Israele, che ha distrutto il Libano, si atteggia a suo salvatore

Tamara Nassar  

6 agosto 2020 – Electronic Intifada

Anche nel pieno della catastrofe, l’ipocrisia di Israele non conosce limiti.

Martedì un’enorme esplosione ha scosso Beirut, uccidendo almeno 135 persone, ferendone più di 5.000 e costringendo centinaia di migliaia a sfollare.

È probabile che il bilancio delle vittime salga, con i soccorritori che perlustrano la devastata capitale libanese.

L’esplosione ha lasciato poco di intatto: i cittadini stanno pubblicando foto e video di case distrutte, auto danneggiate ed edifici crollati in tutta la città.

Si indaga ancora sulla causa dell’esplosione. I funzionari libanesi la imputano alle 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio depositato da sei anni nei magazzini del porto senza misure di sicurezza.

Ora Israele sta sfruttando la tragedia per cancellare i propri crimini contro il Libano, distogliere l’attenzione dall’occupazione militare e ripulire la propria immagine – una strategia di propaganda chiamata bluewashing.

Il bluewashing

Attraverso i suoi canali diplomatici, Israele ha annunciato che offrirà aiuti umanitari al Libano.

“Questo è il momento di trascendere il conflitto”, ha twittato l’account ufficiale dell’esercito israeliano.

Mercoledì sera il municipio di Tel Aviv si è persino illuminato e issava la bandiera libanese.

L’incredibile ipocrisia non è passata inosservata fra gli utenti di Twitter, che hanno pubblicato foto famose scattate durante l’invasione israeliana del 2006. Le immagini mostrano bambini israeliani che scrivono messaggi sulle granate di artiglieria prima che l’esercito le spari sul Libano.

Un utente del social media ha scritto: “I vostri cesti regalo avranno la stessa firma dei missili?”.

L’offerta di aiuti “umanitari” proviene dallo stesso paese che ha ucciso e ferito decine di migliaia di civili palestinesi e libanesi e minaccia regolarmente di distruggere le infrastrutture civili del Libano, come ha già ripetutamente fatto.

Durante l’invasione del 2006, Israele ha scaricato sul Paese più di un milione di munizioni a grappolo.

“Abbiamo fatto una cosa folle e mostruosa, abbiamo sganciato bombe a grappolo su intere città “, ha detto ad Haaretz, quotidiano di Tel Aviv, un ufficiale dell’esercito israeliano.

Nel corso di quella guerra, Israele sganciò qualcosa come 7.000 bombe e missili e inoltre bombardò l’intero Libano con artiglieria terrestre e navale.

Più di 1.100 persone furono uccise e circa 4.400 ferite, di cui la stragrande maggioranza civili.

Un’indagine di Human Rights Watch ha totalmente smentito le affermazioni di Israele secondo cui l’orribile bilancio fosse il risultato di “danni collaterali” perché i combattenti di Hezbollah si sarebbero nascosti tra i civili o li avrebbero usati come “scudi umani”.

Human Rights Watch ha concluso che Israele ha indiscriminatamente preso di mira le aree civili – una strategia nota col nome di “Dottrina Dahiya”, dal nome del sobborgo meridionale di Beirut che Israele ha deliberatamente raso al suolo.

E i leader israeliani spesso minacciano di farlo di nuovo.

Ad esempio, nel 2018 Yisrael Katz, importante membro del governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha minacciato di bombardare il Libano fino a ridurlo all’ “età della pietra” e “all’epoca degli uomini delle caverne”.

E solo pochi giorni fa, dopo aver affermato che i combattenti di Hezbollah avevano tentato di attaccare l’esercito israeliano oltre la frontiera, Netanyahu ha fatto allusione alla guerra del 2006.

Il 27 luglio il leader israeliano ha dichiarato che nel 2006 il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah “ha commesso un grosso errore nel mettere alla prova la determinazione di Israele a difendersi, e lo Stato libanese ha pagato un prezzo pesante per questo”.

“Gli suggerisco di non ripetere l’errore”, ha soggiunto Netanyahu – minaccia appena velata di ripetere la stessa distruzione di massa.

Netanyahu ha ribadito le sue minacce poche ore prima dell’esplosione a Beirut.

Diffondere voci

Secondo quanto viene riportato, per la massima resa in termini di propaganda Israele insisterebbe nel mantenere il marchio ebraico su tutte le spedizioni di aiuti che potrebbe inviare in Libano, sebbene il Libano quasi certamente li rifiuterà.

Nel frattempo, Israele si è affrettato a diffondere voci infondate per accusare Hezbollah dell’esplosione.

“Dopo la tragedia di Beirut, Israele ha ufficialmente offerto assistenza umanitaria al Libano”, ha twittato 4IL [Defending Israel Online, sito “che combatte le bugie e l’ipocrisia della campagna BDS”, ndtr.], un organo di propaganda del Ministero degli Affari Strategici di Israele.

“Questo nonostante le prove che l’esplosione sia scoppiata in un magazzino di munizioni di Hezbollah”, aggiunge il resoconto.

Nessuna prova del genere è mai emersa.

 

L’ONU piazza Israele

 

Israele vìola regolarmente lo spazio aereo e la sovranità libanese, facendo volare aerei senza pilota e jet da combattimento sul sud del paese e persino sulla capitale.

Invece di condannare tali violazioni e chiedere giustizia per le vittime dei crimini di guerra israeliani in Libano, Nickolay Mladenov, l’inviato di pace delle Nazioni Unite per il Medio Oriente, ha lodato Israele per la sua offerta d’aiuto.

Mladenov è sembrato usare cinicamente la tragedia come opportunità per portare avanti un’agenda politica di normalizzazione dei legami regionali con Israele.

L’account Twitter della propaganda in lingua araba di Israele ha continuato a lanciare spudorate affermazioni di “solidarietà” con il popolo libanese; tuttavia, non tutti erano compresi.

Moshe Feiglin, ex vice presidente del parlamento israeliano, ha celebrato l’esplosione a Beirut come un “grandioso spettacolo pirotecnico ” e una “celebrazione meravigliosa” in coincidenza con la data designata dagli ebrei per la festa dell’amore [festività minore israeliana simile al giorno di S. Valentino, ndtr.].

È lo stesso Feiglin che durante l’attacco israeliano a Gaza nel 2014 propose un piano per “concentrare” i palestinesi nei campi di confine e “sterminare” chiunque resistesse, distruggendo tutte le abitazioni e le infrastrutture civili.

Ma la maggior parte dei politici israeliani ha evidentemente ricevuto un promemoria che questo genere di dichiarazioni non è l’immagine che Israele vuole inviare.

Anche se Israele illumina il municipio di Tel Aviv in una cinica dimostrazione di sostegno, pochi libanesi dimenticheranno che quasi 14 anni fa Israele stava illuminando i cieli del Libano con missili e bombe.

 

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Urlate se sentite la parola “Palestina” dice il nuovo responsabile per l’antisemitismo di Berlino

Ali Abunimah  

4 agosto 2020 – Electronic Intifada

Il Senato della città-stato di Berlino, capitale della Germania, ha nominato un nuovo funzionario per combattere l’antisemitismo.

Ma Samuel Salzborn, docente di scienze politiche, è estremamente intollerante nei confronti dei palestinesi e ben lontano dall’essere un campione nella lotta contro l’intolleranza.

Quando siete seduti in treno e le persone vicino a voi cominciano a parlare della ‘Palestina’ senza nessuna ragione apparente, vuol dire che è ora o di scendere dal treno o di mettersi gli auricolari o di mettersi a urlare” ha twittato Salzborn lo scorso ottobre, facendo seguire al messaggio la parola “antisemitismo.”

Non sembra che Salzborn abbia twittato nient’altro prima o dopo questa affermazione per contestualizzarla. Sembra essere una pura e semplice espressione del suo ribrezzo al solo pensiero dell’esistenza della Palestina o dei palestinesi.

Per anni Israele e la sua lobby hanno denigrato i palestinesi, e coloro che sostengono i loro diritti, bollandoli come antisemiti, ma Salzborn ha portato le cose alla loro logica ed estrema conseguenza: ai suoi occhi persino la sola menzione della parola Palestina è un attacco contro gli ebrei che va messo a tacere e che si merita come risposta l‘aggressione.

Già in precedenza Salzborn aveva fatto eco alla propaganda del governo israeliano affermando, per esempio, che per Israele si usano “due pesi e due misure ” e che gli attivisti per i diritti umani stanno tentando di “delegittimarlo”.

Ha persino affermato che la causa principale del conflitto fra israeliani e palestinesi è “l’aggressione da parte dei palestinesi.”

Salzborn ha anche affermato che è “completamente assurdo” paragonare gli insediamenti coloniali israeliani costruiti sulla terra palestinese occupata all’apartheid in Sudafrica.

Dopo la notizia dell’incarico a Salzborn, il suo tweet di ottobre ha ricevuto una rinnovata attenzione e molti hanno espresso la loro costernazione o hanno semplicemente twittato in risposta la parola ‘Palestina’ ripetuta molte volte.

Yossi Bartal, attivista israeliano di sinistra che vive a Berlino, ha ironicamente twittato che “da ebreo berlinese, aspetto con impazienza il mio nuovo ‘referente per l’antisemitismo’.”

Bartal ha aggiunto uno screenshot in cui si vede che egli è stato bloccato da Salzborn.

Questo è un chiaro segno che il professore ha in mente di mettere in pratica ciò che predica: bloccare ogni voce dissenziente, incluse quelle degli ebrei critici verso i delitti e i soprusi di Israele contro i palestinesi.

Divulgare le bugie di Israele

Fra quelli che hanno gradito la nomina di Salzborn c’è Katharina von Schnurbein, coordinatrice dell’Unione europea contro l’antisemitismo.

Von Schnurbein ha twittato le sue congratulazioni dicendo che non vede l’ora di lavorare con lui.

Von Schnurbein, una stretta alleata della lobby israeliana, ha fatto poco per combattere il vero antisemitismo, nonostante segni allarmanti che in Germania il nazismo sia una forza che sta riemergendo.

Si è invece concentrata per anni a diffondere la propaganda e le bugie di Israele e a inventare accuse contro gli attivisti per i diritti umani dei palestinesi.[ vedi zeitun ndr]

Ha anche sostenuto una definizione dell’antisemitismo fuorviante e orientata da ragioni politiche che mette sullo stesso piano le critiche alle politiche di Israele e il fanatismo antiebraico.

Né Salzborn né la von Schnurbein hanno risposto alle richieste da parte di The Electronic Intifada di fare un commento.

La nomina di Salzborn è stata accolta con favore anche nella sede di Berlino del Comitato degli ebrei americani, uno dei principali gruppi di pressione israeliani.

Ci si aspetta che anche Salzborn, come già la von Schnurbein, continui a ripetere a pappagallo la propaganda israeliana.

La sua nomina è un ennesimo segno della crescente intolleranza verso la difesa dei diritti dei palestinesi in Germania, un Paese dove il sostegno automatico e incondizionato a favore di Israele è considerato come l’espiazione per l’assassinio di milioni di ebrei europei nei campi di sterminio da parte del governo tedesco durante la Seconda guerra mondiale.

Vittoria per i tre di Humboldt

Le notizie dalla Germania per i sostenitori dei diritti dei palestinesi non sono tutte negative.

Lunedì si è finalmente concluso il lungo processo contro i tre attivisti coinvolti nelle manifestazioni nel giugno 2017 contro un politico israeliano alla Humboldt University di Berlino.

È finito con quella che Ronnie Barkan, uno dei tre di Humboldt, ha definito una vittoria.

Barkan, israeliano e Majed Abusalama, attivista palestinese, sono stati assolti dall’accusa di violazione di domicilio.

Secondo Barkan, il giudice voleva far cadere le accuse contro tutti e tre, ma il pubblico ministero ha insistito per procedere con l’accusa di violenza contro la terza imputata, l’attivista israeliana Stavit Sinai, per essere andata a sbattere contro la porta di un’aula dopo che era stata presa a pugni.

Rivendichiamo di aver vinto perché Majed e Ronnie sono stati assolti con formula piena, mentre Stavit ha ricevuto il minimo della pena, probabilmente per salvare la faccia al pubblico ministero,” ha dichiarato Barkan.

Durante tutto il processo abbiamo insistito nel fare dichiarazioni chiare che sottolineavano il nostro obbligo legale e morale di opporci ai delitti israeliani contro l’umanità.”

Sinai ha dichiarato che si rifiuterà di pagare la multa di 500 dollari che le è stata comminata.

Ali Abunimah è cofondatore di The Electronic Intifada, autore di The Battle for Justice in Palestine [La battaglia per la giustizia in Palestina], recentemente pubblicato da Haymarket Books, e di One Country: A Bold-Proposal to End the Israeli-Palestinian Impasse. [Un solo Paese: una proposta audace per porre fine all’empasse israelo-palestinese]

Le opinioni espresse in questo articolo sono solo mie.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’università di Manchester disinveste dalle aziende complici dell’occupazione israeliana

Asa Winstanley

3 Agosto 2020 – The Electronic Intifada

L’università di Manchester ha disinvestito oltre 5 milioni di dollari dalla Caterpillar e dalla società madre del sito di viaggi Booking.com.

Lunedì gli attivisti hanno detto che si è trattato di “un’enorme vittoria del movimento di solidarietà con la Palestina in Gran Bretagna” e di “una svolta decisiva”.

L’università è stata un bersaglio della campagna fin dal 2016, a causa dei suoi investimenti in aziende complici dell’occupazione israeliana della terra palestinese.

L’anno scorso gli studenti hanno interrotto una riunione del consiglio chiedendo di disinvestire da Caterpillar.

Caterpillar fornisce all’esercito israeliano bulldozer che vengono usati come armi per distruggere le case palestinesi e per condurre uccisioni extragiudiziarie.

Booking Holdings Inc. compare nel database delle Nazioni Unite, pubblicato all’inizio di quest’anno, delle aziende coinvolte nelle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata.

La società madre e Booking.com sono entrambe inserite nella lista nera a causa delle loro inserzioni di immobili in affitto in colonie israeliane costruite su terra palestinese rubata in violazione del diritto internazionale.

La campagna prosegue

Dati visionati da The Electronic Intifada, pubblicati dall’università in risposta a richieste sulla libertà di informazione, confermano che il disinvestimento è avvenuto tra aprile 2019 e il 31 marzo 2020.

In una e-mail del 23 luglio 2020 in risposta alla richiesta degli attivisti, la responsabile dell’informazione dell’università ha pubblicato il suo ultimo elenco di investimenti.

Ha detto che le linee guida di investimento etico dell’università adesso escludono le aziende sulla base di una serie di fattori, compresa la fornitura di “armamenti discutibili”.

In una dichiarazione rilasciata immediatamente dopo la pubblicazione di questo articolo, un portavoce dell’università di Manchester ha smentito che il disinvestimento avesse alcuna relazione con la campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, ndtr.). “Le decisioni relative alle nostre specifiche quote di partecipazione vengono prese dai nostri gestori degli investimenti con lo scopo di raggiungere tutti i nostri obbiettivi di investimento”, hanno detto.

Ma gli attivisti hanno dei dubbi. “Gli investimenti in aziende che sostengono il regime di apartheid israeliano non avrebbero dovuto esistere fin dall’inizio”, ha dichiarato l’attivista Huda Ammori. “Il disinvestimento dell’università di Manchester dalle aziende complici dimostra la capacità del movimento di base degli studenti nel rendere responsabili le nostre istituzioni.”

Ammori ha lanciato la campagna BDS all’università di Manchester quando vi studiava nel 2016.

In una dichiarazione di lunedì gli attivisti di ‘Apartheid off Campus’ [Apatheid fuori dall’ università], una nuova rete studentesca, hanno detto che “la vittoria del disinvestimento a Manchester, la più grande università d’Europa, si prevede sia un momento di svolta per il movimento BDS nei campus del Regno Unito.”

Ma hanno detto che continueranno a mantenere l’università di Manchester come obbiettivo delle campagne BDS.

Secondo la rete ‘Apartheid off Campus’ l’università “ha ancora molti legami con il regime di apartheid israeliano, compreso il programma di scambi con l’università ebraica di Gerusalemme, che manda studenti a studiare nella terra palestinese occupata e rubata.”

Leeds è stata la prima università inglese a disinvestire dall’apartheid israeliano nel 2018, quando ha ritirato più di 1.200.000 dollari da diverse aziende coinvolte nel commercio di armi con Israele.

Asa Winstanley è un giornalista d’inchiesta e condirettore di The Electronic Intifada. Vive a Londra.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Come Israele ostacola le cure per il COVID-19 a Gerusalemme est

Tamara Nassar

23 luglio 2020 – Electronic Intifada

La pandemia di COVID-19 non rende tutti uguali.

Al contrario ha messo in evidenza sistemi di diseguaglianza all’interno di servizi sanitari apparentemente moderni ed ha portato sull’orlo del collasso quelli già in crisi.

Il caso della Gerusalemme est occupata è particolarmente rivelatore.

Secondo un nuovo rapporto dell’associazione palestinese per i diritti umani Al-Haq, dell’organizzazione benefica con sede in Gran Bretagna Medical Aid for Palestinians [Aiuto Medico per la Palestina] e del Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center [Centro per l’Assistenza legale e i Diritti Umani di Gerusalemme], la pandemia ha smascherato ed esacerbato gli orrori dell’occupazione militare israeliana in città. Israele ha occupato Gerusalemme est nel 1967 e l’ha annessa formalmente nel 1980.

In base alle leggi internazionali Israele ha l’obbligo specifico di garantire la salute e altri servizi fondamentali ai palestinesi che vivono sotto il suo controllo militare.

Lungi dal rispettare questi obblighi, durante la pandemia il sistematico disinteresse e la continua violenza di Israele a Gerusalemme est sono diventati sempre più evidenti.

Israele ha adottato il solito atteggiamento quando si tratta di opprimere i palestinesi.

Le autorità israeliane non hanno tempestivamente messo in campo strutture per diagnosticare il COVID-19, non hanno fornito dati accurati e affidabili per ricostruire la diffusione del virus, hanno vessato ed arrestato attivisti sanitari palestinesi ed hanno ostacolato l’approvvigionamento dell’equipaggiamento indispensabile da parte degli ospedali.

Il rapporto afferma che “i palestinesi sono ormai mal equipaggiati per affrontare una qualunque crisi di salute pubblica, per non parlare dello scoppio di una pandemia come il COVID-19.”

Carenza di strutture diagnostiche

Ci è voluto più di un mese dal primo caso di coronavirus confermato in Israele prima che venisse allestita una struttura diagnostica a Gerusalemme est.

In seguito a pressioni legali da parte di associazioni palestinesi per i diritti umani, quella per il controllo effettuato in macchina è stata installata nel quartiere di Jabal al-Mukabbir, che si trova fuori dal muro di annessione di Israele.

Con un ritardo di circa due mesi Israele ha creato centri diagnostici al di là del muro, e ciò è stato fatto solo dopo che Adalah, un’organizzazione per i diritti umani, ha presentato una petizione alla Corte Suprema israeliana.

I ritardi nell’effettuare analisi ai palestinesi sono stati di per sé discriminatori, in quanto “in evidente contrasto con l’urgenza e la rapidità nel rispondere alle necessità della popolazione israeliana ebraica.”

I ritardi “discriminatori” sono stati probabilmente ciò che “ha dimostrato nel modo più evidente” il disinteresse di Israele nel tentare di contenere [l’epidemia].

Ma i ritardi non sono stati l’unico problema.

“Il fatto di poter fare le analisi in queste strutture è condizionato alla possibilità di avere un’assicurazione sanitaria privata israeliana, che un numero significativo di palestinesi non ha,” afferma il rapporto.

Israele fornisce cure mediche gratuite ai palestinesi ufficialmente residenti a Gerusalemme est, che rappresentano solo il 40% della popolazione.

Quando Israele occupò Gerusalemme est nel 1967 calcolò solo i palestinesi che erano fisicamente presenti in città.

Quelli che erano all’estero per qualunque ragione – compresi lavoro e studio – non vennero contati e furono “arbitrariamente privati dei loro diritti di residenti a Gerusalemme.”

Fino ad oggi per vivere nella città in cui sono nati i palestinesi devono dimostrare che il “centro della loro vita” è a Gerusalemme.

Monitoraggio decentralizzato

Il monitoraggio del numero di casi confermati a Gerusalemme est è stato un processo contraddittorio e inaffidabile.

A causa della natura dell’annessione israeliana di Gerusalemme est, il ministero della Salute israeliano è l’unico ente che abbia accesso ai dati sui palestinesi contagiati dal virus in città.

Secondo il rapporto, in assenza di dati disaggregati, il numero di casi confermati viene contato da tre diversi enti: il ministero della Salute israeliano, il Comune di Gerusalemme controllato da Israele e alcune associazioni all’interno della Jerusalem Alliance to Confront the Coronavirus Pandemic [Coalizione di Gerusalemme per Affrontare la Pandemia di Coronavirus, formata da Ong palestinesi, ndtr.].

Ciò ha creato una discordanza tra i dati, e quindi né il ministero della Salute dell’Autorità Nazionale Palestinese né l’Organizzazione Mondiale della Sanità hanno una visione chiara della gravità dell’epidemia a Gerusalemme est.

Abbandono degli ospedali e riduzione dei finanziamenti

Gli effetti dell’abbandono cronico e dell’indebolimento degli ospedali palestinesi da parte di Israele a Gerusalemme est sono diventati evidenti durante la pandemia.

Per le cure che non possono ricevere altrove i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza occupate dipendono dagli ospedali di Gerusalemme est.

A Gerusalemme est tre ospedali sono stati destinati alla cura del coronavirus: l’al-Makassed, l’Augusta Victoria e il Saint Joseph.

“La pandemia ha colpito in un momento in cui tutti questi ospedali stavano già affrontando situazioni economiche particolarmente pesanti e la riduzione cronica dei finanziamenti,” afferma il rapporto.

Nel 2018 l’amministrazione Trump ha tagliato più di 25 milioni di dollari di aiuti già stanziati per sei ospedali a Gerusalemme est.

Tutti e tre gli ospedali destinati alle cure per il COVID-19 contano in totale solo 22 ventilatori e 62 letti per i pazienti da coronavirus.

Anche se i palestinesi possono cercare di essere curati negli ospedali israeliani, “neppure la disponibilità degli ospedali israeliani esime le autorità occupanti israeliane dalla responsabilità per il deliberato indebolimento, peggioramento delle condizioni e sistematico abbandono degli ospedali palestinesi a Gerusalemme est,” afferma il rapporto.

Attaccare gli attivisti sanitari

Durante la pandemia le forze israeliane hanno continuato nei loro attacchi contro attivisti sanitari.

Israele ha sistematicamente preso di mira ed arrestato volontari che distribuivano volantini informativi in città ed hanno imprigionato palestinesi che a titolo volontario disinfettavano luoghi pubblici, come le moschee.

Le forze israeliane hanno persino fatto irruzione in una struttura diagnostica nella zona di Silwan, sostenendo inizialmente che fosse gestita da medici senza laurea, e poi adducendo come pretesto per la sua chiusura che le attività della struttura fossero supervisionate dall’Autorità Nazionale Palestinese.

Di fatto il medico che amministrava la struttura ha confermato alle associazioni per i diritti umani che hanno stilato il nuovo rapporto di essersi laureato in Israele.

“Indipendentemente dal pretesto, il fatto stesso che i palestinesi siano stati obbligati a mettere in piedi un centro per conto proprio e la sua successiva chiusura da parte della potenza occupante è una dimostrazione della notevole incapacità di ottemperare al proprio obbligo di adempiere senza discriminazioni ai diritti dei palestinesi alla salute e alla vita.”

Attualmente nella Cisgiordania occupata ci sono circa 12.000 casi confermati di COVID-19, tra cui più di 2.100 casi a Gerusalemme est.

Ci sono 75 casi confermati nella Striscia di Gaza. Finora 70 palestinesi sono morti per la malattia.

Negando le basilari cure mediche ai palestinesi – e, peggio, attaccando le loro strutture di cura – Israele ha reso inevitabile che il numero di morti sia destinato ad aumentare.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Fine impunità israeliana

L’impunità israeliana sta per terminare

Maureen Clare Murphy

19 luglio 2020 – The Electronic Intifada

 

Il tempo dell’impunità di Israele si sta riducendo man mano che il Tribunale Penale Internazionale si avvicina all’apertura di un’indagine completa sui crimini di guerra in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Un’offensiva diplomatica israeliana e le sanzioni da parte degli Stati Uniti non hanno ancora piegato la corte.

La sentenza della camera preliminare in merito alla giurisdizione della corte sulla Palestina è attesa in tempi brevi (la Corte Penale Internazionale si è appena aggiornata per le vacanze estive e si riunirà nuovamente a metà agosto), e il governo israeliano non prevede che i giudici decideranno a suo favore.

Il quotidiano di Tel Aviv Haaretz ha riferito questa settimana che Israele sta compilando “una lista segreta di funzionari militari e dell’intelligence che potrebbero essere soggetti ad arresti all’estero” nel caso in cui  un’indagine della CPI dovesse proseguire .

Il giornale afferma che a quanto si dice, l’elenco “ora comprende tra 200 e 300 funzionari”.

Il documento, ha aggiunto Haaretz, rimane segreto perchè la CPI “probabilmente considererebbe un elenco di nomi come un’ammissione ufficiale israeliana del coinvolgimento di questi funzionari nei casi sotto inchiesta”.

Tra i probabili sospetti, ministri di alto livello e gerarchie militari che hanno supervisionato e portato avanti l’offensiva israeliana del 2014 contro la Striscia di Gaza. Tra i potenziali sospetti di alto rango citati da Haaretz ci sono Benjamin Netanyahu e l’ex capo dell’esercito Benny Gantz, che guidano congiuntamente il governo di coalizione israeliano.

La lista potrebbe comprendere anche funzionari di livello inferiore coinvolti nella costruzione di colonie in Cisgiordania.

Ma il numero di persone responsabili di crimini di guerra perseguibili penalmente aumenta ad ogni esecuzione in strada di un palestinese da parte della polizia e dei militari israeliani.

Disarmato e indifeso”

Decine di organizzazioni per i diritti umani hanno dichiarato questa settimana alle Nazioni Unite  che i responsabili dell’esecuzione extragiudiziale del 26enne Ahmad Erakat ad un checkpoint il mese scorso devono essere chiamati a risponderne.

Israele ha sostenuto che Erakat sia andato intenzionalmente a sbattere contro il checkpoint con la sua auto, causando lievi ferite a una soldatessa. Il video dell’incidente mostra che i soldati hanno sparato a Erakat quando è uscito dal suo veicolo con le mani in alto.

Le organizzazioni per i diritti umani affermano nel loro appello che, quando è stato ucciso, Erakat  stava sbrigando delle commissioni poco prima del matrimonio di sua sorella. La sposa “stava già indossando il suo abito per il matrimonio quando ha saputo che suo fratello era stato ucciso”.

Erakat avrebbe dovuto sposarsi a settembre dopo che il suo matrimonio, previsto a maggio, era stato posticipato a causa della pandemia.

Le associazioni per i diritti umani affermano che Erekat, “palesemente disarmato e indifeso”, è stato lasciato morire dissanguato per circa 90 minuti, durante  i quali le forze di occupazione gli hanno negato le cure mediche.

I soldati israeliani presenti non hanno fornito ad Erakat nessun intervento di pronto soccorso. Dieci minuti dopo la sparatoria, un’ambulanza israeliana è arrivata al posto di blocco. Quei medici hanno curato solo la soldatessa leggermente ferita senza fornire aiuto a Erakat.

“Avendo curato un soldato israeliano ferito ma lasciando (Erakat) senza assistenza medica nonostante fosse gravemente ferito, la condotta di Israele equivale a una illegale discriminazione razziale”, aggiungono le organizzazioni a favore dei diritti umani.

I soldati israeliani hanno impedito ai paramedici palestinesi di avvicinarsi ad Erakat.

Le organizzazioni per i diritti umani affermano che negare le cure ai palestinesi feriti dalle forze israeliane “deve essere inteso come parte integrante di una diffusa e sistematica politica israeliana nei confronti dei palestinesi consistente nello sparare per uccidere”.

L’intento di questa politica, aggiungono le associazioni, “è quello di mantenere il regime israeliano di sistematica oppressione razziale e dominio sul popolo palestinese”.

Solo nel corso del 2019 l’esercito israeliano non ha prestato le cure ai palestinesi feriti in almeno 114 occasioni .

“La negazione di un’assistenza medica il prima possibile” proseguono nell’appello urgente le organizzazioni, equivale a “violazioni dei diritti alla salute e alla vita.”

“Clima di paura”

Israele sta trattenendo il corpo di Erakat come parte di una politica che consiste nel negare i resti dei palestinesi uccisi in quelli che sostiene siano stati attacchi a soldati e civili.

Dall’inizio dell’attuazione di tale politica, nel 2015, Israele ha ritardato la restituzione dei corpi di oltre 250 palestinesi uccisi dai propri soldati.

Continua a trattenere 63 di questi corpi in modo che possano essere usati come oggetto di contrattazione nei futuri scambi di prigionieri.

Questa pratica, approvata dalla corte suprema israeliana, è una forma di punizione collettiva che, affermano le organizzazioni per i diritti umani, “equivale a tortura e maltrattamenti nei confronti delle famiglie delle vittime”.

L’appello precisa che le pratiche israeliane di punizione collettiva “intendono creare un clima di paura, repressione e intimidazione” e “indebolire la capacità del popolo palestinese di opporsi efficacemente al regime”.

L’uccisione intenzionale di Ahmad Erakat è una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra, affermano le organizzazioni per i diritti umani. Gli Stati firmatari, incluso Israele, sono obbligati a portare le persone sospettate di aver commesso tali violazioni dinanzi ai loro tribunali.

Tuttavia, aggiungono le associazioni, le procedure investigative interne da parte dell’esercito israeliano “hanno più volte dimostrato di non essere minimamente all’altezza degli standard internazionali per garantire indagini efficaci, oneste e credibili”.

Data la mancanza di accesso alla giustizia nei tribunali israeliani, le organizzazioni affermano che “le reali responsabilità riguardo le vittime palestinesi possono essere accertate solo attraverso la giustizia penale internazionale e i tribunali con giurisdizione internazionale.”

“La (Corte Penale Internazionale) a questo proposito rappresenta per i palestinesi un tribunale di ultima istanza”, aggiungono. Le organizzazioni esortano gli esperti delle Nazioni Unite per i diritti umani “a chiedere alla CPI di deliberare, senza indugio, a favore del riconoscimento della giurisdizione territoriale della corte” in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Fino a quando non sarà garantita la giustizia, ci saranno nuove famiglie palestinesi in lutto per un figlio o una figlia, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno.

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Le demolizioni di case raggiungono un picco prima dell’annessione

Maureen Clare Murphy

7 luglio 2020 – Electronic Intifada

L’annessione formale di territori occupati da parte di Israele potrebbe essere stata accantonata, ma prosegue l’espulsione forzata di palestinesi in Cisgiordania.

Secondo l’associazione [israeliana] per i diritti umani B’Tselem, il mese scorso le demolizioni israeliane di case palestinesi nei territori sono aumentate.

In Cisgiordania, compresa Gerusalemme est – che Israele ha già annesso in violazione delle leggi internazionali – sono state distrutte circa 45 case.

B’Tselem afferma che otto delle case distrutte a Gerusalemme “sono state demolite dai loro proprietari, dopo che essi hanno ricevuto un ordine di demolizione dalla Municipalità e desideravano evitare di pagare il costo della demolizione e le multe del Comune.”

A Gerusalemme est più di 50 persone, tra cui circa 30 minorenni, sono state cacciate in seguito alle demolizioni. Nel resto della Cisgiordania 100 persone, metà delle quali minorenni, sono state lasciate senza casa. Oltre alla distruzione delle case, il mese scorso le forze di occupazione israeliane hanno raso al suolo più di 35 strutture non abitative.

B’Tselem ha pubblicato il video dell’Amministrazione Civile israeliana – in realtà un’unità del suo esercito – che il 3 giugno ha demolito cinque stalle di proprietà della famiglia Abu Dahuk nei pressi di Gerico nella Valle del Giordano.

Le forze di occupazione hanno anche confiscato pannelli solari, frigoriferi e contenitori per l’acqua. In gennaio, con il pretesto della vicinanza di una zona militare israeliana, la famiglia Abu Dahuk è stata espulsa da un’area attigua in cui aveva vissuto per 30 anni.

Israele ha dichiarato zona militare chiusa più di metà della Valle del Giordano della Cisgiordania. Ai palestinesi che vivono in queste zone, molti dei quali in comunità di pastori, è stato ordinato di evacuare le loro case quando Israele compie esercitazioni militari di combattimento.

Ma il vero scopo della dichiarazione di zone militari chiuse è l’espropriazione delle terre palestinesi per poi annetterle ad Israele.

L’utilizzo di macchinari edili delle ditte Caterpillar e JCB

All’inizio di giugno l’Amministrazione Civile israeliana si è occupata della distruzione di sei case nelle colline meridionali di Hebron, in Cisgiordania.

Per mettere in atto questi crimini ha utilizzato macchinari della Caterpillar e della JCB.

Entrambe le imprese, rispettivamente americana e britannica, sono state contestate per il loro perdurante coinvolgimento nella distruzione delle case palestinesi.

In seguito, nello stesso mese l’amministrazione civile ha smantellato e confiscato un recinto per allevamento del bestiame in un’altra zona delle colline meridionali di Hebron.

Le forze di occupazione hanno sparato granate stordenti contro abitanti e attivisti che protestavano contro la confisca.>

Così, anche se l’annessione di Israele non è stata formalizzata, i palestinesi continuano ad essere espulsi per farvi posto.

Come ha detto recentemente Hagai El-Ad, direttore di B’Tselem, la mancanza di iniziative internazionali riguardo all’annessione di fatto delle terre della Cisgiordania invia ad Israele un messaggio di accondiscendenza:

“Fai quello che vuoi con milioni di palestinesi per tutto il tempo che vuoi. È permesso quasi tutto finché non vengano ufficialmente formalizzati certi aspetti, in modo che noi tutti possiamo continuare a guardare da un’altra parte rispetto a questa ingiustizia e facciamo finta che sia temporanea.”

Finora nel corso di quest’anno in Cisgiordania sono state demolite circa 325 strutture di proprietà di palestinesi, con conseguente espulsione di circa 370 persone.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Tribunale israeliano aggiudica ai coloni proprietà della chiesa a Gerusalemme

Tamara Nassar

3 luglio 2020 – Electronic Intifada

Il mese scorso un tribunale israeliano ha respinto una petizione presentata dalla chiesa greca ortodossa per annullare la vendita di proprietà immobiliari a Gerusalemme a un’organizzazione estremista di coloni israeliani.

La decisione dà nuovamente il via libera ad Ateret Cohanim, un gruppo di destra coinvolto in città nella colonizzazione di terra palestinese, per impossessarsi delle tre proprietà.

Lo scorso agosto, la Corte distrettuale di Gerusalemme aveva sentenziato a favore del gruppo di coloni che cerca di far sì che ci sia una maggioranza ebraica nella Città Vecchia, attraverso la colonizzazione e l’espulsione con la forza di nativi palestinesi.

Ateret Cohanim sostiene di aver stipulato contratti in leasing nel 2004 per terreni della chiesa con Ireneo I, all’epoca il patriarca greco ortodosso. I contratti sarebbero scaduti dopo 99 anni.

La chiesa ha detto che ricorrerà in appello contro la decisione del 24 giugno presso la Corte Suprema israeliana e ha accusato la Corte distrettuale di Gerusalemme di aver ignorato “varie nuove prove di comportamenti criminali, come estorsione, frode e inganno ” riguardanti i contratti del 2004.

Il pronunciamento della Corte è stato una sorpresa ed è arrivato questa mattina a meno di 24 ore dalla conclusione dell’udienza, senza che si fossero esaminate le prove e senza averne consentito l’audizione,” ha detto il patriarcato.

Noi crediamo che la Corte Suprema accoglierà il nostro caso dopo aver riesaminato le prove e ribalterà la decisione della Corte distrettuale.”

Ma questa fiducia è probabilmente mal riposta, dato che in precedenza la Corte aveva già deciso a favore dell’organizzazione dei coloni autorizzando il passaggio di proprietà.

La battaglia legale di Ateret Cohanim contro la chiesa per tentare di impossessarsi degli immobili nei pressi della Porta di Giaffa nella Città Vecchia si protrae da 16 anni.

Due delle tre proprietà, l’hotel New Imperial e l’hotel Petra, sono al momento occupate da organizzazioni palestinesi che Ateret Cohanim cerca di sfrattare.

Sono due degli edifici più antichi della città e si affacciano sulla Cupola della Roccia e la Basilica del Santo Sepolcro.

Ireneo I era stato rimosso dalla chiesa perché accusato di aver approvato le transazioni.

I tre siti sono stati concessi in leasing per molto meno del loro valore e dei funzionari della chiesa erano stati accusati di essere stati pagati dal gruppo dei coloni per mandar avanti l’operazione.

Nel 2005 una commissione formata dall’Autorità Nazionale Palestinese aveva esaminato il fatto e scagionato Ireneo I.

L’indagine concludeva affermando che, dato che gli accordi non erano stati approvati dal Sinodo di Gerusalemme, ciò li rendeva “legalmente nulli in quanto incompleti.”

Ireneo I sostenne che la sua estromissione era illegale e continuò a considerarsi il patriarca.

Theofilo III, che ora è il patriarca, ha bloccato le vendite che il suo predecessore avrebbe approvato perché c’erano di mezzo bustarelle e corruzione. Dopo la sua nomina la chiesa ha acquisito i siti.

Il patriarcato sostiene che Ateret Cohanim abbia corrotto Nikolas Papadimos, il direttore delle finanze, per mandare avanti l’accordo.

La chiesa greca ortodossa è fra i maggiori proprietari terrieri nel Paese.

Mentre cerca di impedire che i coloni israeliani si impossessino delle tre proprietà, lo stesso Theofilo III è accusato di cercare di vendere altri beni ecclesiastici, spesso ad acquirenti misteriosi, inclusi investitori israeliani.

Per questo motivo i palestinesi cristiani hanno richiesto la sua estromissione dalla carica di patriarca.

(traduzione dall’inglese Mirella Alessio)




L’organizzazione razzista filo-israeliana ADL cerca di cooptare Black Lives Matter

Ali Abunimah

29 giugno 2020 – Electronic Intifada

Per quanti desiderano la fine del razzismo istituzionalizzato, questi sono tempi esaltanti, in quanto attivisti e organizzazioni dei neri guidano una protesta globale contro i simboli e le strutture della supremazia bianca.

Ma in questi giorni, nel caso in cui un’organizzazione razzista si mascheri da organizzazione per i diritti civili, rischia di essere smascherata.

È un gioco d’equilibrio che per anni ha tormentato l’Anti Defamation League [Lega contro la Diffamazione], un’importante organizzazione della lobby israeliana negli Stati Uniti.

La sua controparte nel Regno Unito sta affrontando lo stesso problema.

La crisi è particolarmente acuta proprio ora, in quanto l’ADL cerca di presentarsi come un’alleata di Black Lives Matter [Le vite dei neri contano, movimento di protesta contro la violenza della polizia e il razzismo nei confronti delle minoranze, ndtr.], difendendo nel contempo Israele dalle critiche riguardo ai suoi progetti di annettere terre palestinesi nella Cisgiordania occupata, accentuando ulteriormente il sistema di apartheid.

Una nota fatta trapelare e ottenuta la scorsa settimana dal giornalista Josh Leifer di “Jewish Currents” [rivista trimestrale ebraica USA di sinistra, ndtr.] evidenzia il dilemma dei dirigenti dell’ADL.

Questa nota illustra come il gruppo lobbystico possa, nelle parole di Leifer, “trovare il modo di difendere Israele dalle critiche senza inimicarsi altre organizzazioni per i diritti civili, rappresentanti eletti di colore e attivisti e sostenitori di Black Lives Matter.”

L’essenza della strategia è di consentire alcune tenui critiche contro Israele respingendo nel contempo descrizioni più precise e puntuali delle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele come ‘apartheid’ e ‘separati ma uguali’ – quest’ultimo è un termine a lungo utilizzato per rendere accettabili la segregazione razziale e la sottomissione imposte con la violenza e legalizzate negli Stati Uniti.

Gli autori di questa nota temono che uno scontro con le forze progressiste riguardo all’annessione possa portare l’ADL dalla “parte sbagliata” del movimento Black Lives Matter e “mettere in dubbio i rapporti tra l’ADL e molte organizzazioni e coalizioni per i diritti civili.”

È paradossale che l’ADL tema che Israele venga associato all’apartheid.

Mentre negli anni ’80 e 90’ il regime sudafricano dell’apartheid armato da Israele stava ancora distruggendo vite dei neri in quel Paese, l’ADL gestiva una rete di spionaggio negli Stati Uniti.

Oltre ad infiltrare gruppi solidali con i palestinesi, lo spionaggio dell’ADL passava agli efferati servizi segreti sudafricani documenti segreti sugli attivisti contrari all’apartheid.

L’ultima indiscrezione filtrata dall’ADL conferma timori rivelati in un rapporto privato ottenuto da Electronic Intifada nel 2017.

Quel rapporto – scritto insieme dall’ADL e dal Reut Institute, un gruppo israeliano di esperti – lamentava che gli attivisti della campagna per i diritti dei palestinesi fossero stati “in grado di inserire la lotta palestinese contro Israele come parte della lotta di altre minoranze oppresse quali gli afro-americani, i latinos e la comunità LGBTQ.”

Il rapporto raccomandava che i gruppi sionisti cercassero di ostacolare questa dinamica “collaborando con altri gruppi di minoranza sulla base di valori condivisi e interessi comuni come una riforma della giustizia penale, il diritto di immigrare o lottando contro il razzismo e i reati motivati da odio.” Oggi l’ADL vede Black Lives Matter come un’opportunità di incrementare la sua credibilità portando avanti nel contempo il suo programma anti-palestinese.

Appello per una censura più severa

L’ADL è uno dei molti gruppi lobbystici che, come il governo israeliano, hanno a lungo visto Black Lives Matter come una grave minaccia strategica.

Il suo tentativo di cooptare il movimento Black Lives Matter per controllare e disinnescare le critiche contro il duro regime razzista israeliano nei confronti dei palestinesi è attualmente in corso. L’organizzazione fa parte della campagna “Basta lucrare sull’odio”, che sta facendo pressione sulle grandi multinazionali perché nel mese di luglio tolgano la pubblicità da Facebook per protestare contro il presunto fatto che il gigante delle reti sociali non reprima i discorsi d’odio.

Nomi importanti come Unilever e Starbucks hanno già accettato di aderire.

Ci sono concreti motivi di preoccupazione riguardo a questa campagna: in effetti chiede che Facebook agisca come censore e arbitro della verità, un ruolo che nessuno vuole sia giocato da un’impresa privata senza alcun controllo.

È particolarmente preoccupante, dato che Facebook ha già nominato nel suo nuovo organismo di controllo un ex- funzionario del governo israeliano responsabile della censura. Mentre pochi potrebbero avere dei problemi riguardo al fatto di veder cancellare piattaforme pubbliche di suprematisti bianchi e nazisti, la realtà è che i palestinesi sono stati tra i principali obiettivi della censura in rete, soprattutto da parte di Facebook.

Gruppi lobbystici israeliani, compresa l’ADL, hanno promosso una definizione ingannevole e con motivazioni politiche di antisemitismo che mette sullo stesso piano da una parte le critiche alle politiche israeliane e alla sua ideologia razzista sionistica di Stato, e dall’altra il fanatismo antiebraico.

Hanno spinto governi, istituzioni e imprese di reti sociali ad adottare questa falsa definizione per far tacere i sostenitori dei diritti umani dei palestinesi.

La campagna “Basta lucrare sull’odio” chiede esplicitamente che Facebook “trovi e rimuova gruppi pubblici e privati che si concentrano su suprematismo bianco, milizie, antisemitismo, cospirazioni violente, negazione dell’Olocausto, disinformazione sui vaccini e negazionismo sul clima.”

Per quanto si debbano detestare tali punti di vista, questa è una richiesta piuttosto ampia di censura e controllo delle opinioni, che è improbabile si fermi lì.

Eppure, significativamente, non ci sono richieste di rimozione contro gruppi antimusulmani, nonostante l’incremento dell’islamofobia sulla piattaforma. Questo tipo di odio a quanto pare va benissimo!

La campagna “Basta lucrare sull’odio” fornisce anche un pretesto perché le grandi multinazionali si facciano una pubblicità positiva facendo in realtà ben poco per opporsi al razzismo strutturale. Senza dubbio queste multinazionali saranno contente di ricominciare a fare pubblicità su un Facebook ripulito da ogni opinione dissenziente.

Boicottaggio per me ma non per te

C’è anche la totale ipocrisia dell’ADL, che chiede un boicottaggio contro Facebook mentre attacca e calunnia il BDS – la campagna nonviolenta di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni per porre fine al razzismo e ai crimini di Israele contro i palestinesi.

L’Anti-Difamation League ha persino appoggiato le leggi contro il BDS, sapendo benissimo che queste norme sono incostituzionali perché violano la libertà di parola.

Indubbiamente l’ADL valorizza i propri diritti costituzionali di chiedere un boicottaggio di Facebook anche quando cerca di calpestare i diritti altrui alla libertà di parola, compresi quanti credono che ai palestinesi non dovrebbero essere negati i diritti nella loro stessa terra solo perché non sono ebrei.

Ma, appoggiando la campagna “Basta lucrare sull’odio”, l’ADL unisce le proprie forze con le principali organizzazioni nere progressiste per i diritti civili, come “Color of Change” [Colore del Cambiamento] e la storica NAACP [National Association for the Advancement of Colored People, una delle più antiche ed importanti associazioni per i diritti civili negli Stati Uniti, ndtr.], utilizzando quindi questi rapporti per conquistarsi una cedibilità totalmente immeritata come alleato antirazzista.

Attivisti neri in GB chiedono sanzioni contro Israele

Il problema rappresentato dall’ADL e dalla lobby israeliana nel suo complesso è stato messo in evidenza durante il fine settimana, quando Black Lives Matter UK, una coalizione antirazzista, ha twittato il suo sostegno alla lotta palestinese:

Mentre Israele procede verso l’annessione della Cisgiordania e la maggioranza della politica britannica mette a tacere il diritto di criticare il sionismo e prosegue il colonialismo di insediamento israeliano, noi stiamo in modo forte e chiaro con i nostri compagni palestinesi,” ha twittato l’organizzazione.

Il tweet ha avuto decine di migliaia di likes e re-twittaggi.

Black Lives Matter UK vi ha fatto seguire una serie di tweet che smascherano le affermazioni della lobby israeliana secondo cui le critiche a Israele sono antisemite.

Un tweet ha dichiarato che, in vista dell’annessione, “noi stiamo con la società civile palestinese nel chiedere sanzioni mirate in linea con le leggi internazionali contro il regime colonialista e di apartheid israeliano.”

I tweet sono stati particolarmente significativi in quanto la politica britannica rimane nella morsa di una caccia alle streghe contro chi critica Israele, soprattutto all’interno del principale partito di opposizione, quello Laburista.

Come prevedibile il tweet ha suscitato l’immediata ostilità da parte del Jewish Labour Movement, un gruppo lobbystico all’interno del partito Laburista che ha agito per conto dell’ambasciata israeliana.

Mike Katz, presidente del Jewish Labour Movement, ha affermato di essere “rattristato” nel vedere i tweet di Black Lives Matter UK.

Ha anche affermato che alcuni membri della sua organizzazione “rifiutano l’annessione e le colonie”.

Ciò può essere visto come un ennesimo tentativo di deviare le critiche contro Israele verso una forma “attenuata” accettabile, concentrata solo su un numero ridotto di azioni israeliane, cercando al contempo di escludere le critiche al sionismo.

Il Board of Deputies [Comitato dei Deputati], un’organizzazione ebraica britannica all’interno della Camera dei Comuni e uno dei principali gruppi filo-israeliani, ha, come prevedibile, accusato Black Lives Matter UK di avere “pregiudizi antisemiti”.

Ma il Board ha insistito che ciò “non ci impedirà di stare dalla parte del popolo nero nella sua richiesta di giustizia.”

Ma, di fatto, appoggiare Israele e il sionismo è del tutto incompatibile con ogni richiesta di giustizia. Nessuna campagna di astute manovre di diversione e pubbliche relazioni può nascondere questa semplice verità: non puoi essere un antirazzista razzista.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Nessun permesso di uscita per i palestinesi senza documenti

Ola Mousa

26 giugno 2020 – The Electronic Intifada

Khadija al-Najjar rovistava tra le fotografie dei suoi figli e nipoti agitandosi sempre più.

Alcuni dei suoi figli adesso vivono in Europa o in Nord America. Ma Khadija, di 72 anni, non può andarli a trovare. Non possiede né può ottenere un documento di identità palestinese nemmeno per cercare di andare da loro. Senza quello non ha nessun documento che le consenta di partire.

Non è l’unica. Secondo il locale ufficio del Ministero per gli Affari Civili dell’Autorità Nazionale Palestinese, a Gaza ci sono circa 5.000 palestinesi che condividono la sua stessa situazione. Israele ha interrotto la consegna di carte di identità destinate ai residenti della striscia costiera dopo il 2007, quando Hamas ha preso il totale controllo di Gaza togliendolo a Fatah, avendo vinto le elezioni parlamentari dell’anno precedente.

Kadijja e suo marito, Muhammad Issa al- Najjar, vivono nel quartiere di al-Rimal di Gaza City. Muhammad è nato nel 1945 a Masmiya al-Kabira, un villaggio palestinese nell’allora distretto di Gaza (attualmente sul lato israeliano del confine) che è stato spopolato con la forza e in gran parte distrutto durante la Nakba del 1948.

Ha studiato in Egitto prima della guerra del 1967 ed è uno di quelli che non si sono registrati nel censimento israeliano del 1967 della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

Per questo motivo lui e la sua famiglia non hanno potuto tornare a Gaza fino al 1999 quando, sulla spinta di un’ondata di ottimismo sul processo di pace e della promessa che Gaza sarebbe diventata una versione araba della ricca e dinamica Singapore, lo hanno appunto fatto.

Siamo entrati a Gaza con permessi temporanei, dato che i miei parenti vivono a Gaza”, ha detto Muhammad. Ma solo metà della famiglia è riuscita ad ottenere carte di identità permanenti. “Abbiamo fatto domanda di ricongiungimento familiare; (i miei figli) Nasser, Razan ed io le abbiamo ottenute. Purtroppo mia moglie, Ahmad e Lina non ci sono riuscite.”

Khadijja si arrabbia quando guarda la sua carta di identità temporanea. Non le serve a niente. Non vede sua figlia Lamis, di 41 anni, che vive nel Regno Unito, da 20 anni. Nasser, di 38 anni, ha vissuto in Canada negli ultimi 5 anni. Ha anche dei fratelli a Dubai che spera di andare a trovare.

La madre dei cinque figli spera ancora di ottenere una carta di identità, ma nonostante abbia fatto diverse richieste alle autorità competenti a Ramallah nella Cisgiordania occupata, le è stato sempre detto che la decisione spetta agli israeliani.

Mi sembra di essere in prigione; non posso vedere i miei figli e i miei nipoti né celebrare Hajjj o Umrah. Quando mio figlio Nasser era a Gaza, stava per ottenere un lavoro in una banca, ma è stato escluso quando hanno saputo che non aveva una carta di identità”, ha raccontato Khadijja a The Electronic Intifada.

In trappola

Almeno Mahmoud Mufid Abdel-Hadi, di 40 anni, ha un lavoro. Benché non possegga una carta di identità palestinese, ha trovato impiego come project manager nel settore delle ONG. I suoi genitori avevano lasciato Gaza prima del 1967 per andare a lavorare negli Emirati Arabi Uniti, dove Mahmoud è nato, e la famiglia non ha potuto tornare facilmente dopo il 1967 e l’occupazione.

Il processo di pace e la creazione dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) hanno cambiato tutto per Abdul-Hadis, i Najjars e decine di migliaia di altri che sono tornati nei territori occupati negli anni ’90, dopo la firma degli Accordi di Oslo.

Mahmoud è tornato a Gaza con la sua famiglia nel 1998. Erano otto, ma solo due hanno ottenuto le carte di identità. Lui, i suoi genitori ottantenni e tre dei suoi fratelli sono tra i 5.000 palestinesi che aspettano di ottenerle.

Siamo vittime delle attuali circostanze politiche. Per quel che so, la pratica per la carta di identità è chiusa. Israele, che non fa che discriminare i palestinesi, non ha interesse ad aiutarci a Gaza. Purtroppo l’ANP, che è parte del negoziato, si è mostrata debole di fronte agli israeliani”, ha detto.

Ma Mahmoud ritiene i leader politici palestinesi di tutte le fazioni responsabili della mancata soluzione di questa questione con Israele.

Queste pratiche dovrebbero essere tra i principali elementi dei negoziati, accanto a questioni come quella dei prigionieri”, ha detto a The Electronic Intifada. “A Gaza Hamas ne porta la responsabilità in quanto fazione dominante.”

Si è dichiarato frustrato dal fatto che la questione delle carte di identità non è più prioritaria.

Siamo in una prigione a cielo aperto, condannati a vita. Senza documenti di identità non abbiamo potuto uscire da Gaza da quando siamo arrivati”, ha detto.

L’ultima parola

Il blocco è interamente causato dagli israeliani, ha detto Saleh al-Ziq, del Ministero per gli Affari Civili di Gaza.

Migliaia di palestinesi vivono attualmente a Gaza senza documenti di identità. Il ministero non ha ricevuto l’autorizzazione israeliana per emettere le loro carte di identità”, ha detto al-Ziq a The Electronic Intifada.

Le 5.000 persone in questione erano l’ultimo gruppo il cui status dei documenti di identità era in corso di trattativa quando Hamas ha preso il controllo di Gaza nel 2007, ha detto al-Ziq. Per la maggior parte si sono trasformati in permessi temporanei a fronte della domanda di ricongiungimento familiare. Quando le trattative sono state interrotte lo status di queste persone non è mai stato risolto.

In base agli accordi tra Israele e l’OLP degli anni ’90, Israele ha l’ultima parola sui documenti di identità. Mentre è l’ANP ad emettere le carte di identità, Israele emette i loro numeri, senza i quali esse non sono valide. Le informazioni contenute nelle carte sono scritte sia in arabo che in ebraico.

Purtroppo alle persone senza carta di identità sono negati i fondamentali diritti sociali e politici. Israele rifiuta di concedere le carte con il pretesto del dominio di Hamas sulla Striscia di Gaza. Non so quale forma di minaccia le carte di identità costituiscano per Israele.”, ha detto al-Ziq, aggiungendo di sperare che la questione possa risolversi presto.

Iman al-Sir, di 30 anni, è originaria di Jaffa. Disponendo solamente di un documento temporaneo, non si è mai sentita stabilizzata in Palestina, ha detto a The Electronic Intifada.

Iman è cresciuta nel campo profughi di Yarmouk a Damasco, ma è tornata a Gaza con sua madre nel 2012 a causa del conflitto in Siria. Suo nonno era stato espulso in Egitto ed è andato in Siria dopo la guerra del 1967, durante la quale aveva combattuto con gli eserciti arabi.

Fin dalla mia infanzia mio padre ci ha sempre parlato della Palestina e della nostra terra a Jaffa, da cui siamo stati sradicati. La prima volta che io ho visto un soldato israeliano è stato in televisione nel 2000.”

Ha detto che per molti anni, prima di poterlo fare realmente, aveva desiderato tornare a vivere in Palestina.

Tuttavia quando sono arrivata a Gaza ho scoperto che è l’occupazione israeliana che controlla la mia identità. Che razza di pace è questa? Come si può promuovere la pace con uno Stato che non riconosce la tua esistenza?”

Ha detto a The Electronic Intifada che se avesse saputo che sarebbe finita in una “prigione a cielo aperto”, avrebbe affrontato il pericoloso viaggio verso l’Europa, intrapreso da tanti rifugiati siriani.

Almeno in Europa non avrei mai dovuto provare l’esperienza dell’occupazione israeliana che decide se io sono o non sono palestinese”.

Ola Mousa è un’artista e scrittrice di Gaza.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’inviato dell’ONU incolpa i palestinesi della morte di un bambino di Gaza

Maureen Clare Murphy

25 Giugno 2020 – Electronic Intifada

Durante il suo discorso al Consiglio di sicurezza di mercoledì l’inviato delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente ha incolpato implicitamente i palestinesi della morte di un bambino di 8 mesi a Gaza.

“I palestinesi di Gaza, avendo vissuto assediati e sotto il controllo di Hamas per più di un decennio, sono particolarmente vulnerabili”, ha dichiarato l’inviato Nickolay Mladenov, omettendo di menzionare Israele in quanto responsabile dell’assedio.

“La fine del coordinamento civile non permetterà loro di ricevere cure salvavita”, ha aggiunto Mladenov, in riferimento al fatto che l’Autorità Nazionale Palestinese sta riducendo i suoi rapporti con Israele in segno di protesta per il piano di quest’ultima di formalizzare l’annessione delle terre occupate della Cisgiordania.

“Un bambino di 8 mesi ha già perso la vita a causa di questa situazione”, ha detto Mladenov.

L’inviato dell’ONU si riferiva al caso di Omar Yaghi, un bambino con problemi cardiaci.

É morto il 18 giugno mentre la sua famiglia attendeva un permesso israeliano per recarsi fuori da Gaza per un intervento chirurgico.

“Ci deve assolutamente essere un limite quando si tratta della vita dei bambini!” ha detto l’indignato Mladenov, aggiungendo che l’ONU non può sostituire l’ANP nel suo ruolo di coordinamento con Israele.

Scaricando le colpe sui palestinesi, Mladenov esime Israele dai suoi obblighi legali.

Il diritto internazionale sostiene che Israele, in quanto potenza occupante, e non l’Autorità Nazionale Palestinese, è in ultima analisi responsabile del diritto alla salute dei palestinesi.

Paradigma fallito

L’errore nell’individuare i colpevoli compiuto da Mladenov non è sorprendente. Il suo ruolo di inviato delle Nazioni Unite è quello di applicare il paradigma fallito di una soluzione negoziata per due Stati invece di sostenere i diritti dei palestinesi.

Le sue osservazioni al Consiglio di sicurezza dell’ONU sull’annessione israeliana sono rivelatrici.

Invece di condannare l’annessione perché violerebbe i diritti dei palestinesi, Mladenov ha sottolineato che essa altererebbe potenzialmente “la natura delle relazioni israelo-palestinesi”. Ha anche detto che metterebbe a repentaglio “più di un quarto di secolo di sforzi internazionali a sostegno della possibilità di un futuro Stato palestinese”.

In altre parole, l’annessione israeliana sarebbe negativa perché minaccerebbe il paradigma dei due Stati, non perché allontanerebbe i palestinesi dalla loro terra e li sottoporrebbe a violazioni ancora più estreme dei loro diritti.

Nel frattempo, Mladenov non ha chiesto in maniera ferma la cessazione dell’assedio israeliano a Gaza.

Al contrario ha trattato i diritti più elementari dei palestinesi come oggetto di scambio all’interno della mediazione dei colloqui indiretti tra Israele e le autorità di Hamas a Gaza.

Invece di difendere i diritti umani dei palestinesi e sostenere il diritto internazionale, Mladenov ha dato la priorità alla conservazione dello status quo e alla ragion d’essere dell’Autorità Nazionale Palestinese, fungendo da braccio esecutivo dell’occupazione israeliana.

Nonostante la formulazione di Mladenov, è del tutto chiaro che quando si tratta di salute a Gaza la responsabilità ricada su Israele.

La scorsa settimana diverse organizzazioni per i diritti umani sono intervenute presso il Ministero della Difesa israeliano, invitandolo a consentire il trasferimento da Gaza “indipendentemente dal coordinamento con l’Autorità Nazionale Palestinese”.

Israele controlla i valichi lungo il suo confine con Gaza, hanno affermato le associazioni, e quindi la libertà di movimento dei palestinesi che vivono nel territorio.

“Quindi – hanno aggiunto – il diritto umanitario internazionale, le leggi sui diritti umani e il diritto israeliano assegnano ad Israele degli obblighi nei confronti di questa popolazione”.

Questa settimana iI Centro Palestinese per i Diritti Umani con sede a Gaza ha sottolineato che Israele è legalmente responsabile della protezione dei malati della Striscia di Gaza.

L’organizzazione ha invitato “la comunità internazionale a fare pressione sulle autorità israeliane … per garantire procedure adeguate e sicure” a favore dei pazienti di Gaza.

Il PCHR ha affermato che almeno 8.300 pazienti affetti da cancro sono danneggiati dalla sospensione del coordinamento sui viaggi.

Altre centinaia di pazienti “hanno bisogno di un intervento chirurgico urgente” che non è disponibile negli ospedali di Gaza, la cui efficacia è stata notevolmente ridotta dai 13 anni di assedio israeliano e dai successivi reati militari.

I medicinali e le forniture mediche sono cronicamente carenti, mentre negli ospedali mancano “le apparecchiature utilizzate per la radioterapia per i malati di cancro che le autorità israeliane hanno smesso di fornire alla Striscia di Gaza”.

“Israele è responsabile per i palestinesi”

Gli esperti sanitari hanno avvertito che il sistema medico di Gaza non sarebbe in grado di far fronte a un focolaio di COVID-19 nel territorio densamente popolato e impoverito.

“Le autorità israeliane [sono responsabili di] questo territorio anche per quanto concerne il diritto internazionale, quindi devono tenerlo sotto osservazione con grande cura”, ha detto recentemente a un giornale israeliano Yves Daccord, ex responsabile del Comitato Internazionale della Croce Rossa.

“Israele è responsabile dei palestinesi”, ha sottolineato in relazione all’impatto economico delle restrizioni dovute alla pandemia.

Oltre al piccolo Omar a giugno, dopo soli due mesi di vita, è morta Joud al-Najjar mentre la sua famiglia attendeva il permesso da Israele per accedere al trattamento dell’epilessia.

Così come per un altro bambino di Gaza, Anwar Harb, affetto da una malattia cardiaca.

Sono le vittime di un’insistenza miope su un processo di pace inesistente e del voler privilegiare un’ipotetica soluzione dei due Stati rispetto ai diritti delle persone in carne ed ossa, vive e in pericolo di vita.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)