartetto, delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese di mantenere operazioni concrete intese a prendere misure contro tutti coloro che sono impegnati in azioni terroristiche e a smantellare gli strumenti terroristici, compresa la confisca di armi illegali,

condannando ogni atto di violenza contro i civili, comprese le azioni terroristiche, così come ogni atto di provocazione, incitamento e distruzione,

riprendendo la propria visione di una regione in cui due Stati democratici, Israele e Palestina, vivano uno di fianco all’altro in pace all’interno di frontiere sicure e riconosciute,

sottolineando che lo status quo non è accettabile e che passi significativi, coerenti con la transizione prevista nei precedenti accordi, sono urgentemente necessari per (i) stabilizzare la situazione e ribaltare le tendenze negative sul terreno, che stanno costantemente erodendo la soluzione dei due Stati e rafforzando una realtà dello Stato unico, e (ii) creare le condizioni di efficaci negoziati sullo status definitivo e per il progresso della soluzione dei due Stati attraverso questi negoziati e sul terreno,

1. Riafferma che la costituzione da parte di Israele di colonie nel territorio palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme est, non ha validità legale e costituisce una flagrante violazione del diritto internazionale e un gravissimo ostacolo per il raggiungimento di una soluzione dei due Stati e di una pace, definitiva e complessiva;

2. insiste con la richiesta che Israele interrompa immediatamente e completamente ogni attività di colonizzazione nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est, e che rispetti totalmente tutti i propri obblighi a questo proposito;

3. ribadisce che non riconoscerà alcuna modifica dei confini del 1967, comprese quelle riguardanti Gerusalemme, se non quelle concordate dalle parti con i negoziati;

4. sottolinea che la cessazione di ogni attività di colonizzazione da parte di Israele è indispendabile per salvaguardare la soluzione dei due Stati e invoca che vengano intrapresi immediatamente passi positivi per invertire le tendenze in senso opposto sul terreno che stanno impedendo la soluzione dei due Stati;

5. chiede a tutti gli Stati, tenendo presente il paragrafo 1 di questa risoluzione, di distinguere, nei loro contatti importanti, tra il territorio dello Stato di Israele e i territori occupati dal 1967;

6. Chiede passi immediati per evitare ogni atto di violenza contro i civili, compresi atti di terrorismo, così come ogni azione di provocazione e distruzione, chiede che a questo proposito i responsabili vengano chiamati a risponderne, e invoca il rispetto degli obblighi in base alle leggi internazionali per rafforzare i continui sforzi di combattere il terrorismo, anche attraverso l’attuale coordinamento per la sicurezza, e la condanna esplicita di ogni atto di terrorismo;

7. Chiede ad entrambe le parti di agire sulla base delle leggi internazionali, comprese le leggi umanitarie internazionali, e dei precedenti accordi ed obblighi, di mantenere la calma e la moderazione e di evitare azioni di provocazione, di incitamento e di retorica incendiaria, con il proposito, tra le altre cose, di attenuare l’aggravamento della situazione sul terreno, di ricostituire la fiducia, dimostrando attraverso politiche e azioni concrete un effettivo impegno a favore della soluzione dei due Stati, creando le condizioni necessarie alla promozione della pace;

8. chiede alle parti di continuare, nell’interesse della promozione della pace e della sicurezza, di esercitare sforzi congiunti per lanciare negoziati credibili sulle questioni riguardanti lo status finale nel processo di pace del Medio Oriente e nei tempi definiti dal Quartetto nella sua dichiarazione del 21 settembre 2010;

9. Invita a questo proposito ad intensificare ed accelerare gli sforzi e il sostegno ai tentativi diplomatici internazionali e regionali che intendono raggiungere senza ulteriori ritardi una pace complessiva, giusta e definitiva in Medio Oriente sulla base delle pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite, dei parametri di Madrid, compreso il principio di terra in cambio di pace, dell’iniziativa araba di pace e della Roadmap del Quartetto e una fine dell’occupazione israeliana iniziata nel 1967; sottolinea a questo proposito l’importanza dei continui sforzi di promuovere l’iniziativa di pace araba, della Francia per la convocazione di una conferenza di pace internazionale, i recenti tentativi del Quartetto, così come quelli dell’Egitto e della Federazione Russa;

10. Conferma la propria determinazione ad appoggiare le parti attraverso i negoziati e nella messa in pratica di un accordo;

11. Riafferma la propria determinazione ad esaminare mezzi e modi per garantire la completa applicazione delle sue risoluzioni a questo proposito;

12. Chiede al segretario generale di informare il Consiglio ogni tre mesi sull’attuazione delle decisioni della presente risoluzione;

13. Decide di seguire attivamente la questione.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto Ocha del periodo 29 novembre- 12 dicembre ( due settimane)

L’8 dicembre, al checkpoint di Za’tara (Salfit), le forze israeliane hanno ucciso un 18enne   palestinese;secondo quanto riferito, avrebbe tentato un’aggressione con il coltello.

Dall’inizio del 2016, questo è il secondo episodio del genere accaduto presso questo checkpoint, collocato in un nodo strategico che consente il controllo della principale arteria di traffico verso il nord della Cisgiordania (Road 60) e verso la Valle del Giordano. Un episodio simile, accaduto il 10 dicembre al posto di blocco di Qalqiliya Nord, si è concluso con l’arresto di una ragazza palestinese di 15 anni, sospettata di aver tentato di accoltellare un soldato israeliano; non sono stati segnalati feriti israeliani.

Le autorità israeliane hanno trattenuto il cadavere del giovane palestinese ucciso nell’episodio di cui sopra. Al momento risultano trattenuti 27 cadaveri di palestinesi, alcuni dei quali da più di otto mesi.

Il 4 dicembre la Protezione Civile Palestinese di Gaza ha recuperato i corpi di quattro persone da un tunnel utilizzato per il contrabbando nel tratto lungo il confine con l’Egitto; il tunnel era crollato il 27 novembre scorso. In quest’area l’attività di contrabbando è in gran parte ferma dalla metà del 2013, dopo la distruzione o il blocco della stragrande maggioranza delle gallerie ad opera delle autorità egiziane. Inoltre, in seguito al crollo di un tunnel militare ad est di Gaza City, il 7 dicembre due membri palestinesi di un gruppo armato sono morti ed un altro è rimasto ferito.

In Cisgiordania, nel corso di molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 39 palestinesi, tra cui 11 minori. Cinque dei feriti si sono avuti nella Striscia di Gaza, vicino al valico di Nahal Oz (chiuso da tempo), durante scontri scoppiati nel corso di proteste in prossimità della recinzione perimetrale. I restanti ferimenti (34) si sono verificati in Cisgiordania: nel corso di operazioni di ricerca-arresto (la maggior parte), durante la manifestazione settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya), e durante scontri con le forze israeliane presenti all’ingresso del Campo profughi di Shu’fat (Gerusalemme Est). Inoltre, secondo i media israeliani, in due distinti episodi verificatisi vicino all’incrocio di Jaba’ (Gerusalemme) e nel villaggio di Deir Nidham (Ramallah), quattro soldati israeliani sono stati feriti dal lancio di pietre ad opera di palestinesi.

A Gaza, in almeno 24 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti o in avvicinamento ad Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare. In un’altra occasione, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza ed hanno effettuato un’operazione di spianatura del terreno. Non sono stati segnalati feriti, ma il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto.

In Cisgiordania, forze israeliane hanno condotto quasi 100 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato circa 120 palestinesi, tra cui 29 minori; tre di questi sono sospettati di aver partecipato al lancio di pietre contro le forze israeliane presenti all’ingresso della Scuola Maschile di As Sawiya (Nablus). Una delle operazioni di ricerca, per la quarta volta nel corso del 2016, ha avuto come obiettivo l’Università Al Quds di Gerusalemme. A Gaza, sei palestinesi, tra cui quattro pescatori, un uomo che tentava di entrare illegalmente in Israele ed un mercante che rientrava in Gaza, sono stati arrestati dalle forze israeliane. Inoltre, una barca da pesca è stata sequestrata.

In zona C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 17 strutture, sfollando 17 persone e diversamente coinvolgendone altre 356. La metà delle strutture colpite si trovavano in Area C, presso quattro comunità beduine e pastorali palestinesi; tra esse quella di Susiya (Hebron), dove sono state sequestrate parti di un impianto fotovoltaico utilizzato dalla Comunità. Sulla maggior parte delle strutture di Susiya incombono ordini di demolizione e la Comunità è esposta ad un elevato rischio di trasferimento forzato.

In quattro occasioni, per consentire l’addestramento militare, le forze israeliane hanno temporaneamente sfollato, per diverse ore ogni volta, 85 persone appartenenti a due comunità di pastori nel nord della Valle del Giordano (Khirbet ar Ras al Ahmar e Humsa al Bqai’a). Nella prima Comunità, le autorità israeliane hanno anche sequestrato un trattore e consegnato un ordine di arresto lavori per una rete elettrica. Entrambe le comunità si trovano in un’area designata come “zona per esercitazioni a fuoco”; tali zone costituiscono quasi il 30% dell’Area C. Finora, nel 2016, ci sono stati 27 episodi di sfollamento temporaneo per consentire esercitazioni militari; tali episodi sono parte del contesto coercitivo che spinge i residenti ad andarsene.

Sempre in Area C, nel governatorato di Hebron, le autorità israeliane hanno emesso ordini di demolizione e di stop-lavori contro due abitazioni in costruzione ed un muro di contenimento ad Al Baqa’a e Beit Ummar, e contro quattro strutture abitative e di sussistenza nella zona di Masafer Yatta. Inoltre, le autorità israeliane hanno sequestrato quattro veicoli di proprietà palestinese: un bulldozer utilizzato per un progetto di ristrutturazione/risanamento (finanziato da un donatore), nel villaggio di As Sawiya (Nablus); una autocisterna per le acque reflue in Einun (Tubas); due veicoli privati nel villaggio di Azzun Atma (Qalqiliya). Per questi ultimi c’era il sospetto che fossero coinvolti nel trasporto di lavoratori illegali in Israele.

A Gerusalemme Est, per mancanza dei permessi di costruzione rilasciati da Israele, il Comune ha consegnato ordini di demolizione contro 13 edifici in Al Bustan, zona di Silwan, minacciando di sfollare circa 100 palestinesi. Negli ultimi anni, Silwan è stato soggetto ad intense attività di insediamento, incluso un progetto per la realizzazione di un complesso turistico in Al Bustan che, se fosse realizzato, comporterebbe lo sfollamento di più di 1.000 residenti palestinesi; altre centinaia di residenti sono a rischio di sfollamento a motivo delle procedure di sfratto avviate da organizzazioni di coloni.

Nel periodo di riferimento sono stati registrati cinque attacchi di coloni israeliani con conseguenti ferimenti di palestinesi o danni alle proprietà; tra questi la vandalizzazione di almeno 200 alberelli di ulivo di proprietà palestinese nel villaggio di Turmus’ayya (Ramallah). Altri due episodi si sono verificati nella zona di Nablus: l’aggressione fisica di un anziano palestinese vicino al villaggio di As Sawiya e il danneggiamento del raccolto dovuto a bestiame lasciato pascolare su un terreno coltivato presso il villaggio di Salim. Altri due episodi collegati a coloni si riferiscono a lancio di pietre contro veicoli palestinesi, presso il villaggio di Nahhalin (Betlemme) e il villaggio di Deir Istiya (Salfit), con relativo danneggiamento di due veicoli.

Coloni israeliani hanno collegato una rete idrica alla sorgente naturale di “Ein al Sha’ra” nel villaggio di Madama (Nablus), per pompare l’acqua verso l’insediamento colonico Yitzhar. Una indagine effettuata da OCHA nel 2011* aveva rilevato che, in Cisgiordania, trenta sorgenti erano sotto il pieno controllo di coloni ed inaccessibili ai palestinesi, mentre altre 26 sorgenti erano a rischio di acquisizione / impossessamento da parte di coloni.

* nota: in calce al presente report sono riportate le prime righe di tale indagine

I media israeliani hanno riferito che, durante il periodo di due settimane, si sono verificati quattro episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: non sono state provocate vittime, ma sono stati segnalati danni a parecchi veicoli.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto per tre giorni (10, 11 e 12 dicembre) per i casi umanitari: è stata consentita l’uscita dalla Striscia di Gaza a 2.021 persone ed il rientro a 1.510. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, dall’inizio del 2016, circa 20.000 persone sono registrate ed in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

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* Quanto segue è tratto dall’indagine OCHAoPt: “Come avviene l’espropriazione – impatto umanitario dell’impossessamento delle sorgenti da parte dei coloni”

“Negli ultimi anni, in Cisgiordania, un numero crescente di sorgenti d’acqua locate nei dintorni di insediamenti israeliani sono diventate bersaglio di azioni di coloni che hanno eliminato, o mettono a rischio, l’accesso a queste sorgenti ed il loro utilizzo da parte dei palestinesi. Un’indagine effettuata da OCHA nel corso del 2011 ha individuato un totale di 56 di tali sorgenti che, in grande maggioranza, si trovano in Area C (93%), su appezzamenti di terreno registrati dall’Amministrazione Civile Israeliana (ICA) come proprietà privata di palestinesi (almeno 84%).

Trenta (30) di queste sorgenti sono risultate essere sotto il pieno controllo dei coloni ed i palestinesi non hanno possibilità di accedere ad esse. In tre quarti di questi casi (22 sorgenti), i palestinesi sono stati dissuasi dall’accesso alle sorgenti tramite atti di intimidazione, minacce e violenze perpetrate da coloni israeliani. Nei restanti 8 casi di sorgenti sotto il pieno controllo dei coloni, l’accesso dei palestinesi è stato impedito da ostacoli fisici, tra cui la recinzione delle aree in cui si trovano le sorgenti e la loro annessione de facto agli insediamenti colonici (quattro casi) o l’isolamento, causato dalla Barriera, delle aree sorgive dal resto della Cisgiordania e la loro successiva designazione come “zona militare chiusa” (quattro casi).

Le altre 26 sorgenti sono a rischio di impossessamento da parte di coloni. Questa categoria comprende le sorgenti che sono diventate l’obiettivo di sistematici “tour” da parte di coloni, e/o di pattugliamento da parte degli incaricati della sicurezza degli insediamenti colonici. Mentre, al momento del sondaggio, i palestinesi potevano comunque accedere ed utilizzare queste sorgenti, agricoltori e residenti palestinesi hanno riferito che la presenza costante di gruppi di coloni armati nella zona ha un effetto intimidatorio che ne scoraggia l’accesso e l’uso.

Contemporaneamente all’eliminazione o alla riduzione degli accessi dei palestinesi, in 40 delle 56 sorgenti individuate nell’indagine, coloni israeliani hanno cominciato a modificare le aree circostanti come “aree di attrazione turistica”. Lavori realizzati per questo scopo comprendono, tra gli altri, la costruzione o la ristrutturazione di piscine; la messa in opera di tavoli da picnic e di ripari per l’ombreggiatura; la pavimentazione di strade che conducono alla sorgente; l’installazione di cartelli che riportano il nome ebraico della sorgente … ”

Indagine completa (in lingua inglese):

https://www.ochaopt.org/documents/ocha_opt_springs_report_march_2012_english.pdf

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Il sionismo nella sua espressione migliore

di Amira Hass, 30 novembre 2016 , Haaretz

La terra che Israele ha destinato ai giubilanti coloni si chiama Atir/Umm al Hiran e per 60 anni ha ospitato i membri della tribù beduina di Al-Qi’an.

I video prodotti dal gruppo di coloni di Hiran mostra molti ebrei festanti, che amano cantare e suonare, raccontare barzellette e divertirsi. Saranno presto ancor più contenti, quando si sposteranno nel luogo della loro comunità defintiva nel nordest del Negev.

La terra che lo stato ha destinato a loro si chiama Atir/Umm al-Hiran e per 60 anni ha ospitato i membri della tribù beduina di Al-Qi’an. In altri termini, le case ed i parchi giochi per i bambini ebrei che verranno costruiti là, ed i parchi che vi verranno piantati, saranno tutti edificati sulle rovine delle case e delle vite di circa 1000 altre persone, che sono anch’esse cittadini israeliani (alcuni dei quali hanno servito nell’esercito, se a qualcuno importa).

Adesso ogni giorno i bulldozer dell’Amministrazione per la Terra di Israele, e/o i suoi subappaltatori, vanno a demolire le case di questi cittadini beduini per fare spazio alla fiorente comunità di giubilanti cittadini ebrei. In una parola, il sionismo.

Non si tratta di un atto di guerra o nemmeno di spirito di vendetta; tutto è stato pianificato attentamente e con calma. Il governo di Ariel Sharon ha preso la decisione, il Consiglio per la Pianificazione e l’Edificazione Nazionale ha approvato e le commissioni per i ricorsi hanno respinto tutte le contestazioni presentate.

Il piano per distruggere le vite dei beduini, per i quali il Negev è stata la casa per centinaia di anni, per favorire e promuovere un gruppo di ebrei raccolti da tutto il paese viene anche approvato e sancito da sei giudici di tre differenti tribunali: Israel Pablo Akselrad della Corte di giustizia di Kyriat Gat; i giudici Sarah Drovat, Rachel Barkai e Ariel Vago della Corte distrettuale di Be’er Sheva e i giudici Elyakim Rubinstein e Neal Hendel della Corte Suprema (il giudice Daphne Barak-Erez si è opposta alla demolizione).

Questi giudici sapevano che la tribù di Al-Qi’an viveva a Umm al-Hiran dal 1956, dopo esservi stata trasferita su ordine del governatore militare. Dopo il 1948 quei pochi beduini che Israele non ha espulso verso Gaza, la Cisgiordania o la Giordania furono obbligati a rimanere in un’area a loro destinata del Negev, che gradualmente è stata ridotta. La tribù di Al-Qi’an è stata costretta ad abbandonare le terre in cui aveva vissuto per parecchie generazioni e su cui è stato costruito il kibbutz Shoval. Dopo anni di nomadismo ed espulsioni, è arrivato il permesso di stabilirsi nell’area di Wadi Yatir. Ciononostante lo stato non ha mai riconosciuto ufficialmente il loro villaggio. Ciò significa 60 anni senza elettricità, senza servizio idrico e senza finanziamenti governativi per l’istruzione, la salute o il welfare. Oltre a questo, tutte le strutture sono definite “illegali”.

La “Nazione delle Startup” (slogan israeliano, ndtr.) vuole trasferirli nel villaggio beduino di Hura. Ecco quindi un’altra mini-lezione di sionismo: gli ebrei israeliani possono decidere da soli dove e come vivere. Gli arabi? Dovrebbero esserci grati perché non li espelliamo; loro vivranno dove e come decidiamo noi.

Il giudice Akselrad ha scritto: “Possiamo dire che l’interesse personale dei ricorrenti riguardo al fatto che i tetti sopra le loro teste non vengano demoliti non ha rilievo in queste circostanze, e in ogni caso non può prevalere rispetto al pubblico interesse di impedire che si costruisca su terreni statali.”

E i giudici di Be’er Sheva: “Una volta stabilito che il permesso concesso ai ricorrenti di usare il terreno è revocabile, il convenuto ha il diritto di richiedere il loro sfratto dal terreno…L’accusa che il convenuto abbia motivazioni nascoste o anche palesi per espellerli dalla terra al fine di stabilirvi una comunità di ebrei….(deve essere dibattuta) in un differente tribunale.”

E che cosa hanno detto i due giudici del tribunale speciale, la Corte Suprema? Si sono nascosti dietro la motivazione procedurale che i residenti avevano presentato in ritardo i loro ricorsi contro la distruzione delle loro case e delle loro vite.

La decisione presa a maggioranza da Rubinstein e Hendel, che consente la demolizione del villaggio, è stata pronunciata nel maggio 2015. Ora i bambini e gli adulti di Umm al-Hiran sanno che da un momento all’altro i bulldozer e i funzionari ebrei che recano ordini ufficiali arriveranno per cacciarli via.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)