Nessun permesso di uscita per i palestinesi senza documenti

Ola Mousa

26 giugno 2020 – The Electronic Intifada

Khadija al-Najjar rovistava tra le fotografie dei suoi figli e nipoti agitandosi sempre più.

Alcuni dei suoi figli adesso vivono in Europa o in Nord America. Ma Khadija, di 72 anni, non può andarli a trovare. Non possiede né può ottenere un documento di identità palestinese nemmeno per cercare di andare da loro. Senza quello non ha nessun documento che le consenta di partire.

Non è l’unica. Secondo il locale ufficio del Ministero per gli Affari Civili dell’Autorità Nazionale Palestinese, a Gaza ci sono circa 5.000 palestinesi che condividono la sua stessa situazione. Israele ha interrotto la consegna di carte di identità destinate ai residenti della striscia costiera dopo il 2007, quando Hamas ha preso il totale controllo di Gaza togliendolo a Fatah, avendo vinto le elezioni parlamentari dell’anno precedente.

Kadijja e suo marito, Muhammad Issa al- Najjar, vivono nel quartiere di al-Rimal di Gaza City. Muhammad è nato nel 1945 a Masmiya al-Kabira, un villaggio palestinese nell’allora distretto di Gaza (attualmente sul lato israeliano del confine) che è stato spopolato con la forza e in gran parte distrutto durante la Nakba del 1948.

Ha studiato in Egitto prima della guerra del 1967 ed è uno di quelli che non si sono registrati nel censimento israeliano del 1967 della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

Per questo motivo lui e la sua famiglia non hanno potuto tornare a Gaza fino al 1999 quando, sulla spinta di un’ondata di ottimismo sul processo di pace e della promessa che Gaza sarebbe diventata una versione araba della ricca e dinamica Singapore, lo hanno appunto fatto.

Siamo entrati a Gaza con permessi temporanei, dato che i miei parenti vivono a Gaza”, ha detto Muhammad. Ma solo metà della famiglia è riuscita ad ottenere carte di identità permanenti. “Abbiamo fatto domanda di ricongiungimento familiare; (i miei figli) Nasser, Razan ed io le abbiamo ottenute. Purtroppo mia moglie, Ahmad e Lina non ci sono riuscite.”

Khadijja si arrabbia quando guarda la sua carta di identità temporanea. Non le serve a niente. Non vede sua figlia Lamis, di 41 anni, che vive nel Regno Unito, da 20 anni. Nasser, di 38 anni, ha vissuto in Canada negli ultimi 5 anni. Ha anche dei fratelli a Dubai che spera di andare a trovare.

La madre dei cinque figli spera ancora di ottenere una carta di identità, ma nonostante abbia fatto diverse richieste alle autorità competenti a Ramallah nella Cisgiordania occupata, le è stato sempre detto che la decisione spetta agli israeliani.

Mi sembra di essere in prigione; non posso vedere i miei figli e i miei nipoti né celebrare Hajjj o Umrah. Quando mio figlio Nasser era a Gaza, stava per ottenere un lavoro in una banca, ma è stato escluso quando hanno saputo che non aveva una carta di identità”, ha raccontato Khadijja a The Electronic Intifada.

In trappola

Almeno Mahmoud Mufid Abdel-Hadi, di 40 anni, ha un lavoro. Benché non possegga una carta di identità palestinese, ha trovato impiego come project manager nel settore delle ONG. I suoi genitori avevano lasciato Gaza prima del 1967 per andare a lavorare negli Emirati Arabi Uniti, dove Mahmoud è nato, e la famiglia non ha potuto tornare facilmente dopo il 1967 e l’occupazione.

Il processo di pace e la creazione dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) hanno cambiato tutto per Abdul-Hadis, i Najjars e decine di migliaia di altri che sono tornati nei territori occupati negli anni ’90, dopo la firma degli Accordi di Oslo.

Mahmoud è tornato a Gaza con la sua famiglia nel 1998. Erano otto, ma solo due hanno ottenuto le carte di identità. Lui, i suoi genitori ottantenni e tre dei suoi fratelli sono tra i 5.000 palestinesi che aspettano di ottenerle.

Siamo vittime delle attuali circostanze politiche. Per quel che so, la pratica per la carta di identità è chiusa. Israele, che non fa che discriminare i palestinesi, non ha interesse ad aiutarci a Gaza. Purtroppo l’ANP, che è parte del negoziato, si è mostrata debole di fronte agli israeliani”, ha detto.

Ma Mahmoud ritiene i leader politici palestinesi di tutte le fazioni responsabili della mancata soluzione di questa questione con Israele.

Queste pratiche dovrebbero essere tra i principali elementi dei negoziati, accanto a questioni come quella dei prigionieri”, ha detto a The Electronic Intifada. “A Gaza Hamas ne porta la responsabilità in quanto fazione dominante.”

Si è dichiarato frustrato dal fatto che la questione delle carte di identità non è più prioritaria.

Siamo in una prigione a cielo aperto, condannati a vita. Senza documenti di identità non abbiamo potuto uscire da Gaza da quando siamo arrivati”, ha detto.

L’ultima parola

Il blocco è interamente causato dagli israeliani, ha detto Saleh al-Ziq, del Ministero per gli Affari Civili di Gaza.

Migliaia di palestinesi vivono attualmente a Gaza senza documenti di identità. Il ministero non ha ricevuto l’autorizzazione israeliana per emettere le loro carte di identità”, ha detto al-Ziq a The Electronic Intifada.

Le 5.000 persone in questione erano l’ultimo gruppo il cui status dei documenti di identità era in corso di trattativa quando Hamas ha preso il controllo di Gaza nel 2007, ha detto al-Ziq. Per la maggior parte si sono trasformati in permessi temporanei a fronte della domanda di ricongiungimento familiare. Quando le trattative sono state interrotte lo status di queste persone non è mai stato risolto.

In base agli accordi tra Israele e l’OLP degli anni ’90, Israele ha l’ultima parola sui documenti di identità. Mentre è l’ANP ad emettere le carte di identità, Israele emette i loro numeri, senza i quali esse non sono valide. Le informazioni contenute nelle carte sono scritte sia in arabo che in ebraico.

Purtroppo alle persone senza carta di identità sono negati i fondamentali diritti sociali e politici. Israele rifiuta di concedere le carte con il pretesto del dominio di Hamas sulla Striscia di Gaza. Non so quale forma di minaccia le carte di identità costituiscano per Israele.”, ha detto al-Ziq, aggiungendo di sperare che la questione possa risolversi presto.

Iman al-Sir, di 30 anni, è originaria di Jaffa. Disponendo solamente di un documento temporaneo, non si è mai sentita stabilizzata in Palestina, ha detto a The Electronic Intifada.

Iman è cresciuta nel campo profughi di Yarmouk a Damasco, ma è tornata a Gaza con sua madre nel 2012 a causa del conflitto in Siria. Suo nonno era stato espulso in Egitto ed è andato in Siria dopo la guerra del 1967, durante la quale aveva combattuto con gli eserciti arabi.

Fin dalla mia infanzia mio padre ci ha sempre parlato della Palestina e della nostra terra a Jaffa, da cui siamo stati sradicati. La prima volta che io ho visto un soldato israeliano è stato in televisione nel 2000.”

Ha detto che per molti anni, prima di poterlo fare realmente, aveva desiderato tornare a vivere in Palestina.

Tuttavia quando sono arrivata a Gaza ho scoperto che è l’occupazione israeliana che controlla la mia identità. Che razza di pace è questa? Come si può promuovere la pace con uno Stato che non riconosce la tua esistenza?”

Ha detto a The Electronic Intifada che se avesse saputo che sarebbe finita in una “prigione a cielo aperto”, avrebbe affrontato il pericoloso viaggio verso l’Europa, intrapreso da tanti rifugiati siriani.

Almeno in Europa non avrei mai dovuto provare l’esperienza dell’occupazione israeliana che decide se io sono o non sono palestinese”.

Ola Mousa è un’artista e scrittrice di Gaza.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’inviato dell’ONU incolpa i palestinesi della morte di un bambino di Gaza

Maureen Clare Murphy

25 Giugno 2020 – Electronic Intifada

Durante il suo discorso al Consiglio di sicurezza di mercoledì l’inviato delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente ha incolpato implicitamente i palestinesi della morte di un bambino di 8 mesi a Gaza.

“I palestinesi di Gaza, avendo vissuto assediati e sotto il controllo di Hamas per più di un decennio, sono particolarmente vulnerabili”, ha dichiarato l’inviato Nickolay Mladenov, omettendo di menzionare Israele in quanto responsabile dell’assedio.

“La fine del coordinamento civile non permetterà loro di ricevere cure salvavita”, ha aggiunto Mladenov, in riferimento al fatto che l’Autorità Nazionale Palestinese sta riducendo i suoi rapporti con Israele in segno di protesta per il piano di quest’ultima di formalizzare l’annessione delle terre occupate della Cisgiordania.

“Un bambino di 8 mesi ha già perso la vita a causa di questa situazione”, ha detto Mladenov.

L’inviato dell’ONU si riferiva al caso di Omar Yaghi, un bambino con problemi cardiaci.

É morto il 18 giugno mentre la sua famiglia attendeva un permesso israeliano per recarsi fuori da Gaza per un intervento chirurgico.

“Ci deve assolutamente essere un limite quando si tratta della vita dei bambini!” ha detto l’indignato Mladenov, aggiungendo che l’ONU non può sostituire l’ANP nel suo ruolo di coordinamento con Israele.

Scaricando le colpe sui palestinesi, Mladenov esime Israele dai suoi obblighi legali.

Il diritto internazionale sostiene che Israele, in quanto potenza occupante, e non l’Autorità Nazionale Palestinese, è in ultima analisi responsabile del diritto alla salute dei palestinesi.

Paradigma fallito

L’errore nell’individuare i colpevoli compiuto da Mladenov non è sorprendente. Il suo ruolo di inviato delle Nazioni Unite è quello di applicare il paradigma fallito di una soluzione negoziata per due Stati invece di sostenere i diritti dei palestinesi.

Le sue osservazioni al Consiglio di sicurezza dell’ONU sull’annessione israeliana sono rivelatrici.

Invece di condannare l’annessione perché violerebbe i diritti dei palestinesi, Mladenov ha sottolineato che essa altererebbe potenzialmente “la natura delle relazioni israelo-palestinesi”. Ha anche detto che metterebbe a repentaglio “più di un quarto di secolo di sforzi internazionali a sostegno della possibilità di un futuro Stato palestinese”.

In altre parole, l’annessione israeliana sarebbe negativa perché minaccerebbe il paradigma dei due Stati, non perché allontanerebbe i palestinesi dalla loro terra e li sottoporrebbe a violazioni ancora più estreme dei loro diritti.

Nel frattempo, Mladenov non ha chiesto in maniera ferma la cessazione dell’assedio israeliano a Gaza.

Al contrario ha trattato i diritti più elementari dei palestinesi come oggetto di scambio all’interno della mediazione dei colloqui indiretti tra Israele e le autorità di Hamas a Gaza.

Invece di difendere i diritti umani dei palestinesi e sostenere il diritto internazionale, Mladenov ha dato la priorità alla conservazione dello status quo e alla ragion d’essere dell’Autorità Nazionale Palestinese, fungendo da braccio esecutivo dell’occupazione israeliana.

Nonostante la formulazione di Mladenov, è del tutto chiaro che quando si tratta di salute a Gaza la responsabilità ricada su Israele.

La scorsa settimana diverse organizzazioni per i diritti umani sono intervenute presso il Ministero della Difesa israeliano, invitandolo a consentire il trasferimento da Gaza “indipendentemente dal coordinamento con l’Autorità Nazionale Palestinese”.

Israele controlla i valichi lungo il suo confine con Gaza, hanno affermato le associazioni, e quindi la libertà di movimento dei palestinesi che vivono nel territorio.

“Quindi – hanno aggiunto – il diritto umanitario internazionale, le leggi sui diritti umani e il diritto israeliano assegnano ad Israele degli obblighi nei confronti di questa popolazione”.

Questa settimana iI Centro Palestinese per i Diritti Umani con sede a Gaza ha sottolineato che Israele è legalmente responsabile della protezione dei malati della Striscia di Gaza.

L’organizzazione ha invitato “la comunità internazionale a fare pressione sulle autorità israeliane … per garantire procedure adeguate e sicure” a favore dei pazienti di Gaza.

Il PCHR ha affermato che almeno 8.300 pazienti affetti da cancro sono danneggiati dalla sospensione del coordinamento sui viaggi.

Altre centinaia di pazienti “hanno bisogno di un intervento chirurgico urgente” che non è disponibile negli ospedali di Gaza, la cui efficacia è stata notevolmente ridotta dai 13 anni di assedio israeliano e dai successivi reati militari.

I medicinali e le forniture mediche sono cronicamente carenti, mentre negli ospedali mancano “le apparecchiature utilizzate per la radioterapia per i malati di cancro che le autorità israeliane hanno smesso di fornire alla Striscia di Gaza”.

“Israele è responsabile per i palestinesi”

Gli esperti sanitari hanno avvertito che il sistema medico di Gaza non sarebbe in grado di far fronte a un focolaio di COVID-19 nel territorio densamente popolato e impoverito.

“Le autorità israeliane [sono responsabili di] questo territorio anche per quanto concerne il diritto internazionale, quindi devono tenerlo sotto osservazione con grande cura”, ha detto recentemente a un giornale israeliano Yves Daccord, ex responsabile del Comitato Internazionale della Croce Rossa.

“Israele è responsabile dei palestinesi”, ha sottolineato in relazione all’impatto economico delle restrizioni dovute alla pandemia.

Oltre al piccolo Omar a giugno, dopo soli due mesi di vita, è morta Joud al-Najjar mentre la sua famiglia attendeva il permesso da Israele per accedere al trattamento dell’epilessia.

Così come per un altro bambino di Gaza, Anwar Harb, affetto da una malattia cardiaca.

Sono le vittime di un’insistenza miope su un processo di pace inesistente e del voler privilegiare un’ipotetica soluzione dei due Stati rispetto ai diritti delle persone in carne ed ossa, vive e in pericolo di vita.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’UE arricchisce le ricompense per i crimini di Israele

Ali Abunimah

18 giugno 2020 – Electronic Intifada

Dei membri del Parlamento europeo stanno manifestando una forte opposizione contro le ultime iniziative dell’Unione Europea volte ad accrescere il sostegno a Israele anche nel caso esso dovesse portare avanti i piani di annessione di una buona parte della Cisgiordania occupata, una flagrante violazione del diritto internazionale.

Sono, comunque, una minoranza poiché la Commissione, l’esecutivo dell’UE, e la maggioranza dei membri del Parlamento europeo sembrano propensi ad inviare a Israele un messaggio di sostegno incondizionato.

Lunedì la Banca Europea per gli Investimenti ha assegnato a Israele un prestito di 170 milioni di dollari per il finanziamento di un impianto di dissalazione.

E mercoledì il Parlamento europeo ha ratificato, con 437 voti contro 102, un nuovo accordo sul trasporto aereo che garantirà alle compagnie aeree israeliane un accesso ancora più esteso alle destinazioni europee e un ulteriore impulso all’economia israeliana.

Una precedente proposta di rinvio della ratifica è stata sconfitta con 388 voti contro 278.

Alcuni membri dell’UE stanno inoltre per elargire ad Israele delle ricompense.

Ad esempio, la Svezia, che gode dell’immeritato riconoscimento di aver additato le responsabilità di Israele, sta finanziando una nuova iniziativa per incoraggiare gli affari con le “startup” hi-tech di Israele, un settore indissolubilmente legato alla sua industria della guerra informatica e della sorveglianza.

L’ECCP, una coalizione europea di organizzazioni a favore dei diritti dei palestinesi, condanna le misure dell’UE.

Fatin Al Tamimi, presidente della campagna di solidarietà Irlanda-Palestina e membro dell’ECCP, ha detto che i membri del Parlamento europeo “hanno avuto l’opportunità di difendere la giustizia a favore del popolo palestinese e mostrare all’apartheid israeliana che verranno messe in luce le sue responsabilità per le violazioni del diritto internazionale.

Purtroppo, scegliendo di continuare gli affari con Israele come sempre, anche di fronte ad un piano di annessione ampiamente condannato, gli eurodeputati hanno dimostrato ancora una volta quanto l’UE non sia disposta ad agire in difesa dei diritti umani e dello stato di diritto”.

“Che si vergognino”

L’UE ha manifestato una forte opposizione al piano israeliano di annettere i territori palestinesi occupati, anche attraverso un’ammonizione, a febbraio, secondo cui l’’accaparramento dei territori”, se Israele lo portasse a termine, non potrebbe rimanere impunito”.

Tuttavia, sottoposta alle pressioni della lobby israeliana, l’UE ha fatto marcia indietro rispetto all’ammonizione ed è tornata alle sue solite vuote espressioni di “preoccupazione”.

Ma l’UE, in sostanza, non sta facendo nulla per fermare Israele. Sta alacremente premiando e incentivando i suoi crimini.

Manu Pineda, un parlamentare di sinistra spagnolo e presidente della delegazione per le relazioni con la Palestina del Parlamento europeo, ha presentato alla Commissione una domanda sul finanziamento dell’UE dell’impianto di dissalazione israeliano.

Ha definito l’iniziativa “inspiegabile” alla luce delle recenti azioni di Israele contro i palestinesi.

L’irlandese Clare Daly ha dichiarato che i suoi colleghi europarlamentari che hanno scelto col voto di “normalizzare i crimini israeliani” attraverso la ratifica dell’accordo sul trasporto aereo “hanno toccato il fondo”.

“Si vergognino”, ha aggiunto.

Appena un’ora dopo la ratifica del trattato sul trasporto aereo, gli eurodeputati hanno tenuto un dibattito sull’annessione a cui ha partecipato Josep Borrell, responsabile della politica estera dell’UE.

“Quegli stessi gruppi politici che abbiamo sentito esprimere preoccupazione per l’annessione avevano poco prima reso possibile l’annessione votando a favore dell’accordo UE-Israele sull’aviazione”, ha affermato la coordinatrice dell’ECCP Aneta Jerska.

“Questo è a tutti gli effetti il colmo dell’ipocrisia dell’UE.”

Borrell ha ribadito al parlamento che l’annessione “costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale”.

Ha avvertito che “Dal punto di vista dell’Unione Europea, l’annessione avrebbe inevitabilmente conseguenze significative per le strette relazioni di cui attualmente godiamo con Israele”

Nell’ascoltare queste parole i funzionari israeliani si faranno quattro risate mentre si recano alla Banca Europea per gli investimenti.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La pandemia da coronavirus e il fallimento della strategia di disimpegno dell’ANP

Ihab Maharmeh

16 giugno 2020 – Al Jazeera

È tempo che l’Autorità Nazionale Palestinese adotti una strategia radicalmente nuova

Lo scorso anno, quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito il suo impegno ad annettere parti della Cisgiordania occupata e l’amministrazione USA ha insistito sull’unilaterale “accordo del secolo”, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) si è arrabattata per mettere insieme una nuova strategia politica.

Nell’aprile 2019 il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh, nominato da poco, ha annunciato che il governo avrebbe proceduto con un “disimpegno economico” dall’occupazione. Durante l’estate alcuni politici palestinesi hanno continuato a parlare di questa nuova strategia e in settembre l’ANP finalmente ha preso l’iniziativa, dichiarando che avrebbe posto fine alle importazioni dirette di bovini da Israele.

Nei mesi successivi i tentativi del governo dell’ANP di mettere in atto questa strategia ha dato come risultato una piccola guerra commerciale con Israele, terminata repentinamente in marzo quando le autorità palestinesi hanno dovuto affrontare la prospettiva di una grave epidemia del nuovo coronavirus.

La pandemia è subito diventata la prova decisiva della nuova strategia, sgretolatasi quando l’ANP si è cimentata nel controllo della diffusione della malattia e nella gestione dell’economia palestinese già in difficoltà. Dato che le ultime dichiarazioni del presidente palestinese Mahmoud Abbas riguardo alla fine degli accordi e del coordinamento per la sicurezza con Israele dimostrano ancora una volta di essere una vuota minaccia, è tempo che la dirigenza palestinese cambi radicalmente la sua strategia.

La “strategia del disimpegno”

Per anni l’idea di un “disimpegno economico” da Israele è circolata nei circoli politici palestinesi. Nel passato ci sono stati anche tentativi di imporre vari boicottaggi sui prodotti israeliani che non hanno avuto alcun successo.

Quando gli USA hanno spostato la loro ambasciata a Gerusalemme, riconoscendo le rivendicazioni israeliane sulla città, e inquietanti particolari dell’“accordo del secolo” dell’amministrazione Trump sono stati resi noti, è ricomparsa l’idea di un disimpegno palestinese.

Quando nell’aprile 2019 è entrato in carica, Shtayyeh ne ha fatto una priorità del suo nuovo governo. Il primo ministro palestinese ha parlato di rafforzare l’indipendenza economica palestinese promuovendo la produzione locale, le esportazioni e le importazioni dirette dall’estero e incoraggiando i palestinesi che lavorano in Israele a cercare piuttosto lavoro nei territori palestinesi.

Ha anche affermato che il suo governo avrebbe perseguito una strategia di “sviluppo a grappolo”, stimolando alcuni settori economici nelle diverse regioni: agricoltura a Jenin, industria a Nablus, turismo a Betlemme e fornitura di servizi medici nella Gerusalemme est occupata.

La strategia si basava sul fatto che l’ANP continuasse a ricevere gli introiti fiscali che, secondo il protocollo di Parigi del 1994, vengono raccolti per suo conto dalle autorità israeliane. Tuttavia negli ultimi 25 anni Israele ha regolarmente trattenuto parte delle risorse fiscali del governo palestinese con vari pretesti, compreso, più di recente, che l’ANP sta pagando sussidi alle famiglie di prigionieri politici palestinesi che gli israeliani considerano “terroristi”.

Trattenere questi fondi è solo una delle molte tattiche coercitive a disposizione del governo israeliano per contrastare qualunque politica palestinese ritenga minacci i suoi interessi economico-politici. E quello che è successo dopo il bando palestinese sull’importazione di bestiame l’ha illustrato alla perfezione.

Nel gennaio 2020 il governo israeliano ha emanato un bando sull’importazione di prodotti agricoli palestinesi. All’inizio di febbraio l’ANP ha vietato l’importazione di alcuni prodotti israeliani, a cui gli israeliani hanno risposto impedendo a quelli palestinesi di attraversare il territorio israeliano per l’esportazione in Giordania.

Due settimane dopo, quando si è profilata un’epidemia di COVID-19 che minacciava la già disastrata economia palestinese, l’ANP ha ceduto ed ha tolto il bando sui prodotti israeliani. La dirigenza palestinese ha affermato di aver raggiunto un accordo con gli israeliani per l’importazione di bestiame direttamente dal mercato internazionale attraverso Israele.

L’annuncio è stato fatto solo un giorno prima che Israele dichiarasse ufficialmente di aver registrato il primo caso di COVID-19. La diffusione del virus nei territori palestinesi occupati era solo questione di tempo. Il 5 marzo l’ANP ha annunciato il suo primo test positivo al COVID-19 ed ha decretato lo stato d’emergenza di un mese.

La pandemia di coronavirus non ha solo accelerato la fine dei tentativi palestinesi di mettere in pratica il “disimpegno economico”, ma ha anche dimostrato proprio quanto impotente sia l’ANP nel prendere una qualunque decisione importante riguardo al popolo palestinese, persino quando si tratti di salute pubblica.

Il fallimento dell’ANP nel combattere il COVID-19

Dall’inizio di marzo l’ANP ha cercato di mettere in atto una serie di misure per arginare la diffusione del nuovo coronavirus. Fin da subito è risultato chiaro che il contagio si sarebbe esteso da Israele ai lavoratori palestinesi che lavorano nelle città israeliane e nelle colonie illegali. Ciò è stato confermato in seguito dalle statistiche: in aprile il 79% dei casi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza era dovuto a lavoratori in Israele o a loro familiari.

Così, il 17 marzo Shtayyeh ha annunciato che gli spostamenti tra il territorio israeliano e quello palestinese sarebbero stati interrotti e che, se volevano continuare a lavorare, i lavoratori avrebbero avuto tre giorni per trovarsi una sistemazione in territorio israeliano.

Dopo una settimana, e dopo che molti lavoratori malati sono stati maltrattati dalle autorità israeliane, Shtayyeh ha chiesto ai palestinesi di lasciare il proprio lavoro in Israele e di rimanere a casa, in quanto correvano il serio rischio di contrarre il virus. Ciò ha minacciato l’economia israeliana, soprattutto nel settore dell’edilizia, per cui il governo israeliano ha agito rapidamente ed ha iniziato a concedere permessi ai palestinesi perché rimanessero in territorio israeliano.

L’ANP voleva che le autorità israeliane iniziassero a fare controlli medici sui lavoratori palestinesi, ma gli è stato rifiutato. Quindi il movimento dei palestinesi dentro e fuori Israele è continuato, vanificando gli sforzi del governo palestinese di frenare la diffusione del virus.

L’ANP ha anche cercato di combattere la diffusione del virus nelle aree B e C della Cisgiordania occupata, che sono sotto diretto controllo della sicurezza israeliana. Shtayyeh ha chiesto alle comunità locali di formare commissioni d’emergenza e di impegnarsi nell’erogazione di servizi sanitari e di sicurezza in quelle zone.

Ma le forze di occupazione israeliane hanno sistematicamente minato questi tentativi. Hanno attaccato le barriere palestinesi predisposte dalle comunità locali agli ingressi dei loro villaggi per controllare il passaggio dei lavoratori palestinesi di ritorno a casa da Israele.

Le autorità di occupazione hanno anche sabotato i tentativi di funzionari palestinesi che cercavano di mettere in atto misure preventive nelle cittadine e nei quartieri palestinesi all’interno dei confini amministrativi della Gerusalemme est occupata.

Il 3 aprile le autorità di occupazione hanno arrestato il ministro degli Affari di Gerusalemme, Fadi al-Hadami, per attività “illegali”. Due giorni dopo hanno arrestato anche Adnan Ghaith, il governatore di Gerusalemme dell’ANP. Entrambi erano impegnati nella lotta contro l’epidemia.

Inoltre Israele ha negato al governo palestinese il permesso di operare a Gerusalemme e di testare i palestinesi al virus.

É tempo di una nuova strategia

Il 19 maggio, in risposta al piano israeliano per annettere parti della Cisgiordania in luglio e al tacito consenso degli USA a questo proposito, Abbas ha dichiarato “nullo” ogni accordo con Israele e gli USA. Ciò è avvenuto circa un anno dopo che aveva annunciato la sospensione di ogni accordo con Israele.

Il presidente ha affermato che quest’ultima dichiarazione mette fine alla cooperazione per la sicurezza con le forze israeliane e trasferisce ogni responsabilità per i territori palestinesi occupati al governo israeliano. Ma l’annuncio era scarso di dettagli e finora non sembra aver dato come risultato alcun mutamento significativo nei rapporti con Israele.

Di fatto alcuni politici palestinesi hanno inviato messaggi per rassicurare Israele che i servizi di sicurezza palestinesi continueranno il proprio lavoro nel bloccare ogni forma di resistenza contro Israele in Cisgiordania. Sembra che questa sarà l’ennesima delle decine di dichiarazioni dell’ANP sull’interruzione del coordinamento per la sicurezza con Israele che non hanno comportato nessuna seria azione.

É davvero incomprensibile perché l’ANP continui ad insistere nell’utilizzare lo stesso strumentario di misure inefficaci che, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, non ha bloccato la costante colonizzazione israeliana della terra palestinese né lo sfruttamento delle risorse palestinesi. Con l’imminente annessione di fino al 30% della Cisgiordania in luglio, è ormai il momento per l’ANP di abbandonare questi triti tatticismi.

La dirigenza palestinese deve smettere di parlare di uno Stato palestinese sui confini del 1967 e ammettere che la Palestina storica è governata da un sistema di apartheid. Ciò aprirebbe la strada all’estensione della resistenza contro il colonialismo e l’oppressione israeliani per tutti i palestinesi all’interno e fuori dalla Palestina.

Nella Palestina storica definire Israele una potenza che pratica l’apartheid consentirebbe a tutti i palestinesi (quelli che vivono in Cisgiordania, a Gaza e nelle terre occupate nel 1948) di intraprendere una resistenza decentralizzata contro l’apartheid utilizzando ogni possibile strategia e strumento. Anche la dirigenza palestinese ne farebbe parte.

Fuori dalla Palestina riconoscere l’apartheid aiuterebbe i palestinesi della diaspora a convincere la comunità internazionale ad accettare la lotta dei palestinesi in quanto lotta contro l’apartheid e il razzismo.

In questo modo i palestinesi passeranno dal sogno irraggiungibile dei due Stati alla realtà della resistenza contro l’apartheid e ciò aiuterà ad attirare il supporto di chiunque nel mondo creda nella giustizia, nell’uguaglianza e nella libertà.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ihab Maharmeh è un ricercatore presso il Centro Arabo per la Ricerca e gli Studi Politici.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un’israeliana ricercata per crimini di guerra riceve un premio tedesco per la pace

Ali Abunimah

17 giugno 2020 – Electronic Intifada

I difensori dei diritti umani stanno invitando il Brückepreis tedesco a ritirare l’assegnazione del premio del 2020 a Tzipi Livni, politica israeliana che si è vantata del suo ruolo in crimini di guerra contro i palestinesi.

La motivazione del Bridge Prize [premio Ponte], com’è conosciuto in inglese, afferma che Livni viene premiata per aver promosso “la libertà di pensiero, la democrazia, l’apertura e l’umanità” e per “la sua politica di pace orientata alla libertà”.

Il premio viene assegnato a personaggi che abbiano dedicato il proprio operato alla democrazia e a una comprensione pacifica tra i popoli ed è accompagnato da un premio in denaro pari a 2.800 dollari [circa 2.500 euro].

Ma, lungi dal promuovere la pace, Livni è accusata di essere coinvolta in “crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nella Striscia di Gaza assediata” quando era ministra degli Esteri di Israele durante l’attacco del 2008-09 contro Gaza, come ha scritto martedì l’associazione per i diritti umani Euro-Med Monitor in una lettera al presidente del Brückepreis Willi Xylander.

Livni “durante l’operazione, condannata a livello internazionale, operò incessantemente per mascherare l’aggressione di Israele contro la popolazione civile di Gaza,” aggiunge la lettera, sottolineando che l’attacco israeliano costò la vita a 1.400 palestinesi, in grande maggioranza civili.

Vero teppismo”

Livni non si è neppure mai vergognata del suo ruolo e del suo appoggio al massacro di Gaza. Nel gennaio 2009 dichiarò ai media israeliani: “Come auspicavo, nel corso delle recenti operazioni Israele ha dimostrato un vero teppismo.”

Anche il rapporto Goldstone, la commissione d’inchiesta indipendente dell’ONU sull’attacco, cita le affermazioni di Livni: “Israele non è un Paese su cui puoi sparare missili senza che reagisca. È un Paese che, quando spari ai suoi cittadini, risponde scatenandosi, e ciò è positivo.”

E invece di promuovere la democrazia, Livni ha appoggiato la pulizia etnica dei cittadini palestinesi di Israele per rendere la popolazione di Israele ancor più esclusivamente ebraica. Ex-ministra della Giustizia, Livni ha anche detto ai negoziatori palestinesi: “Io sono contraria alle leggi – in particolare a quelle internazionali. Contro le leggi in generale.”

Non pare proprio che queste siano le credenziali di una persona che meriti riconoscimenti per aver contribuito alla pace e la comprensione a livello internazionale.

Perseguita per crimini di guerra

In parecchie occasioni Livni ha dovuto sfuggire all’arresto o agli interrogatori da parte di autorità giudiziarie che cercavano di inquisirla per crimini di guerra nel Regno Unito, in Svizzera e in Belgio.

Assegnare il Brückepreis a una politica israeliana accusata di crimini di guerra “contribuirebbe a ripulire l’immagine dei crimini dell’occupazione israeliana a danno dei palestinesi e incentiverebbe ulteriormente i politici israeliani ad accentuare le atrocità contro i palestinesi, sapendo che tali brutalità non danneggerebbero la loro posizione internazionale,” aggiunge Euro-Med Monitor.

Eppure tristemente in Germania la classe dirigente continua a credere che offrire un appoggio incondizionato a Israele indipendentemente da quali crimini commetta ed elogiare i criminali di guerra israeliani sia un modo per espiare l’uccisione da parte del governo tedesco di milioni di ebrei europei. La vera lezione da trarre dai crimini della Germania dovrebbe essere che nessuno possa sfuggire al dover rendere conto dei crimini di guerra, compresa Tzipi Livni.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele rinnova la sua legge razzista sul matrimonio

Ali Abunimah 

3 giugno 2020 – Electronic Intifada

Questa settimana Israele ha rinnovato una delle più apertamente razziste tra le decine di leggi dei suoi codici giuridici che discriminano i palestinesi e i cittadini palestinesi residenti in Israele.

La “Legge sulla cittadinanza e sull’ingresso in Israele ” proibisce ai cittadini israeliani che sposino palestinesi della Cisgiordania occupata o della Striscia di Gaza o a quelli con nazionalità di parecchi altri Stati della regione di vivere in Israele con il marito/la moglie.

La legge colpisce decine di migliaia di famiglie palestinesi residenti fra Israele e la Cisgiordania, su entrambi i lati della Linea verde, e impedisce ai palestinesi di trasferirsi legalmente in Israele per il ricongiungimento familiare,” secondo quanto riportato da Adalah, un’associazione di assistenza legale per i palestinesi di Israele che ha inutilmente presentato dei ricorsi in tribunale.

La disposizione era stata originariamente approvata come misura di emergenza nel 2003, ma da allora è stata rinnovata ogni anno.

La legge fa parte degli sforzi di Israele per impedire l’aumento della popolazione palestinese, una misura sostanzialmente razzista giustificata dai suoi leader in quanto necessaria a mantenere la maggioranza ebraica.

Zvi Hauser, il capo del Comitato degli affari esteri e della difesa della Knesset, il parlamento di Israele, ha detto che il rinnovo è giustificato dalla legge dello Stato-Nazione del popolo ebraico di recente promulgata che, secondo il parere dei giuristi, viola i divieti internazionali contro l’apartheid.

La legge israeliana sulla cittadinanza non differisce, negli intenti e negli effetti, dalle leggi che esistevano nel Sud Africa dell’apartheid per prevenire i matrimoni misti, l’incrocio di persone di razze diverse e per controllare dove i neri potessero vivere – leggi come il Group Areas Act [che divideva la città in aree per bianchi e relegava i neri nelle baraccopoli, ndtr] e il Prohibition of Mixed Act [che vietava i matrimoni misti, ndtr.].

Anche se la legge israeliana non vieta esplicitamente i matrimoni, in effetti impedisce ai cittadini israeliani e palestinesi l’esercizio del loro diritto alla vita di famiglia.

Mira a ottenere esattamente lo stesso scopo, seppure con mezzi più subdoli di quelli impiegati dai suprematisti bianchi in Sud Africa, come spiego nel mio libro del 2014: The Battle for Justice in Palestine (La Lotta per la giustizia in Palestina).

Manipolazione dei collegi elettorali su base razziale

Inizialmente Israele ha giustificato la legge sul matrimonio sul piano della “sicurezza,” una scusa respinta da Human Rights Watch. [nota ong statunitense, ndtr.].

Human Rights Watch nel 2012 ha dichiarato che un “divieto assoluto” senza “valutare nel caso specifico se la persona in questione possa mettere in pericolo la sicurezza è ingiustificato” e “rappresenta un danno esageratamente sproporzionato del diritto dei palestinesi e dei cittadini israeliani di vivere con la propria famiglia.”

La discriminazione presente nella legge potrebbe essere misurata “in base alle conseguenze per i cittadini palestinesi di Israele rispetto a quelli ebrei,” ha aggiunto.

Ariel Sharon, all’epoca primo ministro israeliano, nel 2005 ammise qual era il vero scopo della legge.

Non c’è bisogno di nascondersi dietro la scusa della sicurezza” disse Sharon. “È necessaria per l’esistenza dello Stato ebraico.”

Suicidio nazionale”

Lo scopo demografico razzista della legge fu confermato nel 2012 quando la Corte suprema israeliana respinse il ricorso di Adalah.

I diritti umani non devono essere una ricetta per il suicidio della Nazione,” aveva scritto il giudice Asher Grunis nella sua motivazione al respingimento con una maggioranza di 6 a 5.

Approvando in pratica la manipolazione dei collegi elettorali su base razziale la sentenza della Corte aggiunse anche che “il diritto alla vita familiare non deve essere per forza esercitato entro i confini di Israele.”

Si noti la notevole somiglianza dei termini usati dalla Corte Suprema israeliana con le parole di Daniel Malan, il primo ministro del Sud Africa sotto il regime di apartheid, che disse nel 1953 che “l’uguaglianza… inevitabilmente significherebbe per i bianchi del Sud Africa nient’altro che il suicidio della Nazione.”

I palestinesi colpiti dal provvedimento hanno fatto una campagna per diffondere la conoscenza della legge razzista e delle difficoltà che crea all’“amore ai tempi dell’apartheid.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La responsabile UE per la lotta all’antisemitismo non ha l’incarico di ripetere a pappagallo le menzogne di Israele

David Cronin  

2 giugno 2020 – Electronic Intifada

 

Katharina von Schnurbein, ccordinatrice dell’Unione europea contro l’antisemitismo, si è confrontata con le sfide poste dal confinamento di COVID-19.

Non potendo coltivare di persona i rapporti con i lobbisti filo-israeliani, si è invece mantenuta in contatto con loro online.

Sembra che da quando nel dicembre 2015 è stata nominata all’attuale carica, von Schnurbein abbia mantenuto buoni rapporti con i sostenitori di Israele. Ma, come funzionaria pubblica, è questo che prevede il suo mandato?

Dopo molte insistenze, ho finalmente ottenuto il mansionario redatto per von Schnurbein dall’amministrazione UE.

Il documento – che delinea i suoi principali compiti e responsabilità – non nomina Israele nemmeno una volta.

L’omissione è strana visto che vi sono forti ragioni per sospettare che la carica di von Schnurbein sia stata creata con l’unico obiettivo – o almeno l’obiettivo principale – di compiacere Israele e i suoi sostenitori.

L’idea stessa che l’UE nominasse un coordinatore contro l’antisemitismo è stata proposta durante un evento ospitato dal Ministero degli Esteri israeliano all’inizio del 2015.

Mentalità distorta

La descrizione del lavoro di Von Schnurbein la impegna a “collaborare strettamente con la comunità ebraica” e ad avvisare i responsabili politici dell’UE delle preoccupazioni di quella comunità.

L’espressione “comunità ebraica” non è sinonimo di Israele.

Anzi, ritenere “comunità ebraica” sinonimo di Israele sarebbe antisemita. Considererebbe gli ebrei europei responsabili dell’oppressione dei palestinesi da parte di Israele.

E se la burocrazia di Bruxelles utilizza effettivamente i termini “comunità ebraica” e “Israele” come intercambiabili, allora è colpevole dello stesso pensiero distorto che pervade l’élite americana.

Sia Joe Biden che Donald Trump hanno lasciato intendere che gli ebrei negli Stati Uniti siano indistinguibili da Israele.

Ma le comunità ebraiche non sono monolitiche, da nessuna delle due sponde dell’Atlantico.

Gli ebrei in Europa hanno una vasta gamma di opinioni su Israele, ma von Schnurbein e i suoi colleghi cercano di alterare questa realtà. Gli ebrei critici di Israele e della sua ideologia di stato sionista sono stati esclusi dalle deliberazioni dell’UE sull’antisemitismo.

Von Schnurbein lavora nel dipartimento di giustizia della Commissione europea – l’esecutivo dell’UE. Il suo lavoro è presumibilmente regolato da una carta dei diritti.

Quella carta difende il diritto di avere ed esprimere opinioni e idee “senza interferenze da parte dell’autorità pubblica”.

Lungi dal rispettare questo diritto, von Schnurbein ha cercato di mettere sotto controllo le opinioni critiche su Israele.

Una menzogna oltraggiosa

Ha mosso accuse false e calunniose contro attivisti della solidarietà con i palestinesi, in particolare quelli che spronano a boicottaggio, disinvestimento e sanzioni.

L’anno scorso, all’incontro inaugurale a Bruxelles, von Schnurbein ha parlato di uno “studio” del governo israeliano sul movimento BDS.

Nelle sue dichiarazioni, ha accusato gli attivisti del BDS di aver criticato il cantante Matisyahu perché è ebreo. Una menzogna oltraggiosa.

La verità è che Matisyahu è stato condannato dagli attivisti perché ha raccolto fondi per l’esercito israeliano e ha plaudito ad un attacco contro la flottiglia in viaggio verso Gaza, non per la sua religione o etnia.

E nel 2018 von Schnurbein ha disatteso la neutralità politica richiesta ai dipendenti pubblici dell’UE per ripetere a pappagallo gli argomenti della lobby israeliana, calunniando un membro eletto al Parlamento europeo come antisemita.

La parlamentare aveva presentato un evento con un oratore palestinese, nonostante le obiezioni dei gruppi di pressione israeliani.

Lo statuto del personale dell’UE proibisce ai suoi funzionari di seguire le istruzioni emanate da governi esteri.

Ripetendo macchinalmente bugie architettate da Israele e dalla sua rete di sostenitori, von Schnurbein ha infranto quella regola.

Come può uscirne indenne? La spiegazione più plausibile è che goda del sostegno della gerarchia dell’UE.

Per quasi cinque anni von Schnurbein sarebbe stata tenuta a rispondere a Vera Jourova, membro ceco della Commissione europea. Jourova ha calunniato il movimento di solidarietà palestinese, usando termini estremamente simili, se non identici, a quelli di von Schnurbein.

È dal 2018 che cercavo di ottenere il mansionario del lavoro di von Schnurbein. Quando ho presentato la mia prima richiesta in base alla libertà di informazione, la Commissione europea ha rifiutato di rilasciare il documento.

Alla fine, tuttavia, ha consentito a farlo – dopo che ho sottoposto la questione al difensore civico dell’UE, organismo formale di difesa del cittadino.

Sostenevo che quel mansionario avrebbe dovuto essere reso disponibile per valutare se von Schnurbein fosse stata ufficialmente incaricata di perseguire un programma a favore di Israele.

La risposta della Commissione europea alla questione dimostra disprezzo per la democrazia.

Ursula von der Leyen, presidentessa della Commissione, rispose che era compito della gerarchia dell’UE giudicare il lavoro di von Schnurbein. L’opinione pubblica, sottintendeva von der Leyen, non deve occuparsi di simili questioni.

Significativamente la Commissione europea non ha cercato di negare che von Schnurbein persegua quelli che sembrano essere gli interessi di Israele.

Potrebbe esserci una prova più evidente di così?

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il coronavirus è una manna per la tecnologia militare israeliana

Maureen Clare Murphy

20 maggio 2020 – Electronic Intifada

Molta della retorica sulla risposta globale alla pandemia da coronavirus è stata militarizzata, provocando i danni che le metafore belliche della politica del terrore tendono ad evocare.

In Israele questa militarizzazione è stata più che una metafora.

Un nuovo rapporto dell’associazione “Who Profits” [A chi giova], che controlla chi trae profitto dall’occupazione dimostra che il ministero della Difesa e le industrie belliche di Israele, sia private che statali, sono “state in prima linea” nella risposta del Paese al coronavirus.

Ciò “evidenzia la profonda distorsione militarista che sorregge l’economia e il regime politico israeliani e la simbiosi tra la sfera civile e l’apparato militare,” afferma “Who Profits”.

Electronic Intifada ha già informato su come l’israeliano NSO Group, implicato nell’uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi, stia cercando di esportare il suo sistema di spionaggio per il tracciamento dei contatti durante il coronavirus, visto come un passo fondamentale per porre fine ai blocchi totali generalizzati.

Secondo “Who Profits”, NSO Group collabora con il ministero della Difesa israeliano per “sviluppare, rendere operativo e eventualmente esportare un sistema centralizzato di dati per valutare le probabilità che una persona venga infettata dal virus.”

Deriva pericolosa”

Nel contempo il capo della sua divisione tecnologica ha detto ai media che il Mossad, il servizio di spionaggio israeliano per l’estero tristemente noto per gli assassinii extragiudiziari, ha ottenuto illecitamente equipaggiamento sanitario.

Lo Shin Bet, l’organismo di spionaggio interno di Israele, ha fornito il suo “estesissimo database segreto… che raccoglie continuamente dati in tempo reale su tutti i cittadini israeliani” con il fine di tracciare i contatti.

“Consentire allo Shin Bet di utilizzare i suoi metodi segreti e senza controllo in questioni relative ai civili potrebbe creare una deriva pericolosa che può portare al suo intervento in ulteriori aspetti della vita civile,” ha avvertito Suhad Bishara, avvocatessa di “Adalah”, una associazione per i diritti umani che ha avviato una campagna contro il tracciamento per la sorveglianza.

Due unità di élite dell’intelligence militare israeliana stanno ora conducendo ricerche sanitarie legate al coronavirus.

Queste unità sono la normalmente segretissima Unità 81, che sviluppa tecnologia spionistica avanzata, e l’Unità 8200, generalmente considerata come l’equivalente israeliana della National Security Agency [organismo del ministero della Difesa Usa che si occupa di sicurezza nazionale, ndtr.] degli Stati Uniti.

Nel 2014 riservisti dell’Unità 8200 hanno rivelato che essa utilizza una sorveglianza generalizzata e invasiva per obbligare a collaborare con Israele palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Sul pesante coinvolgimento delle agenzie spionistiche israeliane hanno informato in modo acritico, se non elogiativo, i mezzi di comunicazione internazionali, che hanno omesso di menzionare il loro scopo principale: la repressione del popolo palestinese e della sua lotta per la liberazione.

Come nota “Who Profits”, il “nuovo incarico di carattere sanitario non ha distolto l’apparato militare israeliano dalla sua funzione e ragion d’essere principali: il costante controllo militare sulla popolazione civile palestinese.”

Questo rimane “il lavoro ‘essenziale’ dell’esercito,” aggiunge l’organizzazione di controllo.

Dalla repressione militare all’innovazione civile

In precedenza “Who Profits” aveva evidenziato come le competenze sviluppate nel contesto dell’occupazione e applicate a un ‘apparentemente innocua industria civile aiutino le industrie belliche israeliane a promuovere “una versione ripulita delle loro tecnologie repressive.”

Il trasferimento di queste tecnologie all’industria sanitaria per combattere il coronavirus dimostra ancora una volta quanto “l’apparato militare statale funzioni come un laboratorio, un punto di riferimento, un cliente e un incubatore delle innovazioni tecnologiche israeliane.”

Con meno di 50 casi gravi o critici al momento della stesura di questo articolo, Israele sembra essere riuscito ad arginare la diffusione del virus, nonostante il suo trattamento discriminatorio e negligente dei palestinesi.

Le industrie belliche israeliane hanno “nuove prospettive di guadagno materiale e simbolico,” afferma “Who Profits”.

E avendo vinto la guerra – o almeno la prima battaglia – contro il coronavirus “il potenziale per future esportazioni è innegabile.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele deve scarcerare i minori palestinesi, afferma l’ONU

Tamara Nassar

12 maggio 2020 – Electronic Intifada

Dirigenti delle Nazioni Unite chiedono a Israele di scarcerare immediatamente tutti i minori palestinesi.

Persino in piena pandemia da nuovo coronavirus Israele ha imprigionato altri minori palestinesi.

A fine marzo erano rinchiusi nelle carceri israeliane circa 194 minori palestinesi. Attualmente sono più di 180.

Questo numero è superiore alla media mensile di minori detenuti nel 2019,” hanno affermato funzionari dell’ONU.

La gran maggioranza di questi minori non è stata incriminata per alcun reato, ma viene trattenuta in carcerazione preventiva.”

A causa della pandemia i processi a cui Israele assoggetta i palestinesi, compresi i minori, negli illegittimi tribunali militari sono stati sospesi.

La dichiarazione è firmata dal coordinatore umanitario dell’ONU Jamie McGoldrick, dalla rappresentante speciale dell’UNICEF in Palestina Geneviève Boutin e da James Heenan, capo dell’Ufficio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

A rendere ancor più critica la situazione, Israele ha vietato quasi tutte le visite ai detenuti. Ciò significa che i minori non possono vedere i propri familiari o i propri avvocati, aggravando la loro sofferenza psicologica e negando loro consulenza legale.

I minori detenuti sono soggetti ad un rischio maggiore di contrarre il COVID-19, in quanto il distanziamento fisico e le altre misure di prevenzione sono spesso assenti o difficili da attuare”, hanno detto i funzionari dell’ONU.

Il modo migliore per garantire i diritti dei minori detenuti in presenza di una pericolosa pandemia, in qualunque Paese, è scarcerarli e stabilire una moratoria su nuovi ingressi in strutture detentive.”

Sostegno da una deputata

Israele detiene il discutibile primato di essere l’unico Paese al mondo che sottopone sistematicamente i minori – e solo quelli palestinesi – a tribunali militari.

Negli ultimi anni parlamentari USA hanno presentato una proposta di legge allo scopo di limitare tali abusi.

La deputata Betty McCollum ha proposto il disegno di legge HR 2407, che impedirebbe agli USA di finanziare enti militari israeliani che risultino coinvolti in soprusi verso minori palestinesi.

Sostengo la richiesta dell’UNICEF ad Israele di scarcerare tutti i minori palestinesi presenti nelle sue prigioni militari”, ha dichiarato McCollum lunedì.

La pandemia COVID-19 e i soprusi inflitti a questi minori giustificano il loro immediato rilascio.”

Attualmente la proposta di legge McCollum ha 23 firmatari.

Ignorare le richieste

La richiesta dell’ONU fa eco a quelle avanzate dalle associazioni per i diritti umani fin dall’inizio della pandemia.

Sia ‘Defense for Children International Palestine’ che l’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer hanno chiesto ad Israele di scarcerare i minori palestinesi.

Israele ha ignorato queste richieste.

In aprile ha arrestato altri 18 minori.

In base alle statistiche stilate da Addameer, attualmente nelle carceri israeliane si trovano circa 4.700 palestinesi, 400 dei quali sono sottoposti alla cosiddetta detenzione amministrativa – senza imputazione né processo.

Molti dopo l’arresto sono posti da Israele in quarantena obbligatoria.

Alla fine di marzo Israele ha rilasciato un prigioniero palestinese dal carcere militare di Ofer e il giorno seguente è risultato positivo al test del nuovo coronavirus.

È da notare che Nour al-Deen Sarsour era stato nella sezione 14 del carcere, dove era detenuto insieme a decine di altri prigionieri, il che rende probabile che molti siano stati esposti al contagio.

Le forze di occupazione israeliane tengono rinchiusi i minori palestinesi nella vicina sezione 13.

Israele ha inoltre continuato a punire i detenuti palestinesi ponendone alcuni in isolamento e vietando ad altri di parlare con i propri familiari.

Ha ignorato i reiterati avvertimenti da parte di organizzazioni internazionali per i diritti umani secondo cui le autorità devono ridurre in modo significativo l’intera popolazione carceraria per contrastare la pandemia.

Ora più che mai i governi dovrebbero rilasciare tutte le persone detenute senza una sufficiente motivazione giuridica, inclusi i prigionieri politici ed altre persone incarcerate solo per aver espresso opinioni critiche o di dissenso,” ha dichiarato in marzo Michelle Bachelet, attuale alta commissaria dell’ONU per i diritti umani.

In aprile un prigioniero palestinese è morto in un carcere israeliano.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Gaza si blocca del tutto

Fedaa al-Qedra

5 maggio 2020 – The Electronic Intifada

Nabil Mattar non è in grado di far fronte alle necessità della sua famiglia.

Fino a poco tempo fa vendeva accessori per telefonini nei mercati di Gaza. Le restrizioni introdotte per rispondere alla pandemia da coronavirus lo hanno lasciato senza entrate.

Di solito mi guadagnavo 10 dollari al giorno,” dice Mattar, padre di sette figli. “Era troppo poco per poter risparmiare qualcosa. Da quando ho smesso di lavorare non ho soldi per sfamare i miei bambini.”

La perdita colpisce la sua dignità: “Non puoi immaginare come si sente un padre impotente di fronte ai propri figli,” afferma.

La disoccupazione era già un gravissimo problema prima che in marzo a Gaza venissero confermati i primi casi del nuovo coronavirus.

Negli ultimi mesi del 2019 il tasso di disoccupazione ufficiale a Gaza era del 43%. Secondo l’Ufficio Centrale di Statistica Palestinese ciò significava che più di 208.000 persone erano senza lavoro.

Shock”

Secondo il ministero dell’Economia di Gaza, da quando è scoppiata la pandemia altre 130.000 persone ora sono rimaste senza lavoro.

Il ministero stima che da quando è iniziato il blocco totale siano state lasciate a casa 25.000 persone che lavoravano in hotel, ristoranti e bar.

Ibrahim al-Dali è uno di loro. Era cameriere in un hotel sul lungomare di Gaza City. “Che io abbia perso il lavoro è stato uno shock per la mia famiglia,” racconta.

Al-Dali è stato per molto tempo la principale fonte di sostentamento della famiglia. Con il suo stipendio ha mantenuto i suoi genitori e due dei suoi fratelli.

Il padre lavorava in Israele, ma è rimasto disoccupato a causa del blocco totale imposto a Gaza negli ultimi 13 anni.

È difficile per un uomo giovane come me rimanere a casa,” dice al-Dali. “Ma la cosa peggiore è che non posso più aiutare la mia famiglia.”

Gli abitanti di Gaza stanno facendo il Ramadan in modo sommesso. Normalmente i ristoranti e i bar sono pieni durante il mese sacro, in quanto molte famiglie escono di sera per porre fine alla giornata di digiuno.

Tuttavia quest’anno il settore della ristorazione è praticamente bloccato. Invece di offrire servizi per il turismo e le attività di svago, gli hotel sono stati utilizzati come strutture per l’isolamento.

Il ministero del Lavoro di Gaza ha destinato 1 milione di dollari per aiutare le persone senza lavoro durante la pandemia.

Ibrahim al-Dali, il cameriere disoccupato, ha fatto richiesta di un contributo di 100 dollari al sito web del ministero. Gli sono stati negati sulla base del fatto che non è sposato.

In totale il ministero ha considerato che circa 40.000 richieste avessero i requisiti per il sussidio. Eppure è stato in grado di aiutarne solo 10.000.

Strade vuote

Ahmad Younis, un tassista, ha ricevuto il finanziamento di 100 dollari. Ma il sussidio è “molto scarso e non copre la quantità di soldi che ho perso,” afferma.

Il settore dei trasporti in genere è molto attivo,” dice. “Ma in questi giorni quando esco con la mia auto le strade sono praticamente vuote. Ho così pochi passeggeri che posso a malapena sbarcare il lunario. Temo che la situazione possa continuare in questo modo per mesi. Ciò per me sarebbe un disastro.”

L’Ufficio Centrale di Statistica palestinese stima che il nuovo coronavirus potrebbe avere come conseguenza che nel 2020 il prodotto interno lordo della Cisgiordania e di Gaza sia del 14% inferiore rispetto all’anno scorso. Ciò significherebbe una perdita totale di circa 2.5 miliardi di dollari.

Alcune attività economiche stanno cercando di affrontare le sfide poste dal COVID-19.

Molte industrie tessili a Gaza hanno iniziato a produrre mascherine protettive, soprattutto per clienti in Israele.

Il settore dell’abbigliamento aveva un ruolo fondamentale nell’economia locale, ma è stato gravemente danneggiato quando Israele ha imposto il blocco delle esportazioni di tessuti nel 2007. Questo divieto è stato attenuato solo nel 2015, portando a una parziale ripresa del commercio di vestiti a Gaza.

Forse è troppo presto per dire se la produzione di mascherine darà un impulso al settore tessile, che ne avrebbe assoluto bisogno. In ogni caso tale impulso non sarà sufficiente a compensare i problemi più gravi che affliggono l’economia di Gaza – problemi provocati da Israele, che agisce di concerto con i governi più potenti al mondo.

Fedaa al-Qedra è una giornalista di Gaza

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)