L’ONU afferma che se la questione palestinese non viene affrontata, le prospettive della soluzione a due Stati si deterioreranno ulteriormente

 

Redazione di MEMO

Mercoledì 27 luglio 2022 – Middle East Monitor

Martedì un’importante funzionaria dell’ONU ha messo in guardia il Consiglio di Sicurezza che se la questione palestinese non viene affrontata, le prospettive per la soluzione a due Stati “peggioreranno ulteriormente”.

“Sono necessarie immediate azioni per invertire la tendenza negativa e supportare il popolo palestinese”, ha sottolineato Lynn Hastings, la vicepresidente dell’ufficio del coordinatore speciale ONU per il processo di pace in Medioriente. Parlando a nome del coordinatore speciale Tor Wennesland, Hastings ha aggiunto: “Non c’è un’alternativa per un legittimo processo politico che risolva le questioni alla base del conflitto. Dobbiamo focalizzarci sul raggiungimento dell’obiettivo definitivo: due Stati che convivano fianco a fianco in pace e sicurezza, in linea con le risoluzioni ONU, con gli accordi precedenti e con il diritto internazionale.”

Ha puntualizzato che “per anni le espansioni delle colonie illegali nella Cisgiordania occupata hanno progressivamente ridotto il territorio palestinese ed eroso le prospettive per uno Stato palestinese praticabile, dato che la violenza contro i civili inasprisce la sfiducia e provoca un crescente mancanza di speranza in quanto uno Stato, la sovranità e un futuro di pace stanno stanno svanendo.”

La funzionaria dell’ONU ha riportato il numero di palestinesi uccisi e feriti dall’occupazione israeliana durante il periodo del suo rapporto. Allo stesso tempo ha raccontato che le pallottole usate per uccidere la giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh sono state sottoposte a test forsensi supervisionati da un ufficiale esperto di sicurezza USA. Tuttavia, sebbene nei test “non si sia raggiunta una conclusione definitiva” a causa del danneggiamento dei proiettili, “sembra probabile che gli spari siano provenuti dalle posizioni delle Israeli Defence Forces [l’esercito israeliano, ndt.] (IDF).”

Hastings ha anche citato la mancanza di permessi edilizi rilasciati dagli israeliani ai palestinesi, puntualizzando che le demolizioni israeliane hanno recentemente espulso 61 palestinesi, inclusi 31 minori. Infatti finora quest’anno ci sono stati “trecentonovantanove demolizioni e confische di strutture di proprietà palestinesi palestinesi e sgomberi … con più di 400 palestinesi deportati.”

Hastings ha affermato che i permessi di costruzione sono praticamente impossibili da ottenere da parte dei palestinesi. Ha anche segnalato che la recente sentenza dell’Alta Corte di Giustizia israeliana che permette di procedere con gli sgomberi nei villaggi di Masafer Yatta dimostra che le forze israeliane continuano ad adottare misure restrittive che influiscono sulle comunità palestinesi e sugli operatori umanitari. “Io rimango profondamente preoccupata dal costo umanitario sulle comunità in questione se gli ordini di sgombero dovessero essere portati avanti” ha affermato.

La violenza correlata ai coloni è un’altra questione ed è particolarmente preoccupante nella comunità della Cisgiordania di Ras Al-Tin. “Ripeto che i responsabili di tutti gli atti di violenza devono essere chiamati a risponderne e rapidamente assicurati alla giustizia.”

L’importante funzionaria ha concluso: “L’ONU rimane impegnata a supportare gli israeliani e i palestinesi perché si avviino verso una pace giusta e durevole e noi continueremo a lavorare con le parti e con i partner regionali ed internazionali per ottenere questo risultato.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Politica USA su Israele-Palestina: cosa (non) è cambiato con Biden

In occasione del viaggio di Joe Biden in Israele e Palestina Al Jazeera ha paragonato le sue politiche alle strategie di Donald Trump.

Ali Harb

12 luglio 2022 – Al Jazeera

Il presidente Joe Biden, che si definisce sionista, è spesso citato dai suoi più importanti consiglieri per aver detto che se non ci fosse Israele gli Stati Uniti dovrebbero inventarne uno.

Così, quando è salito alla Casa Bianca, i difensori dei diritti umani palestinesi e gli elettori arabo-americani che l’avevano sostenuto, non nutrivano grandi aspettative di cambiamento sotto la sua guida circa la posizione USA verso Israele.

Comunque, fra le promesse durante la campagna di Biden e quelle degli inizi della sua presidenza di portare avanti una politica estera incentrata sui diritti umani, molti avevano sperato che il presidente avrebbe almeno ribaltato alcune delle decisioni del suo predecessore Donald Trump che avevano ulteriormente allineato gli USA con Israele.

Ma i difensori dei diritti umani sostengono che fino ad ora il presidente democratico non sia riuscito ad adempiere neppure alle sue modeste promesse ai palestinesi e che al momento la posizione USA sia più simile a quella che aveva con Trump che con Barack Obama.

Mentre Biden viaggia verso Israele per la prima volta da quando è presidente, Al Jazeera esamina quali delle politiche di Trump sono state cambiate da Biden e quali sono rimaste immutate.

Ambasciata USA a Gerusalemme

Di tutti i cambiamenti a favore di Israele delle politiche di Trump, trasferire l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme è stata forse la più gravida di conseguenze. La decisione del 2018 ha dato un appoggio concreto degli USA alle rivendicazioni di Israele sull’intera città santa come sua capitale.

Israele ha annesso illegalmente Gerusalemme Est nel 1980 dopo averla conquistata nel 1967.

Mentre i palestinesi esprimevano la propria indignazione contro la decisione e le Nazioni Unite la dichiaravano a grandissima maggioranza “nulla e senza effetto legale”, a Washington venne approvata da politici di entrambi i partiti.

In vista dello spostamento dell’ambasciata e in presenza di una debole reazione araba Trump dichiarò Gerusalemme “fuori discussione”.

Biden non ha mai preso seriamente in considerazione l’idea di riportare l’ambasciata a Tel Aviv. Gli USA sotto la sua amministrazione hanno trattato Gerusalemme come se fosse la capitale di Israele, usando allo stesso tempo un linguaggio ambiguo per descrivere la propria visione di Gerusalemme Est.

Per esempio, il rapporto annuale sui diritti umani redatta dal Dipartimento di Stato USA include Gerusalemme Est nella sezione riguardante Israele. Ma aggiunge in una postilla: “Con il linguaggio usato in questo rapporto non si vuole prendere posizione su nessuno dei temi relativi all’assetto finale oggetto del negoziato fra le parti del conflitto, incluso quello dei confini specifici della sovranità israeliana a Gerusalemme o dei confini tra Israele e qualsiasi futuro Stato palestinese.”

Il consolato per i palestinesi di Gerusalemme

Nel 2019 Trump ha chiuso il consolato per gli affari palestinesi a Gerusalemme e trasferito le sue funzioni all’ambasciata israeliana nella Città Santa.

La decisione recide i legami con i palestinesi ed esplicita la bocciatura USA delle loro rivendicazioni su Gerusalemme.

Da candidato Biden aveva promesso di riaprire il consolato, ma, a oltre un anno e mezzo dall’inizio della sua amministrazione, lo spostamento non si è materializzato.

Mentre i funzionari USA dicono di essere ancora interessati a ristabilire la sede diplomatica, Biden e i suoi più importanti collaboratori sono riluttanti a scontrarsi pubblicamente con Israele, che si oppone alla riapertura del consolato.

“Da presidente Biden farà immediatamente dei passi per ripristinare l’assistenza economica e umanitaria al popolo palestinese, in conformità con la legislazione USA, inclusa l’assistenza ai rifugiati, operando per affrontare l’attuale crisi umanitaria a Gaza e per riaprire il consolato USA a Gerusalemme Est, e lavorerà per riaprire la missione diplomatica palestinese a Washington,” disse Biden durante la sua campagna davanti a una tribuna di elettori arabo americani nel 2020.

La missione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina a Washington, chiusa da Trump nel 2018, non è stata riaperta neppure da Biden a causa di pressioni interne bipartisan contro la decisione.

Colonie

Da candidato Biden aveva promesso di opporsi all’annessione ed espansione delle colonie. E in contrasto con Trump, che non si era mai pubblicamente opposto alle azioni israeliani, l’amministrazione Biden ha occasionalmente criticato a voce l’approvazione di nuove colonie nella Cisgiordania occupata.

Ma tali smorzate critiche spesso sono contenute in vaghe dichiarazioni che stabiliscono paralleli fra le azioni israeliane e quelle palestinesi affermando che gli USA disapprovano un’escalation da entrambe le parti.

Lo scorso ottobre Ned Price, portavoce del Dipartimento di Stat USA, in una rara occasione era stato esplicito nella critica di Israele dopo il suo annuncio di un piano su grande scala di espansione delle colonie.

“Noi ci opponiamo fermamente all’espansione delle colonie che è totalmente in contrasto con i tentativi di diminuire le tensioni e garantire la calma,” aveva detto Price in quell’occasione.

Ma quel linguaggio diretto è rapidamente svanito.

La scorsa settimana è stato chiesto a Price se gli USA avessero fatto pressione su Israele per porre fine al progetto di una colonia che avrebbe separato le comunità palestinesi in Cisgiordania da quelle a Gerusalemme Est e ha detto: “Noi abbiamo dialogato regolarmente con entrambe le parti per incoraggiarle a non compiere passi che avrebbero esacerbato le tensioni a questo proposito, in caso in cui qualcosa del genere allontani ulteriormente la soluzione dei due Stati.”

La scorsa settimana Maya Berry, direttrice esecutiva dell’Arab American Institute (AAI), un think-tank con sede a Washington, ha detto ad Al Jazeera che l’amministrazione continua a trovare eccezioni per giustificare le violenze israeliane contro i palestinesi.

“È la continuazione di un approccio politicizzato,” ha detto delle politiche di Biden sul conflitto.

“Che si tratti dell’amministrazione Biden o di specifici membri del Congresso, essi stanno facendo di Israele un’eccezione. Non si permetterebbe a nessun altro Paese di fare quello che fa Israele senza che debba affrontare conseguenze politiche sulla scena internazionale. E il protettore principale a questo riguardo sono gli Stati Uniti.”

Aiuti a Israele

Nonostante le crescenti richieste di porre condizioni o restrizioni agli aiuti USA a Israele, Biden in realtà ha  incrementato l’assistenza di Washington al suo principale alleato nella regione rispetto ai tempi di Obama e Trump.

Israele riceve annualmente 3,8 miliardi di dollari in assistenza e quest’anno ha ottenuto un miliardo di dollari extra per “ripristinare Iron Dome [“Cupola di Ferro”], il sistema antimissilistico di difesa, dopo la guerra a Gaza nel maggio 2021.

In un editoriale del Washington Post uscito la scorsa settimana Biden si è dichiarato orgoglioso di aver approvato “il più massiccio pacchetto di aiuti per Israele” della storia.

Aiuti ai palestinesi

Mentre Trump aveva praticamente posto fine a tutti gli aiuti USA ai palestinesi, tagliando completamente i fondi all’United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees [Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente] (UNRWA), Biden ha rinnovato parte di quegli aiuti.

Biden ha detto che, dall’insediamento nel 2021, la sua amministrazione ha ripristinato 500 milioni di dollari di aiuti ai palestinesi, inclusi dei fondi per l’UNRWA che nell’era Obama aveva ricevuto annualmente circa 350 milioni di dollari.

Normalizzazione

L’amministrazione Biden è totalmente impegnata nello sforzo di normalizzazione fra Israele e i Paesi arabi iniziato con Trump e noto come gli Accordi di Abramo.

Il Dipartimento di Stato dice che la normalizzazione arabo-israeliana non soddisfa la necessità di pace fra Israele e i palestinesi. Ma gli analisti dicono che Biden ha difeso quella stessa normalizzazione dell’era Trump che ha ignorato i palestinesi.

Infatti, prima del suo viaggio in Medio Oriente, Biden ha ripetutamente citato la normalizzazione come motivo della sua visita.

“Parte dello scopo del viaggio in Medio Oriente è approfondire l’integrazione di Israele nella regione, cosa che io penso saremo in grado di fare e che è un bene per la pace e per la sicurezza di Israele. Ecco anche spiegato il motivo per cui i leader di Israele hanno fortemente approvato la mia visita in Arabia  Saudita,” ha detto Biden lo scorso mese.

Le alture di Golan

Quando Trump aveva riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture di Golan siriane occupate, molti esperti di diritto internazionale segnalarono che la decisione avrebbe minato il divieto di acquisire territori con la forza.

Sebbene Biden stia caldeggiando il concetto di integrità territoriale in Ucraina, la sua amministrazione ha confermato l’appartenenza ad Israele delle alture di Golan.

Anche se il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha in precedenza usato un linguaggio ambiguo per descrivere il territorio siriano, dall’insediamento di Biden nessun cambiamento delle politiche USA sul tema è mai stato annunciato.

“Le politiche statunitensi riguardo al Golan non sono cambiate e affermazioni contrarie sono false,” ha detto l’anno scorso su Twitter l’Ufficio per gli affari del Medio Oriente del Dipartimento di Stato.

Legami con i palestinesi

Se Trump ha quasi totalmente ignorato i palestinesi nelle sue politiche per la regione, l’amministrazione Biden ha cercato di riallacciare le relazioni americane con i leader palestinesi.

Ci sono state parecchie telefonate fra alti funzionari USA e palestinesi, incluse quelle tra Biden e il presidente palestinese Mahmoud Abbas.

Lo scorso mese l’amministrazione USA ha annunciato che la sezione per gli affari palestinesi dell’ambasciata americana a Gerusalemme inizierà a rapportarsi direttamente su “questioni rilevanti” con il Bureau per gli Affari del Vicino Oriente all’interno del Dipartimento di Stato.

In seguito al cambiamento diplomatico si è ribattezzata Office of Palestinian Affairs (OPA) quella che era la Palestinian Affairs Unit (PAU).

Ma gli esperti l’hanno liquidata come una mossa prevalentemente di facciata, sottolineando come non sia un’adeguata sostituzione all’impegno per un vero consolato per i palestinesi a Gerusalemme.

“Nelle presenti circostanze mi sento molto sicuro nell’affermare che questo è semplicemente un tentativo propagandistico per cercare di placare la frustrazione dei palestinesi, soprattutto alla luce dell’imminente visita del presidente nella regione,” ha detto ad Al Jazeera Khalil Jahshan, direttore esecutivo dell’Arab Center, Washington DC.

Ciononostante l’amministrazione si è attribuita quella che descrive come un ristabilimento delle relazioni con l’Autorità Palestinese.

“Abbiamo collaborato con Israele, Egitto, Qatar e Giordania per mantenere la pace impedendo ai terroristi di riarmarsi. Abbiamo anche ricostruito i legami USA con i palestinesi,” ha scritto Biden sul Washington Post.

Organizzazioni internazionali

Biden è rientrato in contatto con molte organizzazioni ONU e internazionali, tra cui il Consiglio per i Diritti Umani che Trump aveva abbandonato a causa delle loro critiche a Israele.

Ma i funzionari USA hanno sempre sottolineato che stanno tornando in questi forum per proteggere Israele dall’interno e non per difendere gli sforzi di appoggiare i diritti umani dei palestinesi.

Lo scorso mese il Dipartimento di Stato ha rimproverato una commissione di inchiesta del Consiglio per i Diritti Umani che aveva pubblicato un rapporto in cui accusava Israele di cercare di acquisire un controllo permanente sui palestinesi  “senza intenzioni di porre fine all’occupazione”.

Il 7 giugno Price ha dichiarato che la commissione di inchiesta “rappresenta un approccio unilaterale e fazioso che non fa nulla per contribuire all’avanzamento delle prospettive di pace”.

Allo stesso modo l’amministrazione Biden ha revocato le sanzioni che Trump aveva imposto sui funzionari della Corte Penale internazionale (ICC), mantenendo nel contempo la sua opposizione alle indagini della ICC sulle violazioni israeliane.

Nelle ultime settimane il Dipartimento di Stato ha detto ripetutamente che la ICC non è la “sede appropriata” per indagare sull’assassinio di Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera ammazzata a maggio dall’esercito israeliano nella Cisgiordania occupata.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Occidente e Stato di apartheid

L’Israele di Netanyahu dichiarerà uno Stato dell’apartheid. L’Occidente non farà niente?

I leader del mondo non avranno altra scelta che riconoscere che, di nascosto, è stato dichiarato un secondo Stato di apartheid in stile Sudafrica

Gideon Levy

30 Aprile 2019 – Middle East Eye

Il mondo continua a girare sul suo asse, nulla è cambiato nemmeno dopo le recenti elezioni in Israele.

Eletto alla guida di Israele per la quinta volta, Benjamin Netanyahu è pronto a dare vita al governo più nazionalista e di destra nella storia del Paese – e intanto il mondo sembra andare avanti come niente fosse.

Da decenni Israele sputa continuamente in faccia al resto del mondo, con noncurante disprezzo del diritto internazionale e con totale indifferenza riguardo alle esplicite decisioni e precise politiche adottate dalle istituzioni mondiali e dalla maggioranza dei governi nazionali del mondo.

Tuttavia nel mondo tutto quel disprezzo scivola via come fosse acqua fresca. Le elezioni sono arrivate e passate senza evidenti effetti sul sostegno ciecamente automatico a Israele da parte dei governi europei e, ovviamente, anche da parte americana: incondizionato, senza riserve, appartenente invariato. Evidentemente ciò che era è ciò che sarà.

Però Israele è cambiato nel corso del lungo regno di Netanyahu. Questo abile statista israeliano sta lasciando il segno sul volto del suo Paese, con un profondo e duraturo effetto – molto più di quanto previsto o di quanto appaia.

È pur vero che anche i governi di sinistra in Israele hanno fatto il possibile per mantenere l’occupazione israeliana per sempre e non hanno avuto intenzione neppure per un istante di porvi fine – ma Netanyahu sta portando Israele molto più lontano, verso livelli ancor più estremi.

Sta compromettendo ciò che costituisce un governo accettabile entro il territorio sovrano riconosciuto di Israele, anche nei confronti dei suoi cittadini ebrei. Il volto stesso dell’“unica democrazia in Medio Oriente”, che ha a lungo funzionato soprattutto a beneficio degli ebrei israeliani che costituiscono la sua classe privilegiata, viene adesso sfigurato da Netanyahu e soci.

Beniamino dell’Occidente

Intanto, incredibilmente, la risposta del mondo è di non cambiare affatto il sostegno che ha offerto a Israele in tutti gli anni del governo Netanyahu, come se in quest’ultima fase lui non stesse modificando niente, come se le mutate posizioni assunte da Israele non facessero aumentare né diminuire quel sostegno.

Con o senza Netanyahu, Israele resta il beniamino dell’Occidente. Nessun altro Paese gode dello stesso livello di sostegno militare, economico, diplomatico e morale, senza condizioni. Ma la prossima amministrazione israeliana, il quinto governo Netanyahu, è pronta ad annunciare un cambiamento che alla fine il mondo avrà difficoltà ad ignorare.

Il nuovo governo è pronto a strappare l’ultimo lembo di maschera dal suo volto reale. La principale risorsa di Israele, nel proporsi come una democrazia liberale che condivide i valori cari all’Occidente, sta per essere annientata.

L’Occidente continuerà allora a sostenerlo? L’Occidente, che chiede che la Turchia introduca profondi cambiamenti prima di concederle una piena ammissione, che impone sanzioni alla Russia quando invade la Crimea, questo Occidente continuerà a sostenere la nuova repubblica di Israele che Netanyahu e i suoi partner di governo stanno preparandosi a varare?

Un cambiamento radicale

Il livello del cambiamento atteso non può essere sopravvalutato. Israele sarà diverso. Dove il precedente governo ha appiccato l’incendio, questo attizzerà il fuoco appena si propagherà. Il sistema giudiziario, i media, le organizzazioni di difesa dei diritti umani e dei diritti degli arabi in Israele presto proveranno una cocente sensazione.

Gli editoriali, se criticano per esempio i soldati israeliani o appoggiano un boicottaggio contro Israele, tra breve per legge non verranno più pubblicati sui media israeliani. L’aeroporto Ben Gurion amplierà i divieti di ingresso per chi critica il regime israeliano.

Le organizzazioni della società civile verranno private del loro status giuridico. Gli arabi verranno più rigorosamente esclusi in vista della realizzazione di uno Stato ebraico in cui tutti i parlamentari sono ebrei.  E ovviamente vi è l’annessione, attualmente in attesa dietro le quinte.

Il nuovo governo sarà il governo israeliano dell’annessione. Se il previsto appoggio di Washington sarà imminente – il riconoscimento americano dell’annessione delle Alture del Golan è stato il primo passo, il ‘ballon d’essai’ – allora Netanyahu farà la mossa che finora si è trattenuto dal fare durante tutto il suo regno.

Annuncerà l’annessione almeno di parte dei territori occupati.

Il significato sarà inequivocabile: Israele ammetterà per la prima volta che la sua occupazione militare della Cisgiordania, durata 52 anni, sarà permanente; che non è, come per molto tempo sostenuto, un fenomeno transitorio.

Drastici cambiamenti di politica

I territori non sono “merce di scambio” in negoziati per la pace, come sostenuto all’inizio dell’occupazione, bensì possedimenti coloniali che rimarranno in modo permanente sotto il governo israeliano. Non vi è alcuna intenzione che i territori annessi ora, che potranno poi espandersi, vengano mai restituiti ai palestinesi.

Quindi il nuovo governo Netanyahu annuncerà due drastici cambiamenti di politica. Primo, si chiuderà la questione della soluzione di due Stati, che persino Netanyahu ha appoggiato e a cui tutti i leader mondiali si sono dichiarati favorevoli.

Quell’opzione verrà dichiarata morta. Al tempo stesso Israele si dichiarerà uno Stato di apartheid non solo di fatto, ma adesso, per la prima volta, anche di diritto.

Poiché nessuno di coloro che sono a favore dell’annessione intende garantire uguali diritti ai palestinesi nei territori che verranno annessi, e poiché una annessione mirata solo sulla terra su cui si trovano le colonie è palesemente una mistificazione, gli uomini di Stato del mondo non avranno altra scelta che riconoscere che, di nascosto, nel XXI secolo, è stato dichiarato un secondo Stato di apartheid in stile sudafricano.

L’ultima volta un regime di apartheid è stato miracolosamente abbattuto senza alcuno spargimento di sangue. Questa volta il mondo si riunirà e ripeterà l’impresa?

Quale Israele state ancora appoggiando?

Questa domanda va posta anzitutto ai leader dell’Europa, da Angela Merkel a Emmanuel Macron, compresa Theresa May – a tutti i leader dell’Unione Europea. Hanno ripetuto all’infinito il mantra che il loro appoggio ad Israele e al suo diritto di esistere in sicurezza è fermo e irrevocabile.

Hanno continuamente dichiarato il loro sostegno ad una soluzione negoziata di due Stati. Quindi chi sostenete adesso? Che cosa sostenete? Quale Israele, esattamente? In quale mondo pensate di vivere? Forse in un mondo dei sogni che evidentemente trovate comodo, ma che ha sempre meno rapporti con il mondo reale.

L’Europa riuscirà a continuare a sostenere che Israele condivide i suoi valori liberali, quando in Israele sono vietate le organizzazioni della società civile? Quando quasi tutti i politici sionisti israeliani dichiarano che non hanno niente da discutere con i deputati arabi eletti in parlamento?

Provate a immaginare un diplomatico europeo che dichiari che i membri ebrei del suo parlamento nazionale non possono partecipare ad alcun dialogo politico. O che un diplomatico europeo dichiari che i cittadini ebrei del suo Paese sono dei traditori e una quinta colonna.

Questo genere di cose sono politicamente corrette in Israele, in tutti i partiti. E che dire della libertà di parola, tanto sacra nel discorso europeo, quando il ‘World Press Freedom Index’ (Indice mondiale della libertà di stampa) del 2019 di Reporter senza Frontiere classifica già Israele al numero 88 – dopo Albania, Kirghizistan e l’Ungheria di Victor Orban?

Questo è l’Israele che state appoggiando.

La soluzione dei due Stati è morta

Anche il sostegno automatico dell’Occidente alla soluzione dei due Stati deve essere aggiornato. Credete davvero, cari uomini e donne di Stato, che questo Israele abbia qualsivoglia intenzione di applicare una simile soluzione?

Vi è mai stato anche un solo politico israeliano che volesse, o potesse, trasferire circa 700.000 coloni, anche da Gerusalemme est occupata?

Credete davvero che senza un ritiro da tutte le colonie, che rappresenterebbe il minimo di giustizia per i palestinesi, vi sia qualche prospettiva che una simile soluzione si affermi e si trasformi in realtà?

Si potrebbe notare che la maggior parte dei diplomatici occidentali che sono ben informati su ciò che accade sanno già da tempo che questa soluzione è morta, ma nessuno di loro ha il coraggio di ammetterlo.

Ammetterlo richiederebbe di ridefinire tutte le loro posizioni sul conflitto in Medio Oriente, compreso il sostegno all’esistenza di uno Stato ebraico.

Con l’arrivo del nuovo governo Netanyahu il mondo occidentale non può semplicemente continuare a chiudere un occhio e sostenere che tutto va bene. Niente va bene.

Perciò ora la domanda è: siete pronti ad accettare questo? Rimarrete in silenzio, muti, concederete il vostro appoggio e chiuderete gli occhi sulla realtà?

Chi di voi si preoccupa per il futuro di Israele dovrebbe essere il primo a svegliarsi e trarre le dovute conclusioni. Certamente, ogni persona di coscienza dovrebbe farlo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

Gideon Levy

Gideon Levy è un editorialista di Haaretz e membro della direzione editoriale del quotidiano. E’ entrato in Haaretz nel 1982 ed è stato per quattro anni vicedirettore del giornale. Ha vinto il premio ‘Euro-Med Journalist’ nel 2008; il premio ‘Leipzig Freedom’ nel 2001; il premio ‘Israeli Journalists’Union’ nel 1997; il premio ‘The Association of Human Rights in Israel’ nel 1996. Il suo nuovo libro, ‘The Punishment of Gaza’ (La punizione di Gaza) è stato appena pubblicato da Verso.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)