‘Nel mio programma di dottorato a Gerusalemme ero l’unica araba in giro. A parte gli addetti alle pulizie’

Hilo Glazer

31 dicembre 2021 – Haaretz

Nihaya Daoud è abituata a far alzare le sopracciglia. Questa è stata la reazione quando è andata all’estero per un post-dottorato di due anni senza portare i figli e quando è diventata la prima araba in Israele nominata docente di salute pubblica. E non ha paura di stuzzicare le piaghe della sua comunità

Una delle impressioni formative dell’infanzia di Nihaya Daoud, professoressa di salute pubblica all’Università Ben-Gurion, è l’aver capito il sentimento di delusione provato dai propri genitori: il padre aveva dovuto accantonare le speranze di studiare e lavorare tutta la vita nell’edilizia mentre la madre, un’eccellente studentessa, era finita a fare la casalinga.

Sono cresciuta con una mamma che avrebbe tanto voluto continuare le scuole e un papà che avrebbe desiderato una buona istruzione, ma nessuno dei due ci è riuscito,” racconta Daoud, 55 anni. “Così hanno investito tutto in noi, i figli. Da adolescente mi hanno spedita a tutti i gruppi possibili di approfondimento del doposcuola: arte, natura, matematica. Il messaggio era: sii eccezionale.”

Daoud ha preso sul serio il messaggio, determinata a metterlo in pratica. Così circa 10 anni fa, quando le hanno offerto un post-dottorato all’Università di Toronto, non ci ha pensato su due volte. Aveva dei bambini, il più piccolo frequentava la terza elementare, e la sua famiglia rimase piuttosto spiazzata al pensiero che lasciasse la casa per due anni.

Dopo tutto ci sono dei gap generazionali quando si parla dell’idea di quello che una donna deve essere e di cosa le sia permesso fare per realizzarsi,” spiega Daoud. “Per mia madre è stato difficile accettare che andassi da sola. È lei che ha seminato queste ambizioni in me, ma ciò nonostante pensava che fosse un po’ troppo.”

Quelle della famiglia di Daoud non sono state le uniche sopracciglia a sollevarsi. “Ricordo uno dei miei colleghi ebrei chiedere al mio compagno: ‘Come puoi lasciarla andare da sola?’” dice. Ma Daoud, un’epidemiologa sociale la cui ricerca si concentra sulle ineguaglianze nelle politiche sanitarie e sulla salute delle donne, ha ignorato il chiacchiericcio. Uno dei suoi articoli più citati, scritto durante il suo periodo all’estero, riguarda il legame fra il livello economico basso e la violenza da parte di un partner intimo fra le donne indigene in Canada. Anche mentre scriveva articoli per pubblicazioni prestigiose, il soggiorno all’estero ha permesso a Daoud di vedere con occhi diversi il posto dove era cresciuta.

C’è solidarietà nella società di immigrati in Canada, ci si aiuta l’un l’altro. Qui non è più così. La gente è alienata dalla vita della propria comunità: ‘Io vivo per me stesso, fine’.”

È sempre stato così?

No. La società araba in cui sono cresciuta era molto più ugualitaria. I nostri vicini ci portavano la farina e noi gli davamo l’uva. C’era un sostegno reciproco. Oggi alla gente non interessano i vicini, nessuno si guarda intorno. Alcuni hanno una Mercedes, altri non hanno niente da mangiare. La società araba è passata attraverso processi di individualizzazione più estremi che negli Stati Uniti e Canada. Oggi le disparità economiche sono spaventose.”

L’ingresso recente e storico di un partito arabo (United Arab List – UAL- la Lista Unita Araba o Ra’am) nella coalizione di governo in Israele è stato venduto al pubblico arabo anche come una mossa per contribuire a massimizzare i successi materiali.

Certamente. Il pensiero di Mansour Abbas (leader della UAL) [partito islamista, ndtr.] è individualistico-capitalista e non nasce necessariamente dalla preoccupazione per la collettività. È una narrazione che favorisce gli strati più ricchi della società araba. Israele ovviamente è d’accordo. Il messaggio è: primeggiate e preoccupatevi solo di voi stessi, dimenticatevi della vostra nazionalità, identità. Potete diventare il primario di un reparto in un ospedale con un ottimo stipendio, costruire una casa come un castello, ma intorno a voi tutto è orrendo: la strada di accesso al paese non è asfaltata, non c’è illuminazione stradale, c’è immondizia sparsa ovunque, violenza dietro ogni angolo. Ma questo semplicemente non vi deve interessare. È incomprensibile. Le politiche della UAL magari producono qualcosa a breve termine, ma stanno lacerando la comunità araba dall’interno. Fra noi sono in corso cambiamenti pericolosi. E ironicamente la persona in prima linea in tutto ciò è lui stesso un medico, un dentista. Abbas avrebbe dovuto essere una persona istruita che lavora col cuore.”

La sua critica dell’alienazione dei membri di maggior successo della società araba si concentra sui medici.

Perché è il mio campo. Gli uomini arabi che sono tornati dopo aver studiato medicina all’estero non hanno applicato le loro conoscenze al miglioramento dei servizi medici offerti alla comunità araba. Quasi tutti hanno scelto specialità per far carriera, medicina interna, chirurgia, o sono andati ovunque il sistema israeliano li indirizzava. È abbastanza comune vedere una ‘posizione lavorativa’ araba cambiare ogni cinque anni. Ogni reparto ospedaliero ha la sua foglia di fico araba. In genere i medici arabi tendono a preferire cariche in ospedale piuttosto che la medicina di comunità. Secondo me dovrebbero cercare di esercitare una maggiore influenza nelle loro comunità.”

Daoud non indietreggia davanti all’esame delle piaghe infette della propria comunità, ma il suo sguardo è anche costantemente rivolto all’establishment israeliano che le ha ignorate. La sua ricerca, per esempio, si è concentrata sull’impatto di fenomeni socio-politici (demolizioni di case, poligamia, mancanza di stato civile) sulla morbilità e sull’accesso ai servizi sanitari fra gli arabi israeliani. Il suo lavoro differisce perciò dalle classiche ricerche in questo campo, come spiega: “Altri ricercatori di salute pubblica percepiscono le variabili di genere, livelli di istruzione o impiego come elementi che interferiscono negativamente sulla ricerca. Quindi le hanno neutralizzate e standardizzate. Io faccio l‘opposto. Io non metto al centro batteri e virus, ma i sistemi sociali e politici.”

Questa non è ricerca convenzionale,” sottolinea Daoud, aggiungendo che “non è facile far risuonare questa voce critica nella costellazione politica in Israele e in quanto appartenente a una minoranza. Non ha mai trovato un orecchio attento. Quando stavo lavorando al mio dottorato ci fu una discussione sull’uso nelle ipotesi di ricerca del termine ‘discriminazione,’ o se optare per ‘razzismo.’ Io insistevo con ‘razzismo.’ I miei tutor continuavano a dirmi: ‘Dobbiamo insegnarti come sopravvivere nel mondo accademico israeliano.’”

Stile di vita femminista

Daoud è stata la prima araba in Israele a ottenere un dottorato in salute pubblica e dopo è diventata la prima docente universitaria in questo campo della sua comunità. Oltre a essere una ricercatrice molto prolifica che ricopre molte posizioni pubbliche e cariche in vari organismi nazionali, trova anche tempo per l’attivismo politico. All’interno della sua comunità Daoud è considerata un’autorità su problemi sanitari, sociali e di genere e di tanto in tanto anche i politici arabi le chiedono un’opinione. Nell’ultima elezione ha ricevuto offerte di candidarsi da due partiti, racconta, ma le ha rifiutate con decisione.

Daoud è sposata con Anwar, preside di una scuola a Gerusalemme Est. La coppia vive nella comunità ebraico-araba di Neve Shalom, situata fra Gerusalemme e Tel Aviv, e ha tre figli ormai grandi. È cresciuta a Tira, una città del “Triangolo” (una concentrazione di località arabe nel centro del Paese, vicino alla Linea Verde, [il confine tra Israele e Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967. ndtr.]), dove è nata anche sua madre. Nihaya è la seconda femmina di sette figli (“Sei di noi sono andati all’università”). Lei crede che l’enorme pressione e l’incoraggiamento ricevuti dai genitori non siano necessariamente unici e limitati alla sua famiglia e abbiano anche un contesto storico.

Il bisogno di dimostrare ciò che si vale con un’istruzione superiore è un ethos adottato da molti ‘migranti interni’ dopo la Nakba,” dice riferendosi alla guerra del 1947-49, la “catastrofe” quando oltre 700.000 arabi palestinesi fuggirono o furono espulsi dalle loro case. “Persero casa, terra e fonti di sostentamento, quindi gli studi diventarono parte della loro lotta per la sopravvivenza. Per chi è restato nelle proprie comunità e sulle proprie terre l’aspirazione a conseguire un’istruzione non è stata cosi forte, mentre i migranti interni hanno sviluppato una resilienza nel seguire questa strada.”

Daoud ricorda che la biblioteca nella casa dei genitori era sempre ricca e varia e includeva testi di politica. Normalmente andava con il padre alle riunioni del partito comunista, la sorella ha studiato medicina in Bulgaria con il sostegno del partito. Lei ha preferito rimanere in Israele e iscriversi a un corso di laurea in infermieristica all’Università Ebraica di Gerusalemme e da allora ha sempre fatto parte del mondo accademico.

Durante il mio dottorato in salute pubblica presso l’Hadassah (Centro Medico a Gerusalemme) ero l’unica araba del corso e praticamente l’unica araba in giro, a parte gli addetti alle pulizie,” racconta. “Nessuno mi ha fatto concessioni. Al contrario ho dovuto lavorare più duro per farmi strada.”

E per spiegarsi cita il caso di “quando ho contattato la Commissione di Helsinki (che supervisiona la ricerca medica e la sperimentazione sugli esseri umani) presso una notissima istituzione accademica di cui non farò il nome e chiesto di parlare al direttore. La segretaria l’ha chiamato al telefono dicendo: ‘C’è una tizia araba che vuole parlare con lei.’”

Durante la sua permanenza a Toronto, agli inizi del 2010, dove ha studiato per il post-dottorato, Anwar e i figli andavano a trovarla durante le vacanze mentre lei tornava in Israele appena poteva. Per la maggior parte del periodo i lavori di casa furono svolti dal marito. “Capitava anche che arrivassi alle otto di sera, lui non aveva cucinato e non ci fosse niente da mangiare.”

Il femminismo di Daoud non si limitava alla sua casa. Ha fatto la volontaria per la hotline per donne picchiate nella comunità arabo-israeliana ed è stata intensamente coinvolta in organizzazioni della società civile come Women and their Bodies [Donne e i loro corpi], un’ong ebraica e araba. Il suo ultimo progetto, che ha fondato con altre quattro professoresse, si prefigge di incoraggiare studentesse arabe a impegnarsi in carriere accademiche ad alto livello in tutti i campi. Comunque un tentativo di stabilire un comitato per l’avanzamento delle donne arabe è finito in modo frustrante: “Erano coinvolte nell’iniziativa donne provenienti da un’ampia gamma di campi: legge, educazione, sanità e così via. Avrebbe dovuto funzionare secondo il modello della rete delle Donne di Israele [una organizzazione lobbystica]. È stata una grande delusione. Donne di partiti arabi che si considerano vere femministe l’hanno semplicemente silurata a causa di conflitti interni per ottenere fondi.”

Ha provato una delusione simile all’inizio della sua carriera. Allora era la funzionaria del Ministro della Salute incaricata di creare programmi didattici per il sistema scolastico.

I programmi erano destinati al pubblico ebraico e quando ho chiesto che fosse implementato nella comunità araba mi dissero che non c’erano i soldi,” ricorda Daoud. “Ho capito allora che non era il posto giusto per me e ho deciso di cambiare direzione e concentrarmi sulla ricerca.”

La sua prima ricerca significativa si è occupata di come i meccanismi di discriminazione ed esclusione causino problemi di salute fra le donne beduine.

Abbiamo esaminato l’accesso ai servizi sanitari facendo un paragone fra donne di comunità riconosciute dallo Stato e donne di località non riconosciute. Naturalmente la situazione nelle comunità non riconosciute era molto più grave. Abbiamo visto chiaramente che il basso livello sociale fra le donne aveva implicazioni per la loro salute mentale e fisica. Una conseguenza di questo è la frequenza di depressione postnatale fra le beduine. La discriminazione è così profonda e radicata che si può fare molto poco a proposito. Mi sono sentita persa, non avendo nulla da offrire a queste donne.”

E poi si è chiesta: “Che senso ha?”

No, non mi sono mai limitata alle pubblicazioni accademiche, ma ho incontrato le persone rilevanti per parlare dell’argomento. Il tema della poligamia, per esempio, è emerso in un comitato insediato dal Ministero della Giustizia. Purtroppo non sono state invitate abbastanza arabe per comparire in commissione e le sue conclusioni sono state limitate. Lo Stato legalizza la poligamia per far star zitti i beduini su altri temi. In pratica lo Stato ha detto loro: ‘Tenete sotto controllo le vostre donne, ma non parlateci delle terre.’ Lo dico nel modo più diretto. E sfortunatamente l’oppressione delle donne nella società beduina ha conseguenze distruttive per la società nel suo complesso.” (Mentre la poligamia è praticamente illegale in Israele, sembra che in certi contesti le autorità chiudano un occhio).

Come?

Se l’uomo si occupa a malapena della sua ex moglie o della prima moglie, se lei è stata privata della possibilità di studiare, se non ha fonti di reddito, allora in realtà non ha status. E quindi anche la sua autorità sui figli viene meno. Che investimento nei propri figli ci si può aspettare da una donna così? E come ci si può sorprendere di quello che sta succedendo oggi?”

Sta alludendo alla cosiddetta “perdita di governance nel Negev”?

Certamente, questa è una delle spiegazioni. Quando le donne non hanno quasi controllo sulle proprie vite, il loro influsso sui figli è limitato.”

Alcuni anni fa, Daoud ha condotto con la partecipazione di 1.401 donne uno studio che analizzava le dimensioni della violenza domestica in Israele. “Abbiamo visto che la percentuale di denunce di violenza che riguardavano donne arabe era più del doppio che fra le ebree,” dice. Il database da lei creato le è servito come piattaforma per un ulteriore studio, centrato sull’uso dei servizi sanitari da parte delle donne.

I risultati hanno mostrato che le donne arabe che subiscono violenza consultano un ginecologo tre volte più spesso delle donne ebree picchiate. Le donne arabe si servono anche del servizio di stanze di emergenza con frequenza maggiore. La nostra interpretazione è che le donne arabe cercano l’aiuto del sistema sanitario solo quando subiscono gravi violenze fisiche. La decisione di vedere un ginecologo si spiega con la riluttanza a consultare il medico di famiglia e il timore che non risponderebbe adeguatamente. Inoltre il ginecologo consultato molto probabilmente sarà una donna che non vive necessariamente nello stesso paese e con ogni probabilità non sarà parente della paziente.”

Questa osservazione allude a uno dei maggiori ostacoli che si trovano davanti le donne arabe che sono cittadine israeliane nella loro ricerca del migliore servizio sanitario. L’ostacolo, fa notare la docente, parte dalla struttura familiare della medicina di comunità nella società araba, in particolare nelle zone rurali. Quindi molte donne vengono indirizzate a un medico di famiglia che è anche un parente.

Questo è un problema critico per le donne che sono vittime di violenza,” spiega Daoud. “Queste donne non hanno il coraggio di andare da un medico che è un parente oppure se quel dottore nota segni di violenza probabilmente non ci farà molta attenzione.”

Suppongo che ciò faccia sorgere difficoltà anche con problemi di salute meno seri.

Giusto. Dopo tutto non tutte le visite da un medico di famiglia riguardano un raffreddore. Talvolta c’è bisogno di un’impegnativa per un esame al seno o si devono rivelare dettagli intimi. Non è piacevole per una donna se il dottore che la esamina è suo cugino o il cugino di suo marito. Inoltre lei non può scegliere un dottore senza il consenso del compagno. Farsi visitare da un dottore di un’altra hamula (famiglia estesa) richiede una spiegazione: cosa è successo? Perché proprio lui? Perché non vai dal nostro parente? Questo ostacolo è un problema all’interno della comunità araba, ma è collegato a un vizio di tutto il sistema: più un medico ha successo nell’attrarre molti pazienti, più guadagna e la platea più facile da raggiungere per reclutare pazienti è la famiglia.”

Questo è un fenomeno problematico in sé: l’abuso della struttura familiare nella società araba per reclutare medici per scopi di marketing: le health maintenance organizations – HMO [enti privati di previdenza medica, ndtr.] approcciano i medici di famiglia arabi e li pagano enormi somme di denaro per portare i loro parenti nell’HMO. O, alternativamente, offrono loro un posto fisso a condizione che le loro famiglie aderiscano al HMO. Quali sono le conseguenze?

Serie. È una forma di corruzione. Così il sistema sanitario calpesta i diritti delle clienti assicurate. Quando i medici sono assunti non per la qualità dei loro servizi o per la loro eccellenza, ma solo per i benefici economici che possono fornire, si abbandona l’obbligo fondamentale di fornire alla comunità il servizio migliore da parte di tali professionisti. Alcuni di questi dottori sono assunti per lavori a contratto, non in medicina. Io vedo medici di famiglia che sono diventati piuttosto ricchi in questo modo, fanno soldi a spese dei pazienti. Comunque le stesse cose succedono anche nella società haredi [ebrei ortodossi e ultraortodossi, ndtr.]. Il fatto che il sistema permetta che il fenomeno esista, che addirittura lo incoraggi fra i gruppi più deboli della popolazione, è molto grave. Non deve succedere. Il Ministero della Salute deve intervenire.”.

La ricerca più recente di Daoud tratta della separazione tra le madri ebree e quelle arabe nei reparti di maternità degli ospedali. Il fenomeno in sé non è nuovo: è apparso sulle prime pagine dei giornali cinque anni fa in seguito a un’affermazione sull’argomento di Bezalel Smotrich (all’epoca parlamentare di Habayit Hayehudi, [“Casa Ebraica” partito di estrema destra dei coloni, ndtr.]): “È semplicemente naturale che mia moglie non voglia stare vicino a una che ha appena dato alla luce  un bambino che potrebbe assassinare nostro figlio fra 20 anni.” Daoud non cerca di quantificare il fenomeno, ma di svelarne l’origine. Il suo studio è consistito di interviste approfondite con direttori di ospedali, ostetriche, infermiere e neomamme, che hanno consentito a Daoud di rintracciare tre meccanismi di quello che lei chiama separazione razziale e cura iniqua nei reparti di maternità.

Il primo livello è la separazione che esiste in Israele in ogni ambito della vita e ci sono donne che vogliono imporre la separazione all’interno degli ospedali. Il secondo meccanismo è la commercializzazione dei servizi di maternità in Israele. Gli ospedali ricevono grandi somme di denaro dallo Stato per ogni parto e perciò lo staff capitola davanti alle richieste delle donne: ‘Vi daremo quello che volete purché veniate da noi.’ Il terzo meccanismo è ‘l’adattamento culturale.’ Il personale dell’ospedale ha trovato la giustificazione per la segregazione sostenendo che è per il bene delle donne.

Uno dei direttori ci ha detto chiaramente: ‘Quando Svetlana lascia la sala travaglio, perché dovrei metterla in un reparto con Fatma? Per lei sarà molto meglio una stanza con qualcuno come lei. Una mamma russa al massimo avrà un visitatore, un’araba sarà inondata da visitatori di tutta l’hamula.’ Proprio cosi, queste precise parole.”

Dopo lo shock vale la pena chiedere: E cosa ci sarebbe di così tremendo? Se una donna incontra solo gente come lei per tutta la sua vita, perché deve cercare di coabitare in una situazione così intima come il parto?

Una domanda legittima. Noi sappiamo che questa separazione è all’origine di discriminazione e razzismo in tutti gli ambiti della vita: alloggi, istruzione, welfare, trasporti. E noi vediamo come la separazione fra comunità arabe ed ebraiche causi un razzismo sistemico. Quindi non si deve prendere quel modello e clonarlo nel sistema sanitario. Gli ospedali dovrebbero essere strutture aperte a tutti.”

Non è che la conclusione che la segregazione conduca a un trattamento medico non ottimale sia un po’ esagerata?

Non credo che medici e infermieri agiscano in base a un razzismo consapevole o vogliano dare alle donne arabe trattamenti al di sotto della media. Ma noi sappiamo che il sistema sanitario è oberato e affamato di risorse, e così il personale deve stabilire delle priorità. La preoccupazione è che per il solo fatto che tu (in quanto professionista medico) stia mettendo un gruppo di donne appartenenti alla maggioranza della popolazione in una stanza e un gruppo di donne appartenenti alla minoranza in un’altra stanza, visiterai per prima la prima stanza. Quando il sistema soffre di mancanza di personale entrano in gioco gli istinti primari ed è lì che sta il pericolo.”

Cecità culturale’

All’inizio del mese Daoud ha ricevuto il premio Sami Michael Prize for Equality and Social Justice [Premio Sami Michael per l’Eguaglianza e la Giustizia Sociale], assegnato dall’Heksherim Institute for Israeli and Jewish Literature [Istituto Heksherim per la Letteratura Israeliana ed Ebraica] (che prende il nome da un famoso autore israeliano). Buona parte del suo discorso alla cerimonia l’ha dedicata alla pandemia da coronavirus e alle sue gravi conseguenze per i gruppi più deboli della popolazione. Daoud è un membro del gruppo di esperti per la crisi da COVID, un’iniziativa di volontari ebrei e arabi supportato dal New Israel Fund che si sta occupando, fra altri problemi, della diseguaglianza nell’assistenza medica che si è intensificata in conseguenza dello scoppio della pandemia. In questo quadro Daoud ha condotto uno studio che ha anticipato di sei mesi una ricerca simile del Ministero della Salute sul legame fra zone “rosse” (cioè quelle con alte percentuali di COVID) e lo status socio-economico.

La gestione della crisi da coronavirus nella società araba ha fallito,” asserisce. “Un personaggio che non viene dal campo [della sanità pubblica] è stato nominato direttore del progetto per la comunità araba. Questo mi ha fatto davvero infuriare. Ci sono moltissimi esperti e fra tutti si nomina lui? Abbiamo tutti visto le conseguenze. Le località arabe sono state in rosso quasi tutto il tempo. In generale i ministri tendono a nominare arabi con cui è comodo lavorare perché hanno legami con il governo. Questa è la mentalità di un regime militare.”

La nomina del Prof. Salman Zarka come commissario generale per il coronavirus ha portato un cambiamento in meglio nei rapporti con la società araba?

Non ho visto alcun cambiamento di questo tipo. Il commissario si occupa della società in generale.”

Ha importanza che un medico druso [corrente dell’Islam sciita una minoranza arabo-israeliana che il sionismo è riuscito a cooptare, ndtr.] sia l’autorità professionale suprema per la gestione della crisi?

Proviene dall’esercito (Zarka è un colonnello della riserva), dai Medical Corps (Corpi sanitari militari). Come tale si è formato per essere un arabo in quell’ambiente.”

Daoud ha cercato di esercitare un’influenza dall’interno. Mentre il Prof. Hezi Levi prestava servizio come direttore generale del Ministero della Sanità, lei ha lavorato per stabilire una commissione specializzata sotto i suoi auspici per affrontare la crisi da coronavirus nella società araba. In effetti una commissione è stata avviata, ma Daoud si è dimessa dopo un solo incontro.

Hanno nominato figure politiche in un modo inappropriato e inadatto,” spiega. “Quando ho visto che il direttore generale [del ministero] non si è presentato al primo meeting, ho capito che era un corpo senza denti, naso, bocca o occhi in quanto non ci erano stati presentati neppure dei dati trasparenti. Hanno nominato una commissione per poter dire che avevano nominato una commissione. Ho ringraziato e me ne sono andata.”

Sembra un po’ delusa per non essere stata chiamata a ricoprire una carica più importante.

Veramente no. Come ho detto ho avuto la possibilità di farne parte, sono stata invitata alle riunioni. In questo caso non è una questione di ego. Sto cercando di segnalare un problema molto più sistematico. È inaccettabile che non ci siano arabi nei centri decisionali del sistema sanitario eccetto i medici che hanno fatto il servizio militare nei Medical Corps. Non è ragionevole che la persona che ora supervisiona un budget ministeriale di centinaia di milioni di shekel destinati a migliorare la sanità nella società araba sia un ebreo. È illogico che le discussioni sulle disuguaglianze nella salute non siano guidate da un arabo. Ma dove siamo?”

Continua facendo notare che “si è creata una situazione assurda e inspiegabile. Nel sistema sanitario c’è moltissimo personale arabo, inclusi medici in posizioni apicali, ma gli arabi costituiscono meno dell’1% dello staff nella sede principale del Ministero della Sanità. Gli apparati che prendono le decisioni, impostano le politiche e incanalano i fondi sono quasi del tutto senza arabi.”

Eppure Daoud conclude: “Non sto dicendo che va tutto male. Il sistema sanitario in Israele è uno dei migliori in Occidente. Anche il Ministero della Salute ha ammesso le disparità esistenti al suo interno, il che è una situazione molto migliore che nel passato. Semplicemente non sta facendo abbastanza per ridurle.”

In questo contesto la professoressa ha elaborato un piano sistematico che richiede la messa in atto di un’unità ministeriale che si occupi di minoranze e il ritorno della categoria “nazionalità” nei documenti medici.

Negli anni ’80 le organizzazioni della società civile hanno lottato per farla cancellare, un errore da parte loro,” spiega. “La classificazione per nazionalità e altre categorie sociali possono servire come strumenti per implementare delle politiche. Se sai che esiste un certo fenomeno fra gli arabi e ci sono altri dati chiari sugli haredim, si possono adattare risposte specifiche per quelle comunità. Ciò sarebbe meglio della situazione odierna in cui il sistema soffre di cecità culturale.”

Daoud asserisce che riconoscere questo problema è già una mezza soluzione: “Il sistema sanitario deve essere coragggioso e riconoscere le diseguaglianze che esistono al suo interno. Una volta affrontate, vedremo la serenità arrivare nel sistema. Gran parte della violenza contro i team medici deriva dagli atteggiamenti razzisti dei pazienti contro i professionisti dell’assistenza medica che li cura, dagli atteggiamenti dei professionisti verso i pazienti o dagli atteggiamenti dei pazienti verso altri pazienti. Il sistema deve riconoscerlo. La sparatoria all’ingresso di Soroka (avvenuta recentemente nel Centro Medico di Be’er Sheva) non è stato un evento casuale. Il sistema sanitario è un microcosmo di tutti i mali della società. Le disparità in istruzione, impiego, alloggio e trasporti si esprimono in modo tangibile nei nostri corpi e poi noi le curiamo in un sistema sanitario malato.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Gerusalemme: palestinesi rischiano lo sgombero a seguito di una demolizione

Gerusalemme: palestinesi rischiano lo sgombero a seguito di una demolizione

Settanta abitanti affermano che se le autorità israeliane autorizzeranno la demolizione del loro edificio nella Gerusalemme est occupata rimarranno senza casa.

Zena Al Tahhan

9 novembre 2021 – Al Jazeera

 

Al-Tur, Gerusalemme Est occupata – A Gerusalemme, nel quartiere di al-Tur, circa 70 palestinesi, di cui più o meno la metà minori, sono a rischio di sgombero forzato in attesa di una decisione del tribunale israeliano sul destino dell’edificio di cinque piani in cui vivono.

Il 4 novembre le autorità di occupazione israeliane hanno informato i residenti che avrebbero potuto restare nelle loro case ancora una settimana prima che l’edificio venisse demolito per l’assenza di una licenza edilizia.

Gli abitanti hanno dichiarato ad Al Jazeera che domenica gli è stato proposto un altro ultimatum: pagare 200.000 shekel (55.572 euro) rimborsabili e avere tempo fino alla fine del mese per effettuare da sé la demolizione, o [lasciare che] lo Stato lo faccia per loro – al costo di due milioni di shekel (558.000 euro).

Hussein Ghanayem, l’avvocato dei condomini, ha affermato di aver presentato ricorso lunedì e che giovedì è prevista un’udienza in tribunale per stabilire quali misure potranno essere intraprese dalle autorità.

Il condominio di cinque piani si trova nell’abitato di Khallet al-Ain, all’interno del quartiere di Al-Tur (pronuncia At-Tur), noto anche come Jabal al-Zaytun (Monte degli Ulivi). Secondo l’avvocato, come nel caso di molte altre case della zona, fin dalla sua costruzione nel 2012, senza il rilascio da parte israeliana di una licenza edilizia, il palazzo ospita i 70 abitanti appartenenti a 10 famiglie.

Le organizzazioni per i diritti umani e i palestinesi hanno da tempo documentato il rifiuto delle autorità israeliane di rilasciare licenze edilizie nella Gerusalemme Est occupata, il che secondo le Nazioni Unite fa parte di un “regime di pianificazione restrittivo” che “rende virtualmente impossibile per i palestinesi ottenere permessi di costruzione, impedendo lo sviluppo di alloggi, infrastrutture e mezzi di sussistenza adeguati”.

Gli abitanti hanno scelto di rimanere nell’edificio fino all’arrivo dei bulldozer. Hanno ripetutamente chiesto di ottenere un permesso e hanno trascorso quasi nove anni nei tribunali combattendo contro l’ordine di demolizione, ma riferiscono che ogni volta si sono dovuti scontrare col rifiuto da parte delle autorità di occupazione con vari pretesti.

“Restiamo qui fino a quando non verranno e ci obbligheranno ad andarcene”, ha detto lunedì mattina la 47enne Rania al-Ghouj, mentre stava facendo colazione con i familiari nel suo appartamento al piano terra.

Lei e altri inquilini affermano di non avere i 200.000 shekel da versare allo Stato, né di voler demolire da sé l’edificio a causa dei rischi per la sicurezza.

“È uno sgombero forzato collettivo. Non c’è niente che possiamo fare a questo punto”, fa eco Iyad, il figlio 25enne di Rania.

“Pensano che se demoliranno le nostre case si libereranno di noi – non sanno che questo aumenterà solo la nostra resilienza”, aggiunge Iyad, mentre infila il falafel in un pezzo di ka’ak, una qualità di pane palestinese con sesamo tipico di Gerusalemme.

Da quando si sono trasferite nell’edificio le famiglie hanno pagato mensilmente alla municipalità di Gerusalemme controllata da Israele sanzioni per un totale di 75.000 shekel (20.917 euro) all’anno per famiglia per aver vissuto in un “edificio senza licenza”. Pagano anche un’elevata tassa di proprietà nota come Arnona in ebraico, così come gli onorari degli avvocati. Molti di loro dicono di essere indebitati, mentre altri affermano di non potersi permettere di prendere una casa in affitto in un’altra zona.

Secondo l’avvocato Ghanayem il terreno è proprietà privata di un membro della famiglia Abu Sbeitan, che possiede degli appartamenti nell’edificio. Ma egli afferma che le autorità di occupazione hanno rifiutato di concedere una licenza edilizia, sostenendo che il terreno “è destinato ad uso pubblico”. L’avvocato riferisce ad Al Jazeera che le autorità hanno dichiarato di voler invece costruire una scuola da destinare a quel territorio.

Secondo le Nazioni Unite solo il 13% della Gerusalemme Est occupata, che Israele ha annesso dopo la guerra del 1967, gran parte della quale è già stata edificata, è attualmente destinata ad opere di sviluppo e di tipo residenziale dei palestinesi.

“Una pianificazione inadeguata e inappropriata dei quartieri palestinesi ha portato al diffuso fenomeno delle costruzioni ‘abusive’ e della demolizione di strutture da parte delle autorità israeliane”, ha affermato l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA).

Circa il 57% di tutta la terra nella Gerusalemme est occupata è stato espropriato, anche a proprietari palestinesi privati, sia per la costruzione di colonie illegali che per la destinazione di zone territoriali ad “aree verdi e infrastrutture pubbliche”. Il restante 30%, osserva l’OCHA, comprende “aree escluse dal piano regolatore” in cui è vietata la costruzione.

‘Prosciugare i nostri nervi’

Myassar Abu Halaweh, una giovane madre di tre figlie, si è trasferita nell’edificio con suo marito nel 2013 dopo aver venduto parte del suo oro per permettersi un acconto per l’acquisto dell’appartamento, all’epoca del valore di 86.600 euro.

La 31enne ha detto ad Al Jazeera che la decisione del 4 novembre è stata uno shock per i residenti, che speravano di ricevere prima o poi una licenza edilizia.

“Nel corso degli ultimi nove anni ci siamo sempre trovati di fronte alla stessa situazione – abbiamo già ricevuto diversi ordini di demolizione, ma non ci siamo arresi – abbiamo continuato a fare ricorso contro le decisioni”, dice Abu Halaweh. “L’anno scorso abbiamo avuto delle indicazioni in base alle quali avremmo ottenuto la licenza, quindi io e mio marito abbiamo iniziato a investire di più nella nostra casa”.

“Questa doveva essere la casa in cui sistemarci. È come se ti rimandassero al punto di partenza quando finalmente cominci a vedere la tua vita procedere come dovrebbe.”

Mi sono laureata mentre vivevo in questa casa, in essa ho partorito, vi ho cresciuto le mie figlie. Essa è testimone dell’amore che abbiamo coltivato nella nostra famiglia. Il tempo che ci abbiamo trascorso durante il coronavirus!” prosegue con le lacrime che le rigano il viso, finché la figlia più piccola, Mariam di cinque anni, l’abbraccia e le dà un bacio.

“Ci stanno stressando, prosciugandoci finanziariamente ed emotivamente”, dice, aggiungendo che lei e suo marito stanno ancora pagando il costo dell’appartamento.

“Resteremo qui, in una tenda. Perché dovremmo partire con tanta facilità? Questo non è diverso da Sheikh Jarrah. Settanta persone senza casa sono un’altra Nakba [castrofe in arabo, in riferimento all’espulsione dei palestinesi nel 1947-49, ndtr.]”.

Nessun luogo dove espandersi

At-Tur è uno dei quartieri palestinesi più sovraffollati di Gerusalemme. Sui terreni del quartiere sono state costruite due colonie israeliane illegali, mentre l’espansione è bloccata dai vicini villaggi palestinesi, dalle strade dei coloni e dal muro di separazione.

Secondo Bimkom – un’organizzazione israeliana per i diritti composta da urbanisti e architetti – il “nucleo storico” di At-Tur “presenta una notevole densità abitativa e non ha quasi nessuno spazio per l’edilizia residenziale”.

L’organizzazione per i diritti legati alla progettazione urbana ha osservato che “l’unica speranza di espansione è a nord-est, dove si trova l’abitato non riconosciuto di Khallet al-Ain”, ma che lì è stata proposta la progettazione di un parco nazionale, per cui “ulteriori complessi abitativi sono considerati illegali in quanto costruiti su aree non destinate all’edilizia abitativa”.

Nel 2014 Bimkom scriveva: “Gli abitanti di At-Tur, principalmente quelli che si trovano nelle aree non riconosciute e non pianificate, vivono sotto la costante minaccia di demolizioni di case e ordini di evacuazione”.

Ghanayem riferisce ad Al Jazeera di difendere nella zona di Khallet al-Ain gli abitanti di altri 155 edifici e abitazioni prive di licenza.

“Dal 1967 ad oggi non hanno creato un piano regolatore che soddisfi le esigenze degli abitanti di At-Tur”, afferma Ghanayem. “L’edificio di At-Tur è privo di licenza non perché le persone non la vogliono ottenere, ma a causa della situazione in cui le persone vivono”,  aggiunge, rilevando il drammatico aumento della popolazione del quartiere rispetto alla mancanza di licenze rilasciate dal Comune di Gerusalemme.

Secondo gli organi di informazione israeliani domenica il comune ha presentato una mappa strutturale per At-Tur e la vicina città di al-Issawiya che dovrà essere discussa e approvata dalle autorità. Non è chiaro se il piano consentirà agli abitanti di ottenere le licenze, processo lungo e costoso sia per fabbricati esistenti che nuovi.

Secondo l’OCHA almeno un terzo di tutte le case palestinesi nella Gerusalemme est occupata è privo di licenza edilizia, il che mette potenzialmente a rischio di sgombero più di 100.000 abitanti.

Le ONG locali e le organizzazioni per i diritti hanno a lungo indicato una serie di pratiche e politiche israeliane a Gerusalemme volte ad alterare il rapporto demografico a favore degli ebrei, un obiettivo definito nel piano generale del comune del 2000 nei termini di “mantenere una solida maggioranza ebraica nella città”.

Secondo le organizzazioni per i diritti umani l’espansione illegale delle colonie, la demolizione di case palestinesi e le restrizioni allo sviluppo urbanistico sono alcune delle modalità principali utilizzate per realizzare questo obiettivo.

‘Nessuna scusa

Tornando a casa della famiglia al-Ghouj, Iyad, che vive con i suoi genitori, insieme ai suoi due figli, moglie e fratelli nel loro appartamento con tre camere da letto, dice ad Al Jazeera che spera che i suoi figli “avranno un futuro migliore” del suo.

“Non c’è nessuna alternativa per noi, nessun posto dove andare. Ci sono spazi enormi qui, non ci sono scuse per proibirci di ottenere una licenza”, sostiene Iyad, indicando il grande spazio aperto adiacente all’edificio.

“Il mondo dovrebbe venire a vedere l’ingiustizia in cui vive il popolo palestinese, l’umiliazione. Non siamo né i primi né gli ultimi ad affrontare tutto questo.

Assistiamo al proliferare di costruzioni in colonie come Modi’in, o a come in Cisgiordania un gruppo di coloni piazza case mobili e pochi anni dopo diventa una colonia”, dice Iyad.

Fayez Khalafawi, 60 anni, la cui famiglia possiede due appartamenti nell’edificio, è d’accordo.

“Se facciamo venire a vivere qui i coloni, otterranno un permesso in 24 ore e lo Stato farà di tutto per loro”, dice ad Al Jazeera.

“Il Comune di Gerusalemme non vuole palestinesi in città”.

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Marginalizzare economicamente le donne palestinesi in Israele

Suheir Abu Oksa Daoud –

28 Settembre 2017,Al-Shabaka

Sintesi

Le donne palestinesi cittadine di Israele hanno una delle percentuali più basse di partecipazione al mercato del lavoro, mentre le loro omologhe ebree hanno una delle più alte. Benché i dirigenti del governo israeliano abbiano pubblicamente affermato che il Paese deve incentivare l’economia dei palestinesi di Israele, promuovendo soprattutto il lavoro delle donne palestinesi, le loro affermazioni non sono state seguite da fatti concreti. 1 2

Non sorprende che lo sviluppo palestinese non sia una priorità nell’elaborazione delle politiche israeliane. La minoranza, che costituisce circa il 21% della popolazione totale israeliana di 8,7 milioni, ha sofferto povertà, emarginazione e discriminazione da parte del governo israeliano fin dalla Nakba [l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi nel ’47-’48 che ha permesso la nascita dello Stato di Israele, ndt.]. Inoltre durante lo scorso decennio le azioni israeliane hanno portato ad un più profondo peggioramento dei rapporti tra i palestinesi e le istituzioni statali e la comunità ebraica. La guerra contro il Libano del 2006 e gli attacchi contro Gaza del 2008 e del 2014, per esempio, hanno ulteriormente allontanato i palestinesi cittadini di Israele.

La lotta delle donne palestinesi per un lavoro in Israele è emblematica dell’oppressione sistematica di questa minoranza da parte di Israele. La bassa percentuale di donne nel mercato del lavoro non è, come in genere si pensa, semplicemente dovuta alla cultura “tradizionale” palestinese o musulmana. Mentre nel passato ostacoli sociali bloccavano il lavoro fuori casa delle donne palestinesi, profondi cambiamenti politici ed economici nella società palestinese hanno contribuito ad una maggiore accettazione e promozione di questo lavoro. Invece le politiche statali israeliane nei confronti delle lavoratrici palestinesi sono state centrali nella loro emarginazione dalla produzione e dal lavoro.

In questo articolo Suheir Daoud tratta dell’emarginazione delle donne palestinesi nel mercato del lavoro israeliano. Esamina il mancato appoggio di Israele alle donne palestinesi che lavorano nell’impiego pubblico come parte di una politica sia storica che attuale che intende isolare e controllare il potenziale della minoranza palestinese al servizio degli interessi della maggioranza ebraica. Conclude con raccomandazioni su quello che i palestinesi possono fare per favorire il lavoro delle donne palestinesi in Israele.

Emarginazione economica fin dalla Nakba

L’emarginazione delle donne palestinesi nel mercato del lavoro israeliano e più in generale l’ostruzionismo allo sviluppo economico dei palestinesi in Israele sono stati obiettivi fondamentali di Israele fin dalla Nakba.

Dopo il 1948 [anno della fondazione dello Stato di Israele, ndt.] Israele ha adottato una politica economica capitalistica intesa ad integrarsi nell’economia mondiale. Uno dei principali obiettivi era di assorbire e fornire un impiego agli immigrati ebrei, e questo scopo venne realizzato attraverso l’espropriazione dei palestinesi. In migliaia persero la propria terra e la propria casa.

In conseguenza di ciò, nei due decenni di legge marziale [in vigore nelle zone palestinesi in Israele dal 1948 al 1966, ndt.] che seguirono la fondazione di Israele, le donne palestinesi lavorarono principalmente in attività come addette alle pulizie e sarte nei villaggi arabi, soprattutto nel Nord [di Israele]. Altri fattori che contribuirono alla loro emarginazione professionale furono una mancanza di opportunità di lavoro nei villaggi e nelle città arabi e il ridotto tasso di alfabetizzazione.

La guerra del 1967 provocò cambiamenti fondamentali nell’economia israeliana, con un afflusso di capitali, di investimenti e di aiuti che creò molto lavoro. Ciò contribuì a un miglioramento delle condizioni di vita e spinse le donne palestinesi in Israele ad entrare nel mercato del lavoro retribuito per garantire risorse supplementari per aiutare le proprie famiglie e cercare di usufruire del miglioramento delle condizioni.

Eppure durante gli anni continuò ad essere difficile per le donne palestinesi garantirsi un lavoro. Negli anni ’90, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, circa un milione di ebrei russi immigrarono in Israele. La maggioranza di questi immigrati era in possesso di titoli di studio superiori ed ottenne lavori come medico e infermiere. Arabi istruiti con professionalità simili vennero sostituiti. Nel contempo russi non qualificati, soprattutto donne, vennero impiegati nelle pulizie, negli alberghi e come operai, portando a licenziamenti generalizzati delle donne palestinesi che avevano occupato quei posti per decenni.

Anche il trattato di pace tra Israele e la Giordania del 1994 contribuì all’emarginazione economica delle donne palestinesi. L’accordo aprì le porte agli investimenti israeliani in Giordania, spingendo Israele ad aprire molte fabbriche là, così come in Egitto. Molte donne palestinesi persero il loro lavoro in fabbrica in Israele, soprattutto nel ramo tessile e dell’abbigliamento, e le possibilità di lavoro in questo settore diminuirono. Alla metà degli anni ’90 il numero di donne palestinesi che lavoravano nelle fabbriche tessili israeliane scese da 10.700 a 1.700. Inoltre Israele accolse migliaia di lavoratori stranieri a lavorare nei settori agricoli e delle costruzioni, portando a una riduzione nella percentuale di lavoratori palestinesi in questi settori, soprattutto donne che svolgevano lavori agricoli stagionali.

Più istruite, ma ancora disoccupate

Dopo la guerra del 1967 l’immigrazione di migliaia di contadini palestinesi nelle città israeliane per lavorare ebbe un significativo impatto sulla struttura dei villaggi e delle famiglie arabi. L’esproprio delle terre da parte di Israele e la trasformazione dei palestinesi in forza lavoro a buon mercato fece sì che le famiglie estese perdessero il proprio sostentamento nell’agricoltura. Le grandi famiglie palestinesi si urbanizzarono e si frammentarono, e le famiglie nucleari divennero più frequenti.

Questi cambiamenti influirono sui rapporti economici e sociali dei palestinesi, compresi i loro atteggiamenti nei confronti dell’educazione delle donne. L’educazione delle ragazze e delle donne diventò più frequente in quanto la nuova generazione divenne più aperta ai concetti di libertà, uguaglianza sociale e ai diritti delle donne3 . E poiché i palestinesi di Israele compresero che l’istruzione era la strategia più importante per avere successo nella società, dopo la fine della legge marziale l’iscrizione di giovani arabi, comprese le donne, nelle università israeliane aumentò.

Allora donne palestinesi istruite fecero carriera, soprattutto nei campi dell’educazione e infermieristico, e contribuirono a fonti aggiuntive, e spesso primarie, di reddito per le loro famiglie. Di frequente lavoravano in scuole arabe come insegnanti, e col tempo dominarono la professione. E nel corso degli ultimi due decenni, le donne palestinesi in Israele si sono impiegate in molti ambiti lavorativi non tradizionali, tra cui il settore legale e giuridico, quello medico, le arti, la produzione cinematografica e l’ingegneria. L’indipendenza economica delle donne lavoratrici ha incentivato la consapevolezza da parte di altre di maggiori opportunità.

Tuttavia le lavoratrici palestinesi sono state l’eccezione piuttosto che la regola. Benché il tasso di impiego sia aumentato per le donne istruite, la partecipazione femminile palestinese nel mercato del lavoro israeliano non è stata commisurata al loro livello di istruzione. La loro percentuale di partecipazione è una delle più basse al mondo, di circa il 21%. Questo dato è rimasto pressoché costante per più di 20 anni, mentre nello stesso periodo quello delle donne ebree è aumentato – dal 47% nel 1990 al 59% nel 2016. L’attuale tasso per le donne ebree è uno dei più alti al mondo, superiore persino a quello degli Stati uniti, al 56%. Mentre i dati dell’ONU mostrano negli ultimi decenni un costante aumento della partecipazione femminile al lavoro salariato a livello globale, il modesto tasso di lavoro per le donne palestinesi in Israele racconta anche una storia diversa.

Ostacoli al lavoro delle donne palestinesi da parte dello Stato

L’incremento nelle assunzioni in ogni ordine di scuola tra le donne palestinesi in Israele dimostra che non sono solo la “cultura palestinese” o “l’Islam” che impediscono alle donne di ottenere un impiego, ma lo Stato israeliano.

Israele sottopone la propria minoranza palestinese a politiche discriminatorie che le negano, benché [si tratti di] cittadini israeliani, molte posizioni di alto livello, in molti casi per ragioni di “sicurezza”. Per esempio, istituzioni governative come la Banca Centrale di Israele, aeroporti e mezzi di comunicazione statali raramente assumono palestinesi. Inoltre, benché la legge israeliana per le pari opportunità vieti ai datori di lavoro discriminazioni sulla base del sesso, della razza o della religione contro chi si offre per un lavoro, le donne palestinesi che fanno domanda [di lavoro] si trovano di fronte a pregiudizi. Un velo da donna o un ebraico con un accento [arabo] sono spesso invocati come giustificazione per negare loro l’assunzione.

Israele continua anche a privare i palestinesi del loro ruolo nell’agricoltura, espropriando la loro terra e negando i sussidi governativi per i coltivatori. E i successivi governi israeliani hanno rifiutato lo sviluppo di città e villaggi arabi e continuano a perseguire politiche discriminatorie in termini di finanziamenti, pianificazione urbana, progetti di edilizia, trasporti pubblici e zone industriali che potrebbero fornire opportunità di lavoro.

Di conseguenza piccole città e villaggi arabi, i cui dirigenti sono anche noti per il malgoverno e la corruzione, soffrono a causa dello scarso sviluppo e pianificazione e per una limitata rete di trasporti, soprattutto nei nuovi quartieri, che spesso mancano di strade asfaltate e di servizi. Questa mancanza di mezzi di trasporto impedisce alle donne palestinesi di garantirsi un lavoro. Uno studio dell’organizzazione femminista “Kayan” ha mostrato che, mentre il numero di donne palestinesi in Israele che ottengono la patente di guida è in aumento, il 37% di chi ha risposto ha affermato di non poter comprare un’automobile per la mancanza di mezzi finanziari, e il 23% ha detto di non possedere una macchina a causa delle tradizioni e delle barriere sociali. Per esempio, le donne druse hanno il divieto di guidare per ragioni religiose, benché alcune di loro abbiano sfidato questo divieto e guidino automobili.

Anche la grave carenza di asili-nido nelle zone palestinesi impedisce alle donne di entrare nel mercato del lavoro. In effetti solo 25 asili finanziati dal governo operano nelle zone arabe di Israele, mentre in quelle ebraiche ce ne sono 16.000.

Persino quando lavorano, le donne palestinesi patiscono di una differenza di stipendio e di una doppia discriminazione, in quanto vivono in una società maschilista che inoltre discrimina gli arabi a favore degli ebrei. Benché la legge israeliana preveda salari uguali sul lavoro, tutte le donne in Israele guadagnano il 15% in meno rispetto agli uomini, e i cittadini palestinesi maschi di Israele guadagnano stipendi dimezzati rispetto ai loro colleghi ebrei per lo stesso lavoro.

Queste varie difficoltà obbligano molte donne palestinesi a rimanere a casa e ad occuparsi dei loro figli piuttosto che cercare un lavoro nella sfera pubblica.

Il ruolo del patriarcato

Come altre società industrializzate, Israele è patriarcale, basato sull’idea della superiorità maschile. Questo si può vedere nella separazione tra il privato ed il pubblico e nella differenza di stipendio tra uomini e donne.

Sia nella società ebraica che in quella palestinese atteggiamenti patriarcali riguardo al ruolo della donna e al lavoro fuori casa stanno cambiando. Tuttavia un cambiamento formale è stato evidente solo tra le donne ebree israeliane. Il patriarcato israeliano non ha impedito alle donne ebree di raggiungere uno dei più alti indici del mondo nella partecipazione al lavoro, mentre quella delle donne palestinesi rimane bassa.

La grande maggioranza della società araba appoggia una maggiore istruzione e il diritto al lavoro delle donne, benché questo appoggio si riduca in qualche misura tra quelle che si identificano con la religione, indipendentemente da quale essa sia. Eppure persino il “Movimento Islamico” in Israele, tradizionalmente accusato di conservatorismo riguardo alle donne, ha sottolineato l’importanza dell’educazione femminile. La sezione settentrionale del movimento, messa fuori legge da Israele, appoggia l’educazione delle donne anche se continua a isolare ragazzi e ragazze e a costruire scuole separate per le ragazze.

Cambiamenti nella cultura patriarcale palestinese sono stati più rapidi e più complessivi tra la gente della Galilea [nel nord di Israele, ndt.], tra i cristiani e tra le donne che si definiscono laiche. Le donne cristiane partecipano al mercato del lavoro con una percentuale del 45%, contro il 23,9% delle donne musulmane. Questa differenza può essere attribuita al fatto che la maggioranza delle donne cristiane vive nelle città, dove le donne trovano maggiori opportunità di lavoro rispetto a quelle che vivono in periferia o nei villaggi. I membri della comunità cristiana iscrivono inoltre i propri figli nei corsi scolastici superiori più dei loro omologhi musulmani ed ebrei, tendono a sposarsi più tardi e hanno il più basso livello di natalità dello Stato4 . Questi fattori, così come il fatto che le donne cristiane non sono sottoposte alle stesse restrizioni di quelle di altre religioni o che vivono in certe zone, come nel Naqab [Negev in arabo, ndt.], hanno contribuito a incrementare la loro partecipazione al mondo del lavoro.

Le donne beduine del sud del Naqab hanno il livello più basso di partecipazione tra le donne palestinesi, con solo il 6% della forza lavoro. La repressione israeliana dei beduini del Naqab, che sono circa 130.000, ossia l’11% della popolazione palestinese all’interno dello Stato, contribuisce a questa bassa percentuale.

La comunità beduina deve far fronte alla costante minaccia di deportazione e demolizione delle proprie case. Numerose leggi che potrebbero migliorare la condizione delle donne beduine, come il codice penale del 1977 che stabilisce una condanna a cinque anni per poligamia, non vengono applicate, e la poligamia tra gli uomini beduini è salita al 20-30%. Tuttavia l’istruzione delle donne sta aumentando nel Naqab, ed un crescente numero di donne beduine studentesse universitarie ed attiviste sta lavorando per aiutare le donne dal punto di vista sociale e a sfidare le politiche razziste dello Stato.

Sfide palestinesi al sistema israeliano

La società civile palestinese in Israele gioca un importante ruolo nell’appoggiare l’autonomia delle donne, anche organizzando campagne di sensibilizzazione, seminari e corsi di formazione per promuovere l’emancipazione femminile, così come pubblicando rapporti e ricerche sulle donne. Molte organizzazioni locali femminili, compresa l’organizzazione femminista “Kayan” di Haifa e “Donne contro la violenza” di Nazareth, si concentrano soprattutto sulla violenza contro le donne. Alcune organizzazioni israeliane operano all’interno della comunità palestinese sotto amministrazione palestinese, come “Shatil”, che appoggia le organizzazioni palestinesi che si concentrano sull’emancipazione delle donne, e organizzazioni dei diritti umani come il “Centro Mossawa” e “Adalah”.

Eppure i politici e le organizzazioni palestinesi in Israele concentrano le proprie azioni soprattutto su seminari, incontri e dichiarazioni. Raramente vengono proposti una politica pragmatica, un piano di azione specifico o un quadro inclusivo per coordinarsi tra i partiti. Ed anche quando è proposta una politica, tali iniziative in genere mancano di verifica. Questo è stato il caso della “Prospettiva futura degli arabo-palestinesi in Israele”, che è stata progettata da Ong e docenti universitari palestinesi in Israele. Il documento intende confermare i diritti storici della minoranza palestinese e chiede uno Stato inclusivo invece di uno “Stato democratico ebraico”.

Tuttavia alcuni parlamentari palestinesi alla Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] stanno lavorando per migliorare la condizione delle donne palestinesi nel mercato del lavoro e per garantire loro l’applicazione delle leggi sul lavoro. Tra questi c’è la deputata Aida Toma-Suleiman [deputata palestinese cristiana eletta nella “Lista unitaria”, ndt.], del “Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza” [coalizione di sinistra marxista, ndt.], che spinge per l’applicazione delle leggi che garantiscono l’inclusione delle donne. Anche la “Lobby delle Donne in Israele” sta lavorando con un numero verde per ricevere lamentele di donne sottoposte a pratiche di lavoro illegale e per assisterle nei processi.

Alcuni deputati palestinesi maschi, compreso Massoud Ghanayem, della sezione meridionale del “Movimento Islamico”, condannano fermamente lo sfruttamento delle donne sul posto di lavoro. Chiedono protezione ed appoggio per le lavoratrici e un controllo più rigido sul lavoro. Sostengono anche diritti come lo stipendio minimo. L’ex-deputato Issam Makhoul [del “Fronte Democratico”, ndt.] ha affermato che il fatto che Toma-Suleiman sia a capo della commissione delle donne alla Knesset è un indicatore positivo ed importante dell’appoggio ai diritti delle donne palestinesi.

Gli ostacoli che si trovano di fronte le donne palestinesi in Israele necessitano di azione, soprattutto da parte di intellettuali, partiti e leader religiosi palestinesi per cambiare i preconcetti ed ampliare il ruolo e la partecipazione delle donne. Mentre si devono concentrare sull’appoggio all’emancipazione delle donne dalle strutture patriarcali che determinano il loro ruolo all’interno della famiglia, devono soprattutto lottare contro le politiche repressive e discriminatorie di Israele.

Cosa possono fare i palestinesi

Poiché l’ideologia e la prassi israeliane sono volte principalmente all’esclusione dei palestinesi, soprattutto delle donne, dal lavoro e dallo sviluppo in Israele, i palestinesi in Israele devono assumere un ruolo guida nella progettazione e messa in opera di strategie per migliorare la partecipazione delle donne nella sfera pubblica. Qui di seguito vengono fatte alcune raccomandazioni per l’azione.

  • I cittadini palestinesi devono organizzare campagne internazionali di pressione per spingere il governo israeliano a ottemperare ai suoi obblighi verso l’OECD [Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, organismo intergovernativo composto da 35 Paesi membri, ndt.] ed altre organizzazioni internazionali che prescrivono l’uguaglianza riguardo al sesso, alla razza o ad altri fattori.

  • L’”Alto Comitato di Controllo per i Cittadini Arabi di Israele” deve assumere un ruolo centrale come ente politico nazionale che rappresenta tutti i palestinesi in Israele e sviluppare meccanismi chiari ed integrati per affrontare l’emarginazione delle donne palestinesi nel mercato del lavoro. Deve anche condurre uno studio annuale dell’iniziativa “Prospettiva futura degli arabo-palestinesi di Israele” del 2006 per analizzare le dimensioni di questa messa in pratica e, se necessario, avanzare proposte ulteriori o alternative.

  • Le autorità locali palestinesi devono coordinarsi e collaborare per costruire reti di trasporti alternative ed aprire asili-nido nei villaggi e nelle città palestinesi.

  • La società civile e le organizzazioni dei diritti umani devono educare le donne sui loro diritti e su come affrontare le difficoltà e lo sfruttamento sul lavoro. Queste organizzazioni dovrebbero fornire aiuto legale alle donne presentando reclami e azioni legali nei casi di discriminazione e sfruttamento.

Altri passi possono essere intrapresi dai mezzi di comunicazione, da comunità e dai dirigenti palestinesi. Solo con simili azioni coordinate e integrate le donne palestinesi di Israele inizieranno a mettere in pratica il proprio potenziale e ad esercitare i propri diritti.

Notes:

  1. Al-Shabaka è grato per lo sforzo dei sostenitori dei diritti umani per la traduzione di questi testi, ma non è responsabile per eventuali modifiche del significato.

  2. Questo articolo è ricavato dalla tesi magistrale dell’autrice “Donne lavoratrici palestinesi in Israele,” Clark University, 2003, e da “Donne lavoratrici palestinesi in Israele: oppressione nazionale e restrizioni sociali”, Journal of Middle East Women’s Studies 8, 2 (Spring 2012): 78- 101.

  3. Anche la “Legge per l’obbligo scolastico di Israele” del 1949, che rende obbligatoria l’educazione per i bambini dai 5 ai 13 anni, ha aiutato a stimolare questo cambiamento.

  4. Le donne cristiane in Israele hanno una natalità di 2,2 rispetto al 3,5 delle musulmane e al 3 delle ebree.

Suheir Abu Oksa Daoud

Suheir Abu Oksa Daoud, membro di Al-Shabaka, ha un dottorato in scienze politiche dell’Università Ebraica di Gerusalemme ed è professore associato nel dipartimento di politiche alla “Coastal Carolina University”, Conway, South Carolina. E’ stata assistente ospite all’ “Harvey Mudd College”, borsista post dottorato al “Pomona College” e ricercatore in visita al “Center for Contemporary Arab Studies” alla “Georgetown University”. In precedenza ha lavorato come consulente di un parlamentare della Knesset. Daoud ha pubblicato quattro volumi di poesie e di letteratura arabe e il suo libro universitario “Palestinian Women and Politics in Israel” [Donne palestinesi e politica in Israele] è stato pubblicato nel 2009 dalla University of Florida Press. 

(traduzione di Amedeo Rossi)