Israele non ha mai avuto intenzione di rispettare né il Piano di partizione del 1947 né i confini del 1967

Thomas Suárez

10 ottobre 2019 Middle East Monitor

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva promesso che avrebbe annesso parti della Cisgiordania occupata se fosse stato rieletto alle elezioni del mese scorso, suscitando indignazione nei leader di tutto il mondo. Tuttavia, quella “promessa” di usurpare non solo la Cisgiordania ma tutta la Palestina, è una notizia vecchia di un secolo, una promessa mantenuta e comunque nessuna indignazione internazionale ha mai avuto una qualche importanza.

Un logoro capitolo del mito della creazione di Israele spiega così le sue conquiste: quando, nel novembre del 1947, le Nazioni Unite proposero di dividere la Palestina in due Stati (Risoluzione dell’Assemblea Generale 181), i fondatori di Israele accettarono l’offerta con gratitudine, mentre i palestinesi la derisero e attaccarono il nascente “Stato ebraico”.

Il risultato di questa presunta intransigenza palestinese? La “cosa fondamentale”, come affermano gli spin-doctor israeliani di CAMERA [Comitato per la correttezza di corrispondenze e analisi in Medio Oriente,ndtr.], è che se i palestinesi avessero accettato la divisione, dal 1948 ci sarebbe stato uno Stato palestinese, “e non ci sarebbe stato neppure un rifugiato palestinese”.

Questa è più che una bizzarra razionalizzazione di sette decenni di imperialismo e pulizia etnica; è un’invenzione storica. Il movimento sionista non ha mai avuto alcuna intenzione di rispettare qualsiasi accordo che gli “desse” meno dell’intera Palestina. Importanti leader come il “moderato” Chaim Weizmann e l’iconico David Ben-Gurion finsero di accettare la partizione perché consegnava loro un’arma abbastanza potente per ostacolare la divisione: lo Stato.

Quando la Gran Bretagna accettò di diventare un benefattore del sionismo, codificato con l’ambigua Dichiarazione Balfour del 1917, i suoi negoziatori sapevano benissimo che i sionisti avevano pianificato di usurpare e ripulire etnicamente la Palestina, e che al contrario le assicurazioni della Dichiarazione erano una bugia. Come lamentava Lord Curzon [politico conservatore britannico e ministro degli Esteri dal 1919 al 1924, ndtr.], i propagandisti del sionismo “hanno cantato una melodia diversa in pubblico” – una melodia che i principali media continuano a canticchiare oggi.

Nel 1919, gli attivisti come Weizmann erano già esasperati dall’incapacità della Gran Bretagna di stabilire uno Stato sionista dal Mediterraneo al fiume Giordano [cioè su tutta la Palestina storica, ndtr.] – per cominciare – e spingevano perciò verso un “piano di emigrazione globale” dei non ebrei per avere la pulizia etnica fatta e finita. La menzogna pubblica fu mantenuta; il colonnello britannico Richard Meinertzhagen assicurò Weizmann che il vero piano era “ancora taciuto al grande pubblico”. Né il pubblico fu informato quando, nello stesso anno, la commissione King-Crane degli Stati Uniti andò nella regione per scoprire da sé che “i sionisti non vedevano l’ora di una espropriazione praticamente completa degli attuali abitanti non ebrei della Palestina”. Il rapporto della Commissione venne insabbiato.

Fu nel 1937 che i disordini causati dall’espropriazione portarono gli inglesi a proporre di spartire la terra. Ben-Gurion vide il potenziale nascosto nella partizione: “A seguito dell’istituzione dello Stato”, disse all’esecutivo sionista, “aboliremo la divisione e ci espanderemo in tutta la Palestina”. Fece la stessa promessa a suo figlio Amos.

Quando Ben-Gurion, Weizmann e gli altri si incontrarono a Londra nel 1941 per discutere un piano futuro, il cinico distacco fu agghiacciante. Avrebbero gli “arabi” avuto uguali diritti nello “Stato ebraico”? Certo, ma solo dopo che non ne fosse rimasto più nessuno. La partizione sarebbe stata ragionevole? Certamente, se il confine fosse stato il fiume Giordano (che significava il 100 % della Palestina ad Israele), estensibile perfino nel regno hascemita della Giordania. Un partecipante sfidò i sionisti; l’industriale Robert Waley Cohen li accusò di seguire un’ideologia nazista.

Nel 1944, gli inglesi sapevano che l’opposizione alla spartizione si era “indurita a tutti i livelli dell’opinione pubblica ebraica [sionista]” e che le nuove risoluzioni tra i leader dei coloni ponevano “un’enfasi speciale sul rifiuto della spartizione”. Ma il fallimento della spartizione sarebbe diventato un problema palestinese. Gli inglesi sarebbero tornati a casa.

Ben-Gurion descrisse lo Stato come uno “strumento”, non il “fine”, una distinzione “particolarmente rilevante per la questione dei confini”, che sarebbero invece stati fissati “prendendo il controllo del paese con la forza delle armi”. Quasi nessun pretesto è stato accampato fuori dalle mura delle Nazioni Unite: il presidente dell’Organizzazione Sionista d’America Abba Silver condannò pubblicamente qualsiasi menzione di partizione e chiese una “linea di azione aggressiva e militante” per prendere possesso di tutta la Palestina. Le milizie dell’Agenzia Ebraica erano impegnate a fare proprio questo, stabilendo freneticamente roccaforti in aree che le Nazioni Unite avevano assegnato ai palestinesi.

“La pace del mondo”, mise in guardia il futuro primo ministro israeliano Menachem Begin alle Nazioni Unite nell’estate del 1947 – dopo che il terrorismo sionista aveva già raggiunto l’Europa e la Gran Bretagna – sarà minacciata se “la [biblica] Patria Ebraica” non fosse stata data completamente ai sionisti. “Qualunque cosa possa essere firmata o promessa” alle Nazioni Unite, avvertì il Jewish Standard, sarebbe stata annullata da “il potere e la passione che si oppongono alla partizione” per una “risoluzione senza compromessi”.

Questo fanatismo di massa per “ristabilire” un antico regno ed essere la sua ipotetica popolazione era il risultato di quello che potrebbe essere descritto come un lavaggio del cervello. Già nel 1943 l’intelligence americana aveva segnalato che il sionismo stava alimentando “uno spirito molto simile al nazismo, (per) irreggimentare la comunità (e) ricorrere alla forza” per raggiungere i propri obiettivi. Avvertimenti simili sulla morsa fascista del sionismo sugli ebrei provenivano da individui interni ad esso, tra cui J.S. Bentwich, ispettore capo delle scuole ebraiche e presidente dell’Università ebraica Judah Magnes.

Il giorno prima che fosse approvata la risoluzione 181, la CIA avvertì nuovamente che i sionisti avrebbero ignorato la divisione e “intraprenderanno una forte campagna di propaganda negli Stati Uniti e in Europa” per ottenere più territorio. Poi però, come oggi, gli americani furono mantenuti all’oscuro: “Gli americani”, ha osservato nel 1948 Kermit Roosevelt, esponente dell’intelligence statunitense, non si rendono conto “della misura in cui è stata rifiutata l’accettazione della partizione come soluzione definitiva da parte dei sionisti in Palestina”.

Ironicamente, è stato perché le Nazioni Unite non hanno mai creduto che i sionisti avrebbero onorato i confini della spartizione che hanno “dato loro” un’area di terra sproporzionatamente ampia, sperando che ciò potesse ritardare la loro inevitabile aggressione. Ma l’inchiostro era a malapena asciutto quando il sindaco di Tel Aviv, presunta capitale del nuovo Stato, annunciò che la sua città “non sarebbe mai stata la capitale ebraica”. Lo sarebbe stata Gerusalemme, una violazione diretta della risoluzione delle Nazioni Unite per la partizione, che l’aveva designata come zona internazionale. L’Agenzia Ebraica affermò anche che “un certo numero di istituzioni nazionali” sarebbero state a Gerusalemme.

Il duplice atteggiamento nei confronti della loro “vittoria” alle Nazioni Unite non fu particolarmente celato. Sia il “liberale” Haaretz che il quotidiano sionista [della destra, ndtr.] Haboker, diedero un medesimo messaggio: “I giovani dello Yishuv [l’insediamento ebraico in terra d’Israele, ndtr.] devono mantenere nei loro cuori la profonda convinzione che le frontiere non sono state fissate per l’eternità”, affermava Haboker. Indipendentemente dal tempo ci vorrà, il resto sarà “restituito all’ovile”.

Una volta garantito uno Stato israeliano, gli avvertimenti della CIA si fecero anche più infausti: gli agenti sionisti si stavano infiltrando fra il personale militare americano e dell’American Airlines. L’ex senatore americano Guy Gillette lavorava apertamente per il gruppo terroristico Irgun e spinse per il riconoscimento generale della sovranità israeliana su tutte le terre che le sue milizie potessero conquistare.

Gerusalemme rimaneva la preoccupazione più pressante di Israele. Mentre la terra sotto il dominio “arabo” avrebbe potuto essere ad un certo punto usurpata, una Gerusalemme amministrata dalle Nazioni Unite no. E così quando il mediatore delle Nazioni Unite conte Folke Bernadotte stilò un nuovo piano di pace nell’autunno del 1948, il gruppo terroristico Lehi [noto anche come Banda Stern, ndtr.] lo minacciò, opponendosi ad una “amministrazione non ebrea”. Tuttavia, nella Risoluzione 181 Bernadotte mantenne la zona internazionale e il giorno successivo il Lehi, sotto la guida del futuro primo ministro israeliano Yitzhak Shamir, lo assassinò.

Alla fine del 1948 Israele aveva rubato più di metà della terra che aveva “accettato” di lasciare ai palestinesi e si rifiutò di lasciarla. Questo fu all’origine del termine fuorviante “confini del 1967”; in verità erano la linea del cessate il fuoco. La partizione era una farsa e i negoziatori palestinesi avevano ragione a respingerla, ma la loro onestà fu, dal punto di vista machiavellico, un errore tattico su cui i sionisti contavano. In breve, Israele non ha mai avuto intenzione di rispettare né il piano di partizione del 1947 né i confini del 1967. Il cosiddetto Grande Israele in tutta la Palestina storica e oltre è sempre stato l’obiettivo del sionismo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Come i cristiani evangelici rischiano di incendiare il Medio Oriente

Jonathan Cook

8 luglio 2019 – Middle East Eye

TB Joshua è l’ultimo di una serie di predicatori filo-sionisti che si interessano a Israele – e i palestinesi ne pagheranno le conseguenze

Il recente arrivo del più popolare telepredicatore evangelico africano, TB Joshua, per rivolgersi a migliaia di pellegrini stranieri a Nazareth, ha prodotto un insieme di costernazione e di rabbia nella città dell’infanzia di Gesù.

C’è stata un’opposizione generalizzata da parte di movimenti politici di Nazareth, così come tra i gruppi comunitari e i leader religiosi, che hanno invocato un boicottaggio dei suoi due raduni. Si è aggiunto anche il consiglio dei mufti [autorità religiosa islamica, ndtr.], che ha descritto gli eventi come “una linea rossa per la fede nei valori religiosi.”

I raduni di Joshua, che includono episodi di esorcismo in pubblico, hanno avuto luogo in un anfiteatro all’aria aperta su una collina sopra Nazareth originariamente costruita per i fedeli del papa. Il luogo è stato utilizzato da papa Benedetto nel 2009.

Il pastore nigeriano, che ha milioni di seguaci in tutto il mondo e si autodefinisce un profeta, ha sollevato l’ostilità locale non solo perché il suo modello di cristianesimo si allontana di molto dalle più tradizionali dottrine delle chiese mediorientali. Rappresenta anche una tendenza dei cristiani stranieri, guidati da una lettura apocalittica della Bibbia, che si intromettono ancor più esplicitamente in Israele e nei territori palestinesi occupati – e in un modo che aiuta direttamente le politiche del governo israeliano di estrema destra.

Incremento del turismo di cui c’è molto bisogno

Nazareth è la più grande comunità palestinese in Israele sopravvissuta alla Nakba, o catastrofe, del 1948, che cacciò la maggioranza della popolazione autoctona da gran parte della propria patria e la sostituì con uno Stato ebraico. Oggi un quinto dei cittadini israeliani è palestinese.

La città e le sue immediate vicinanze includono la più alta concentrazione di palestinesi cristiani della regione. Ma ha a lungo patito dell’ostilità delle autorità israeliane, che hanno privato Nazareth di risorse per impedire che diventasse una capitale politica, economica o culturale della minoranza palestinese.

La città praticamente non ha terre su cui espandersi o zone industriali per ampliare le proprie risorse economiche, e Israele ha rigidamente limitato le sue possibilità di sviluppare un’adeguata industria turistica. La maggioranza dei fedeli vi passa brevemente per visitare la basilica dell’Annunciazione, il luogo in cui l’angelo Gabriele avrebbe detto a Maria che avrebbe portato in grembo Gesù.

Le autorità municipali di Nazareth hanno approfittato dell’occasione di sfruttare la pubblicità, e le entrate, fornite dalla visita di Joshua. La speranza a lungo termine del Comune è che, se la città potesse attirare almeno una piccola parte dei più di 60 milioni di cristiani evangelici degli USA e gli altri milioni in Africa ed Europa ciò fornirebbe un’enorme spinta all’economia della città.

Dati recenti mostrano che il turismo evangelico verso Israele è costantemente aumentato, rappresentando ora circa un settimo di tutti i visitatori dall’estero.

Giocare con il fuoco

Ma, come indicano le conseguenze negative della visita di Joshua, Nazareth potrebbe giocare con il fuoco incoraggiando questo tipo di pellegrini a interessarsi maggiormente alla regione. La maggior parte dei cristiani locali comprende che gli insegnamenti di Joshua non sono rivolti a loro – e, di fatto, probabilmente li danneggiano.

Il pastore nigeriano ha scelto Nazareth per diffondere il suo messaggio, ma si è trovato di fronte la viva opposizione di quanti credono che stia utilizzando la città solo come scenario per la sua più grande missione – che appare totalmente indifferente al dramma dei palestinesi, sia di quelli che vivono in Israele in luoghi come Nazareth o di quelli sotto occupazione.

A Nazareth le fazioni politiche hanno sottolineato i “legami di Joshua con circoli di estrema destra e dei coloni in Israele.” Egli avrebbe avuto incontri riguardo al fatto di avviare attività nella Valle del Giordano, il luogo in cui si ritiene che sia stato battezzato Gesù, ma anche la spina dorsale agricola della Cisgiordania. L’area è presa di mira dal governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu per l’espansione delle colonie e la possibile annessione, condannando di conseguenza i tentativi di creare uno Stato palestinese.

Una visione dell’Apocalisse

Durante la sua visita in Israele, Joshua ha anche avuto modo di parlare con figure importanti del governo, come Yariv Levin, uno stretto alleato di Netanyahu, che è stato titolare di due ministeri considerati fondamentali dalla comunità evangelica: quello del turismo e quello dell’integrazione in Israele di nuovi ebrei immigrati dagli USA e dall’Europa.

Nella comunità evangelica molti, compreso Joshua, pensano che sia loro dovere incoraggiare gli ebrei a spostarsi dai loro Paesi d’origine alla Terra Promessa per anticipare la fine del mondo, che sarebbe stata profetizzata dalla Bibbia.

Questa è l’Assunzione in cielo, quando Gesù ritornerà per costruire il suo regno sulla terra e i buoni cristiani prenderanno il loro posto al suo fianco. Tutti gli altri, compresi gli ebrei che non si saranno pentiti, è implicito, bruceranno nel fuoco eterno dell’inferno.

Il dirupo sulla valle di Megiddo, dove Joshua e i suoi discepoli si sono riuniti, offre una veduta su Tel Megiddo, il nome attuale del sito biblico di Armageddon, dove molti evangelici credono avverrà presto la fine del mondo.

Accelerare la seconda venuta

Questi cristiani non sono semplici osservanti di un progetto divino rivelato, sono parte attiva, cercando di avvicinare la fine del mondo.

Difatti i traumi del conflitto israelo-palestinese – i decenni di spargimenti di sangue, colonizzazione ed espulsione violenta dei palestinesi – non possono essere compresi separandoli dall’influenza dei dirigenti cristiani dell’Occidente in Medio Oriente nello scorso secolo. Essi hanno progettato in molti modi l’Israele che oggi conosciamo.

Dopotutto i primi sionisti non furono ebrei, ma cristiani. Un forte movimento cristiano-sionista – noto allora come “restaurazionismo” – sorse all’inizio del XIX° secolo, anticipando e influenzando pesantemente la sua successiva controparte ebraica.

La particolare lettura “restaurazionista” della Bibbia comportava che essi credessero che la seconda venuta del Messia avrebbe potuto essere accelerata se il popolo eletto da dio, gli ebrei, fosse tornato alla Terra Promessa dopo 2.000 anni di presunto esilio.

Charles Taze Russell, un pastore USA della Pennsylvania, viaggiò in tutto il mondo dagli anni ’70 dell’Ottocento in poi implorando gli ebrei di fondare un focolare nazionale per sé stessi in quella che allora era la Palestina. Produsse persino un progetto su come uno Stato ebraico potesse essere creato là. Lo fece circa 20 anni prima che il giornalista ebreo viennese Theodor Herzl pubblicasse il suo famoso libro che delineava uno Stato Ebraico.

Il laico Herzl non si interessava molto di dove questo Stato ebraico sarebbe stato fondato. Ma i suoi seguaci – profondamente consapevoli della presa del sionismo cristiano nelle capitali occidentali – concentrarono la propria attenzione sulla Palestina, la Terra Promessa biblica, nella speranza di conquistarsi potenti alleati in Europa e negli USA.

Parola d’ordine per i seguaci di Herzl

L’appoggio dell’impero britannico era particolarmente prezioso. Nel 1840 Lord Shaftesbury, che grazie a sua moglie era in rapporto con Lord Palmerston, in seguito primo ministro, pubblicò sul “London Times” un’inserzione che sollecitava il ritorno degli ebrei in Palestina.

Il sionismo cristiano fu un importante fattore che influenzò il governo inglese nel 1917 per l’emanazione della Dichiarazione Balfour – di fatto un impegno della Gran Bretagna che divenne la matrice per la creazione di uno Stato ebraico sulle rovine della patria della popolazione autoctona.

Scrivendo a proposito della dichiarazione, lo storico israeliano Tom Segev ha osservato: “Gli uomini che l’hanno prodotta erano cristiani e sionisti e, in molti casi, antisemiti.” Ciò perché i cristiani sionisti partivano dal presupposto che gli ebrei non si potessero integrare nei loro Paesi d’origine. Invece avrebbero potuto servire come strumenti del volere di dio, spostandosi in Medio Oriente in modo che i cristiani potessero essere redenti.

Edwin Montagu fu l’unico ministro del governo britannico ad opporsi alla Dichiarazione Balfour, ed era anche l’unico membro ebreo. Avvertì – per buone ragioni – che il documento si sarebbe “dimostrato un terreno comune per gli antisemiti in ogni Paese al mondo.”

Lotta fino all’Assunzione”

Mentre un secolo fa gli ebrei sionisti guardavano alla potenza imperiale britannica perché li appoggiasse, oggi il loro patrono sono gli USA. I portabandiera del sionismo cristiano hanno goduto di una crescente influenza a Washington a partire dalla guerra dei Sei Giorni del 1967.

Questo processo ha raggiunto il suo apice sotto la presidenza di Donald Trump. Si è circondato di una miscela di estremisti ebrei e cristiani sionisti. Il suo ambasciatore in Israele, David Friedman, e il suo inviato in Medio Oriente, Jason Greenblatt, sono ferventi sostenitori ebrei delle colonie illegali. Ma, a quanto pare, alla Casa Bianca ci sono anche importanti cristiani, come il vice presidente Mike Pence e il segretario di Stato Mike Pompeo.

Prima che entrasse nel governo, Pompeo era stato chiaro riguardo alla sua fede evangelica. Nel 2015 ha detto a una congregazione: “È una lotta senza fine…fino all’Assunzione in cielo. Siatene parte. Partecipate alla lotta.”

Lo scorso marzo ha appoggiato l’idea che Trump possa essere stato mandato da dio per salvare Israele da minacce come l’Iran. “Confido che dio stia lavorando qui,” ha detto alla Rete Televisiva Cristiana [CBN una rete televisiva americana di produzione religiosa evangelica molto conservatrice ndtr].

Nel contempo Pence ha affermato: “La mia passione per Israele sgorga dalla mia fede cristiana…È veramente il più grande privilegio della mia vita essere il vicepresidente di un presidente che si preoccupa così profondamente del nostro più prezioso alleato.”

Il gigante addormentato si risveglia.

Lo scorso anno lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme da parte di Trump, svuotando di significato qualunque accordo negoziato del conflitto israelo-palestinese, era inteso a compiacere la sua base cristiana sionista. Circa l’80% degli evangelici bianchi ha votato per lui nel 2016 ed egli avrà bisogno del loro appoggio di nuovo nel 2020 se spera di essere rieletto.

Non a caso la nuova ambasciata USA a Gerusalemme è stata consacrata da due importanti telepredicatori evangelici, John Hagee e Robert Jeffress, noti per il loro appoggio fanatico a Israele – così come per i loro occasionali accessi antisemiti.

Più di un decennio fa Hagee, fondatore di “Cristiani Uniti per Israele”, disse ai delegati di una conferenza organizzata dall’AIPAC, principale gruppo lobbystico di Israele a Washington: “Il gigante addormentato del sionismo cristiano si è svegliato. Ci sono 50 milioni di cristiani che applaudono in piedi lo Stato di Israele.”

Le attività del gruppo di Hagee includono pressioni sul Congresso per dure leggi a favore di Israele, come la recente legge “Taylor Force” che taglia drasticamente il finanziamento USA all’Autorità Nazionale Palestinese, il governo provvisorio palestinese. Il gruppo è anche attivo nel contribuire a far pressione a favore di leggi a livello statale e federale che penalizzino chiunque boicotti Israele. Per gli evangelici USA e altrove Israele è sempre più una questione fondamentale. Un sondaggio del 2015 mostrava che circa i tre quarti credono che avvenimenti in Israele siano stati profetizzati nel Libro dell’Apocalisse della Bibbia.

Molti si aspettano da Trump che completi una catena di eventi messi in movimento da politici britannici un secolo fa – e in numero sempre maggiore sono direttamente coinvolti nella speranza di accelerare il processo.

Legami più stretti con i coloni

La visione israeliana di una “riunificazione degli esiliati” – incoraggiando gli ebrei di tutto il mondo a spostarsi nella regione in base alla “legge del ritorno” – corrisponde perfettamente alla fede dei cristiani sionisti in un progetto divino per il Medio Oriente.

Anche gli sforzi dei coloni estremisti ebrei di colonizzare la Cisgiordania, la maggior parte di un qualunque futuro Stato palestinese, si accorda con la concezione dei cristiani sionisti della Cisgiordania come il “cuore biblico”, un’area che gli ebrei devono possedere prima che Gesù ritorni.

Per queste ragioni gli evangelici stanno sviluppando rapporti sempre più stretti con gli estremisti religiosi ebrei israeliani, soprattutto nelle colonie. Recenti iniziative hanno incluso programmi di studio della Bibbia, on line e presenziali, condotti da ebrei ortodossi, spesso coloni, destinati specificamente a cristiani evangelici. I seminari sono disegnati per rafforzare la narrazione dei coloni, così come per demonizzare i musulmani e, per estensione, i palestinesi.

Il corso più popolare offerto da “Root Source” [Sorgente Principale], una di queste iniziative, è intitolato “Islam: idee e inganni”. Utilizza il Vecchio e il Nuovo Testamento per sostenere l’argomentazione secondo cui l’Islam “è estremamente pericoloso”.

Pochi mesi fa Haaretz, il principale giornale progressista israeliano, ha pubblicato un’inchiesta sul crescente afflusso di volontari e finanziamenti evangelici nelle colonie illegali in Cisgiordania – il principale ostacolo per raggiungere una soluzione dei due Stati.

Una sola organizzazione USA, “Hayovel”, ha portato più di 1.700 volontari cristiani negli ultimi 10 anni per contribuire a una colonia nei pressi di Nablus, nel cuore della Cisgiordania.

Affluisce denaro degli evangelici

Un crescente numero di iniziative simili è stato agevolato da nuove norme introdotte lo scorso anno dal governo israeliano per finanziare gruppi cristiani sionisti come Hayovel perché promuova all’estero le colonie.

È molto più difficile sapere esattamente quanto denaro degli evangelici affluisca nelle colonie, a causa della mancanza di trasparenza riguardo alle donazioni USA fatte da chiese e istituzioni benefiche. Ma l’inchiesta di Haaretz stima che nell’ultimo decennio siano stati investiti più di 65 milioni di dollari.

Dieci anni fa Ariel, una colonia posta nel pieno centro della Cisgiordania, ha ricevuto da John Hagee Ministries [Sermoni di John Hagee] 8 milioni di dollari per un centro sportivo. Un altro gruppo evangelico, “J. H. Israel”, vi ha speso 2 milioni di dollari per un centro per una leadership nazionale.

Altre associazioni benefiche cristiane che storicamente hanno finanziato progetti in Israele stanno sempre più prendendo in considerazione anche l’assistenza alle colonie.

Se un piano di pace di Trump, che dovrebbe essere reso pubblico alla fine di quest’anno, sostenesse l’annessione di parti della Cisgiordania, come ampiamente previsto, probabilmente scatenerebbe un nuovo e anche maggiore flusso di denaro degli evangelici nelle colonie.

Immune alla ragione

Proprio questo è il problema per i palestinesi, e per il Medio Oriente in generale. I cristiani sionisti si stanno ancora una volta immischiando, che si tratti di funzionari del governo, leader o comunità di una chiesa. L’influenza degli evangelici si può riscontrare dagli USA e il Brasile all’Europa, all’Africa e al Sudest asiatico.

I governi europei generalmente hanno preoccupazioni più concrete e pressanti che realizzare profezie bibliche per giustificare politiche di divide et impera in Medio Oriente. Vogliono soprattutto il controllo sulle risorse petrolifere della regione, e possono garantirsele solo attraverso il potere militare per impedire che Nazioni rivali vi si affermino.

Ma l’acritico sostegno di decine di milioni di cristiani in tutto il mondo, la cui passione per Israele è immune alla ragione, fanno il lavoro per quei governi accettando come niente fosse guerre e furto di risorse.

Sia Israele che l’Occidente hanno tratto beneficio dall’aver creato l’immagine di un impavido Stato ebraico circondato da barbari arabi e musulmani decisi a distruggerlo. In conseguenza di ciò, Israele ha goduto di una sempre crescente integrazione nel blocco delle potenze occidentali, mentre ai governi occidentali sono stati offerti facili pretesti per interferire nella regione, direttamente o delegando questa intromissione a Israele.

La ricompensa per Israele è stata l’appoggio incondizionato da parte degli USA e dell’Europa, mentre opprime ed espelle dalle loro terre i palestinesi.

Con una base evangelica dietro di lui, Trump non ha la necessità di offrire argomenti plausibili prima di agire. Può spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme o approvare l’annessione della Cisgiordania, o attaccare l’Iran.

Schierarsi contro i nemici di Israele

Da questo punto di vista qualunque nemico Israele sostenga di avere – i palestinesi o l’Iran – diventa automaticamente acerrimo nemico di decine di milioni di cristiani evangelici. Netanyahu comprende la crescente importanza di questa acritica lobby straniera, mentre la posizione sua e di Israele precipita tra gli ebrei USA progressisti, inorriditi dalla deriva verso destra dei governi che vi si susseguono.

Nel 2017 Netanyahu ha detto a una folla di evangelici a Washington: “Quando dico che non abbiamo migliori amici dei sostenitori cristiani di Israele, so che siete sempre stati con noi.” Per i palestinesi questa è una brutta notizia. La maggior parte di questi evangelici, come T.B. Joshua, sono in larga misura indifferenti o ostili al destino dei palestinesi – anche dei palestinesi cristiani, come quelli di Nazareth.

Un recente editoriale di Haaretz ha evidenziato che Netanyahu e i suoi politici stanno ora “adoperandosi per rendere gli evangelici – che appoggiano il rifiuto radicale di Israele riguardo ai palestinesi – l’unica base dell’appoggio americano per Israele.”

La verità è che questi cristiani sionisti vedono la regione attraverso un unico, esclusivo prisma: qualsiasi cosa contribuisca all’imminente arrivo del messia è ben accetta. L’unico problema è tra quanto tempo il “popolo eletto” da dio si riunirà nella Terra Promessa.

Se i palestinesi ostacolano Israele, queste decine di milioni di cristiani stranieri saranno assolutamente contenti di vedere la popolazione autoctona di nuovo cacciata – come lo è stata nel 1948 e nel 1967.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jonathan Cook

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. È l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’antisionismo è una forma di antisemitismo?

Azmi Bishara

15 marzo 2019, il lavoro culturale

Durante la visita del 27 febbraio scorso al cimitero ebraico di Quatzenheim, nel dipartimento francese del Basso Reno, il presidente Francese Emmanuel Macron ha promesso di prendere «misure legali» per combattere l’antisemitismo, dichiarando: «agiremo, approveremo delle leggi e puniremo». Successivamente Macron ha visitato il Memoriale dell’Olocausto a Parigi assieme ai Presidenti del Senato e dell’Assemblea Nazionale.

Il giorno seguente, in un discorso alla 34° cena annuale del CRIF (Conseil Représentatif des Institutions Juives de France, n.d.r.), Macron ha promesso che la Francia adotterà una definizione di antisemitismo nella sua legislazione in conformità con quella utilizzata dall’International Holocaust Remembrance Alliance. Questa include l’antisionismo, che Macron ha definito «una delle forme moderne di antisemitismo».[1] Non c’è alcun dubbio che i ripugnanti graffiti che hanno dissacrato quelle tombe costituiscano un crimine d’odio antisemita. Ma in che modo questo ha a che fare con l’antisionismo e certe posizioni verso Israele?

A prescindere dal fatto che Macron voglia veramente, o addirittura possa far approvare una legge del genere, sembra che il presidente francese abbia ben poche conoscenze sia sull’antisionismo sia sull’antisemitismo. Macron sarà sorpreso di apprendere che, non solo alcuni dei più importanti pensatori antisionisti sono degli intellettuali ebrei di varie sensibilità politiche, ma che lo stesso antisionismo, come il sionismo, è un fenomeno ebraico, sviluppatosi originariamente come risposta ebraica al sionismo. Sarà difficile per Macron classificare l’antisionismo come forma di antisemitismo dato che non esiste alcuna connessione tra le due idee.

È vero che prima e dopo la creazione di Israele, e in un contesto di intensa attività sionista in Palestina, ci sono state alcune intersezioni tra il rifiuto indigeno del sionismo in quanto progetto coloniale (non ebraico) e alcuni tratti della propaganda antisemita europea. Questa propaganda ha fornito terminologie e teorie del complotto pronte per l’importazione in Palestina, ma non c’era alcuna relazione storica o teorica tra i due fenomeni. Il rifiuto arabo e palestinese del sionismo non era una questione di ostilità etnica, religiosa o sociale verso gli ebrei ma di rifiuto della conquista coloniale del loro Paese, proprio come gli algerini rifiutavano di accettare l’insediamento di coloni nel loro Paese e altri popoli hanno fatto e farebbero a prescindere dalla loro religione o dalla religione dei coloni.

Tutte le risoluzioni approvate dalle conferenze palestinesi e siriane degli anni Venti rappresentano i primi esempi di distinzione tra ebrei “nazionali” (ovvero indigeni) e coloni ebrei. Il ripugnate (per quanto raro) utilizzo da parte di una certa retorica del nazionalismo arabo di elementi tratti dal linguaggio dell’estrema destra europea, specialmente dopo la sconfitta del 1967, rappresenta la generalizzazione di una propaganda ostile nel contesto di un conflitto militare. La propaganda interna israeliana invece è stata tutt’altro che timida nell’utilizzare un linguaggio e un immaginario razzista per colpire arabi e musulmani. Il razzismo antiarabo ha infatti penetrato il sistema educativo israeliano, la retorica militare e mediatica e molti lavori di letteratura.[2]

Gli ebrei antisionisti hanno giustificato la loro posizione sulla base di argomentazioni religiose, morali e intellettuali, sia da sinistra sia da posizioni liberali. Proprio come esistono degli ebrei antisionisti, in Europa e negli Stati Uniti ci sono anche molti antisemiti che ammirano sia Israele sia il sionismo. Il motivo di questa ammirazione può essere il poderoso stato coloniale che il sionismo ha costruito, il militarismo israeliano, o il modello che Israele ha offerto nella lotta al terrorismo e ai musulmani. In alcuni casi dietro l’ammirazione si nasconde un doppio fine, dato che il sionismo agisce per svuotare l’Europa della sua popolazione ebraica. Questo è quello che gli antisemiti vogliono. I movimenti antisemiti hanno osservato con soddisfazione gli ebrei concentrarsi in un Paese del Medio Oriente, così da non essere più una seccatura per l’Europa.

Non sussiste alcuna sovrapposizione sostanziale tra antisemitismo e antisionismo. Quindi perché sostenere che l’antisionismo sia un fenomeno ebraico?

Il sionismo emerse in seguito alla creazione di una nuova definizione di giudaismo che storicamente ha trasformato il significato dell’ebraicità. È logico che la prima reazione a questo avvenimento sarebbe apparsa in seno alla comunità ebraica. Per i credenti, il sionismo ha riformulato l’essere ebreo dall’essere “il popolo eletto di Dio”, “il popolo del libro” o “un popolo come nessun altro” all’essere parte di una nazione etnica che, come altre nazioni europee del diciannovesimo secolo, cerca di acquisire la sovranità nazionale nella forma di uno Stato-nazione (fuori dall’Europa nel caso di Israele). Anche per i laici il sionismo ha riformulato il giudaismo e lo ha trasformato dall’essere una religione – che non avrebbe dovuto rappresentare un ostacolo all’integrazione nelle nazioni degli Stati laici di cui erano cittadini – in un’identità etnica.

Le prime posizioni antisioniste apparvero all’interno delle principali correnti religiose ebraiche, non solo perché il sionismo è un movimento secolare, ma anche perché il sionismo ha commesso il peccato imperdonabile di secolarizzare il giudaismo stesso, trasformando la religione in una nazionalità etnica.

Le correnti religiose ebraiche hanno modificato la loro idea di popolo eletto di Dio. Alcuni gruppi credono che Dio abbia posto gli ebrei al di sopra degli altri popoli, mentre altri traggono il significato di “eletto” dai tempi della profezia, facendone derivare dei doveri religiosi ed etici e maggiori obblighi piuttosto che privilegi. Esistono molte altre idee. Tuttavia, c’è un consenso generale nel rifiutare l’idea che l’ebraismo sia una nazione che lotta per l’edificazione di uno Stato in questo mondo. Alcuni di questi movimenti aspettano l’arrivo del Messia per costruire uno Stato paradisiaco e salvare il popolo ebraico. Il sionismo è quindi considerata una falsa profezia, incarnata dal progetto statuale, che si proclama (falso) Messia e interferisce nel lavoro di Dio. La maggioranza delle correnti religiose ebraiche, siano esse chassidiche, pseudomistiche o ultraortodosse modaliste, si sono opposte a questa secolarizzazione della comunità ebraica.[3]

Ci fu una ristretta corrente del pensiero religioso ebraico che si intersecò col sionismo, dando vita al movimento Mizrahi. Questo movimento, secondo l’opinione mia e di molti altri, ha formato il nucleo della successiva sovrapposizione tra nazionalismo e religione nei movimenti dei coloni e nelle organizzazioni di estremisti nazionalisti religiosi in Israele. Prima della crescita di questo movimento, religiosità ebraica e “sionistizzazione” erano completamente separate. L’espansione dei movimenti nazional-religiosi in Israele può essere fatta risalire alla crescita in influenza della Yeshiva Mercaz HaRav a Gerusalemme e all’euforia israeliana in seguito al “miracolo divino” del 1967, che portò all’occupazione di “Giudea e Samaria” (la Cisgiordania) e “alla riunificazione” dell’Israele biblica sotto lo Stato di Israele.

Fino ad allora, il sionismo secolare ha fatto uso della religione per necessità, perché era altrimenti impossibile giustificare la scelta della Palestina come luogo in cui edificare lo Stato senza un collegamento biblico ed anche perché la risposta data dal sionismo e dallo Stato di Israele alla domanda “chi è un ebreo?” – una domanda necessaria per definire la cittadinanza – era la definizione di ebrei come formulata dal giudaismo. Da tempo ho previsto che questi movimenti sarebbero cresciuti e che la loro retorica sarebbe divenuta egemonica come risultato delle pratiche di occupazione e della convergenza tra retorica sionista e retorica religiosa nella giustificazione dell’occupazione di Gerusalemme e della Cisgiordania.[4]

La seconda corrente in contrasto col sionismo è la sinistra ebraica. Alcuni all’interno dei partiti comunisti (in particolare i Bolscevichi russi), consideravano il sionismo un movimento borghese che avrebbe condotto alla separazione dei lavoratori ebrei dalla lotta del proletariato per una società più giusta; per essi, la questione ebraica e l’oppressione di tutte le minoranze poteva risolversi con la fine dello sfruttamento e con la lotta di classe. I bundisti ebrei concepivano l’ebraicità sia in una dimensione religiosa che culturale/nazionale. Essi credevano che la questione ebraica si sarebbe risolta grazie al socialismo, ma che i problemi degli ebrei erano simili a quelli del resto della popolazione russa, e che questi problemi si sarebbero risolti attraverso l’ottenimento dello status legale di minoranza. Essi vedevano il sionismo come un movimento isolazionista che cercava di contribuire alle attività coloniali nel Levante Arabo a non a una soluzione della questione ebraica in Europa.[5]

Nelle province russe, in Polonia e nei Paesi baltici, la sinistra ebraica inquadrata in movimenti e sindacati lasciò crescere alcune correnti sioniste che aspiravano a combinare la liberazione nazionale e di classe attraverso la creazione di colonie socialiste in Palestina. Essi non furono però in grado di risolvere la contraddizione tra ciò che vedevano come liberazione nazionale e di classe e le pratiche di colonizzazione della terra di un altro popolo, rimanendo così prigionieri di questa contraddizione. Il movimento antisionista di sinistra rimase forte per tutto il Ventesimo secolo, poiché il numero degli ebrei nei movimenti di sinistra, comunisti e socialisti d’Europa, inclusa la Francia, era alto rispetto alla proporzione degli ebrei nella popolazione generale. Essi credevano che la soluzione alla questione ebraica risiedesse nel risolvere il problema delle classi sociali in Europa.

Una terza corrente è rappresentata dagli ebrei assimilazionisti composta di liberali, democratici e altre forze non-ideologiche di cui facevano parte il filosofo Hermann Cohen, lo scrittore Karl Kraus e molti altri. Anche lo stesso padre del sionismo, Herzl, era in favore dell’assimilazione prima di assistere al processo Dreyfus in Francia. Molti di essi credevano che la transizione degli europei verso la democrazia liberale avrebbe garantito agli ebrei cittadinanza e integrazione nelle loro società.[6] Era questo il caso della maggioranza degli ebrei tedeschi, francesi e britannici che furono sopresi dal Nazismo rendendoli nuovamente coscienti della loro ebraicità. Le tragiche vicende di persone come Stefan Zweig, forse anche lo stesso Walter Benjamin, ne furono espressioni particolarmente rappresentative. Ma più importanti sono i milioni di ebrei cui nessun scrittore o pensatore dà voce.

Nei lavori in cui Zygmunt Bauman trae alcune lezioni dall’Olocausto, specialmente nel suo Modernità e Olocausto, egli tenta di tenere assieme una posizione generale contro il razzismo, l’estremismo nazionalista e la xenofobia a un’opposizione al trattamento del popolo palestinese da parte di Israele. Nel suo libro Bauman rifiuta la pretesa israeliana di parlare a nome delle vittime e la strumentalizzazione sionista dell’olocausto.[7] Hannah Arendt e altri pensatori lo hanno preceduto con critiche simili che derivavano da una morale universale e dal rifiuto di ogni forma di razzismo, compreso il razzismo ebraico.

Il sionismo ha da allora criticato gli ebrei per essersi fatti ingannare dalle idee socialiste e liberali e dal fallimento delle loro politiche. Gli scrittori sionisti rivendicano il successo del sionismo nell’aver colto l’ideologia dominante dell’epoca, il nazionalismo; i sionisti, una volta una minoranza tra gli ebrei, sono riusciti dove le idee più popolari tra gli ebrei hanno fallito. Secondo la loro visione, il sionismo ha riconosciuto che la soluzione alle questioni etniche non risiedeva nella democrazia liberale o nel socialismo, ma nell’edificazione di uno Stato. Secondo questa visione, il nazismo e l’antisemitismo sono le migliori conferme del fatto che il sionismo sia stata la scelta migliore e che gli assimilazionisti in Germania, Francia e nel resto d’Europa si sbagliavano.

Il dibattito ha fino a ora ignorato la natura di questa “soluzione nazionale” della questione ebraica e la sua natura di progetto coloniale portato avanti a danno di altri, i palestinesi. Al contrario, si continua a riflettere sul sionismo come se fosse una questione europea, interna e soprattutto ebraica.

Come affronterà questi fatti il signor Macron? L’ignoranza non è una scusa per i capi di Stato, soprattutto di uno Stato importante come il suo. Questi dibattiti sono parte della storia della Francia, non solo della Germania. Come dimostra l’esperienza di Herzl, l’antisemitismo francese ha contribuito alla nascita del sionismo. La Francia ha fornito il prototipo di integrazione civile, ma l’antisemitismo ha ciononostante rialzato orrendamente la sua testa durante il caso Dreyfus, “risvegliando” Herzl e facendogli aprire gli occhi su una “realtà” che non aveva mai visto prima: ovvero, che la discriminazione degli ebrei nei Paesi europei era una malattia cronica e incurabile e che gli ebrei sarebbero rimasti degli stranieri in Europa nonostante tutti gli sforzi fatti per essere assimilati.[8]

L’involontario e oggettivo alleato ideologico del sionismo è l’antisemitismo. Il pensatore ebreo Claude Montefiore lo osservò agli inizi del Ventesimo secolo nella sua critica della creazione di una doppia lealtà per gli ebrei.[9] Inoltre, il sionismo sin dalla sua nascita, non solo ha considerato l’antisemitismo una malattia eterna che appesta i popoli dei Paesi dove vivono gli ebrei, ma ha anche plasmato una visione negativa (quasi razzista) dell’ebreo debole, umiliato e reietto che non possiede un carattere e un sentimento nazionale.

antisionismo e antisemitismoIl libro di Herzl descrive lo Stato ebraico dipingendo con tratti dispregiativi gli immigrati ebrei russi in Europa centrale, utilizzando una terminologia che non sarebbe apparsa fuori luogo in un dizionario antisemita.[10] In seguito il sionismo sviluppò il “profilo” dell’ebreo israeliano così sicuro di sé al punto di diventare aggressivo, che lavora la terra e che imbraccia le armi, che riesce a salvarsi dal vittimismo diventando un occupante (un persecutore).

Storicamente, sono stati l’antisemitismo e le ondate persecutorie sofferte dagli ebrei che hanno dato vita al loro progetto. I gruppi ebraici sono stati persuasi a emigrare dai loro Paesi sotto il peso delle diverse ondate di antisemitismo in Europa, che si trattasse delle Centurie Nere in Russia, dei nazisti in Germania o dei razzisti francesi. Ma dopo ogni ondata, erano gli Stati Uniti e non Israele la destinazione preferenziale della maggior parte degli emigranti. Anche quando perseguitati, la maggior parte degli ebrei non divenne sionista. Per essi, il progetto sionista era qualcosa di distinto che cercava di raggiungere degli obiettivi che non avevano niente a che fare con la fine delle loro sofferenze.

È naturale per i non-ebrei non essere sionisti. Il sionismo è un movimento ebraico. Non preoccupa i non-ebrei a meno che non rappresenti una minaccia o comporti idee e pratiche che contraddicano i loro principi. E non ogni intellettuale in disaccordo col sionismo diventa necessariamente ostile o essenzialmente antisionista. Né, certamente, questo comporta posizioni negative nei confronti degli ebrei.

Coloro che odiavano gli ebrei per motivi religiosi, etnici o sociali (le tre fonti dell’antisemitismo), lo facevano ben prima dell’emergere del sionismo. La maggioranza di coloro che erano contrari al sionismo erano ebrei. L’antisemitismo, religioso o sociale, è un fenomeno razzista che esisteva prima del sionismo. Tuttavia, non si tratta più del fenomeno centrale nella vita sociale dell’occidente, e non divenne mai un fenomeno globale, diversamente da quanto Israele ha cercato di sostenere per ragioni politiche.[11]

Non si può affermare che arabi e musulmani del diciannovesimo secolo fossero antisionisti. Non sapevano nemmeno che cosa fosse e il sionismo non significava nulla per loro. Quando l’ostilità nei confronti del sionismo cominciò a crescere in Palestina, questa non era di carattere intellettuale, ma piuttosto si trattava di un’attitudine collettiva di contadini, intellettuali e borghesia nazionale di una popolazione che aveva vissuto in Palestina per secoli e si opponeva alla colonizzazione della propria terra, in particolare dopo aver compreso che si trattava di un progetto politico teso alla creazione di uno Stato risultante dalla Dichiarazione Balfour nel Mandato Britannico.

Allo stesso tempo, la fondazione di uno Stato ebraico in un Paese dove vivevano una maggioranza araba e una piccola minoranza ebraica, poteva solo significare l’espulsione della prima dalla propria terra. La tolleranza era il sentimento prevalente a quel tempo, con ebrei praticanti che vivevano in Palestina da prima del sionismo. Questo è chiaro dati i numerosi quartieri ebraici a Gerusalemme, Hebron, Tiberiade e Safed. Gli arabi non avevano familiarità con l’antisemitismo.

L’impero ottomano e i Paesi arabi hanno vissuto occasionalmente ondate di istigazione e pratiche brutali contro le minoranze religiose, specialmente in tempo di crisi. Tuttavia, si trattava di eccezioni e non della regola.  Non c’erano particolari fenomeni di ostilità antiebraica da potersi definire antisemiti. Bisogna anche ricordare che una delle prime condanne contro gli insediamenti sionisti in Palestina venne dalla comunità ebrea ortodossa di Gerusalemme. Furono i primi a denunciare ideologicamente gli insediamenti sionisti in Palestina in una petizione diretta al Sultano ottomano.[12]

Le posizioni all’interno della comunità ebraica sono cambiate da quando il sionismo è riuscito a fondare uno Stato. Il sionismo rimase un movimento minoritario all’interno dell’ebraismo internazionale fino alla vittoria israeliana nella guerra del 1967, la quale attrasse ampio sostegno per Israele e convinse gli ebrei in tutto il mondo che il progetto era realistico e che non si trattava solo di avventurismo. Ma il più importante cambiamento è avvenuto proprio in Israele. Molti partiti religiosi si sono legati ai servizi forniti dallo Stato, “sionistizzandosi” nella loro partecipazione al nazionalismo israeliano durante la lotta contro gli arabi. La destra e la sinistra israeliana, che avevano solo affinità trascurabili con la sinistra e la destra ebraica prima della fondazione dello Stato ebraico, sono emerse parallelamente al militarismo israeliano e alla vanità del potere, col profilarsi di un conflitto per la definizione del carattere laico o religioso dello Stato.

Herzl appare un laico moderato rispetto alla classe politica di questo Stato. Sosteneva la concessione di eguali diritti civili agli arabi e voleva tenere fuori Gerusalemme e il cosiddetto “Monte del Tempio” per preservare il carattere laico del suo futuro Stato. Ma Israele che occupa tutta Gerusalemme, la Cisgiordania, le Alture del Golan, che assedia Gaza e possiede armamenti nucleari, continua a presentarsi come una vittima e utilizza la memoria dell’Olocausto per rappresentare delle vittime che non hanno mai chiesto questa rappresentanza. Allo stesso tempo taccia di antisemitismo chiunque in occidente critichi le sue politiche.

Le questioni del razzismo e del sionismo si sovrapposero con le politiche internazionali. Il 10 novembre 1975, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la risoluzione 3379 la quale affermava che “il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale”. Questa risoluzione fu abrogata dalla risoluzione 46/86 il 16 dicembre 1991, dopo la caduta del comunismo.[13]

In entrambi i casi, pesarono questioni di alleanze internazionali e il passaggio, nell’equilibrio internazionale del potere, da una fase di alleanza tra Paesi neutrali e il campo socialista negli anni Sessanta e Settanta, in cui l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) raggiunse un certo peso, alla rottura di queste alleanze. Il rapporto tra Israele e Stati Uniti ha giocato un ruolo chiave in tutto ciò, ma l’antisemitismo non era in questione ma lo erano le pratiche di Israele nei confronti dei palestinesi sotto occupazione. Questo non è cambiato, si è piuttosto aggravato, con crescenti livelli di razzismo nella stessa Israele, secondo quanto riferito da indagini israeliane di ogni tipo.[14]

La destra estrema di oggi nei Paesi europei, la cui retorica e cultura politica sono in linea col “profilo” dell’antisemitismo, ammira Israele e Netanyahu. L’antisemita è sbalordito nel vedere Israele che costruisce il muro di separazione in Palestina, guarda con stupore le sue politiche verso gli arabi, esempi che l’Europa e l’America dovrebbero seguire, in amore di Putin e Trump e in odio dei musulmani. L’antisemitismo contemporaneo non è antisionismo, ma xenofobia e, in particolare, islamofobia. L’antisemitismo non può essere combattuto ingraziandosi i favori di lobbisti e politici israeliani durante un meeting. Esso ci impone di combattere tutti i tipi di razzismo, che sia diretto contro gli ebrei, i musulmani, i neri o i bianchi.

[1] “Macron announces measures to combat anti-Semitism in France”, France 24, 21 febbraio 2019: https://amp.france24.com/en/20190220-macron-announces-measures-combat-anti-semitism-france-crif-definition-anti-zionism; and Richard Lough, “France’s Macron says anti-Zionism is a form of anti-Semitism”, Reuters, 21 febbraio 2019: https://uk.reuters.com/article/uk-france-antisemitism-idUKKCN1QA1GX

[2] Daniel Bar-Tal and Yona Teichman, Stereotypes and Prejudice in Conflict: Representations of Arabs in Israeli Jewish Society(Cambridge: Cambridge University Press, 2009). Mazal Mualem, “Anti-Arab racism becomes tool in Israeli elections”, Al-Monitor,  10 febbraio 2015 at: http://bit.ly/2Udgp5i; Nurit Peled-Elhanan, Palestine in Israeli School Books: Ideology and Propaganda in Education, (New York: I.B. Tauris, 2012); Ben White, Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy, forward by Haneen Zoabi (London: Pluto Press, 2012),. Ali Abunimah, “Anti-Arab racism and incitement in Israel”, The Electronic Intifada, 30 marzo 2008: http://bit.ly/2IAmS8V;

[3] La posizione degli ebrei ortodossi è ben nota, come anche la formazione del partito antisionista Agudat Israel nel 1912. Non è possibile citare qui i numerosi esempi della forte ostilità che gli ebrei ortodossi provarono verso il sionismo. Ma lo stesso si può dire dell’ebraismo riformista. Posizioni antisioniste apparvero anche prima del Primo Congresso Sionista del 1897, per esempio alla conferenza conservatrice di Francoforte (1845) e alla conferenza rabbinica di Filadelfia (1869) o alla Piattaforma di Pittsburgh (1885) e in una risoluzione approvata durante la prima Conferenza Centrale del Gruppo Riformista (1890).

[4] Azmi Bishara, “Dawwamat ad-Din wa’d-Dawla fi Isra’il”, ad-Dirasat al-Filistiniyya 1:3 (Summer 1990), p. 24 (accessed on 28/02/2019, https://bit.ly/2Eyv7hv).

[5] La sezione ebraica del Partito Comunista Sovietico (Yevsektsiya), ad esempio, adottò una posizione esplicitamente antisionista nel suo sforzo di mobilitare i lavorati ebrei all’interno delle organizzazioni rivoluzionarie, e invocò una soluzione alla “questione ebraica” sulla base della lotta al capitalismo, all’imperialismo e alla discriminazione razziale e religiosa che includeva la lotta ai capitalisti ebrei alleati col sionismo.

[6] Durante la prima metà del Diciannovesimo secolo, Marx e Bruno Bauer animarono il dibatto su quale fosse la soluzione, la democrazia liberale o il socialismo. Bauer credeva che la cittadinanza in ogni stato democratico europeo fosse sufficiente all’integrazione degli ebrei in quanto cittadini, mentre Marx sosteneva che la società dovesse prima essere liberata del capitale affinché gli ebrei fossero anch’essi liberati.

[7] Zygmunt Bauman, Modernity and the Holocaust (Ithaca, N.Y.: Cornell University Press, 1989).

[8] Il caso Dreyfus iniziò nel 1894 quando il Capitano Alfred Dreyfus, un ebreo francese, fu accusato di tradimento sulla base di accuse secondo le quali avrebbe inviato informazioni sensibili in Germania. Il caso divise gli intellettuali e i politici francesi fino al 1906 e portò Herzl a fare della “soluzione al problema ebraico” la sua ossessione. In proposito si veda: Katrin Schultheiss, “The Dreyfus Affair and History,” Journal of The Historical Society, vol. 12, no. 2 (June 2012), pp. 189-203, visitato il 28 febbraio 2019: https://bit.ly/2HaWd0f; “Herzl,” Neue Freie Presse, June 1899, in: Alex Bein, Theodor Herzl: A Biography (New York: Jewish Publication Society of America, 1941).

[9] Geoffrey Alderman, Modern British Jewry, (New York: Clarendon Press of Oxford University Press, 1992) Rev.ed.1998, p. 232.

[10] Theodor Herzl, A Jewish State: An Attempt at a Modern Solution of the Jewish Question (New York: The Maccabaean Publishing Co, 1904), pp. 12-13.

[11] La deputata americana Ilhan Omar è stata oggetto di un’ampia campagna che l’ha accusata di antisemitismo per via di un tweet critico nei confronti di un gruppo di pressione israeliano (AIPAC), una lobby che lavora apertamente ed ufficialmente per influenzare i politici, le cu attività dovrebbero essere oggetto di critiche, anche pesanti se necessario. Nel giro di dodici ore, la leadership del Partito Democratico ha rilasciato un comunicato in cui rimproverava Omar per il suo tweet, per il quale lei stessa si è scusata. Molti repubblicani hanno continuato ad invocare la sua espulsione dalla commissione affari esteri del Congresso. Si veda in proposito: “Muslim Congresswoman Ilhan Omar in anti-Semitism row after criticising pro-Israel politicians” The New Arab, 12 febbraio 2019: http://bit.ly/2EcDYUV; John Bowden, “Omar deletes tweets at center of anti-Semitism controversy”, The Hill, Feb. 26, 2019, https://bit.ly/2Vmwcif ; Sheryl Gay Stolberg, “Ilhan Omar Apologizes for Statements Condemned as Anti-Semitic”, The New York Times, 11 febbraio 2019: https://nyti.ms/2I9ywY3.

[12] Zvi Sobel, Benjamin Beit-Hallahmi (eds.), Tradition, Innovation, Conflict: Jewishness and Judaism in Contemporary Israel, (New York, State University of New York Press, 2012), pp. 5-7.

[13] “United Nations General Assembly Resolution 3379: Elimination of All Forms of Racial Discrimination”, 10 novembre 1975: http://bit.ly/2Tha6QM ; “General Assembly Resolution 46/86, Revocation of Resolution 3379”, 16 dicembre 1991: http://bit.ly/2SYRWDW.

[14] Si veda: “Huquq al-Insan 2016: Tahdidat wa-Furas”, ACRI, 16/12/2016 (accessed on 26/02/2019 at http://bit.ly/2IErryU); Aviram Zino, “Racism in Israel on the Rise”, Ynet News, 12 August 2007, accessed at: http://bit.ly/2Nu0zAH.

Azmi Bishara, ex membro palestinese del parlamento israeliano è direttore dell’Arab Center for Research and Policy Studies.

( Traduzione di Saverio Leopardi)




Una sofferenza lunga un secolo

Cecilia Dalla Negra

Si chiamava Palestina

Storia di un popolo dalla Nakba a oggi

Edizioni Aut Aut, Palermo 2018, pagg.301

Recensione di Cristiana Cavagna

La giornalista esperta di Palestina Cecilia Dalla Negra ( che tra i suoi tanti lavori ha contribuito alla cura del numero dedicato alle donne palestinesi della storica rivista femminista DWF) torna sulla storia di questo popolo che ancora resiste su una terra “così piccola, e insieme così carica di simboli e significati”.

Prima di parlare del libro, mi permetto una nota personale: pur conoscendo da anni le vicende della Palestina, ho letto questo libro tutto d’un fiato, come si legge un romanzo avvincente, quando vuoi sapere “come va a finire”…. una bellissima sorpresa, anche per l’ottimo stile in cui è scritta. Anche il titolo è avvincente: “si chiamava Palestina” è un verso di una poesia (“Su questa terra”) del poeta palestinese Mahmoud Darwish….

Però questo non è un romanzo, e la tragedia del popolo palestinese – la Nakba (catastrofe) – non “va a finire”, perché continua ancora adesso, con gli oltre 200 morti della “Grande Marcia del Ritorno” a Gaza nel 2018, 70 anni dopo quel 1948.

L’autrice mette proprio la Nakba al centro e al cuore del suo lavoro, dedicato a un pubblico di “non addetti ai lavori”, come ci dice nella premessa metodologica, ma dotato di rigore storico, di un robusto apparato di note e di una bibliografia molto vasta, e si conclude con 6 toccanti testimonianze di storie personali.

La Nakba come “dolore….quello individuale e quello collettivo…divenuto elemento fondante dell’identità individuale e collettiva palestinese..” : passaggio dell’introduzione dell’autrice, messo opportunamente in evidenza nella prefazione di Wasim Dahmash, palestinese nato in Siria, saggista e docente di letteratura araba. Dahmash ci ricorda anche un’altra cosa importante, che la Palestina non è l’unico caso di colonialismo di insediamento nella storia, ma è l’unico a non essersi concluso nel XXI secolo…

Nei 6 capitoli del libro si snoda la storia della “Nakba mustamirra”, la “catastrofe ancora in corso”, nei 70 anni dal 1948 alla Grande Marcia del Ritorno a Gaza iniziata nel 2018: l’occupazione del 1967 con la guerra dei 6 giorni, la prima Intifada, gli accordi di Oslo, la seconda Intifada, la questione di Gaza e la nascita e il ruolo di Hamas.

Tutti “fatti storici”, dai quali si è spesso allontanata tanta stampa internazionale, che ha favorito la narrazione dominante e contribuito alla “disumanizzazione” di un popolo… “ogni volta che l’occupazione è stata descritta come conflitto; ogni volta che un’offensiva contro Gaza è diventata una guerra, che una vittima civile è diventata un effetto collaterale, che la resistenza è stata sovrapposta al terrorismo”.

E ogni “fatto storico” viene inquadrato entro un’ampia disamina delle sue premesse, e ne viene messa in luce la specifica caratterizzazione.

Così, alla Nakba si arriva partendo dagli accordi segreti di Sykes-Picot del 1916, dalla dichiarazione Balfour del 1917, dalla nascita del sionismo politico col programma di colonizzare la Palestina e conquistare la sua terra, passando per la “grande rivolta” del 1936-39. Viene citata una lettera del 1937 di Ben Gurion al figlio:”…dopo la formazione di un esercito forte nel quadro della fondazione dello Stato, aboliremo la spartizione e ci estenderemo su tutta la Palestina…Dobbiamo cacciare gli arabi e prendere il loro posto”.

Il 1967 (la “Naksa”, la “ricaduta”) viene considerato uno “spartiacque fondamentale”: viene avviata la costruzione dei primi insediamenti illegali in Cisgiordania, “che non si arresterà mai, a prescindere dall’indirizzo politico dei governi israeliani”. Ed è l’inizio della politicizzazione di massa della popolazione palestinese: “per i palestinesi diventerà evidente che gli Stati arabi non sarebbero mai stati in grado di fronteggiare l’avanzata israeliana e che quindi avrebbero dovuto essere loro, da soli, a cercare la propria liberazione.”

Gli accordi di Oslo, “l’inizio della fine”, trovano le loro premesse nella dichiarazione unilaterale di indipendenza dello Stato di Palestina del 1988, con il reciproco riconoscimento con Israele, e contengono la “pretesa di poter costruire la pace senza il presupposto della giustizia”. Dopo Oslo, “i diritti per i quali i palestinesi si sono battuti per anni…saranno ridotti a singole ‘questioni’: Gerusalemme, il diritto al ritorno dei profughi, i confini, le colonie diventeranno capitoli separati di una storia che non ha più un passato.”

Se la prima Intifada, con i Comitati Popolari della Resistenza e la disobbedienza civile, attraverso il boicottaggio di massa dei prodotti israeliani, parla di riappropriarsi della dignità negata, di autorganizzazione e di solidarietà, la seconda “ non può essere considerata esclusivamente una rivolta contro il potere occupante, ma anche come una sollevazione del popolo palestinese contro la propria leadership”.

La situazione attuale infine, da un lato vede l’assenza di un coordinamento politico del dissenso e la mancanza di strutture forti di riferimento, oltre al rischio di una “depoliticizzazione della vicenda palestinese, ridotta a mera questione economica o umanitaria” (anche con il contributo delle organizzazioni internazionali che hanno reso la popolazione dipendente dai loro finanziamenti); dall’altro riscontra ancora la presenza, nelle mobilitazioni a Gaza, della volontà di “porre fine ad un’ingiustizia troppo a lungo ignorata” e la capacità delle nuove generazioni di trovare forme alternative di espressione, riappropriandosi del “diritto di narrare”, di cui parlava Edward Said.

Citando nella prefazione la bella frase di Vittorio Arrigoni, “la Palestina può essere anche fuori dall’uscio di casa”, Dalla Negra ci dice che “ciò che accade lì è il paradigma di ogni ingiustizia e di ogni violazione…difendere la Palestina è il più scontato tentativo di restare umani.”




LA QUESTIONE PALESTINESE

Lelio Basso

Poche, fra le questioni oggi aperte sul piano internazionale, sono così semplici dal punto di vista giuridico, storico, morale, come quella palestinese, e poche appaiono invece così difficili a risolvere sul piano pratico.

Dal primo punto di vista non mi pare seriamente contestabile il buon diritto dei palestinesi che rivendicano il principio dell’autodeterminazione né seriamente difendibile la posizione di Israele, giustamente condannata ormai da decine di risoluzioni dell’ONU e dell’UNESCO; eppure ancor oggi la maggioranza della pubblica opinione occidentale – sia pure una maggioranza che tende lentamente a diminuire – sembra convinta del buon diritto d’Israele e ne accetta acriticamente la politica di forza. Quali ne sono le ragioni?In primo luogo l’affinità culturale. I primi ebrei immigrati in Palestina provenivano dall’Europa, cacciati dalle persecuzioni che vi subivano, ed europea è stata anche la prevalente colonizzazione successiva fino alla creazione dello stato di Israele. Europea comunque è la classe dirigente, proveniente in gran parte da territori dell’ex-impero zarista, ed europea la cultura, ciò che crea una profonda affinità di idee, di modo di pensare, di mentalità, di linguaggio. Viceversa gli arabi rimangono ancora per molti europei, ammalati di eurocentrismo, un popolo inferiore, coloniale, di cui si dimentica volentieri il contributo straordinario fornito nel corso dei secoli al progresso soprattutto scientifico dell’umanità. Perciò nel subcosciente di milioni di occidentali Israele, testa di ponte europea nel mondo arabo, soddisfa il complesso di superiorità e le ambizioni egemoniche che una volta trovavano piena soddisfazione negli imperi coloniali.

A ciò si deve aggiungere anche la presenza di molti ebrei sparsi ovunque in Occidente – e spesso in posizioni di autorità e di prestigio – che, nella quasi totalità, sono dei sostenitori di Israele, sovente anche dei propagandisti, mentre non c’è nulla di simile da parte araba. In alcuni casi, come particolarmente negli Stati Uniti, la presenza ebraica è così massiccia e così potente da poter influire decisamente sulle scelte politiche e sugli indirizzi della stampa, orientando tutta l’opinione del paese. E d’altra parte poiché l’opinione pubblica americana è abituata a una politica internazionale basata sul diritto del più forte, non trova nulla di scandaloso nel fatto che lo stesso criterio guidi la politica israeliana. E questi orientamenti americani, data la posizione egemonica degli USA nel mondo occidentale, sono poi facilmente ricevuti e accettati anche dall’opinione europea. Non ultimo motivo, infine, di questa propensione proisraeliana è il desiderio di liberarsi da complessi di colpa per le persecuzioni di cui per secoli la minoranza ebraica è stata fatta oggetto in Europa, ad opera della Chiesa cattolica e di varie monarchie cristianissime, nonché ad opera dei governi zaristi e, da ultimo, dei nazisti che hanno fatto della popolazione ebraica d’Europa un popolo martire per eccellenza. Ma è un curioso modo di liberarsi dai rimorsi per i torti fatti a un popolo quello di sacrificarne un altro. È di questo curioso modo, e del suo fondamento, che vorrei discorrere in termini obiettivi, convinto che la verità anche in questo caso serva la causa della pace e, quindi, la causa della stessa popolazione ebraica trapiantata in Palestina.

I titoli rivendicati dagli Ebrei sul territorio palestinese

 

Esisteva un diritto degli ebrei sul territorio palestinese? Evidentemente non può avere nessun senso sul piano internazionale l’argomento religioso della Terra Promessa, e non mette neppur conto di indagare sull’obiezione, che spesso viene mossa a questo argomento, e cioè che non esiste alcuna prova che gli ebrei che oggi vivono in Israele siano realmente i discendenti degli ebrei cui la promessa sarebbe stata fatta. Diciamo che non mette conto di indagare perché, se anche lo fossero, essi non possono certamente pretendere che la loro credenza religiosa, che la maggioranza dell’umanità non accetta, costituisca un titolo valido per occupare terre altrui.

Neppure può essere seriamente invocato l’argomento storico del fatto che la Palestina è stata per secoli la terra abitata dagli ebrei. A parte l’obiezione già avanzata più sopra sulla impossibilità di dimostrare che gli attuali israeliani siano i discendenti di quei lontani abitatori della Palestina e a parte la considerazione che la Palestina era abitata da altre popolazioni, prima che dagli Ebrei, che vi entrarono con la forza secondo quanto racconta la stessa Bibbia; a parte la considerazione che nessuno è in grado di stabilire se fra le popolazioni che hanno abitato la Palestina prima o contemporaneamente agli Ebrei non vi fossero anche antenati delle attuali popolazioni arabe, rimane l’obiezione fondamentale che gli Ebrei furono cacciati dalla Palestina 19 secoli fa e che 19 secoli di storia sono fonte di nuovi diritti che non possono essere annullati. In proposito un grande pensatore ebreo, Erich Fromm, ha pronunciato un giudizio al quale non possiamo non associarci: “La pretesa degli Ebrei sulla terra di Israele, quindi, non può essere pretesa politica realistica. Se, improvvisamente, tutti i paesi rivendicassero i territori dove i loro antenati sono vissuti duemila anni or sono, il mondo diventerebbe un manicomio”.

Vediamo allora se vi sono titoli validi più recenti, e in particolare esaminiamo la Dichiarazione Balfour e la risoluzione del 29 novembre 1947 dell’Assemblea dell’ONU sulla spartizione della Palestina. Per quanto riguarda la prima, è ovvio che essa non è che una dichiarazione unilaterale di intenzioni che non poteva creare situazioni giuridiche nuove, tanto più che, nel momento in cui fu fatta, l’Inghilterra non aveva alcun diritto di sovranità sulla Palestina, facente allora parte integrante dell’impero ottomanno e solo militarmente occupata da truppe britanniche. Ma è noto che l’occupazione militare di territori in tempo di guerra non attribuisce alcun diritto di sovranità e tanto meno la libertà di disporne. Ora fu solo con il Trattato di pace di Losanna del 1923 che la Turchia rinunciò ai suoi diritti sovrani su quel territorio. La stessa commissione reale inglese che esaminò il problema nel 1939 concluse che “secondo il parere della Commissione, è tuttavia evidente (…) che il governo di Sua Maestà non era libero di disporre della Palestina senza tener conto della volontà e degli interessi dei suoi abitanti”.

È bensì vero che la Dichiarazione Balfour fu fatta propria dalla Società delle Nazioni e inclusa nel Preambolo del mandato conferito all’Inghilterra sulla Palestina (peraltro in contraddizione con l’art. 22 dello stesso Patto della Società delle Nazioni), ma è chiaro in ogni caso – come ebbe ad affermare allora lo stesso Winston Churchill, che era ministro all’epoca della Dichiarazione – che questa non attribuiva la Palestina agli Ebrei, ma semplicemente stabiliva che una sede nazionale ebraica avrebbe potuto essere creata in Palestina, senza pregiudizio dei diritti dei suoi abitanti. Nulla più di questo può essere pertanto dedotto da quella dichiarazione.

Quanto alla risoluzione dell’ONU, che ha istituito lo Stato di Israele accanto a uno Stato arabo di Palestina, vale innanzi tutto lo stesso argomento che neppure l’ONU aveva la sovranità su quel territorio e che in nessun caso avrebbe potuto disporne violando il principio fondamentale dell’autodeterminazione del popolo. Di questa carenza di potestà l’ONU ebbe certamente coscienza perché respinse la proposta di interpellare in proposito la Corte di giustizia dell’Aia, che pure è un suo organo, con soli 25 voti su 54 (18 favorevoli e 11 astenuti), e respinse la contestazione della propria competenza con appena 21 voti su 54 (20 favorevoli e 13 astenuti).Del resto questa carenza assoluta di potere da parte dell’ONU di disporre delle sorti di un popolo risulta chiara non solo dal fatto che lo statuto non lo prevede, ma anche dalla considerazione che tutto lo spirito che ha presieduto alla creazione dell’ONU era proprio quello di por fine alla diplomazia della prepotenza – di cui Hitler era stato l’incarnazione – che trattava i popoli come oggetti.

Fin dalla prima guerra mondiale il presidente Wilson aveva proclamato alcuni principi fondamentali la cui realizzazione, a base dell’ordine internazionale, doveva costituire lo scopo di guerra degli Stati Uniti, e il dovere degli alleati vittoriosi. Fra questi principi, indicati nei quattordici punti e nelle quattro proposte complementari, uno suonava: “I popoli e le provincie non devono costituire oggetto di mercato e passare di sovranità in sovranità, come se fossero semplici oggetti o semplici pedine di un giuoco, sia pure del grande giuoco, ora screditato per sempre, dell’equilibrio delle forze”.

Esso veniva poi ribadito in maniera ancor più precisa dallo stesso presidente Wilson il 4 luglio 1918 con queste parole: “La sistemazione di ogni questione di territorio, di sovranità economica o politica, deve essere basata sulla libera accettazione da parte dei popoli interessati e non sugli interessi materiali o sul tornaconto di qualsiasi altra nazione o popolo che desideri una sistemazione diversa per imporre la propria influenza o il proprio dominio”.

Se comunque si volesse prendere come base giuridica valida la delibera dell’ONU, si dovrebbe considerare che essa prevedeva la creazione di due stati palestinesi, uno ebraico e uno arabo, e in più la garanzia dei diritti della popolazione araba, il divieto di discriminazioni, ecc., e che le varie parti della risoluzione costituiscono un tutt’uno.

Non credo pertanto che si possa parlare di una legittimità giuridica nascente dalla risoluzione di spartizione: del resto gli stessi israeliani lo hanno riconosciuto parlando del loro Stato come fondato sul diritto della forza. È questa anche la nostra opinione: anche il fatto compiuto crea situazioni nuove da cui nascono nuovi rapporti giuridici. Quando uno Stato esiste da circa trent’anni, riconosciuto dalla quasi universalità degli Stati e membro dell’ONU, non è più possibile contestarne la legittimità, anche se questa legittimità si basa sull’uso della forza. È questa la legittimità di Israele, ma poiché siamo in presenza di un uso della forza continuato, diretto ad allargare il territorio occupato, è forse opportuno vedere se possa attribuirsi eguale legittimità a tutte le diverse tappe dell’occupazione, o, in altre parole, quali debbano considerarsi territori su cui potrebbero esercitarsi i diritti di autodeterminazione del popolo palestinese.

È evidente che all’occupazione di territori effettuata con la forza nella guerra del 1967 non può essere attribuita validità alcuna perché gli altri paesi non l’hanno riconosciuta e il Consiglio di sicurezza dell’ONU l’ha condannata con la famosa risoluzione 242 del 22 novembre 1967. Questa risoluzione è stata approvata anche dagli Stati Uniti, che tuttavia si sono sforzati di introdurvi elementi di ambiguità per favorirne il non-rispetto da parte di Israele. Ben diverso era stato l’atteggiamento del presidente Eisenhower dieci anni prima, quando, dopo l’aggressione israeliana del ’56, aveva obbligato Israele ad evacuare i territori arbitrariamente occupati. “Forse che – aveva detto Eisenhower in quell’occasione – una nazione che attacca e s’impadronisce di territori stranieri, nonostante la disapprovazione delle Nazioni Unite, può pretendere d’imporre essa stessa le condizioni della sua evacuazione? Se dicessimo di sì, temo che avremmo fatto un passo indietro nell’ordine internazionale”. Fu appunto la fermezza di Eisenhower che obbligò Israele a sgombrare il Sinai e la striscia di Gaza. Purtroppo la stessa fermezza non si ripeté dopo la guerra del ’67, ché anzi gli Stati Uniti, pur votando la risoluzione 242, si adoperarono perché non fosse applicata. Il lobby israeliano, cui non mancano mezzi di agire, aveva nel frattempo lavorato molto bene.

L’espansionismo israeliano e i Palestinesi

 

Sono così passati trent’anni dalla risoluzione dell’ONU sulla spartizione della Palestina, e il popolo palestinese, dopo l’ingiustizia di quella prima risoluzione che lo spogliava senza consultarlo di metà del suo territorio, ha subìto quella ancor più pesante di vedersi privato anche del diritto di costituire questo Stato di dimensioni ridotte.

Si obietta spesso, da parte israeliana, che la risoluzione dell’ONU sulla spartizione fu accettata da Israele ma non dagli Stati arabi né dai palestinesi, e che pertanto essa non avrebbe più valore. Ma le cose non stanno veramente così. Quanto ai palestinesi, essi non avevano ancora una propria autonomia giuridica come Stato e non avrebbero potuto esprimere immediatamente una loro volontà, ma avevano il diritto di essere tempestivamente consultati per esprimere questa volontà. Invece non lo furono né prima che la spartizione fosse decisa, né subito dopo. Il territorio che l’ONU aveva assegnato al costituendo Stato arabo di Palestina fu immediatamente invaso da Israele e dagli Stati arabi confinanti che su quel territorio combatterono la prima delle loro guerre, quella del 1948.L’occupazione da parte di Israele di territori che il piano di spartizione assegnava allo Stato arabo aveva avuto già inizio ancor prima della cessazione del mandato e dello sgombero britannico, prima dunque della proclamazione dello Stato di Israele, prima che scoppiasse la guerra del 1948. In quel periodo gli ebrei si impadronirono con la forza di città importanti come Jaffa e Acri lungo la costa e avanzarono verso Gerusalemme, occupando nella zona che il piano riservava all’internazionalizzazione il villaggio di Deir Yassin (9 aprile 1948) dove fu interamente massacrata la popolazione civile: un atto probabilmente premeditato che ebbe influenza determinante nel provocare la fuga della popolazione araba terrorizzata. Poco dopo scoppiò la prima guerra con i paesi arabi, e Israele ne approfittò per impadronirsi con la forza di altri territori compresi nella zona riservata allo Stato arabo, che fu ulteriormente ridotta, ma il possesso definitivo di queste terre non fu mai riconosciuto a Israele dai successivi accordi armistiziali, che definirono la linea di “cessate il fuoco” come una linea puramente militare, senza alcun carattere di frontiera politica fra Stati. Ma anche dopo la firma dell’armistizio (il 24 febbraio 1949 con l’Egitto, il 23 marzo con il Libano, il 3 aprile con la Giordania e il 20 luglio con la Siria), Israele continuò ad avanzare con la forza, in spregio agli impegni assunti con gli accordi stessi ed avallati dall’ONU: il 10 marzo 1949, due settimane dopo la firma dell’armistizio con l’Egitto, truppe israeliane attaccarono la parte meridionale del Negev – territorio egiziano -, si spinsero fino al golfo di Akaba, da cui furono espulsi gli abitanti arabi. Sull’antico villaggio arabo gli israeliani costruirono il porto di Eilath, sebbene l’accordo generale di armistizio stipulasse, al suo articolo IV: “È riconosciuto il principio che nessun vantaggio militare o politico deve essere conseguito durante la tregua ordinata dal Consiglio di Sicurezza”. È particolarmente importante mettere in rilievo l’assoluta illegittimità di questa occupazione, perché l’aggressione israeliana del 1967 fu giustificata soprattutto con la necessità di mantenere aperto lo stretto di Tirian, che dà accesso precisamente al golfo di Akaba e quindi al porto di Eilath: in altre parole l’aggressione, che aveva permesso agli israeliani di insediarsi illegittimamente sul golfo e di costruirvi un porto, diventava motivo di legittimazione per una nuova aggressione e per la conseguente occupazione di Sharm al Sheikh. E come tutti sanno, la guerra del 1967 ha permesso agli israeliani di estendere ulteriormente l’occupazione abusiva di altri territori, che dovrebbero costituire lo Stato palestinese, dove, nonostante le ripetute risoluzioni dell’ONU gli israeliani non solo continuano a rimanere, ma continuano a stabilire nuovi illegittimi insediamenti.

Questa politica di Israele indica chiaramente una volontà espansionistica permanente, in assoluto contrasto sia con la risoluzione del 1947 sia con le successive decisioni dell’ONU: anche se Israele non lo riconosce apertamente, è evidente che non ha rinunciato a costruire a poco a poco uno Stato ebraico dall’Eufrate al Nilo, secondo un progetto sionista di antica data. D’altra parte, finché Israele mantiene il suo proposito di far affluire nel suo territorio l’intera popolazione ebraica del globo, che è parecchie volte più numerosa di quella che attualmente vi abita, è chiaro che questa affluenza presupporrebbe una moltiplicazione del territorio corrispondente alla moltiplicazione della popolazione. Perciò se Israele ha titolo a reclamare frontiere sicure contro le minacce – che sono risultate essere dei semplici bluff propagandistici – di veder ricacciata in mare la popolazione ebraica, tanto maggior diritto a una garanzia delle frontiere hanno i paesi arabi, che hanno subìto tutta una serie di aggressioni e hanno assistito a un’espansione continua di Israele ben al di là delle frontiere originarie stabilite dall’ONU e che vedono tuttora pendere su di loro la minaccia di un’ulteriore espansione.

L’attuale posizione giuridica di Israele

 

Sulla base di queste premesse di fatto, come si presenta ora la questione palestinese? Dal punto di vista del diritto internazionale non possono esistere dubbi: Israele deve sgombrare i territori arbitrariamente occupati nel 1967 e su una parte di essi, cioè sul territorio cisgiordano e sulla striscia di Gaza, deve nascere lo Stato arabo palestinese.

Il primo punto non sembra poter dar luogo a contestazioni serie, essendo esso la conseguenza del principio generale, che è fondamento sia del diritto internazionale sia, in particolare, dello statuto dell’ONU, che non possono essere occupati territori di altri Stati con la forza. In particolare questo principio è stato riaffermato con la risoluzione 242 già richiamata e con una serie numerosa di altre risoluzioni successive.

È noto che Israele ha sempre potuto contare all’ONU sulla protezione degli Stati Uniti, che sono arrivati a mettere il veto su una serie di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che avevano il generale consenso. Ricordiamo la risoluzione del 10 settembre 1972 che condannava Israele per i suoi raids sui campi di rifugiati palestinesi in Libano e Siria; quella dell’8 dicembre 1975 che condannava severamente Israele per i suoi raids sui campi di rifugiati in Libano che avevano fatto numerose vittime innocenti; quella del 26 gennaio 1976 che affermava il diritto inalienabile dei Palestinesi all’autodeterminazione, il diritto dei rifugiati palestinesi al rimpatrio o alle riparazioni, e la necessità di garantire la sovranità di tutti gli stati della regione; quella del 25 marzo 1976 che condannava Israele per le sue attività a Gerusalemme e nei territori occupati, ecc. Quest’atteggiamento degli Stati Uniti, che è in palese contrasto con le dichiarazioni di Ford alla conferenza di Helsinki dove ha proclamato “la devozione profonda del popolo americano e del suo governo ai diritti dell’uomo e alle libertà fondamentali”, è stata spesso criticata da autorevoli personalità americane: il senatore William Fullbright, che fu per molti anni il presidente della Commissione degli affari esteri del Senato, ha detto: “Non siamo obbligati ad appoggiare Israele nella sua ostinazione a occupare terre arabe, compresa la vecchia Gerusalemme e la riva sinistra palestinese … Forse il diritto dei Palestinesi di rientrare nella loro patria, da cui sono stati cacciati, è meno fondamentale del diritto degli ebrei sovietici di stabilirsi in un paese nuovo?”.

Tuttavia, se gli Stati Uniti hanno potuto bloccare con il veto alcune risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, non hanno osato opporre un veto alla risoluzione 242 e ad altre che ordinavano a Israele di sgombrare i territori arbitrariamente occupati, e non hanno potuto bloccare – perché lo statuto non lo consente – le risoluzioni dell’Assemblea che ogni anno hanno rinnovato la condanna di Israele per l’occupazione arbitraria, per gli abusi commessi nei territori occupati, per le violazioni dei diritti dell’uomo a danno degli arabi, ecc. Si obietta talvolta che le risoluzioni dell’Assemblea non hanno valore vincolante, ma si dimentica che questa regola non è applicabile a Israele, perché Israele – unico fra tutti gli Stati – è stato ammesso all’ONU con l’esplicita condizione, da esso accettata, di attenersi alle risoluzioni dell’ONU. Si è trattato di una procedura speciale, usata solo in questo caso, e cioè un’ammissione condizionale e dopo lungo interrogatorio nella Commissione ad hoc sull’atteggiamento di Israele di fronte alle decisioni dell’ONU. In quella sede, il rappresentante di Israele, Abba Eban, dichiarò che se Israele fosse stata ammessa all’ONU, essa avrebbe contribuito ad accrescere la forza morale vincolante delle sue risoluzioni; a differenza degli arabi, aggiunse, Israele “non accetta la teoria (…) che le risoluzioni dell’Assemblea siano opzionali e che si possa sbarazzarsene a volontà”. È opportuno richiamare quest’impegno, la cui assunzione fu condizione di ammissione, proprio nel momento in cui Israele è lo stato che più di ogni altro ha sistematicamente disatteso le risoluzioni dell’ONU.

La situazione giuridica dei Palestinesi

 

Qual è oggi la situazione giuridica dei palestinesi?Dopo la risoluzione del 1947, e dopo la dispersione di larga parte del popolo palestinese a seguito della guerra del ’48, dopo l’occupazione del territorio dell’istituendo Stato da parte di Israele, Giordania ed Egitto, ci vollero molti anni prima che il popolo palestinese potesse darsi una struttura organizzata che gli consentisse di far sentire la sua voce nei consessi internazionali. Ciò è avvenuto solo nel 1964 con la costituzione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), la quale è ormai ufficialmente riconosciuta come legittima rappresentante del popolo palestinese. I momenti più significativi di questo riconoscimento sono stati la conferenza di Rabat e l’invito dell’ONU ad Arafat: nella prima tutti gli Stati arabi, compresi quelli che avevano occupato i territori palestinesi, cioè Giordania ed Egitto, hanno riconosciuto il diritto del popolo palestinese a creare uno Stato indipendente sul territorio palestinese occupato da Israele nel 1967 e hanno riconosciuto all’OLP la legittima rappresentanza del popolo palestinese.

Quanto all’ONU, essa ha proclamato sempre il diritto all’autodeterminazione dei popoli, e lo ha precisato in un testo fondamentale: la risoluzione 1614 (XVI) dell’Assemblea generale del 14 dicembre 1960 sulla concessione dell’indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali ha affermato testualmente che “tutti i popoli hanno un diritto inalienabile alla piena libertà, all’esercizio della loro sovranità”, e ha ribadito nelle conclusioni il diritto dei popoli a non sottostare a dominazione alcuna (“Tutti i popoli hanno il diritto di libera determinazione; in virtù di questo diritto essi determinano liberamente il loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale”). Nessuno oggi contesta che questo principio sia diventato una norma vincolante di diritto: lo prova del resto il fatto che, attraverso la decolonizzazione, esso ha ormai ricevuto applicazione pressoché universale.

È vero che la delibera 242 del Consiglio di sicurezza non parve tenerne conto perché la formula di compromesso, che si dovette accettare per evitare il veto statunitense, parlava dei palestinesi come di “rifugiati”, ma a questa carenza l’ONU ha posto rimedio con una serie successiva di deliberazioni, fra cui quella dell’Assemblea dell’8 dicembre 1970, che riconoscevano il diritto del popolo palestinese a costituire uno stato indipendente sui territori che Israele deve sgombrare. In questo senso si è pronunciata anche la Comunità Economica Europea, e specificatamente, a più riprese, anche il governo italiano. Il fatto che Israele abbia continuato a rifiutarsi di adempiere ai suoi obblighi e abbia mantenuto l’occupazione arbitraria non modifica la situazione di diritto, anche se mantiene una situazione di fatto totalmente antigiuridica.

L’ONU poi, invitando Arafat a parlare alla tribuna dell’assemblea, e ammettendo un osservatore dell’OLP al Consiglio stesso di sicurezza, ha attribuito all’OLP lo status di rappresentante legittima del popolo palestinese.

La pretesa israeliana di non riconoscere l’OLP, accusandola addirittura di essere soltanto un’organizzazione terroristica, è chiaramente destituita di qualsiasi fondamento giuridico e anche di qualsiasi elemento di fatto. Certo ci fu un tempo in cui le organizzazioni ufficiali palestinesi sostenevano doversi ricacciare in mare gli ebrei e difendevano tutti gli atti di terrorismo ovunque compiuti. Questo tempo è passato. Da anni ormai l’OLP condanna gli atti terroristici compiuti da arabi fuori del territorio di Israele e ha punito essa stessa dei terroristi. Diverso naturalmente è l’atteggiamento per quanto riguarda atti compiuti sul territorio di Israele, cioè sul territorio dello Stato oppressore. Qui si tratta di guerriglia e la guerriglia è l’arma universalmente applicata in questi casi: non solo in Vietnam, in Algeria o nelle colonie portoghesi, per non parlare che dei casi più famosi, ma anche in Italia e negli altri paesi occupati dai nazisti, i popoli si sono difesi ricorrendo alla guerriglia. Comunque gli israeliani sarebbero gli ultimi a poter protestare contro il terrorismo, perché è noto che gli ebrei sono penetrati in Palestina con il terrorismo: la storia della colonizzazione ebraica in Medio Oriente è la storia del terrorismo ebraico contro arabi e inglesi. Le organizzazioni che l’hanno praticato (Hagana, Irgun, e Stern) sono celebrate come eroiche e diversi fra i dirigenti di queste organizzazioni, che avevano compiuto alcune fra le più gravi azioni terroristiche, sono diventati ministri o hanno occupato altre importanti cariche nello Stato. E d’altra parte non sono azioni terroristiche le ingiustificate rappresaglie massicciamente e spietatamente condotte dall’aviazione israeliana contro i campi di rifugiati?

I diritti dei palestinesi non si esauriscono però nel diritto alla creazione di uno Stato che costituisca la patria di questo popolo travagliato. Ci sono altri diritti che riguardano sia i palestinesi che vivono in Israele o in territori occupati da Israele che quelli che vivono in campi di rifugiati o, comunque, fuori dalla Palestina.

Per quanto riguarda i palestinesi che vivono entro i confini internazionalmente riconosciuti di Israele, il diritto principale è quello di essere trattati come cittadini di pieno diritto, senza discriminazioni, di avere scuole arabe con gli stessi diritti delle scuole ebraiche, di veder riconosciuto il diritto all’uso della lingua araba anche in sede ufficiale. In altre parole, come ogni altra minoranza etnica, linguistica o religiosa, gli arabi hanno diritto a vedere rispettata la loro identità nazionale, le loro pratiche religiose nonché l’insegnamento e l’uso della lingua. In uno Stato binazionale non possono sussistere né discriminazioni né privilegi, perché discriminazioni a carico di una parte e privilegi a favore dell’altra significherebbero una manifestazione di razzismo, condannato da tutta la gente civile.

Per quanto riguarda i territori occupati arbitrariamente, vale il principio generale che l’occupante non ha e non può esercitare diritti sovrani, non può alterare le forme di vita locale, insediando altre popolazioni o cacciando i legittimi abitanti, alterando il paesaggio, distruggendo abitazioni, luoghi di culto, ecc. Purtroppo tutto ciò è avvenuto largamente nei territori occupati, donde le ripetute condanne pronunciate dall’UNESCO.

Infine, per quanto riguarda i palestinesi che vivono fuori della Palestina, dev’essere riconosciuto il diritto di ritornare e di riottenere le proprietà confiscate, oppure di avere un adeguato indennizzo: diritto questo che spetta anche ai palestinesi che vivono in Israele e che sono stati espropriati. Ultimo, ma più importante diritto, è il diritto alla vita, che Israele nega con i bombardamenti sistematici sui campi dei profughi, sotto pretesto di esercitare un diritto di rappresaglia che non è ammesso dalle norme internazionali. La pretesa di Israele che i profughi palestinesi siano condannati a rimanere eternamente dei profughi, senza poter recuperare una patria, nasconde forse il proposito di massacrarli lentamente nei campi di rifugiati.

La situazione di fatto

 

Fin qui abbiamo esaminato i principali aspetti giuridici della questione palestinese; ma quale è la situazione di fatto?

Teoricamente dovrebbe tenersi a Ginevra una conferenza della pace cui dovrebbero partecipare tutte le parti interessate, sotto la copresidenza degli Stati Uniti e dell’URSS. In realtà Israele ha sollevato finora una serie di difficoltà pregiudiziali per rimandare la conferenza, nell’attesa della quale non solo continua a occupare i territori che dovrebbe rendere ma vi sviluppa una politica d’insediamento di colonie ebraiche in aperto contrasto con le norme di diritto internazionale e con le decisioni dell’ONU.

Il ritardo nell’avviare serie trattative di pace è stato favorito apertamente da Kissinger, che ha potuto così giocare sulla sua diplomazia dei piccoli passi, svolgendo un ruolo molto ambiguo nel Medio Oriente. In sostanza mi pare fuori di dubbio che la guerra civile in Libano e il successivo intervento siriano in appoggio alle forze cristiane di destra, contro i palestinesi e contro i progressisti libanesi, siano stati concordati con Washington e con Israele. Kissinger ha giocato la carta dell’arabizzazione del conflitto, come in Vietnam aveva giocato quella della vietnamizzazione: ottenere cioè che arabi combattano contro arabi come vietnamiti avevano combattuto contro vietnamiti e come pure in Angola tentò di mobilitare angolani (sia pure rafforzati da mercenari) contro il movimento di liberazione dell’Angola. È probabile che l’evoluzione della situazione abbia agevolato una pace diplomatica fra Israele e gli Stati arabi: se questa tuttavia dovesse realizzarsi ai danni del popolo palestinese, che fosse privato del suo diritto di avere un proprio Stato indipendente, potrebbe risultare una pace precaria e pericolosa.

Mi auguro che i dirigenti arabi, soprattutto egiziani e siriani, e i dirigenti israeliani abbiano sufficiente senso storico per rendersi conto che tutte le soluzioni tentate per fermare il movimento reale della storia (in questo caso il movimento di un popolo verso l’indipendenza) servono solo a protrarre l’inquietudine e, in ultima analisi, a provocare nuove guerre. Mi auguro soprattutto che i governanti di Israele si rendano conto che difficilmente potranno trovare un momento storico più favorevole per una soluzione definitiva che allontani minacce e pericoli. È chiaro che ormai non solo gli Stati arabi, ma lo stesso movimento palestinese sono pronti a riconoscere lo State di Israele, anche se non si può pretendere di farne una pregiudiziale alle trattative: il riconoscimento dovrà essere il risultato della trattativa, insieme però con la rinuncia definitiva di Israele ad ulteriori tentativi di aggressione e di espansione e quindi con la garanzia delle frontiere. E fra queste frontiere devono essere comprese anche quelle dello Stato arabo palestinese, che sarà necessariamente più piccolo di quello previsto dall’ONU nel 1947.

Credo che una soluzione di questa natura è la sola che possa dare finalmente pace e tranquillità al Medio Oriente, e, in particolare, allo Stato di Israele che commetterebbe una follia se scegliesse la strada di una ulteriore tensione, necessariamente destinata ad aggravarsi, che rischierebbe di portarlo alla perdizione. Nessun uomo di buon senso, soprattutto se si è trovato ad aiutare gli ebrei nei momenti delle feroci persecuzioni, può desiderare che Israele rischi di essere distrutto da una guerra futura, ma nessun uomo di buon senso può pensare che i milioni di ebrei assassinati dai nazisti siano morti perché i loro correligionari si facessero a loro volta promotori dell’oppressione e della persecuzione di un altro popolo. Il modo migliore di onorare le vittime del nazismo è di lottare perché non ci siano più popoli eletti e popoli inferiori.




1918,1948, 2018: la Prima Guerra Mondiale, la Nakba e la nascita del nazionalismo etnico

Shmuel Sermoneta-Gertel

15 maggio 2018,Mondoweiss

Quest’anno segna non solo il 70esimo anniversario della Nakba [espulsione dei palestinesi dai territori su cui è stato dichiarato lo Stato di Israele, ndtr.], ma anche il centenario della fine della Prima Guerra Mondiale. I due eventi sono strettamente correlati in molti modi, che intenderei esplorare attraverso lo sguardo di un eminente ebreo antisionista dell’inizio del XX secolo, Aharon Shmuel Tamares (1869-1931), rabbino della città di Milejczyce (Russia, e in seguito Polonia).

Nel suo ultimo lavoro, “Sheloshah Zivugim Bilti Hagunim” (“Tre unioni inopportune”), scritto in risposta alla rivolta in Palestina del 1929 [rivolta palestinese contro la dominazione inglese e la presenza sionista, ndtr.] e pubblicato circa un anno prima della sua morte, Tamares spiegò la propria contrarietà al movimento sionista, soprattutto riguardo all’atteggiamento sionista verso la Grande Guerra ed il suo esito.

Tamares inizia la sezione del suo testo a questo riguardo (“Parte 3: L’unione tra ‘la rinascita della lingua e della cultura ebraica’ e il sionismo”) con un’inequivocabile denuncia della guerra e della divisione del bottino tra le potenze vittoriose:

Le grandi potenze mondiali hanno deciso di discutere su chi fosse più potente – una discussione infuocata. Nel frattempo, hanno dato alle fiamme migliaia di città e villaggi e ricoperto la terra intera di vittime. Dopo aver concluso il loro “elegante” dibattito, i membri della parte i cui fucili avevano avuto l’ultima parola e di cui il mondo è caduto preda, hanno convenuto di spartirsi il pianeta tra loro, per smembrarlo in piccoli Stati che obbedissero al loro volere.

Definisce la Prima Guerra Mondiale “il più grande scandalo della storia del mondo” e paragona la conferenza di Parigi (Versailles) ad un gruppo di macellai che stanno intorno a un tavolo per sezionare la vittima. Creando numerosi nuovi Stati nazionali, argomenta Tamares, le potenze hanno dato supporto all’idea di nazionalismo etnico – che inevitabilmente sfocia, secondo Eric Hobsbawm, nell’“espulsione di massa o nello sterminio delle minoranze.”

È questo nazionalismo etnico che Tamares identifica come la causa prima della violenza anti-semita e della discriminazione contro gli ebrei in Europa nel periodo post bellico, soprattutto nei nuovi Stati etnico-nazionali creati nel centro e nell’est dell’Europa. Tamares inoltre cita la normalizzazione della brutalità come fattore esacerbante, prevedendo che d’ora in avanti chi ha il potere farà il ragionamento che “se è stato accettabile, durante la guerra, trattare milioni di persone come carne da macello, viene di conseguenza che si possano anche imprigionare in gran numero, che possano semplicemente morire di fame.”

Queste ragioni stanno alla base dell’accusa di Tamares al sionismo ed alla leadership sionista: la loro glorificazione ideologica del concetto stesso di guerra e la loro attiva partecipazione a quell’abominio che fu la Prima Guerra Mondiale (nella “Legione ebraica” ed in azioni di spionaggio contro l’impero ottomano in Palestina); la loro adozione del principio di nazionalismo etnico, incoraggiando in tal modo altri e gettando sé stessi nell’abisso morale dell’espropriazione colonialista degli abitanti nativi della Palestina.

Tamares non afferma che il movimento sionista non avesse queste aspirazioni prima della guerra, ma che la guerra ed il “Balfourismo” [riferimento al ministro inglese Balfour, che diede il nome alla famosa dichiarazione che impegnò la Gran Bretagna a favorire un focolare ebraico in Palestina, ndtr.], al quale ha dato impulso, le hanno rese possibili.

Incoraggiati dalla Dichiarazione Balfour e dalle decisioni della Conferenza di Parigi e della Società delle Nazioni, i leader sionisti non fecero segreto del fatto che la loro intenzione era di portare gli ebrei in Palestina non come normali immigrati, ma come “occupanti…per imporre il proprio comando sui suoi originari abitanti….per essere padroni della terra…per diventare maggioranza…e trasformare i suoi precedenti abitanti, gli arabi, in una minoranza.” Con il potere di Balfour dietro di loro (non solo come ideatore della Dichiarazione Balfour, ma anche come uno degli architetti di Versailles), pensarono di poter ignorare il fatto che “la terra in questione non era una sorta di nuova isola disabitata che avevano trovato alla fine del mondo e nei mari lontani, ma la patria di un popolo che senza dubbio avrebbe vissuto le loro aspirazioni alla “sovranità” e allo “Stato” come una spina nel fianco”. Prosegue citando un racconto del Talmud che parla di un gruppo di marinai che si era fermato a riposare in quella che credevano un’isola. Dopo un po’ cominciarono a sentirsi i suoi padroni e quando accesero un fuoco il gigantesco pesce sul cui dorso avevano deciso di stabilirsi si girò, gettandoli tutti in acqua. “L’analogia, scrive, è ovvia.”

L’affermazione sionista che gli arabi fossero, nella versione sarcastica di Tamares, “un popolo incolto che aveva rubato la terra, installandovisi per soli quindici secoli, che non sono che un giorno e mezzo secondo gli standard delle antiche tribù “storiche”, ai cui occhi mille anni sono come ieri”, coincideva perfettamente con il profondo razzismo che ha portato gli inglesi e la Società delle Nazioni ad appoggiare la creazione di un “focolare nazionale” ebraico in Palestina.

Alla base del nazionalismo etnico, secondo Tamares, vi è l’idea che gli abitanti del mondo si dividano tra coloro che sono “padroni” nei propri Paesi e coloro che sono “stranieri”, a volte tollerati in vario grado, ma sempre alla mercé dei primi.

Egli identifica questa divisione delle persone tra ‘chi è dentro e chi è fuori’, promossa e perpetuata dalle potenze alla Conferenza di Parigi e dalla Società delle Nazioni, con il peccato del popolo di Sodoma, per cui la città venne distrutta da Dio (Genesi 19; vedere anche il Talmud babilonese: Sanhedrin 109b). È proprio questo approccio che egli attribuisce al movimento sionista, che accusa sia di fornire aiuto e sostegno ai nazionalisti europei, responsabili della brutale persecuzione degli ebrei in Europa, che di cercare di creare un regime in Palestina in cui anche gli originari abitanti della terra sarebbero trattati come “stranieri”, costretti a dipendere da un qualunque tipo di “tolleranza” potesse essere manifestata dai loro “padroni” ebrei.

Questa giustapposizione tra antisemitismo e sionismo, attraverso la lente del nazionalismo etnico, è particolarmente interessante, non solo come una sorta di regola fondamentale (Non fare agli altri…), ma anche in quanto analisi del sionismo come reazione all’antisemitismo e soluzione della “questione ebraica”. Tamares sostiene infatti che il sionismo non solo non ha combattuto l’antisemitismo in Europa, ma lo ha attivamente incoraggiato accettandone la causa profonda e, a volte, sostenendo i suoi effettivi esponenti (come “fratelli” ideologici ed anche come strumenti per i propri fini).

Questo potrebbe sembrare uno scritto storico e commemorativo, ma non è questa la mia intenzione. Un secolo dopo l’armistizio del 1918 e 70 anni dopo la Nakba, il nazionalismo etnico è vivo e vegeto. È per questo che i dimostranti palestinesi, a Gaza o a Gerusalemme o a Umm al-Fahm, possono essere colpiti impunemente; che i gazawi possono essere imprigionati in massa per 11 anni, senza che se ne veda la fine; che i palestinesi in Cisgiordania possono essere privati dei fondamentali diritti umani; che ai cittadini palestinesi di Israele si può negare l’eguaglianza; che i diritti dei rifugiati palestinesi possono ancora essere ignorati.

Come ai tempi di Tamares, questa ideologia non è feudo esclusivo dei sionisti, né esiste nel vuoto. E come ai tempi di Tamares, è il ‘balfourismo’ stesso che deve essere contrastato, dovunque cerchi di dividere il popolo tra “padroni” e “stranieri”.

Shmuel Sermoneta-Gertel è un insegnante, traduttore e ricercatore indipendente che vive a Roma. È membro della Rete ECO – Ebrei contro l’occupazione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Corbyn e Israele: la disputa sull’antisemitismo ha zittito il leader del partito Laburista sul massacro di Gaza

Ilan Pappè

venerdì 6 aprile 2018, Middle East Eye

È terribile accusare il capo del Labour per coprire l’appoggio della Gran Bretagna alla spoliazione dei palestinesi

Recenti pubblicazioni sull’antisemitismo – come l’eccellente libro di Jewish Voices for Peace [Voce Ebraiche per la Pace, gruppo di ebrei contrari all’occupazione dei territori palestinesi, ndt.] “On Anti-Semitism” [Sull’antisemitismo] – affermano che, benché ogni persona per bene si opponga al fenomeno, non c’è una definizione unitaria.

Questa discussione filosofica, oserei dire ontologica, non è molto utile per occuparsi della recente disputa sul presunto antisemitismo nel partito Laburista. Nel contesto di questo specifico dibattito, c’è un’utile definizione che tutti noi possiamo utilizzare. È chiara, diffusa, sensata ed efficace.

Antisemitismo è odiare gli ebrei per quello che sono. Non è diverso dalla definizione del razzismo contemporaneo. Ogni odio basato sulla razza, sulla religione, sul colore della pelle o sul genere che porta ad atteggiamenti intolleranti dal basso, e a politiche discriminatorie, a volte genocidarie, dall’alto, è razzismo.

Ci sono sei milioni di ebrei che vivono oggi nella Palestina storica accanto a sei milioni di palestinesi. Ogni generalizzazione su ognuna delle due comunità è razzismo, e, poiché entrambe le popolazioni sono semitiche, questo razzismo è antisemitismo.

Il ruolo della lobby filo-israeliana

Tuttavia condannare le persone per le loro azioni, sia che si tratti di ebrei o di palestinesi, in quanto contrapposte alla loro identità, non è antisemitismo. È vero anche per le ideologie razziste.

Condannare il sionismo in quanto ideologia colonialista di insediamento che ha portato all’espropriazione di metà della popolazione palestinese dalla propria terra e per l’attuale politica discriminatoria e brutale di Israele contro quelli che sono rimasti non è antisemitismo. Di fatto è antirazzismo.

L’ultima disputa sull’antisemitismo, che è il culmine di una serie di accuse e controaccuse scatenate dall’elezione – per la prima volta dalla dichiarazione Balfour del 1917 [che impegnò l’impero britannico a favorire la nascita di un “focolare ebraico” in Palestina, ndt.]– di un leader del partito Laburista che simpatizza con la lotta palestinese per la giustizia e l’indipendenza, illustra bene la differenza tra condannare un’azione e condannare un’identità.

Come è stato messo in luce anche dall’eccellente documentario di Al Jazeera “The Lobby”, dall’elezione di Jeremy Corbyn il gruppo della lobby filoisraeliana ha instancabilmente esaminato ogni tweet, ogni post su Facebook e ogni discorso che ha fatto da quando ha iniziato la sua vita politica, per distruggerlo in quanto antisemita.

Non era facile trovare prove di ciò, in quanto Corbyn è assolutamente contrario ad ogni forma di razzismo, compreso l’antisemitismo. Tuttavia alla fine hanno scoperto che aveva appoggiato, in nome della libertà di espressione, un murale che avrebbe potuto essere interpretato come antisemita (e, secondo alcune informazioni, venne definito come tale dall’artista).

Come ammise all’epoca lo stesso Corbyn, avrebbe dovuto analizzare il murale con maggiore attenzione. Non lo fece. Chiese scusa. Caso chiuso.

È stato eletto dai giovani in tutta la Gran Bretagna grazie alla sua fallibilitàin quanto essere umano e non perché fosse un altro politico superman frivolo e smidollato che non ha mai ammesso di aver commesso un errore.

Un altro politico del partito Laburista, Christine Shawcroft, ha dato le dimissioni dopo aver appoggiato Alan Bull, un candidato a un consiglio comunale a causa di una presa di posizione a Peterborough [città a nord est di Londra, ndt.], che lei ha ritenuto fosse stato scorrettamente accusato di essere un negazionista. Il candidato ha sostenuto che l’accusa era basata su contenuti falsificati e decontestualizzati.

Come mettere a tacere una critica

L’insignificante passo falso e l’appoggio male informato di Corbyn, se di questo si è trattato, sono stati sufficienti per un’esibizione di forza e di unità da parte della comunità ebraica organizzata, i cui attivisti hanno manifestato davanti al parlamento. Insieme a striscioni che collegavano il partito Laburista ai nazisti, i manifestanti sventolavano bandiere israeliane.

Le bandiere sono il principale problema, non l’appoggio di Corbyn a un murale né il sostegno di Shawcroft a Martin Bull. È stata una manifestazione contro la posizione filopalestinese di Corbyn, non contro l’antisemitismo.

Corbyn non è un antisemita e il partito Laburista, fino alla sua elezione, è stato un bastione filoisraeliano. Quindi la tempistica e la risposta sproporzionata alla questione del murale sono, a dir poco, bizzarre – oppure no.

In realtà non è così strano, se si capiscono le macchinazioni della lobby sionista in GB. La manifestazione è stata inscenata all’inizio di una settimana in cui Israele ha utilizzato una forza letale contro una marcia pacifica dei palestinesi nella Striscia di Gaza, uccidendo 17 palestinesi e ferendone altre centinaia.

Le bandiere israeliane mostrano chiaramente il rapporto tra gli attacchi contro Corbyn e le sue posizioni oneste e umane sulla Palestina. Il dividendo per la lobby sionista in Gran Bretagna è stato che Corbyn sarebbe rimasto in silenzio di fronte al nuovo massacro a Gaza – e senza di lui, abbiamo ben pochi politici coraggiosi che osino dire una parola nella nuova atmosfera di intimidazione.

I politici che attualmente governano in Israele hanno ben pochi scrupoli, come abbiamo visto, riguardo ad uccidere ed arrestare sistematicamente minori palestinesi. I loro alleati nella comunità anglo-ebraica, da parte loro, sono in difficoltà a causa di ciò. Il loro lavoro in difesa di Israele è molto più difficile ora che i palestinesi hanno chiaramente optato per una resistenza popolare nonviolenta.

È solo una questione di tempo prima che la brutalità inumana che l’esercito israeliano ha usato venga sottolineata dall’opinione pubblica, persino in Gran Bretagna, dove la BBC e Sky News lavorano alacremente per escludere la questione della Palestina dai loro reportage e dalla discussione: entrambi i canali hanno dedicato più tempo al murale che al nuovo massacro di Gaza.

Terribili accuse

La lobby israeliana vorrebbe che tutti noi in Gran Bretagna discutessimo di murales e antisemitismo latente in una società in cui gli ebrei non sono mai stati più sicuri e prosperi. Sì, c’è antisemitismo in tutti i partiti britannici – e molto di più a destra che a sinistra, tra l’altro. Dovrebbe essere sradicato e condannato, come ogni altra forma di razzismo, che sia diretto contro musulmani o ebrei in una società prevalentemente cristiana e bianca.

Quello che è terribile è l’utilizzo dell’accusa di antisemitismo per nascondere la continua, tacita e al contempo diretta, assistenza britannica alla spoliazione dei palestinesi, che iniziò con la dichiarazione Balfour 100 anni fa e da allora non si è mai interrotta.

È deplorevole utilizzare tali accuse per soffocare il dibattito sulla Palestina o per demolire politici che non sono disponibili ad allinearsi con Israele.

Non è il partito Laburista ad essere infestato dall’antisemitismo; sono i media ed il sistema politico britannici che sono afflitti dall’ipocrisia, paralizzati dalle intimidazioni e percorsi da strati nascosti di islamofobia e di un nuovo sciovinismo sulla scia della Brexit.

Nel centenario della dichiarazione Balfour tutti i partiti inglesi dovrebbero mettere insieme una commissione pubblica d’inchiesta sulla sua eredità, piuttosto che dare un peso sproporzionato a qualche passo falso, sia attraverso l’ignoranza che una manipolazione riuscita.

– Ilan Pappe è professore di storia, direttore del “Centro europeo per gli Studi Palestinesi” e co-direttore del “Centro Exeter di Studi Etno- Politici” dell’università di Exeter.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




L’intervento di ILAN PAPPÉ

al panel “Memorie e Identità”del CONVEGNO L’eredità di Edward Said in Palestina,

TORINO 1-2 MARZO 2018

Aula Magna Campus Luigi Einaudi*

Sono un professore di storia e vedendo qui studenti, non studenti e professori nei banchi, credo che farò una lezione molto storica… è nel mio DNA! Metto da parte le questioni più concettuali e teoriche, e avrò un approccio più storico.

Ho appena firmato un contratto per un libro, che non ho ancora scritto (un errore!), l’unica cosa che so è il titolo che avrà: “Qual è il senso della storia?”. Ho scelto questo titolo perché negli ultimi 30-40 anni c’è stato un grande dibattito tra gli storici e gli accademici, non su cosa sia il senso della storia, ma su cosa sia la storia. Abbiamo distrutto cinque belle foreste in Brasile per farne dei libri su cui scrivere centinaia di pagine, per dire che cosa è la storia, e oggi non ne sappiamo molto di più. Abbiamo avuto delle scuole di pensiero nel 1900, e sono ancora le stesse. Ancora non sappiamo esattamente che cosa è la storia. I relativisti e gli empiristi stanno ancora dibattendo se si può o non si può conoscere esattamente ciò che è accaduto nel passato. Vico soleva dire “Ciò che sapete del passato è in realtà ciò che sapete del presente, non di più.” La maggior parte di noi si colloca nel mezzo tra un punto di vista relativista ed il suo opposto. È tempo di affrontare un altro problema: quale è il significato della storia.

Il motivo è che la questione palestinese è diventata un nodo che riporta ad un problema molto più ampio: che cosa è stata la Palestina negli ultimi 30-40 anni; è diventata un simbolo, o un oggetto di ricerca, di questioni che vanno molto al di là della Palestina stessa, come la giustizia sociale, o la decolonizzazione. Inoltre la Palestina è diventata importante per la discussione di che cosa sia il senso della storia. Noi viviamo in una società e in un ambiente neoliberale e anche l’università è vittima di questo tipo di percezione ideologica ed economica: da un punto di vista neoliberale l’insegnamento della storia è inutile e non molto importante. L’insegnamento della letteratura, la cultura, in generale l’umanesimo non sono considerati molto importanti. In Gran Bretagna, dove insegno, c’è una nuova idea di rendere la laurea in materie umanistiche e in scienze sociali molto più economica di quella in materie scientifiche, perché sono considerate meno importanti, per cui si paga meno per una laurea in sociologia o storia e molto di più per laurearsi in legge o in medicina. Non me lo sto inventando, è ciò che avverrà in Gran Bretagna nei prossimi anni.

Credo sia importante lottare per l’importanza della storia, non solo per il passato, ma per tutti noi. Sappiamo tutti che se c’è un vuoto nella storia, se l’università e gli storici non vengono considerati come una parte essenziale della nostra società, sappiamo da chi verrà colmato questo grande gap nella società: lo si è visto in Italia, dove stanno tornando i nuovi fascisti, quando la storia non viene raccontata correttamente e quando non viene considerata come questione morale: allora ci sono persone che propongono una loro narrazione e creano la base per politiche razziste ed immorali, in questo paese come anche altrove. Perciò credo che dobbiamo lottare per il diritto di parlare dell’importanza della storia e non vi è un altro caso che richieda un così serio approccio quanto il caso della Palestina. Voglio perciò fornirvi un approccio storico alla lotta contro la cancellazione della memoria della Palestina.

Il punto di partenza, che è già stato citato dai due amici che mi hanno preceduto, è che cerchiamo di guardare al sionismo di Israele oggi come ad un progetto di colonialismo di insediamento. Sono sicuro che tutti voi avete già sentito questo termine, colonialismo di insediamento, ma per essere certo che siamo sulla stessa lunghezza d’onda, chiariamo la differenza tra colonialismo e colonialismo di insediamento. Quest’ultimo non è il classico colonialismo. Il colonialismo di insediamento è stato creato dai rifugiati, da quelli che hanno dovuto fuggire dall’Europa con l’aiuto di un altro potere colonialista ed in realtà non volevano tornare in Europa, non cercavano solo una nuova casa, ma una nuova patria. E tra le sfide in cui potevano imbattersi dovunque andassero, in America, Australia, Africa o Palestina, la maggiore era che vi fossero persone che già vivevano là, in un territorio che gli apparteneva, che per loro era invece il territorio dove costruire una propria nuova identità. In molti casi questi incontri con popoli indigeni andarono a finire con il genocidio dei nativi. Nel caso del Sudafrica e della Palestina vi furono la pulizia etnica, l’apartheid, ed altre atrocità che dopo la seconda guerra mondiale sono state considerate crimini di guerra contro l’umanità.

Fin dall’inizio la storia è molto importante per il colonialismo di insediamento. Questo intende dire ai popoli indigeni “inferiori, voi non avete una storia”. Gli indigeni sono stati rimossi dai libri di storia dei coloni, prima ancora di essere espulsi fisicamente dalla loro terra. Per esempio, se considerate i pittori sionisti nelle prime fasi del progetto sionista, alla fine del diciannovesimo secolo – inizio del ventesimo, se leggete le loro poesie o i loro racconti, ma penso che soprattutto la pittura sia significativa, potete vedere che i pittori sionisti guardavano la collina dove noi sappiamo che c’era un villaggio palestinese, ma nel dipinto o nel disegno il villaggio non c’è. Il villaggio è stato fisicamente distrutto nel 1948, ma non c’era già più nel 1910. Si tratta dello stesso approccio, attraverso il disegno, di rimuovere i nativi prima di eliminarli fisicamente che si trova… per chi di voi ha visto il muro israeliano intorno a Gerusalemme, là ci sono dei graffiti israeliani (no, non di Bansky…) di ciò che si può vedere al di là del muro, perché gli israeliani di Gerusalemme si lamentavano di dover passare da una parte all’altra della città attraverso un muro molto brutto, quindi qualcuno ha detto “bene, dipingiamolo e ci disegneremo un paesaggio che sta oltre il muro”, per cui si possono vedere le colline, ma non ci sono villaggi né città palestinesi. In realtà ci sono ancora e noi che abbiamo coscienza sappiamo che è un brutto segno che nei graffiti israeliani sul muro i villaggi che ancora esistono, nel disegno non ci sono, il che significa che loro hanno un piano diverso.

Prendiamo in considerazione il colonialismo di insediamento, non solo quello sionista, ma dovunque. Prima che abbiano il potere di espellere la popolazione indigena, la rimuovono dalla narrazione; ma fanno anche altro, lo sappiamo riguardo agli Stati Uniti. Si appropriano della storia degli indigeni come fosse la propria. Prendono la storia dei palestinesi, dei nativi d’America, degli aborigeni e sostengono che in realtà quella è la loro storia. Questo è parte di un progetto che costringe i nativi, la popolazione locale, a lottare per qualcosa che ai loro occhi è evidente, quindi ci vuole molto tempo prima che i palestinesi si rendano conto che devono difendere qualcosa che a loro appare un concetto naturale. Perché dovevano spiegare alle Nazioni Unite nel 1947 che appartenevano alla Palestina? Perché la popolazione di Torino dovrebbe spiegare all’Unione Europea che fa parte di Torino? È un esercizio inutile. Eppure ai palestinesi venne chiesto dalle Nazioni Unite nel 1947: ‘Diteci, siete voi il popolo della Palestina?’ Risposero ‘Sì, noi siamo palestinesi, siamo il popolo della Palestina.’

Sì, ma voi non lo avete articolato bene, perché ci sono i sionisti che hanno detto di essere loro il popolo della Palestina.’ Con un’assenza di 2000 anni, è vero, ma …

Questa sorta di de-indigenizzazione, o di negazione dell’identità indigena dei nativi, la pretesa che la loro storia sia la vostra, è una potente azione di cancellazione e ridefinizione della memoria e dobbiamo capire che la difesa della memoria inizia dal primo momento in cui un colono ebreo venne in Palestina alla fine dell’800.

I coloni ebrei, soprattutto quelli arrivati con la seconda ondata, tra il 1905 e il 1920, divennero il gruppo dal quale più tardi nacque la leadership israeliana fino al 1990, forse fino ad oggi. Molti di loro sono morti, ma la maggioranza di coloro che hanno impostato il sistema politico ed economico israeliano erano arrivati in quell’ondata, ciò che chiamiamo in ebraico la seconda Aliyah, la seconda ondata. Non era un grande gruppo, ma era molto qualificato. Quelle persone hanno scritto riguardo a qualunque cosa, ci hanno lasciato montagne di diari e di giornali ed hanno continuato a scrivere dal momento in cui sono arrivati, non è sfuggito nulla alla loro attenzione, ogni puntura di zanzara, ogni goccia d’acqua, se gli piacesse o no, ci hanno riferito tutto di quel periodo. Ciò che è stupefacente riguardo a questi coloni è che non erano mai stati prima in Palestina e solitamente hanno passato la prima notte nella città di Jaffa, dove tra l’altro i palestinesi li hanno ospitati, perché erano molto poveri; non sapevano dove stare a Jaffa per cui i palestinesi gli hanno permesso di rimanere gratis almeno per i primi due giorni prima di tentare di raggiungere le più vecchie colonie nel nord o nel centro della Palestina. Di notte, probabilmente usando lampade a petrolio (non c’era elettricità) scrivevano del loro primo arrivo nei diari o nelle lettere a casa. Erano davvero stupefatti perché in Polonia o in Russia, da dove provenivano, gli avevano detto che quando fossero arrivati avrebbero trovato una terra vuota, ma poi hanno scoperto che non era vuota, quindi vi è già una narrazione della storia che gli israeliani avrebbero poi portato avanti fino ad oggi, nel 2018. E la narrazione è: noi siamo ospitati da alieni, siamo ospitati da stranieri della nostra patria, che hanno preso la terra dei nostri antenati, e noi siamo venuti a riscattarla, quindi la generosità dei palestinesi, la loro umanità, vengono totalmente ignorate. Ciò che importa è che qui c’è una sfida, c’è una contraddizione tra l’idea che la terra che era deserta da 2000 anni doveva essere vuota, ma se ci sono esseri umani non possono far parte della patria, perciò sono stranieri. Questa idea che i palestinesi siano stranieri non è mai cambiata nella concezione degli israeliani, nemmeno di quelli di sinistra oggi: quando ragionano di compromesso coi palestinesi o quando parlano della cosiddetta pace con loro, li pensano sostanzialmente come stranieri in Palestina; anche se da un punto di vista liberale o socialista intendono arrivare ad un compromesso o a tollerarli in una piccola parte della Palestina, non li riconosceranno mai come indigeni. E questo fa parte del sistema educativo israeliano ancora oggi: noi siamo gli indigeni e chiunque altro è un immigrato, magari ebreo, che si accoglie, oppure è uno straniero. Anche l’ebraismo ha un ben noto modo di dire, che bisogna trattare bene lo straniero, quindi c’è un’idea religiosa che dice che si possono integrare gli stranieri, ma il profondo concetto dei palestinesi come stranieri esiste fin dall’inizio e i palestinesi hanno dovuto combatterlo fin dal primo momento.

Negli anni Trenta per la prima volta la comunità internazionale si è resa conto che la storia ha svolto un ruolo nel destino palestinese. Come saprete, negli anni Trenta gli inglesi che occupavano la Palestina dal 1918 cominciarono a pensare che c’era un problema in Palestina fra le promesse fatte agli ebrei con la Dichiarazione Balfour, che si sarebbe creata una casa per loro in Palestina, e il fatto che sul terreno c’era quella che si può definire una popolazione locale, un popolo che costituiva la schiacciante maggioranza della popolazione [96%], che aveva aspirazioni diverse rispetto alla terra, all’identità collettiva e che esistevano già movimenti di liberazione, gruppi di resistenza all’occupazione. Insomma gli inglesi capirono di dover trovare un modo per conciliare questi contrasti e non sapevano bene come rapportarsi alla Storia in merito. Se avessero utilizzato criteri universali nel 1936, e cioè quante persone, democraticamente, vogliono che la Palestina sia la Palestina, quante vogliono che la Palestina sia uno stato arabo, insomma usando i criteri che le nazioni legalmente usano per stabilire i diritti delle persone all’autodeterminazione, era molto chiaro che al massimo i coloni ebrei avrebbero potuto avere una qualche autonomia culturale nelle loro colonie e che l’aspirazione ebrea di avere una patria a spese dei palestinesi già nel 1936 non andava d’accordo con il diritto internazionale all’indipendenza e all’autodeterminazione. È molto chiaro, come ha detto anche Jamil Khader, che a causa del sionismo cristiano e di altri elementi in gioco, chi perseguiva quel disegno ha visto l’occasione di mettere in dubbio il diritto dei palestinesi alla Palestina attraverso la narrazione di un ritorno in patria dopo 2000 anni di esilio, che di base quella è la patria degli ebrei e i palestinesi sono stranieri. Ma non funzionò tanto bene, ci furono delle pressioni sul movimento sionista affinché provasse non solo che la Palestina fosse disabitata ma anche una continua presenza degli ebrei dall’epoca Romana. Gli inglesi dissero loro che se avessero potuto dimostrare una continuità questo avrebbe rafforzato la loro richiesta della Palestina. Ci fu un famoso incontro, fra David Ben Gurion, capo della comunità ebrea durante il periodo del mandato inglese, e lo storico più importante della comunità ebraica Ben-Zion Dinaburg, più tardi Ben-Zion Dinur, il secondo Ministro all’Istruzione dello Stato israeliano. Ben Gurion chiamò questo eminente storico sionista e gli disse “Voglio che tu faccia un grande progetto di ricerca: dimostra, indaga se c’è stata una presenza continua degli ebrei in Palestina dall’epoca Romana ai nostri giorni.” – cioè gli anni Trenta. Ben-Zion era un serio storico professionista e disse “È un grande progetto e mi piace! Mi darai i fondi?” – ciò che qualsiasi accademico avrebbe chiesto – e Ben Gurion disse “Certo! Tutto ciò di cui hai bisogno!” e poi gli chiese “Quanto tempo pensi di metterci per darci i risultati?” e Ben Zion disse “È un grande progetto, penso una decina d’anni… epoche differenti, lingue diverse, devo raccogliere un gruppo di ricerca ecc.” e Ben Gurion disse: “Non capisci. Una commissione d’inchiesta inglese, la Commissione Peel, arriverà tra un paio di settimane e dunque hai due settimane per trovare le prove che gli ebrei hanno sempre vissuto in Palestina; poi avrai altri dieci anni per sostanziare il tuo lavoro.” E in effetti se leggete il documento ebreo, sionista, consegnato alla Commissione Peel, c’è questa incredibile falsificazione di una continua presenza degli ebrei in Palestina, poiché questo avrebbe fornito la giustificazione morale al diritto degli ebrei di costruire una loro nazione in Palestina. I palestinesi all’epoca non capirono affatto la spaventosa sfida che dovevano affrontare: lo vediamo quando gli inglesi ne ebbero abbastanza della Palestina e demandarono il problema all’ONU e l’ONU creò una speciale commissione di inchiesta, l’UNSCOP, e anche UNSCOP era interessato alla Storia. Voleva capire i racconti, le narrazioni storiche di entrambe le parti. I palestinesi dissero – ed è probabilmente comprensibile – “Non vogliamo fornirvi la narrazione storica, non abbiamo intenzione di fornire le giustificazioni morali” – come penso sappiate, i palestinesi boicottarono la commissione speciale d’inchiesta dell’ONU, pensando “Noi siamo palestinesi in Palestina, perché dovremmo aver bisogno di andare all’ONU a dimostrare che è così!?” Ma quando sei un colonizzatore con il progetto di insediarti, sei bravissimo in storia, e la ricostruzione storica che il movimento sionista consegnò all’UNSCOP è un documento impressionante, di invenzione e falsificazione, ma comunque un documento impressionante: più note a pié pagina di quanto in Italia un dottorando metterebbe nella sua tesi, un mucchio di note, incredibile, è così sostenuto e comprovato e con tanti e tali riferimenti incrociati che prenderebbe 100 su 100 come lavoro storico se sottoposto ad una giuria accademica – quanto alla validità delle affermazioni… lasciamo stare. Era chiaro già nel 1946 allo stesso movimento sionista come alla comunità internazionale che fosse essenziale una narrazione storica, quand’anche falsa e inventata, per giustificare l’immorale idea di dare la Palestina al popolo ebreo come ricompensa in generale per l’antisemitismo e in particolare per l’Olocausto. Non si può procedere direttamente dall’argomento morale: non basta che gli ebrei meritino una patria a causa dell’antisemitismo, bisogna motivare perché in Palestina e a spese dei palestinesi e ottimi storici erano presenti sia nel movimento sionista che alle Nazioni Unite nel 1946… e dunque qual è il senso della storia? di fornire giustificazione morale ad azioni di disumanizzazione [riduzione demografica], pulizia etnica, colonizzazione, che hanno fatto davvero tante vittime umane. Allora “Storia” non è soltanto il nome di una pratica accademica, è anche la narrazione che giustifica l’umanità [nel suo agire]. Dopo il 1948, per la prima volta vediamo i palestinesi rivolgersi di nuovo alla storia, specialmente alla storia recente. I palestinesi, malgrado il trauma dei fatti del 1948, cercarono di spiegare al mondo, con libri storici, cosa era accaduto in quel 1948 – fra questi uno famoso è quello di Walid Khalid [All That Remains: The Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948]. Ma nel 1949 e nemmeno negli anni cinquanta il mondo era minimamente interessato a sentire la versione storica di un palestinese, che fosse di uno storico professionista o di livello amatoriale. È molto interessante: Walid l’ha studiata per tutta la vita, è considerato oggi uno storico palestinese dei più importanti e voleva fare un PhD a Oxford, nel 1949-’50, usando la sua memoria ancora molto fresca dei fatti accaduti in Palestina e anche ricostruendo una narrazione e spiegando chiaramente quali fossero i risultati della risoluzione dell’ONU e dell’atteggiamento internazionale rispetto alla Palestina. Fu però convinto dal suo professore della prestigiosa università inglese a non trattare di quei fatti perché erano troppo politici, troppo emotivi, troppo vicini nel tempo, e lui fece un PhD su un altro argomento. Anni dopo avrebbe contribuito alla nostra conoscenza storica della Palestina, ma nei tardi anni quaranta e cinquanta, nella memoria degli studi universitari la versione degli israeliani era considerata professionale, valida, accademica, mentre gli storici palestinesi… chi erano? erano considerati degli emotivi, orientali, che lavoravano su visioni di fantasia piuttosto che sui fatti. Ma è incredibile che gli israeliani scrissero un numero incredibile di libri, specialmente i generali che avevano partecipato alle pulizie etniche del 1948 scrissero le proprie memorie, erano chiamati “i libri della Brigata” in Israele, una letteratura enormemente vasta che uscì in ebraico nel 1950 e ’51, in base a cui infatti qualcuno di noi – ma nessuno di noi lo fece – insomma se qualcuno fra gli ebrei vivo e abbastanza cosciente nel 1951 avesse voluto, avrebbe potuto scrivere quella che fu in seguito chiamata la “nuova storia” del 1948, avrebbe potuto farlo nel 1950 senza un solo documento degli Archivi israeliani. Sapete, il mito che dovessimo aspettare la desecretazione degli archivi nel 1978 per sapere cosa fosse accaduto in Palestina nel 1948, è un’assurdità: nel 1950 i generali, i militari, le truppe che avevano preso parte alla pulizia etnica della Palestina scrissero molto onestamente di ciò che avevano fatto, ma quando non hai le giuste lenti ideologiche, morali, non leggi correttamente quella produzione di conoscenza, non capisci che la parola “nemico” vuol dire “donne e bambini”, non capisci che la parola “base nemica” vuol dire “un villaggio o un quartiere”, non capisci che l’espressione “eliminare il nemico” vuol dire “distruggere un’intera comunità”; è solo dopo, quando il dizionario ideologico cambia e si inizia a rileggere queste fonti – disponibili, non desecretate – capisci che non era necessario aspettare il 1978, che già nel 1950 era possibile scrivere la vera storia del 1948. Ma di certo Israele allora era protetto da quella nuova idea degli storici che un documento in un archivio scritto da un politico, un militare – il genere di persone più inattendibili che ci sia al mondo – insomma che questo scritto, già coperto dalla polvere di 30 anni, non debba essere altro che la verità e nient’altro che la verità e questa era una cosa su cui anche i palestinesi sfortunatamente cominciarono a riflettere più tardi, quando la nuova storia di Israele cominciò ad apparire. Cominciarono a tenere in considerazione i documenti dell’esercito israeliano sui fatti del 1948, pensando che contenessero la sola versione possibile degli eventi rispetto alle testimonianze orali o ad altri mezzi che si usano per ricostruire cosa accadde nel passato. Per questo la nostra battaglia contro il memoriale è anche la nostra battaglia contro la gerarchia, che considera dei documenti politici e militari desecretati possedere una sorta di validità che ogni altra fonte che usiamo per ricordare e rammentare non possiede. Penso a questo proposito al lavoro di Jacques Derrida e di Michel Foucault sugli archivi, che aiutano molto a invalidare gli Archivi Nazionali in quanto deposito di fatti manipolati e aggiustati dallo Stato, e non una via diretta alla verità del passato.

Procedo verso il prossimo punto, con cui concluderò. Una cosa importante da ricordare riguardo ad Edward Said è che scrisse un libro, The Question of Palestine, pubblicato negli anni Settanta e dunque prima che si avesse accesso agli archivi israeliani, o agli archivi britannici o americani. E questo perché lui aveva idea che ciò che è importante dei fatti sia il loro significato piuttosto che la loro autenticità; lui fu in grado per la prima volta di articolare in modo molto chiaro una narrativa palestinese, che naturalmente compare più tardi nell’atto costitutivo dell’OLP e nella Dichiarazione di Indipendenza nel 1988; per la prima volta i lettori inglesi ebbero a disposizione una narrazione concisa, che conteneva ciò che è importante in una narrazione e cioé non i dettagli, ma lo scheletro della storia, una storia di colonizzazione, spossessamento – non una storia complicata, infatti è il primo a dire che ciò che fa Israele erige anche uno schermo di complessità. Penso che ognuno di voi che abbia discusso in veste ufficiale o con un portavoce informale di Israele sa che il maggiore genere di rivendicazione di Israele è che la cosa è troppo complessa, voi non riuscirete mai a capire, solo Israele la capirebbe. E questa complessità della storia è costruita, perché purtroppo la storia non è affatto complessa, di gente che arriva e caccia via altra gente, è già accaduto e purtroppo accadrà ancora, e la domanda è se si possa fermare piuttosto che se si possa comprendere. Come sapete negli anni ottanta capitarono due cose, e con questo concludo. Apparve il grande articolo di Edward Said che hanno menzionato i miei colleghi, Permission to Narrate, un articolo molto importante che vi raccomando di leggere se non l’avete già fatto, che Said scrisse immediatamente dopo l’invasione israeliana del Libano, nel 1982. Dopo l’invasione del Libano del 1982, che in Israele è chiamata la Prima Guerra del Libano, l’ONU nominò una commissione d’inchiesta con a capo una persona di nome Sean McCright, un irlandese che era famoso nel mondo come l’avvocato più autorevole per i Diritti Umani, e fu nominato dall’ONU anche perché aveva effettivamente a livello internazionale la reputazione di persona integra e questo avvocato produsse un report molto incriminatorio della guerra in Libano, specialmente [delle azioni] contro i campi profughi palestinesi, report che fu completamente ignorato dalle Nazioni Unite, dai media internazionali e questo irritò molto Said. E fu così che iniziò a scrivere il suo articolo.

E la seconda cosa che successe, che lo irritò, fu che il buon amico Noam Chomsky scrisse un libro intitolato Il triangolo palestinese e concludeva il libro dicendo che, riguardo alla questione palestinese, se si guardavano realmente le cose in faccia, i palestinesi non avrebbero avuto proprio alcuna possibilità di cambiare la realtà. Non so che cosa l’abbia irritato di più, se il report di McCright o le conclusioni di Chomsky, ma scrisse l’articolo con molta rabbia, questo è evidente. E nell’articolo dice, e questo è molto importante, che non solo i palestinesi hanno il permesso di avere la loro narrazione, e che anche se l’equilibrio di potere è contro di te, non hai il potere militare, non hai il potere economico, non hai il potere diplomatico, nessuno può toglierti il potere di raccontare la tua storia.

Ma questo non è il punto principale, il punto principale è che Said ha detto a Chomsky: se i fatti sono così deprimenti devi raccontarli in modo che si possa scegliere di venirne fuori. Il ruolo della Storia non è quello di dire le cose così come sono state, la Storia racconta le storie del passato con una visione di cambiamento della realtà nel futuro. Certo, così dicendo Said entrava in conflitto con la percezione professionale accademica del lavoro della Storia in quanto imparziale, oggettiva, priva di agenda politica, e diceva: la gente non ha un’agenda politica, una posizione morale e se si ricostruisce la storia della Palestina senza alcun impegno, si finisce certo con il rappresentare dei fatti che perpetuano la realtà. Mentre le persone che scrivono assumendosi un impegno, possono anche contribuire scrivendo a produrre un cambiamento nella realtà.

Lui credeva che la penna possa a volte essere più potente dei pensieri; la maggior parte di voi è molto giovane e magari non sa che cos’è una penna, allora diciamo che una tastiera può essere più potente dei pensieri…..Ma Said da più punti di vista non era certo naïf su questo, semplicemente pensava che questa fosse una parte importante della lotta. Permettetemi di finire dicendo che oggi in Palestina, in Israele, nei Territori Occupati e all’interno della comunità palestinese Said lancia un appello al permesso di narrare, e cioè “io ho il diritto di raccontare la mia storia anche se sono occupato, anche se sono colonizzato e anche se sono rifugiato”, e ho il diritto come storico professionista di essere un attivista. Queste sono le due raccomandazioni di Said per il futuro per noi storici professionisti. Lui viene preso molto sul serio dalla società civile, ma ancora non abbastanza sul serio dalla comunità accademica, purtroppo. Quindi molte delle cose che Said avrebbe voluto veder accadere in ambito accademico – cioè che avremmo fatto lezioni sul 1948 come pulizia etnica, che avremmo fatto lezioni sulla Palestina nei nostri corsi sul colonialismo, che avremmo fatto lezioni su Gaza nei nostri corsi sul genocidio, negli studi sul genocidio – non è successo. Questo non è successo, né in Italia, né in Inghilterra, in nessun posto, quindi non sentitevi esclusi. In nessuna parte del mondo è facile cambiare il piano di studi in modo che rappresenti il tema Palestina come una conquista nella produzione accademica di conoscenza.

Ma nella società civile, che è meno inibita dalla nuova scuola di pensiero liberale, lo stanno facendo, e in Palestina potete vedere progetti di storia orale, progetti di ricostruzione di modelli dei villaggi distrutti, il racconto di storie attraverso interviste individuali o spettacoli o folclore. Il permesso di narrare è ciò che Gramsci probabilmente chiamava resistenza culturale, come prova concessa alla resistenza politica. Come sapete Gramsci diceva che se non si può fare resistenza politica, si fa una resistenza culturale nel senso che questa è il banco di prova concesso alla resistenza politica. E da più punti di vista gli Israeliani stanno iniziando a capire il progetto culturale di memoria che i giovani palestinesi hanno intrapreso non solo in Israele, ma anche in altri paesi, in Palestina e fuori dalla Palestina, e improvvisamente stanno capendo, senza comprendere appieno il perché, che si sentono spaventati da questo molto più che dai missili che Hamas lancia contro di loro da Gaza o dai missili di Hezbollah ed è per questo che hanno approvato delle leggi, di cui la più famosa è la legge sulla Nakba, hanno approvato una legge che dice che i palestinesi non hanno il permesso di fare riferimento agli eventi del 1948 come Nakba. Credo che persino George Orwell non avrebbe potuto inventare una legge di questo tipo, voglio dire che è incredibile il modo in cui lo fanno, ma lo fanno perchè percepiscono che in qualche modo la società civile palestinese, non quella accademica, ricorda il 1948 come un evento contemporaneo. Come ha detto Jamil Khader a questo proposito, è la “Al-Nabka al-Mustamirra” [“La Nakba ininterrotta”, ndt], voglio dire che non sono riusciti nonostante i fatti, nonostante abbiamo cancellato i villaggi e le foreste ora coltivate con alberi europei, nonostante il fatto che abbiano costruito le colonie, eliminando quartieri e villaggi, nonostante tutto lo smantellamento che hanno fatto e continuano a fare, non possono controllare un progetto di questo tipo, che riporta e ripete la storia di Israele in modo da dimostrargli che il loro progetto di spopolare la Palestina dei palestinesi non è riuscito.

E questo richiede un grosso sforzo ed ottimismo, lo so, ed i tempi non ci offrono una buona ragione per essere ottimisti, ma ritengo che Said, il permesso di narrare di Said, ci dimostri che qualsiasi sia l’equilibrio di potere – e nessuno può pensare uno squilibrio di potere peggiore tra i palestinesi e gli Israeliani, non me ne viene in mente uno, almeno non nella storia contemporanea –, qualunque sia lo squilibrio, un fatto resta innegabile: gli Israeliani vogliono avere una vita normale, essere accettati come una normale parte organica della Palestina – cosa che potrebbe anche diminuire la possibilità di una prevedibile terza ondata di coloni – ed essere parte del Medio Oriente, gli Israeliani vogliono questo tipo di normalità. L’unico popolo che può garantirgli questo, sfortunatamente per loro, sono i palestinesi, non gli americani, non i cinesi, non gli indiani, non gli europei. È in qualche modo assurdo, perchè i palestinesi sono le vittime principali, sono stati oppressi, colonizzati, è stata fatta una pulizia etnica nei loro confronti, ma sono l’unico popolo che può dar loro legittimità; ora certo gli Israeliani hanno sufficiente potere per fare a meno della legittimità, ma lo potete vedere nella reazione alla campagna del BDS: la delegittimazione è qualcosa con cui gran parte degli Israeliani non sarebbe in grado di coesistere per lungo tempo. E questo è qualcosa che noi dovremmo comprendere, è qualcosa che noi dovremmo utilizzare e non perdere la speranza, nonostante la discordia, lo squilibrio di potere, una comunità internazionale indifferente, nonostante tutto questo, perché ciò che è successo in quell’area del mondo non si dovrebbe mai permettere che accada, pensando positivamente alla Palestina, nonostante tutto questo o il colonialismo dei coloni è trionfante, come in caso di genocidio, o alla fine è destinato a perdere, come è successo in Algeria o in Sud Africa.

Quella è la speranza, che la Palestina nel 2055 sia insegnata in questa università come caso della possibilità di sconfitta del progetto colonialista.

Grazie!

(traduzione di Cristiana Cavagna, Luciana Galliano e Paola Merlo)

vers. orig. https://www.youtube.com/watch?v=e2Y7ZH27Tt4,video a cura di Invicta Palestina

*Il seminario “L’eredità di Edward Said in Palestina” è stato organizzato dagli studenti del Progetto Palestina e si è svolto nei giorni del 1 e 2 marzo con quattro panel con tre relatori ciascuno.




Come i sionisti cristiani hanno ottenuto il loro uomo nella Casa Bianca

Morgan Strong

2 gennaio 2018, Middle East Eye

I sionisti cristiani sono riusciti ad avere, grazie alla posizione di Mike Pence e dei suoi compagni di fede alla Casa Bianca, un’incredibile influenza su quella che è la più potente Nazione sulla terra.

Il 18 luglio il vice presidente USA Mike Pence ha pronunciato il discorso d’apertura all’annuale riunione dei “Christians United for Israel” [“Cristiani Uniti per Israele”] (CUFI). Fondato nel 2006 dal pastore John Hagee, un evangelico di San Antonio, il CUFI sostiene di essere il più numeroso gruppo filo-israeliano degli Stati Uniti, con tre milioni di membri. Nel maggio 2016 Hagee ha appoggiato la candidatura di Trump a presidente.

Pence ha di nuovo sostenuto che l’amministrazione Trump avrebbe spostato l’ambasciata USA a Gerusalemme, questa volta di fronte ai sostenitori cristiani di Israele che sono diventati sempre più insoddisfatti per il fatto che Trump non abbia ancora tenuto fede alla sua promessa elettorale nei confronti di Israele – segnando quello che alcuni analisti hanno visto come un nuovo cambiamento ideologico della Casa Bianca.

Il cambiamento ideologico della Casa Bianca

Il discorso di Pence segna un cambiamento fondamentale nel linguaggio che la Casa Bianca ha storicamente utilizzato per esporre i rapporti degli Stati Uniti con Israele,” ha scritto sul “Washington Post” Dan Hummel, uno studioso dell’Harvard Kennedy School.

Questo cambiamento fondamentale è verso il sionismo cristiano, un’ideologia che basa il proprio appoggio ad Israele sulla convinzione che il moderno Stato di Israele sia una manifestazione delle profezie della Bibbia – e che il destino degli Stati Uniti sia profeticamente legato ad Israele.

Hummel descrive Pence come un “ardente sionista cristiano” che esprime il proprio appoggio ad Israele in termini esplicitamente profetici. La sua comparsa alla riunione “indica una nuova era dell’influenza del sionismo cristiano sulla Casa Bianca.”

Pence non è da solo nel tentativo di convincere Trump a realizzare quello che i cristiani sionisti vedono come una profezia biblica. Mike Huckabee, l’ex governatore dell’Arkansas, sua figlia Sara Huckabee Sanders, ora addetto stampa della Casa Bianca, e Sara Palin esercitano una grande influenza nell’amministrazione Trump e sono ardenti sionisti cristiani.

Roy Moore dell’Alabama, che Trump ha appoggiato in Alabama per l’elezione al Senato, è annoverato in questo gruppo.

L’apocalisse dei cristiani sionisti

I sionisti cristiani, che sono circa 20 milioni negli Stati Uniti, negli ultimi decenni hanno investito milioni di dollari a favore di un’espansione di Israele. Hanno sponsorizzato la migrazione di migliaia di ebrei dalla Russia, dall’Etiopia e da altri Paesi.

Hanno contribuito con milioni [di dollari] alla costruzione di nuove colonie nelle zone palestinesi occupate per sistemarvi i migranti. “Lo spostamento [dell’ambasciata Usa a Gerusalemme] dimostra che il nostro presidente mantiene fede alla sua parola,” ha detto Hagee.

Ha anche detto alcune altre cose meno lucide: “Restituire Gerusalemme ai palestinesi equivarrebbe a restituirla ai talebani.” Ha anche detto che il popolo ebraico sta per bruciare all’inferno per l’eternità, a meno che non abbandoni l’ebraismo e si converta al cristianesimo dopo la battaglia di Armageddon [probabilmente Tel Megiddo, nell’attuale Israele nei pressi di Nazareth, ndt.].

Ciò è qualcosa in cui John Hagee crede, e in cui credono tre milioni di fedeli del CUFI e inoltre i complessivi 40 milioni di membri del movimento evangelico, o almeno vi credono in parte.

Rimane la più terrificante supposizione che una parte, o quanto meno qualcuna, delle cose che Hagee crede possa essere creduta anche dallo stesso presidente. L’ossessione di Trump per l’Islam potrebbe essere parzialmente influenzata dalle opinioni contro l’Islam dell’ex capo del CUFI, il defunto pastore Jerry Falwell.

Non più un onesto mediatore

Il 6 dicembre Trump ha esplicitamente negato la persistente speranza per una soluzione dei Due Stati. “Dopo più di due decenni di deroghe, non siamo più vicini ad un accordo di pace definitivo tra Israele ed i palestinesi. Pertanto ho deciso che è tempo di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come la capitale di Israele. Sarebbe una follia ritenere che ripetere esattamente la stessa formula produrrebbe ora un risultato diverso o migliore,” ha detto.

Il riconoscimento di Gerusalemme come unica capitale di Israele è molto più che simbolico. In effetti nega uno dei più fondamentali impegni del processo di pace, una soluzione dei Due Stati.

Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas lo ha pienamente compreso. I palestinesi sono ora convinti che gli Stati Uniti non possano essere degli intermediari imparziali, o neutrali – benché gli Stati Uniti non siano mai stati dei mediatori veramente obiettivi.

L’enorme influenza politica di Israele negli Stati Uniti ha reso impossibili rapporti onesti, e questa duplicità è palesemente evidente ora. Il mese scorso in un summit internazionale Abbas ha detto che gli Stati Uniti non sono adeguati a mediare nel conflitto in Medio Oriente, segnando un importante cambiamento di politica dopo decenni passati a corteggiare la benevolenza americana.

Abbas ha annunciato il cambiamento, che arriva in risposta alla dichiarazione di Trump su Gerusalemme, durante un incontro dei dirigenti musulmani che ha condannato la mossa degli USA e ha chiesto il riconoscimento mondiale di uno Stato palestinese con capitale a Gerusalemme est.

Il 21 dicembre l’assemblea generale dell’ONU ha votato per condannare la decisione di Trump su Gerusalemme. Quasi tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite l’hanno condannata, nonostante le sue minacce di negare ulteriori finanziamenti agli Stati che avessero votato contro.

Ciò porta ad una drastica fine del processo di pace attraverso il fruttuoso tentativo di Jared Kushner, il genero di Trump e principale consigliere, di chiedere ai palestinesi di accettare una totale capitolazione alle richieste di Israele. La famiglia Kushner e lui stesso hanno contribuito con milioni [di dollari] agli sforzi di colonizzazioni israeliane in Cisgiordania.

Il risultato del suo obiettivo di negare qualunque soluzione ai palestinesi per le loro rivendicazioni non avrebbe mai dovuto essere stato in dubbio, dal momento in cui gli è stata concessa da Trump autorità assoluta.

Il ritorno del messia

Una questione essenziale per i sionisti integralisti e per i loro alleati cristiani è la collocazione delle rovine del primo e del secondo tempio ebraico sotto il complesso della moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo più venerato dell’Islam. Un principio fondamentale della teoria dei sionisti cristiani è che un nuovo tempio venga costruito su queste antiche rovine.

I palestinesi credono che gli scavi archeologici israeliani sotto il complesso della moschea di Al-Aqsa per costruire il nuovo tempio costituisca una minaccia per la moschea. I sionisti cristiani sono assolutamente convinti che questo debba essere fatto per rispettare la profezia. Credono che una volta completata la costruzione del nuovo tempio il ritorno del messia sarà inevitabile.

L’unica speranza per i palestinesi è una graduale inclusione della popolazione palestinese della Cisgiordania e di Gaza in quella che diventerà un’entità unica, Israele. Un esito estremamente improbabile. Gli israeliani non acconsentiranno mai a concedere la cittadinanza ai palestinesi musulmani o cristiani, e il diritto di voto in quello che è ora dichiarato da Netanyahu come lo Stato ebraico.

Netanyahu ha l’incrollabile, forse delirante, convinzione di essere stato scelto da dio per guidare il popolo ebraico. Eyal Arad, un importante ex- consigliere politico, ha detto: “Il primo ministro ha una visione messianica di se stesso, come di una persona chiamata a salvare il popolo ebraico dal nuovo olocausto.”

Farebbe meglio a sbrigarsi. Ora è sottoposto alla quarta inchiesta per corruzione e malversazione da quando è al governo.

Anche Pence è convinto di essere chiamato da dio. Il suo passaggio biblico favorito, che spesso cita, è: “Poiché conosco i progetti che ho per te, dichiara il signore, progetti di farti prosperare e non di danneggiarti, progetti di darti speranza e un futuro.”

Pence è ambizioso, nonostante l’apparente mancanza di credenziali e i suoi errori politici come governatore dell’Indiana. Pence “ha chiarito” al comitato nazionale repubblicano di voler prendere il posto di Trump come candidato del GOP [il partito repubblicano, ndt.] per la presidenza all’indomani della registrazione di “Access Hollywood” [uno spettacolo televisivo. Nella registrazione Trump fa pesanti apprezzamenti sulle donne, ndt.] nell’ottobre 2016.

Un presidente veramente evangelico?

La scorsa estate il “New York Times” ha informato che sembrava che Pence si stesse preparando per la candidatura presidenziale. Pence ha risolutamente smentito la storia. Pence ha immaginato la reale possibilità che il GOP volti le spalle a Trump dopo un altro grave scandalo, garantendo la sua conseguente ascesa.

Gli Stati Uniti potrebbero finire per avere un presidente veramente evangelico. Ciò che è preoccupante non è che Pence creda in dio, ma che sembri sicuro che dio creda in lui.

I principali studiosi cristiani della Bibbia la vedono come un testo allegorico. I sionisti cristiani credono a un’interpretazione letterale del noioso e deprimente testo del libro dell’Apocalisse.

Il movimento sionista cristiano tuttavia non è un fenomeno recente. C’è stato più di un secolo di tentativi di restituire Israele ad una gloria biblica largamente illusoria. Nel 1600 re Giacomo I suggerì che “la fine del mondo” avrebbe avuto luogo in Palestina.

Come i sionisti cristiani ora, egli credeva che le tribù ebraiche dovessero essere riunite e tornare dalla diaspora in modo che la battaglia finale tra le forze del male e il messia potesse aver luogo ad Armageddon.

Un’altra dichiarazione Balfour

Lord Balfour, ministro degli Esteri britannico, e il suo primo ministro, David Lloyd George, erano entrambi simpatizzanti del sionismo cristiano. Nel 1917, tre anni prima che la Società delle Nazioni concedesse alla Gran Bretagna il mandato sulla Palestina, Balfour scrisse a lord Rothschild, appartenente alla ricchissima famiglia di banchieri ebrei e precoce sostenitore del sionismo, che “il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione di un focolare nazionale ebraico in Palestina e farà uso del suo massimo impegno per agevolare il raggiungimento di questo obiettivo.”

Lo Stato di Israele non avrebbe potuto nascere senza la dichiarazione Balfour. Quando gli Stati Uniti hanno riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, lo hanno fatto, almeno in parte, per invocare il messia e iniziare la preparazione della battaglia di Armageddon.

Questo è quello che credono i sionisti cristiani ed hanno senza sosta chiesto dall’amministrazione. La Bibbia ci dice che Gesù tornerà per mettere tutto quanto a posto.

I musulmani, gli ebrei, i buddisti, gli induisti, gli scintoisti, gli animisti, i seguaci del voodoo, i cattolici, gli agnostici e gli atei, ecc., verranno convertiti alle legioni del signore dei sionisti cristiani. Il messia, Gesù Cristo, prevarrà e porrà fine a tutto il male che ora ci colpisce. Annichilerà l’anticristo e la sua orda barbarica, che include i russi, ed egli, Gesù, regnerà come re sulla terra per mille anni di felicità ed abbondanza.

Ma in primo luogo credono che l’antico Israele debba essere reso totalmente immune da eretici di ogni convinzione religiosa, diversa dalla loro, in modo da rispettare la profezia biblica del ritorno di Cristo sulla terra.

Israele biblico

Secondo la liturgia sionista cristiana questo ritorno tuttavia non promette bene per gli israeliani. Purtroppo Israele non ci sarà più. Israele verrà distrutto durante questa apocalisse.

Secondo quello che credono, Gesù, addolorato che gli ebrei non lo vedano come il messia, ucciderà tutti gli ebrei che rifiutino di convertirsi al cristianesimo, o più precisamente al sionismo cristiano. Gesù non sembra essere uno che volge l’altra guancia quando viene offeso.

Se credi altrimenti, se credi che le profezie bibliche come le interpretano i sionisti cristiani siano una follia, fai parte della maggioranza senza speranza. Perché i sionisti cristiani sono riusciti ad avere alla Casa Bianca, grazie alla posizione di Mike Pence e dei suoi adepti, un’incredibile influenza su quella che forse è la più potente Nazione sulla terra.

Essi credono che solo l’apocalisse purificherà il mondo e che gli Stati Uniti debbano essere lo strumento che porterà a termine l’ira di dio. Le grandi risorse ed il potere militare degli Stati Uniti sono parte del piano divino per portare su di noi l’apocalisse.

Trump farà di tutto per incoraggiare la cieca lealtà di questo gregge che ha in eredità. Il partito Repubblicano dipende in modo massiccio dai sionisti cristiani sia per quanto riguarda i finanziamenti che i voti. Hanno un profondo effetto sull’orientamento del partito, anche se ora il partito sembra essere più teocratico che politico.

È molto probabile che i sionisti cristiani vadano a votare; sono più di venti milioni e sono finanziatori generosi. Sono la base di questa nuova teocrazia repubblicana.

Non vogliono la pace con i palestinesi. I palestinesi non hanno posto nell’Israele biblico. I sionisti cristiani vogliono che se ne vadano per purificare il nascente regno di Israele e consentire la loro eterna beatitudine in paradiso.

– Morgan Strong, un ex-professore di Storia del Medio Oriente, è stato consulente di “60 minuti” [programma televisivo statunitense di attualità della CBS, ndt.] sul Medio Oriente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il doloroso percorso di un conflitto secolare.

Alessandra Mecozzi (a cura di), Il lungo cammino della Palestina. 1917-2017, Edizioni Q, Roma, 2017, pp. 200, 10 €.

Cristiana Cavagna

Noi sappiamo che la nostra libertà non può dirsi compiuta senza la libertà dei palestinesi”

Nelson Mandela

Questa frase è significativamente riportata nella quarta di copertina di questo prezioso libro: a chiunque stia a cuore quella libertà, è indispensabile conoscere il cammino della Palestina, ed è a questo obbiettivo che il libro curato da Alessandra Mecozzi dà un semplice, chiaro e ben documentato contributo.

Il volume è frutto di un lavoro collettivo, nato dalla collaborazione tra l’associazione ‘Cultura è libertà’ di Roma e l’Association Belgo-palestinienne, di cui sono stati tradotti ed aggiornati fino al 2017 i testi di “La Palestine dans tous ses états”, stampato a Bruxelles.

Scrive nella sua prefazione Wasim Dahmash, saggista palestinese, docente di lingua e letteratura araba all’Università di Cagliari: “Evidenzierò la ragione per cui del ‘problema israelo-palestinese’ non si parla, avvolto com’è da un ostracismo tacito che coinvolge diversi livelli di responsabilità, delle istituzioni in generale, la politica, le università, i media. Una ragione che da sola basterebbe a motivare la pubblicazione del volume…”

Da questa fine d’anno, del ‘problema’ si parla in realtà parecchio, dopo la “bomba atomica” fatta scoppiare dal presidente Trump con il suo riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele: ma con quanta conoscenza di causa, e soprattutto con quanta onestà storica ed intellettuale, se ne parla nei media?

A maggior ragione quindi, questa disamina storica, questa documentazione che comprende dati, schede e mappe geografiche, è uno strumento davvero utile: ad orientarsi, per chi poco conosca del ‘problema’; a puntualizzare alcune tappe fondamentali del ‘cammino della Palestina’ (dalla fine dell’800 fino ad oggi), per chi già conosce e si impegna nelle battaglie per i diritti dei palestinesi; ad avere a disposizione un’ agile ‘cassetta degli attrezzi’, per chi voglia fare informazione, sensibilizzazione, formazione riguardo al ‘problema’, dalle scuole alle università, ai quartieri, alle associazioni….agli amici.

100, 70, 20 anni fa….

Ci è sembrato un buon modo per ricordare che il 2017 segna 100 anni dall’occupazione della Palestina e dalla Dichiarazione Balfour, 70 anni dalla partizione della Palestina votata dall’ONU, 50 dalla guerra dei 6 giorni e dall’occupazione dei territori palestinesi, che dura ancora oggi.” Così la nota introduttiva della curatrice, che precede una ricca e circostanziata cronologia , che va dagli ultimi decenni dell’800 (che vedono la nascita del movimento sionista) alla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU del 2016 che ribadisce l’illegalità delle colonie israeliane.

A questa cronologia complessiva si aggiungono nel corso del volume i percorsi temporali che segnano le singole trattazioni ( il diritto internazionale e i ‘piani di pace’; Gerusalemme, la colonizzazione e l’annessione dei territori palestinesi, il muro di separazione; l’economia palestinese e la crisi di Gaza; vittime, prigionieri e rifugiati palestinesi; i partiti politici e la resistenza palestinese; antisemitismo e antisionismo) e consentono di contestualizzare gli avvenimenti.

Ricco è anche l’apparato di rimandi a testi di approfondimento per ogni argomento trattato (particolarmente interessante e stimolante il capitolo che riguarda la discussione sui termini di antisemitismo e antisionismo, spesso confusi e sovrapposti, con riferimenti bibliografici a testi di Halper, Chomsky, Pappe).

Il cammino della Palestina

Il lungo cammino della Palestina si snoda a partire dall’occupazione dell’ottobre del 1917 da parte delle truppe britanniche e dalla dichiarazione Balfour di alcuni giorni dopo (2 novembre), che esplicita l’obbiettivo di “creare una sede nazionale per il popolo ebraico”: viene raccontato attraverso schede tematiche che illuminano i principali nodi dell’occupazione israeliana.

Sono elencate le più importanti tra le tantissime Risoluzioni dell’ONU, tutte inapplicate (Israele agisce totalmente al di fuori del diritto internazionale), fino alla condanna, nel 2004, della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja che dichiara illegale il muro di separazione costruito da Israele.

Si dà poi conto dei vari ‘piani di pace’, dagli Accordi di Oslo del 1993 al ‘Patto di Ginevra’ del 2003, tutti senza esito.

Viene affrontata la questione cruciale, oggi particolarmente attuale, di Gerusalemme est e delle colonie israeliane in continua espansione: il trasferimento forzato di popolazione palestinese, la confisca di proprietà private palestinesi, il diniego di permessi di costruzione e le conseguenti demolizioni di case, i 130 chilometri di muro già costruiti intorno e dentro a Gerusalemme, perseguono l’obbiettivo di portare a termine la ‘giudaizzazione’ di Gerusalemme, “rimettendo in causa il suo statuto di città aperta per le 3 religioni monoteiste”.

Due schede tematiche esaminano la situazione dello ‘strangolamento’ dell’economia palestinese e la questione dell’acqua: appropriazione delle terre e dell’acqua con il controllo delle falde acquifere; una terza è dedicata ad un approfondimento sulla ‘crisi umanitaria, economica e politica’ di Gaza, una prigione a cielo aperto di 360 km2 per circa 2 milioni di abitanti.

Un’accurata serie di dati accompagna le schede relative alle vittime del ‘conflitto’, ai prigionieri politici ed ai rifugiati.

Colonizzazione e resistenza.

Un filo ‘nero’ caratterizza il cammino tratteggiato, un filo che ha contraddistinto le politiche sulla Palestina, da quella della potenza britannica a quelle di tutti i governi israeliani: la colonizzazione, o meglio la colonizzazione da insediamento, e la discriminazione verso i palestinesi che presenta ormai caratteristiche di apartheid. Scrive con estrema chiarezza Dahmash nella prefazione: “…Le costanti della politica coloniale britannica, fino ad arrivare alla pulizia etnica della Palestina e la conseguente creazione dello Stato di Israele, sono gli stessi assi portanti che hanno guidato la politica di tutti i governi israeliani fino ad oggi……eminenti sudafricani, tra cui l’arcivescovo Desmond Tutu, nel visitare la Palestina sono stati colpiti dal modello dell’apartheid israeliano, secondo loro ancora più scientifico e feroce di quello sudafricano.”

Ma i palestinesi sono “un popolo che resiste”: “esistere, è resistere”, si legge sul muro di Qalqiliya, che viene riportato nel capitolo, tra gli ultimi, che parla della lotta dei palestinesi, definendola, come riconosciuto dal diritto internazionale, ‘resistenza legittima contro un’occupazione illegittima’, pur condannando senza ambiguità gli attentati suicidi contro i civili.

Non manca un riferimento finale al movimento BDS (Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni), lanciato nel 2005 da un’ampia coalizione di associazioni e sindacati palestinesi, a cui sempre più personalità ed organizzazioni aderiscono in tutto il mondo, e che il regime israeliano cerca in tutti i modi di reprimere.

Cristiana Cavagna è traduttrice e collaboratrice del sito Zeitun.info, Notizie sulla Palestina.

Già insegnante di diritto nelle scuole superiori, da anni è socia ed attivista di Amnesty International e Un Ponte per… Ha viaggiato in Palestina e Libano.