Rassegna della stampa israeliana: ministro definisce i matrimoni con non-ebrei un “secondo Olocausto”

Da un corrispondente di MEE

10 luglio 2019 – Middle East Eye

Nel contempo ai richiedenti asilo è vietato iscrivere i bambini a scuola e il governo approva iniziative USA contro Hezbollah

Cittadina chiude scuole ai richiedenti asilo

Il giornale israeliano Haaretz ha informato che la cittadina israeliana di Petah Tikva sta impedendo ai richiedenti asilo, la maggioranza dei quali provenienti da Paesi africani, di iscrivere i figli nelle scuole della cittadina.

Secondo Haaretz i genitori di 129 bambini eritrei non hanno potuto iscrivere i propri figli negli asili e nelle scuole, aggiungendo che le famiglie hanno avviato un ricorso legale contro il Comune.

Benché la legge israeliana preveda che i genitori devono mandare i propri figli a scuola dai tre ai diciotto anni e stabilisca che l’educazione di base debba essere gratuita, a Petah Tikva i richiedenti asilo hanno scoperto di non poter iscrivere i propri figli, anche se hanno frequentato la scuola della città durante l’anno scorso.

La città utilizza due meccanismi per impedirne l’iscrizione: rifiuta di riconoscere i documenti che dimostrano che i richiedenti asilo sono residenti a Petah Tikva o sostiene che i bambini non possono completare l’anno scolastico perché i loro genitori sono in possesso di un visto che scade prima della fine dell’anno scolastico.

Il ministero dell’Interno israeliano emette permessi di permanenza a tempo determinate per periodi da tre a sei mesi.

In febbraio il Canale 13 israeliano ha informato che il sindaco di Petah Tikva Rami Greenberg ha chiesto agli abitanti della cittadina di dare notizia di richiedenti asilo nei loro quartieri per organizzare la loro deportazione.

Un ministro sostiene che i matrimoni misti sono un secondo Olocausto

Secondo notizie che hanno avuto ampio risalto, durante una recente riunione del governo il neoministro dell’Educazione, Rafi Peretz, ha affermato che i matrimoni tra ebrei e non ebrei – noti anche come matrimoni misti – sono un “secondo Olocausto”, che mette a rischio di distruzione il popolo ebraico.

Per anni l’organizzazione di destra contro i matrimoni misti “Lehava”, guidata dal Benzi Gupstein, è stata coinvolta in incitamenti all’odio e anche in attacchi fisici contro coppie miste in Israele. Tuttavia l’ufficio del procuratore generale israeliano, persino dopo che è stato presentata una denuncia ufficiale, rifiuta di incriminare Gupstein.

Prima delle elezioni Peretz ha tentato di prendere le distanze da Gupstein per mantenere un’immagine presentabile dell’Unione dei Partiti di Destra di cui è segretario, ma da quando è ministro ha apertamente manifestato le stesse opinioni sull’importanza della purezza razziale degli ebrei.

Netanyahu ammonisce l’Iran

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha usato lo sfondo di un gruppo tattico di caccia Stealth F-35 (importato dagli USA) per registrare un video in cui rivolge un monito all’Iran, affermando che “l’Iran deve ricordare che i nostri aerei da guerra lo possono raggiungere.”

Ben Kaspit, del giornale Maariv, sostiene che Netanyahu sta cercando di convincere il presidente USA Donald Trump ad affermare esplicitamente che esiste un’“alleanza militare” tra gli USA e Israele per aumentare le possibilità di Netanyahu nelle prossime elezioni.

In cambio Netanyahu farebbe una dichiarazione in appoggio al piano di Washington denominato “accordo del secolo” per risolvere la crisi israelo-palestinese.

Anche la decisione della Casa Bianca di imporre sanzioni a due deputati libanesi e ad un ufficiale della sicurezza del partito Hezbollah è stata ampiamente riportata ed in Israele è vista come una tacita accettazione dell’opinione del governo israeliano riguardo a Hezbollah come nient’altro che un rappresentante dell’Iran.

Silverstein rivela il nome del presunto uccisore di un ebreo etiope

Gli ebrei israeliani di origine etiope continuano a protestare in Israele e chiedono che il poliziotto che il 30 giugno avrebbe sparato e ucciso il diciottenne Salomon Teka ad Haifa venga chiamato a risponderne.

Su richiesta delle autorità israeliane l’identità del poliziotto sospettato è stata tenuta segreta, ma il blogger residente negli USA ed editorialista di Middle East Eye Richard Silverstein ha rivelato che il suo nome è Baruch Ben Azari.

Tuttavia Silverstein ha informato che, in conformità con le norme israeliane sulla censura, il motore di ricerca Google ha impedito alla gente in Israele di leggere il suo post.

L’identità di Ben Azari non è un segreto ben custodito, in quanto il suo nome è filtrato anche sulle reti sociali ed egli è stato identificato in un hotel. Si è anche lamentato di aver ricevuto minacce di morte.

A titolo di confronto, anche Mahmoud Qatusa, un palestinese falsamente accusato dello stupro di una bambina di sette anni in una colonia israeliana illegale nella Cisgiordania occupata, ha ricevuto minacce di morte, mentre delinquenti hanno fatto scritte nella sua città chiedendo la sua esecuzione e danneggiando veicoli nella zona.

A differenza di Ben Azari, l’identità di Qatusa non è stata protetta quando la polizia israeliana lo ha sospettato di un crimine che non aveva commesso e il suo nome e la sua foto sono stati pubblicati dai mezzi di comunicazione israeliani.

* La rassegna della stampa israeliana è un compendio di notizie la cui accuratezza non è stata verificata in modo indipendente da Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Cosa è successo quando una colona ebrea ha schiaffeggiato un soldato israeliano.

Noa Osterreicher

Haaretz, 4 gennaio 2018

Sia Ahed Tamimi che Yifat Alkobi sono state sottoposte a interrogatorio per aver schiaffeggiato un soldato in Cisgiordania, ma non ci sono altre somiglianze tra i due casi, semplicemente perché una è ebrea e l’altra palestinese.

Questo schiaffo non ha aperto i notiziari della sera. Questo schiaffo, che è finito sulla faccia di un soldato delle unità Nahal a Hebron, non ha portato ad una condanna. Il soldato schiaffeggiato stava cercando di impedire il lancio di sassi da parte dell’assalitrice, che è stata fermata e interrogata, ma è stata rilasciata su cauzione il giorno stesso ed è potuta tornare a casa.

Prima di questo incidente, la ragazza era stata condannata cinque volte –per lancio di sassi, per aggressione a un poliziotto e per disturbo della quiete pubblica– ma non è stata in prigione nemmeno una volta.

In un caso era stata condannata a un periodo di prova, e negli altri casi a un mese di servizi socialmente utili oltre a una simbolica multa di risarcimento per le parti offese. L’accusata aveva sistematicamente ignorato gli ordini di comparizione per interrogatori o per altre procedure legali, ma i soldati non erano andati a tirarla giù dal letto nel mezzo della notte e nessuno dei suoi familiari era stato arrestato. A parte un breve reportage del 2 luglio 2010 di Chaim Levinson sull’incidente, non c’erano state altre conseguenze allo schiaffo e ai graffi inflitti da Yifat Alkobi sulla faccia del soldato che l’aveva colta nell’atto di tirare pietre ai Palestinesi.

Il portavoce delle Forze Armate israeliane disse all’epoca che l’esercito “valuta con severità ogni atto di violenza contro le forze di sicurezza,” ma la schiaffeggiatrice era tornata a vivere in pace a casa sua. Il ministro dell’istruzione non aveva chiesto che fosse messa in prigione, i social media non si erano riempiti di appelli affinché fosse violentata o uccisa, e l’editorialista Ben Caspit non aveva raccomandato che fosse punita con le maggiori pene previste “in un posto buio, lontano dalle telecamere.”

Come Ahed Tamimi, anche Alkobi era nota da anni alle forze dell’esercito e della polizia del suo quartiere; tutt’e due sono considerate un fastidio o addirittura un pericolo. Ma la differenza tra di loro sta nel fatto che Tamimi ha aggredito un soldato che era stato mandato da un governo ostile che non riconosce la sua esistenza, ruba la sua terra, uccide e ferisce i suoi familiari, mentre Alkobi, una criminale abituale, ha aggredito un soldato del suo popolo e della sua religione, che era stato mandato dal suo Stato per proteggerla, uno Stato di cui lei è una cittadina che gode di speciali privilegi.

La violenza degli Ebrei contro i soldati è ormai da anni una cosa di routine nei territori occupati. Ma anche se sembra inutile chiedere ai soldati dei territori di proteggere i Palestinesi dalle violenze fisiche e dagli atti di vandalismo fatti dai coloni sulle loro proprietà, è difficile capire perché le autorità continuino a chiudere gli occhi, a coprire o chiudere il caso (o magari nemmeno ad aprirlo) quando le violenze vengono dagli Ebrei. Ci sono innumerevoli prove, alcune documentate fotograficamente. Eppure i responsabili dormono tranquilli nei loro letti, imbaldanziti dalla volontà divina e largamente finanziati da organizzazioni che ricevono contributi dallo Stato.

È piacevole, d’inverno, sentirsi comodi e al caldo sotto questi doppi standard, ma c’è una domanda che ogni Israeliano dovrebbe farsi: Tamimi e Alkobi hanno commesso lo stesso reato. La punizione (o la mancanza di punizione) dovrebbe essere la stessa. Se la scelta fosse tra liberare Tamimi o imprigionare Alkobi, cosa scegliereste? Tamimi deve restare in carcere per tutta la durata del procedimento –processo in una corte militare ostile– ed è probabile che riceva una pena detentiva. Alkobi, che non è stata processata per questo reato ma ha avuto processi in tribunali civili per reati molto più gravi, è stata a casa sua per tutta la durata dei procedimenti. È stata assistita da un avvocato che non doveva far la fila a un checkpoint per assistere la sua cliente, e la sua unica punizione sono stati lavori socialmente utili.

I ministri del Likud e della Casa Ebraica non hanno alcun motivo per accelerare l’approvazione di una legge che imponga l’applicazione della legge israeliana nei territori occupati. Anche senza la legge, l’unica cosa che conta è se sei nato ebreo. Tutto il resto è irrilevante.

Traduzione di Donato Cioli