I residenti di Sheikh Jarrah rifiutano l’accordo con i coloni

 I residenti di Sheikh Jarrah rifiutano l’accordo “tirannico” con i coloni

I residenti di Sheikh Jarrah hanno respinto una proposta della Corte Suprema israeliana che li avrebbe resi “inquilini protetti” nelle loro stesse case e avrebbe aperto la strada a future evacuazioni da parte dei coloni israeliani.

 Yumna Patel  

 2 novembre 2021 Mondoweiss

 

Martedì i residenti di Sheikh Jarrah hanno annunciato che avrebbero respinto la proposta della Corte Suprema israeliana che li avrebbe resi “inquilini protetti” nelle loro stesse case, aprendo la strada a future evacuazioni delle loro famiglie da parte dei coloni israeliani.

Dopo aver mancato all’inizio di quest’anno di pronunciarsi in merito all’appello delle famiglie contro gli sgomberi, la Corte Suprema ha presentato ad agosto una proposta di “compromesso” tra le famiglie palestinesi e Nahalat Shimonim, l’organizzazione di coloni che cerca di sfrattarli dalle loro case.

L’accordo mirava a dichiarare i residenti palestinesi “inquilini protetti”, che avrebbero pagato un canone annuo di 2.400 shekel (750 dollari) all’organizzazione dei coloni per poter rimanere nelle loro case.

Accettare lo status di residenti protetti riconoscerebbe in effetti la proprietà della terra ai coloni, una condizione che i residenti hanno categoricamente rifiutato.

L’accordo offriva comunque ai residenti tale status solo per altre due generazioni, dopodiché le famiglie sarebbero state nuovamente costrette allo sfratto da parte di Nihalat Shimonim, che sostiene che la terra appartenga a coloni ebrei.

“È ora che la nostra Nakba finisca”

In una dichiarazione, le famiglie hanno definito la proposta un “accordo tirannico”, in cui la “espropriazione sarebbe comunque incombente e le nostre case sarebbero comunque considerate appartenere a qualcun altro”.

“Tali ‘accordi’ distraggono dal crimine in corso: la pulizia etnica perpetrata da una magistratura coloniale e dai suoi coloni”, afferma la dichiarazione.

Martedì, in conferenza stampa, Muna El-Kurd ha affermato che il rifiuto delle famiglie deriva “dalla convinzione della giustizia della nostra causa e dei nostri diritti alle nostre case e alla nostra patria”.

Le famiglie hanno accusato il tribunale di “eludere la responsabilità a pronunciarsi sul caso” e di costringere i residenti a prendere una decisione – qualcosa che secondo loro ha creato “l’illusione di essere noi ad avere la palla”.

Con il rifiuto delle famiglie, il tribunale dovrà ora pronunciarsi sulla causa di sfratto. Se la corte suprema deciderà a favore dei coloni, i residenti palestinesi del quartiere saranno allontanati con la forza dalle loro case e sostituiti dai coloni, una realtà che è già stata imposta a diverse famiglie di Sheikh Jarrah.

Il caso attuale riguarda solo quattro famiglie, ma una sentenza contro i residenti palestinesi aprirebbe la strada alla futura espulsione di più di una dozzina di altre famiglie di Sheikh Jarrah, anch’esse già sottoposte a ordini di sfratto.

La lotta delle famiglie di Sheikh Jarrah è piombata sulla scena mondiale all’inizio di quest’anno, attirando massicce proteste in Palestina e all’estero e l’attenzione dei leader mondiali.

Durante le proteste nel corso dell’estate, è stato documentato che le forze israeliane attaccavano violentemente i residenti locali e anche i giornalisti che seguivano gli eventi.

Sembrerebbe che la crescente attenzione internazionale che circonda Sheikh Jarrah abbia evitato per un po’ qualsiasi sgombero forzato, ma i residenti sostengono che occorre intraprendere un’azione effettiva per proteggerli.

“La comunità internazionale ha a lungo sostenuto che l’espansione dei coloni e l’espulsione forzata da Sheikh Jarrah sono crimini di guerra. Pertanto, deve rispondere a tali gravi violazioni del diritto internazionale con reali ripercussioni diplomatiche e politiche”, afferma la dichiarazione delle famiglie, aggiungendo che “la cultura dell’impunità non deve continuare”.

“È tempo che la nostra Nakba finisca”, hanno detto le famiglie. “Le nostre famiglie meritano di vivere in pace senza il fantasma incombente di un’imminente espropriazione”.

La Corte Suprema confisca terreni per il comune

Lunedì, in una sentenza separata, la Corte Suprema ha deciso di confiscare ai residenti di Sheikh Jarrah un pezzo di terra all’ingresso del quartiere e di consegnarlo alla municipalità israeliana di Gerusalemme.

Il terreno confiscato misura circa 4.700 metri quadrati e, secondo quanto riferito, dovrebbe utilizzarsi come terreno “pubblico” del comune.

In una dichiarazione a The New Arab, Hashem Salaymeh, membro del consiglio locale di Sheikh Jarrah, ha affermato che la decisione di confiscare la proprietà e consegnarla al comune è stata “estremamente dannosa” per la causa dei residenti.

“Questo manda il messaggio che Sheikh Jarrah è preso di mira da tutti gli attori israeliani: dal governo, dal comune e dai coloni privati. Questo rende il caso di Sheikh Jarrah ancora più complicato”, ha detto Salaymeh.

 

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

 




I palestinesi lottano per salvare un cimitero di Gerusalemme

I palestinesi lottano per salvare un cimitero di Gerusalemme dall’essere distrutto per far posto a un parco israeliano

Yumna Patel

29 ottobre 2021 – Mondoweiss

 

Venerdì forze israeliane hanno lanciato lacrimogeni e bombe stordenti contro i palestinesi all’esterno del cimitero di al-Yusufiyah nella Gerusalemme est occupata, l’ultima escalation sul posto, in quanto i palestinesi lottano per salvare il cimitero dall’essere distrutto per far posto a un parco israeliano.

Secondo informazioni locali, gruppi di palestinesi si sono riuniti fuori dal cimitero, situato nelle immediate vicinanze delle mura della Città Vecchia, per protestare contro la costruzione nella zona di un parco israeliano che minaccia di distruzione parecchie tombe palestinesi.

Video ripresi sul posto venerdì mostrano poliziotti di frontiera israeliani armati che lanciano lacrimogeni e granate assordanti contro la folla, mentre altri arrestano violentemente giovani palestinesi e minacciano con i manganelli persone che stanno filmando la scena.

L’attacco contro i manifestanti è avvenuto dopo che forze israeliane hanno chiuso il cimitero con lamiere e reticolati nel tentativo di impedire alle numerose famiglie di accedere al cimitero mentre i bulldozer israeliani stavano lavorando nella zona.

Video mostrano la polizia israeliana che tenta di cacciare con la forza le famiglie che insistono per rimanere lì e perché gli venga consentito di visitare le tombe dei propri cari.

Un video postato sulle reti sociali mostra un gruppo di donne palestinesi che cerca di aprire di forza i portoni, ma inutilmente.

Una delle donne è Ola Nababteh, che all’inizio di questa settimana è stata filmata mentre si aggrappava disperatamente alla tomba del figlio quando i poliziotti israeliani stavano cercando di strapparla dalla pietra tombale.

Il video, diventato virale sulle reti sociali, mostra Nababteh in lacrime supplicare i poliziotti dicendo “Andiamo, lasciatemi qui,” mentre i bulldozer spianavano la terra attorno a lei.

Secondo la Reuter [agenzia di stampa britannica, ndtr.], Arieh King, vice sindaco di Gerusalemme e leader del movimento di destra dei coloni a Gerusalemme, ha affermato che non c’è “alcun tentativo di rimuovere il cimitero e la polizia ha portato via Nababteh perché era troppo vicina ai lavori di costruzione.”

Ma Nababteh ha sostenuto tutt’altro, dicendo a Middle East Eye che nel corso degli anni, quando andava sulla tomba del figlio, era costantemente maltrattata dalle autorità israeliane, che le dicevano che non aveva avuto il permesso di seppellire suo figlio lì.

Quindi, quando all’inizio del mese, durante i lavori di costruzione israeliani sul posto, sono stati disseppelliti resti umani, lei e altri palestinesi con parenti sepolti nel cimitero hanno temuto che i loro cari potessero presto subire un destino simile.

Le autorità israeliane sostengono che i resti che sono stati disseppelliti appartenevano a tombe “non autorizzate” che nel corso degli anni erano state “illegalmente collocate” nel cimitero e che le tombe “autorizzate” non sarebbero state danneggiate.

Per anni i palestinesi hanno lottato contro i progetti israeliani di parchi e riserve naturali, che minacciano più di un cimitero musulmano in città.

Nel 2018 forze israeliane hanno scavato all’interno del cimitero di Bab al-Rahma, fuori dalla Città Vecchia, come parte del progetto di creare un percorso per turisti per il parco nazionale della Città di David [parco archeologico gestito da un’associazione di coloni, ndtr.], che passa attraverso il cimitero plurisecolare, luogo di riposo eterno per generazioni di palestinesi e di altri arabi.

Nel contempo Mustafa Abu Zahra, capo della Commissione per la Tutela dei Cimiteri Islamici di Gerusalemme, ha detto a Mondoweiss che le profanazioni di cimiteri musulmani in città sono iniziate fin dagli anni ’70.

Negli ultimi anni ogni tentativo da parte dei palestinesi di scavare nuove tombe nel cimitero è stato respinto con la forza dalle autorità israeliane, che hanno distrutto le sepolture e limitato l’accesso dei palestinesi alla zona.

“Questa è una violazione delle leggi internazionali e parte della continua ebraizzazione di Gerusalemme da parte di Israele. Questo cimitero rappresenta la nostra cultura, la nostra vita, la nostra storia, e Israele sta cercando di cancellare tutto ciò,” aveva detto allora.

Aviv Tatarsky, ricercatore dell’ong israeliana di sinistra “Ir Amim”, dice a Mondoweiss che “i parchi nazionali sono stati ampiamente utilizzati in modo improprio da Israele a Gerusalemme est come uno dei mezzi per limitare pesantemente le aree residenziali palestinesi al fine di realizzare la politica demografica israeliana di garantire una maggioranza ebraica a Gerusalemme,” e che la politica crea pressioni che “incoraggiano” gli abitanti di Gerusalemme est a lasciare la città.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il cantante Assaf è l’ultima vittima della guerra contro la cultura palestinese

Ramzi Baroud

11 gennaio 2021- ArabNews

Perché le autorità israeliane odiano il cantante palestinese Mohammed Assaf? Avi Dichter, parlamentare della Knesset nel partito di destra Likud, ha annunciato questo mese che sarà revocato il permesso speciale di Assaf per entrare nella Cisgiordania occupata.
Assaf, originario di Gaza, ora vive con la sua famiglia negli EAU [Emirati Arabi Uniti, ndtr.]. È diventato una celebrità nel 2013 quando ha vinto il talent show “
Arab Idol”. La sua performance vincente della canzone “Raise Your Keffiyeh” ha suscitato un raro momento di unità in tutte le comunità palestinesi. Mentre pubblico, giudici e milioni di arabi ballavano con lui, Assaf ha conquistato il centro della scena a Beirut, offrendo alla cultura palestinese di dar nuovamente prova del suo valore come strumento politico che non può essere ignorato.
Da allora, Assaf ha cantato di tutto quello che è palestinese: dalla Nakba, la catastrofica perdita della patria palestinese, all’intifada e al dolore di Gaza, a ogni altro simbolo culturale palestinese.
Nato e cresciuto nella Striscia di Gaza, ha sperimentato in prima persona l’occupazione militare israeliana, parecchie guerre terribili e, naturalmente, l’assedio tuttora in corso. Entrambi i genitori sono rifugiati, la madre viene da Beit Daras [città a nord est di Gaza svuotata dei suoi abitanti dalle milizie sioniste nel 1948, ndtr.] e il padre da Beir Al-Saba [l’attuale Be’er Sheva, principale città del Negev, ndtr.]. L’abilità del giovane di andare oltre il doloroso vissuto della sua famiglia e restare ciononostante dedito ai valori culturali della sua società, merita alcune riflessioni e molte lodi.
L’annuncio di Dichter che ad Assaf sarà impedito di ritornare in patria non è così scandaloso come potrebbe sembrare. La guerra di Israele contro la cultura palestinese è vecchia quanto Israele stesso.

Negli ultimi settant’anni, Israele ha dimostrato la sua capacità di sconfiggere militarmente i palestinesi e persino interi eserciti arabi e inoltre, con l’aiuto dei suoi benefattori occidentali, è riuscito a dividere i palestinesi in gruppi rivali, spezzando nel contempo l’unita araba sulla Palestina. I palestinesi sono stati divisi geograficamente e isolati in tanti spazi ridotti nella speranza che ogni collettività avrebbe poi sviluppato aspirazioni diverse basate su priorità politiche completamente differenti. Di conseguenza i palestinesi sono stati assediati a Gaza, trattenuti in zone segregate in Cisgiordania e Gerusalemme Est, in comunità economicamente marginalizzate all’interno di Israele e dispersi nella “shatat” (diaspora).
Persino i palestinesi della diaspora, alcuni diventati più volte di seguito rifugiati, sopravvivono in contesti politici su cui hanno pochissimo controllo. I palestinesi dell’Iraq, per esempio, si sono trovati a dover fuggire all’inizio dell’invasione americana di quel Paese nel 2003; la stessa cosa è successa prima in Libano e poi in Siria.

I continui tentativi israeliani miranti a distruggere la Palestina si sono anche spostati dalla sfera fisica a quella virtuale, facendo pressioni per censurare le voci palestinesi sui social e persino rimuovendo dai menù delle linee aeree i riferimenti alla Palestina.
Naturalmente niente di tutto ciò avviene per caso, dato che i leader israeliani capiscono che la distruzione della Palestina, tangibile e presente, deve essere accompagnata dalla distruzione dell’idea palestinese, l’insieme di valori culturali e politici che garantiscono la sua coesione e continuità nelle menti di tutti i palestinesi, ovunque essi siano.
Dato che la cultura si basa su una miriade di forme di espressione, Israele ha dedicato molta energia e molte risorse a eliminare espressioni culturali palestinesi che permettono alla Palestina di esistere, nonostante le divisioni politiche, le divisioni fra arabi e la frammentazione geografica. Ci sono numerosi esempi che dimostrano ampiamente l’ossessione della dirigenza israeliana per sconfiggere la cultura palestinese. Come se l’obliterazione fisica della Palestina nel 1948 non fosse abbastanza, i politici israeliani inventano costantemente nuovi modi per rimuovere ogni rimanente simbolo di cultura palestinese e araba.
Nel 2009, per esempio, il governo di destra israeliano ha avviato il processo per cambiare i nomi dall’arabo all’ebraico su migliaia di cartelli stradali. E nel 2018 la “legge dello Stato-Nazione”, apertamente razzista, ha degradato lo status della lingua araba.
Ma questi esempi sono stati solo l’inizio della guerra israeliana contro la cultura palestinese. I fondatori di Israele erano consci dei pericoli che la cultura palestinese poneva per la sua capacità di unificare il popolo palestinese dopo la pulizia etnica di circa due terzi della popolazione dalla loro patria storica.

Una lettera ufficiale mandata a Yitzhak Gruenbaum, il primo ministro degli Interni israeliano, gli ordinava di cambiare i nomi di villaggi e regioni palestinesi recentemente spopolati con alternative in ebraico. “I nomi tradizionali devono essere sostituiti dai nuovi … dato che, in una anticipazione del rinnovamento dei nostri giorni come erano anticamente, per vivere la vita di un popolo sano con le sue radici nella terra del proprio Paese, noi dobbiamo cominciare con la fondamentale ebraicizzazione della sua carta geografica,” affermò. Subito dopo, fu creata una commissione governativa con il compito di cambiare nome a tutto ciò che era arabo palestinese.

Un’altra lettera, scritta nell’agosto 1957 da un funzionario del ministero degli Esteri israeliano, sollecitava il Dipartimento delle Antichità a velocizzare la distruzione delle case palestinesi svuotate durante la Nakba. “Le rovine dei villaggi e dei quartieri arabi o gli isolati di edifici che sono rimasti vuoti dal 1948 risvegliano connessioni sgradevoli che causano considerevole danno politico,” scrisse. “Devono essere spazzati via.”

Per Israele, cancellare dalla memoria la Palestina e strappare il popolo palestinese dalla storia della loro patria è sempre stata un’impresa di valore strategico. Spostiamoci velocemente all’oggi e la macchina ufficiale israeliana resta dedita alla stessa missione coloniale. L’accordo firmato nel 2016 fra il governo israeliano e Facebook per porre fine alla “istigazione ” palestinese online ha lo stesso obiettivo: zittire la voce del popolo palestinese.
La cultura palestinese è stata molto utile alla lotta del popolo palestinese. Nonostante l’occupazione israeliana e l’apartheid, gli ha dato un senso di continuità e coesione, tenendolo legato ad un senso collettivo di identità.
L’annuncio di Israele che vieterà a un cantante palestinese di ritornare e quindi di esibirsi per i palestinesi che vivono sotto occupazione non è, dal punto di vista israeliano, per niente scandaloso. È un altro tentativo di interrompere il flusso naturale della cultura palestinese che, nonostante la perdita della Palestina stessa, è forte e concreto, come sempre lo è stato.

  • Ramzy Baroud è giornalista e direttore di ‘The Palestine Chronicle’. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons[Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane] (Clarity Press, Atlanta).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)