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L’uccisione di Shireen Abu Akleh: come i media occidentali hanno ripetuto a pappagallo la propaganda israeliana

Abir Kopty

13 maggio 2022 – Middle East Eye

Invece di confidare nelle dichiarazioni dei testimoni oculari palestinesi, i giornalisti occidentali hanno ripreso le argomentazioni di Israele

Questa settimana noi palestinesi siamo rimasti tutti scioccati nel commemorare l’uccisione della celebre giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh. Ma nel nostro cordoglio siamo obbligati a testimoniare come ancora una volta i mezzi di comunicazione occidentali ci stiano deludendo.

Quando un palestinese viene ucciso da forze israeliane il fatto è sempre descritto in termini passivi. Moriamo sempre per conto nostro, nessuno ci uccide. A volte moriamo come danni collaterali in “scontri”, senza che venga descritto il contesto, come sia scoppiato lo scontro o la sproporzione delle forze in gioco.

Poi scatta l’automatica adozione del punto di vista israeliano, che è sempre manipolatorio. La strategia israeliana è negare immediatamente ogni responsabilità, poi mettere in dubbio i testimoni palestinesi, ponendo le basi per l’affermazione che ci sono “due versioni” della vicenda. Quindi i media lo ripetono in modo acritico.

Il giorno in cui Abu Akleh è stata giustiziata ho ascoltato per un paio d’ore il BBC World Service [servizio della televisione pubblica britannica sulle notizie internazionali, ndt.]. L’inviato ha ripetuto la versione israeliana secondo cui è stata uccisa dal fuoco palestinese, poi ha notato che i palestinesi hanno detto che è stata uccisa dal fuoco israeliano. Il servizio ha anche incluso l’affermazione di Israele secondo cui ha chiesto all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) di condurre un’inchiesta congiunta, ma che l’offerta è stata respinta. Inizialmente l’ANP ha negato di essere stata contattata dalle autorità israeliane, ma i media hanno continuato a riportare le affermazioni israeliane.

La maggior parte dei media internazionali ha adottato la stessa impostazione, quasi come se avessero scritto i loro articoli in collaborazione su un documento Google condiviso.

Tuttavia, mentre si sono assicurati di diffondere per intero la versione israeliana, i media occidentali non hanno dato la stessa importanza alla versione palestinese. Giovedì l’ANP ha spiegato perché ha rifiutato di partecipare a un’indagine insieme a Israele, cercando invece di esaminare la questione in modo indipendente. I palestinesi hanno tutte le ragioni di diffidare di Israele, che abitualmente utilizza queste inchieste per insabbiare i casi – ma i media occidentali non sembrano preoccupati di questo contesto fondamentale.

Scavare più in profondità

L’informazione distorta è continuata persino durante il funerale di Abu Akleh. Dopo che forze israeliane hanno attaccato i palestinesi in lutto, con immagini dal vivo che mostravano un’aggressione deliberata e non provocata, i principali mezzi di comunicazione hanno scritto falsamente che sono scoppiati “scontri” o che “si è scatenata la violenza”.

In effetti la maggior parte dei mezzi di informazione occidentali attinge a un copione standardizzato. Invece di scavare più in profondità per trovare la verità e per sfidare le affermazioni israeliane, gli inviati aiutano Israele ad avvolgere i fatti nell’ambiguità. E non importa quello che ne consegue: anche se l’articolo successivo include una riga sulla reazione palestinese, la prima impressione è già stata data.

Nel caso di Abu Akleh ci voleva poco per respingere la versione israeliana dei fatti. Era accompagnata da molti altri giornalisti le cui testimonianze coincidono. Dicono tutti la stessa cosa: Abu Akleh è stata presa di mira da un cecchino israeliano. Sfortunatamente sembra che le parole dei giornalisti palestinesi non siano sufficientemente credibili per i media occidentali.

Le testimonianze di giornalisti come Shatha Hanaysha, che stava vicino ad Abu Akleh quando è morta, di Ali al-Samoudi, anche lui colpito e ferito nell’incidente, e di Mujahid al-Saadi, un altro testimone dell’uccisione, non sono accettate senza ulteriori conferme da parte di gruppi israeliani per i diritti umani come B’Tselem o fonti giornalistiche come Haaretz.

Persino allora, quando i media occidentali non possono più evitare di evidenziare le menzogne israeliane, possono aggiungere ai loro articoli qualche riga qua e là, ma quando la correttezza di questi articoli è fondamentale, nelle ore immediatamente successive a questo tipo di avvenimenti, gli inviati di solito si attengono alla propaganda israeliana. A sua volta questa rimane impressa nelle menti dei loro lettori e telespettatori.

Quando si tratta della guerra tra Russia e Ucraina non vediamo le stesse esitazioni ad attribuire la responsabilità a chi le ha. Quando dei giornalisti vengono uccisi in Ucraina i servizi dei media occidentali citano immediatamente i bombardamenti russi. Le fonti e i giornalisti ucraini sono considerati di per sé sufficientemente credibili da essere citati, e una risposta russa non è necessaria, né lo sono le richieste di un’inchiesta per determinare chi ne è stato responsabile.

Questo doppio standard evidenzia la complicità dei media occidentali nel nascondere i crimini israeliani. Porvi fine non richiederebbe molto, solo che i mezzi di comunicazione internazionali trattassero i palestinesi, compresi i giornalisti, con il rispetto che si sono meritati.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Carrefour si unisce a chi trae profitto dalle colonie israeliane

Ali Abunimah

14 marzo 2022 – Electronic Intifada

Durante il fine settimana l’hashtag #boycottcarrefour ha fatto tendenza sulle reti sociali francesi. È stato suggerito da notizie secondo cui il gigante della distribuzione ha deciso di ritirare prodotti russi dai suoi punti vendita per protestare contro l’invasione dell’Ucraina.

Una foto che ha avuto ampia circolazione su Twitter mostra chiaramente un cartello presso un supermercato Carrefour a Nizza. Vi si legge: “Cari consumatori, in seguito agli attuali avvenimenti ogni prodotto russo è stato ritirato dai nostri scaffali per appoggiare l’Ucraina.”

Molti utenti delle reti sociali hanno manifestato rabbia nei confronti di Carrefour, in quanto da anni i sostenitori dei diritti dei palestinesi hanno avviato una campagna perché la catena commerciale smetta di vendere prodotti israeliani, tra cui quelli provenienti da colonie nella Cisgiordania occupata.

In Francia alcuni attivisti sono stati persino perseguitati penalmente per aver chiesto il boicottaggio dei prodotti israeliani in quanto questo appello sarebbe razzista.

Nel 2020 la Corte Europea dei Diritti Umani ha annullato la condanna di 11 attivisti che avevano protestato in negozi Carrefour chiedendo il boicottaggio di prodotti israeliani. I giudici hanno stabilito all’unanimità che le condanne violavano i diritti politici degli attivisti e il diritto di espressione.

Tuttavia né sui suoi account nelle reti sociali né sulle pagine di notizie dell’impresa la francese Carrefour sembra aver annunciato alcun bando nei confronti dei prodotti russi.

È possibile che il ritiro dei prodotti russi in alcuni negozi di Carrefour sia stata un’iniziativa locale, benché in tutta Europa alcuni supermercati lo stiano facendo come politica aziendale.

Ciò avviene nel bel mezzo della frenesia a stigmatizzare qualunque cosa sia russa che va molto oltre il tipo di boicottaggio mirato di prodotti israeliani e di istituzioni complici che i palestinesi hanno sollecitato per anni.

Rifornire l’esercito israeliano

Ma, con l’attenzione concentrata sulla guerra in Ucraina, la scorsa settimana Carrefour ha fatto un annuncio che è passato inosservato.

Carrefour gestisce migliaia di supermercati e minimarket in tutto il mondo, ma finora non in Israele.

Ciò cambierà, in quanto il gigante della distribuzione sta iniziando una collaborazione con l’impresa israeliana Electra Consumer Products e la catena di supermercati che essa gestisce, Yenot Bitan.

“Questa collaborazione vedrà insegne di Carrefour in Israele prima della fine del 2022 e consentirà a tutti i negozi di Yenot Bitan, al momento più di 150, di aver accesso ai prodotti Carrefour prima dell’estate,” ha affermato Carrefour.

In base all’accordo Carrefour aprirà in Israele anche “negozi in franchigia”.

Ciò significa che Carrefour si assocerà a imprese che sono direttamente coinvolte nell’occupazione israeliana e nella colonizzazione della Cisgiordania – crimini di guerra.

Yenot Bitan gestisce negozi all’interno di colonie nella Cisgiordania occupata, comprese i grandi insediamenti di Ariel e Maaleh Adumim.

In base agli annunci di Carrefour, prima della fine di quest’anno l’impresa francese trarrà quindi profitto dalla vendita dei suoi prodotti all’interno di colonie.

Electra Consumer Products, proprietaria di Yenot Bitan, è parte di un consorzio di imprese che utilizza il marchio Electra in Israele. Esse condividono la stessa società madre, ELCO.

I marchi Electra sono profondamente coinvolti nella colonizzazione israeliana della terra palestinese occupata.

Secondo Who Profits, un’associazione che monitora le aziende complici della colonizzazione israeliana, Electra Consumer Products “ha installato condizionatori in edifici pubblici nelle colonie di Modiin Illit, Maaleh Adumim e Givat Zeev, in Cisgiordania.”

Varie altre aziende di Electra sono ancor più coinvolte nella costruzione di colonie, delle loro infrastrutture e nell’assistenza all’esercito israeliano.

Per esempio una consociata, FK Electra, ha fornito generatori almeno a un posto di controllo israeliano nella Cisgiordania occupata e, afferma Who Profits, “generatori all’esercito israeliano durante l’attacco militare contro Gaza del 2014 [Operazione “Margine protettivo”, ndtr.]”.

In seguito a ciò Electra è stata inserita nella banca dati dell’ONU delle imprese coinvolte nelle colonie all’interno dei territori palestinesi.

Parole vuote

Come altri membri dell’Unione Europea, la Francia sostiene di opporsi all’occupazione israeliana della Cisgiordania e ritiene che le colonie israeliane lì siano illegali.

Il governo francese mette persino in guardia: “Transazioni finanziare, investimenti, acquisti, approvvigionamenti e altre attività economiche nelle colonie o che favoriscano le colonie implicano rischi giudiziari ed economici legati al fatto che, in base alle leggi internazionali, le colonie israeliane sono state costruite su territori occupati e non sono riconosciute come parte del territorio di Israele.

Come minimo Carrefour approvvigionerà le colonie e ne beneficerà quando i prodotti del suo marchio arriveranno nei negozi di Yenot Bitan nelle colonie.

Che una grande azienda internazionale come Carrefour abbia preso la decisione non solo di associarsi con aziende che traggono profitto dalle colonie, ma di fare una qualunque attività commerciale in uno Stato di apartheid è un indicatore dell’impunità di cui godono Israele e i suoi complici.

Di fatto, guidati dalla Francia, che attualmente detiene la presidenza di turno della UE, gli Stati europei stanno cercando sempre più “opportunità di cooperazione” con Israele.

In questo contesto i dirigenti di Carrefour sanno sicuramente che, qualunque cosa dicano il governo francese o la UE a proposito delle colonie, sono solo parole vuote.

Mentre i cosiddetti oligarchi russi sono privati dei loro beni in base al semplice sospetto di legami con il presidente Vladimir Putin, gli oligarchi francesi possono godere della loro redditizia collaborazione con quanti sono coinvolti in crimini di guerra contro i palestinesi.

Ma il tempo dirà se i festeggiamenti di Carrefour sono giustificati.

Grazie agli sforzi degli attivisti solidali con la Palestina in tutto il mondo negli ultimi anni altre importanti imprese francesi, in particolare Orange [impresa di telecomunicazioni, ndtr.] e Veolia [multinazionale che opera nei settori dell’acqua, dei rifiuti e dell’energia, ndtr.], sono state obbligate a porre fine alla loro complicità con i crimini israeliani.

Gli attivisti prenderanno sicuramente in considerazione la decisione di Carrefour di trarre profitti dalla colonizzazione e dall’apartheid israeliani.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Niente fa sì che i progressisti abbandonino i loro valori, o il loro coraggio, quanto menzionare la Palestina

Arwa Mahdawi

12 marzo 2022, The Guardian

Come il padre di Gigi Hadid, anche il mio è un rifugiato palestinese e sono stata vessata per aver sostenuto che anche i palestinesi sono degni dei diritti umani

Progressisti tranne che per la Palestina

Cosa inizia con “P” e finisce con “A” ed è una parola troppo terrificante per molte persone persino da menzionare? “Palestina”, ovviamente! Semplicemente citare la parola con la P in modo anche solo vagamente empatico è sufficiente a suscitare accuse in malafede di antisemitismo. L’argomento è diventato talmente scottante da far pensare che alcune persone preferiscano sostenere che la Palestina e i palestinesi non esistono e ignorare semplicemente tutta la questione. Niente fa sì che i progressisti abbandonino i loro valori, o il loro coraggio, quanto menzionare la Palestina.

Vogue, qui sto parlando di te. Recentemente la rivista ha pubblicato un riferimento alla Palestina tratto da un post su Instagram sulla sua pagina ufficiale nella rete sociale dedicato alla promessa della supermodella Gigi Hadid di donare tutto il suo compenso per la Settimana della Moda alle attività di soccorso in Ucraina e in Palestina. La scorsa domenica Gigi, che è per metà palestinese, ha annunciato che avrebbe devoluto il suo compenso “all’aiuto di quanti sono vittime della guerra in Ucraina, e anche per continuare a sostenere quanti hanno subito la stessa sorte in Palestina. I nostri occhi e i nostri cuori devono essere sensibili a tutte le ingiustizie del mondo.” Inizialmente Vogue ha incluso il riferimento alla Palestina nel post, ma poi lo ha tolto dopo che è stato accusato da alcune voci filo-israeliane, decisamente in malafede, di promuovere l’antisemitismo. Dopo la protesta di persone che hanno evidenziato che non è antisemita appoggiare i palestinesi, Vogue ha poi corretto per la terza volta il post reinserendo il riferimento.

Peraltro non è la prima volta che una Hadid vede cancellare su Instagram i propri commenti sulla Palestina. Lo scorso anno Bella Hadid ha postato su Instagram una foto del passaporto statunitense di suo padre, in cui viene indicata la Palestina come luogo di nascita. La rete sociale l’ha subito cancellata. Perché? Secondo Instagram il post violava “le linee guida della comunità su persecuzione o bullismo”, così come regole sul “discorso d’odio”. Dopo che Bella ha protestato Instagram ha fornito qualche altra spiegazione per la rimozione e poi ha affermato: “Ops, è stato un errore!”

Come il padre delle sorelle Hadid anche il mio è un rifugiato palestinese. Come le sorelle Hadid, anch’io sono stata aggredita e vilipesa per aver osato suggerire che i palestinesi sono degni dei diritti umani. (A differenza delle sorelle Hadid, purtroppo io non sono una supermodella). Come ho scritto in precedenza, a quanto pare per i palestinesi non c’è un modo accettabile di protestare contro l’oppressione o di difendere i propri diritti.

L’invasione russa dell’Ucraina è straziante. Ma voglio essere molto chiara sul fatto che stare dalla parte degli ucraini, come tutti noi dobbiamo fare, non significa ignorare ingiustizie e oppressione altrove. Sollevare domande sul doppio standard non sminuisce la lotta del popolo ucraino. Per esempio, non svia né distrae da quello che sta avvenendo in Ucraina chiedere perché una foto virale di una ragazzina bionda che affronta un soldato davanti a un carrarmato è stata esaltata quando la gente pensava che la ragazza fosse un’ucraina, ma trattata in modo molto diverso quando è stato sottolineato che in realtà si trattava Ahed Tamimi, una palestinese, che affrontava un soldato israeliano.[vedi su Zeitun]

Invece è assolutamente fondamentale fare questo tipo di domande. “L’ingiustizia in qualunque luogo è una minaccia alla giustizia ovunque,” ha affermato Martin Luther King. Queste non sono solo belle parole. Quando ignori le leggi internazionali in un’area ciò contribuisce a indebolire le leggi internazionali in tutto il mondo. Quando alzi le spalle riguardo all’oppressione in un luogo, contribuisci ad aprirle la porta altrove. La solidarietà non è una distrazione, è un verbo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Palestina e Ucraina: un esperto di diritto internazionale parla dei doppi standard della Corte Penale Internazionale (INTERVISTA ESCLUSIVA)

Romana Rubeo

7 marzo 2022 – PALESTINE CHRONICLE

Il 2 marzo la Corte Penale Internazionale (CPI) ha annunciato che procederà immediatamente ad un’indagine sull’operazione militare russa in Ucraina. Quella che è stata denominata “invasione” dall’Occidente e “operazione militare speciale” da Mosca, ha immediatamente generato una rapida condanna e reazione internazionale. La CPI è stata in prima linea in questa reazione.

Il procuratore della CPI Karim Khan ha affermato in un intervento che l’indagine è stata richiesta da 39 Stati membri e che il suo ufficio ha già trovato una base ragionevole per ritenere che siano stati commessi crimini rientranti nell’ambito giurisdizionale della Corte e ha identificato dei casi come potenzialmente ammissibili.”

Mentre qualsiasi procedura genuina e non politicizzata volta a indagare su possibili crimini di guerra e crimini contro l’umanità in qualsiasi parte del mondo dovrebbe, in effetti, essere accolta favorevolmente, il doppio standard della CPI è palpabile. Tra le altre nazioni, i palestinesi e i loro sostenitori sono perplessi in considerazione dei numerosi indugi da parte della CPI nell’indagare sui crimini di guerra e contro l’umanità in Palestina, che si trova da decenni sotto l’occupazione militare israeliana.

Per comprendere meglio questo argomento ho parlato con il Dr. Triestino Mariniello, professore associato di diritto presso la Liverpool John Moores University, e membro della squadra di avvocati per le vittime di Gaza presso la Corte Penale Internazionale. Gli ho chiesto:

D. Per prima cosa, ci faccia conoscere a quale stadio si trova attualmente il procedimento della CPI sulla Palestina.

R. Il 3 marzo 2021 l’ex procuratrice della CPI Fatou Bensouda ha aperto ufficialmente un’indagine, attualmente incentrata su possibili crimini di guerra, in particolare legati all’aggressione militare del 2014 a Gaza, alla Grande Marcia del Ritorno e alle colonie israeliane illegali in Cisgiordania.

Tecnicamente, il passo successivo dovrebbe essere la richiesta di mandati di arresto o di comparizione, passando quindi da una fase procedurale” a una fase processuale”, sulla base dello Statuto di Roma [trattato internazionale istitutivo della Corte Penale Internazionale, ndtr.].

D. Tuttavia, finora non è successo nulla.

R. Tutto è iniziato molto prima del 2021. La situazione della Palestina è stata inizialmente portata all’attenzione della Corte nel 2009. Nel 2015, a seguito dell’aggressione israeliana alla Striscia di Gaza assediata, lo Stato di Palestina ha formalmente accettato l’autorità della Corte e ha ratificato lo Statuto di Roma. Ci sono voluti quasi sei anni (dicembre 2019) perché Bensouda dichiarasse che sussisteva “una base ragionevole per procedere ad un’indagine sulla situazione in Palestina”. La questione è stata deferita alla Camera preliminare, alla quale è stato chiesto di deliberare in merito alla giurisdizione sulla Palestina. La Camera ha emesso una decisione solo più di un anno dopo, nel febbraio 2021.

D. Come descriverebbe le differenze tra i due casi: Russia in Ucraina, Israele in Palestina? E perché nel caso russo il tribunale ha potuto agire immediatamente e senza indugi?

R. Ovviamente è difficile mettere a confronto le due situazioni.

L’Ucraina ha accettato l’autorità della CPI nel 2013 e l’ex procuratore capo della CPI Bensouda aveva già dichiarato che esisteva una base ragionevole per procedere.

Dopo l’inizio dell’operazione militare russa, l’attuale procuratore della CPI Khan ha annunciato l’apertura ufficiale delle indagini.

Avendo già ricevuto mandati da 39 Stati contraenti la CPI il suo ufficio non è tenuto a richiedere un’autorizzazione alla Camera preliminare competente. In realtà anche nella situazione della Palestina la Corte non necessitava di ulteriori autorizzazioni e la richiesta della Procura alla Camera era del tutto facoltativa.

In qualità di rappresentanti legali delle vittime, abbiamo espresso ai giudici della CPI le nostre preoccupazioni sul fatto che questa richiesta non necessaria della Procura avrebbe causato un ulteriore ritardo nell’apertura delle indagini.

Tra i 39 Stati ci sono tre paesi che si erano apertamente opposti alle indagini in ambito israelo-palestinese, ovvero Austria, Germania e Ungheria.

 Generalmente si dice che i procedimenti penali internazionali siano particolarmente lunghi. Se questo è vero nel caso della Palestina, per l’Ucraina la durata è ridotta al minimo. Lo stesso è accaduto per la situazione libica, dove la decisione di aprire un’indagine è stata presa con una rapidità senza precedenti, a soli sette giorni dal deferimento del Consiglio di Sicurezza [dell’ONU, ndtr.].

Tuttavia, nel caso della Palestina la quantità di prove è molto più significativa. Anche prima di avviare le indagini la Corte dispone di una quantità impressionante di prove, grazie al meticoloso lavoro della società civile palestinese, che non ha mai smesso di raccogliere prove, anche durante le guerre israeliane.

D. Lei fa parte di una squadra che difende le vittime di Gaza. Ritenete che da parte della CPI ci sia una politica di doppio standard?

R. Indagare su gravi violazioni dei diritti umani è sempre un’iniziativa lodevole. Ciò che è meno lodevole è la politica del doppio standard. La realtà dolorosa è che dopo 13 anni non abbiamo ancora un procedimento.

Per decenni i civili palestinesi hanno subito le più gravi violazioni dei loro diritti fondamentali, equivalenti a crimini di guerra e crimini contro l’umanità. L’interesse principale delle vittime di Gaza è che l’indagine tanto attesa e tanto necessaria passi immediatamente alla fase successiva: l’identificazione dei presunti colpevoli. Per loro è davvero difficile capire quali siano gli ostacoli che gli impediscono di presentarsi in tribunale per raccontare finalmente le loro vicende e ottenere giustizia.

L’assenza fino ad ora di misure efficaci adottate dalla Corte rafforza l’opinione delle vittime di aver subito per lungo tempo una negazione della giustizia. Inoltre l’impunità concessa da tanto tempo a Israele incoraggia i responsabili a commettere nuovi crimini.

Dall’inizio dell’operazione militare russa in Ucraina abbiamo assistito al ritorno del diritto internazionale nell’arena globale. Quello che sta accadendo ora mostra che il diritto internazionale può essere, nei fatti, uno strumento efficace, se attuato correttamente.

Le vittime palestinesi continuano a nutrire grandi speranze per le indagini della CPI, ma sono seriamente preoccupate che “la giustizia rimandata sia giustizia negata”.

D. Cosa può fare la società civile per accelerare le procedure relative alla Palestina?

È essenziale continuare a fare pressione sulla CPI anche presentando ulteriori prove che possano attestare gravi violazioni dei diritti umani in corso, equivalenti a crimini di guerra. Pensiamo, ad esempio, ai crimini di guerra commessi lo scorso maggio a Gaza, che dovrebbero essere immediatamente inseriti nell’indagine in corso.

Inoltre, la società civile dovrebbe invitare la CPI ad ampliare l’ambito delle indagini per includere altri crimini internazionali, in particolare crimini contro l’umanità, compreso il crimine di apartheid, anche alla luce dei recenti rapporti di Amnesty International e di altre organizzazioni per i diritti umani.

Il messaggio alla Corte e alla comunità internazionale deve essere chiarissimo: i palestinesi non sono vittime di serie B e continueranno a far sentire la loro voce.

Sebbene apprezziamo gli sforzi della CPI per fare luce sulla situazione ucraina, dobbiamo ribadire che altri casi non dovrebbero essere dimenticati o archiviati.

La CPI è stata creata per porre fine all’impunità di cui godono gli autori dei crimini più gravi. Dopo vent’anni, dovremmo pretendere che lo Statuto sia pienamente attuato, indipendentemente dall’origine geografica delle vittime.

Romana Rubeo è una scrittrice italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito un Master in Lingue e Letterature Straniere ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)