In mezzo alla pandemia aumentano del 78% le aggressioni dei coloni

Tamara Nassar

11 aprile 2020 electronicintifada

In piena pandemia di COVID-19 nella Cisgiordania occupata si registra un forte aumento della violenza dei coloni israeliani contro i palestinesi.

Anche dopo che il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha chiesto un cessate il fuoco globale per ostacolare la diffusione della pandemia, Israele ha ucciso due palestinesi, incluso un bambino, e incrementato gli attacchi.

Israele ha continuato i suoi “raid militari in Cisgiordania, condotto arresti diffusi e detenzioni amministrative, ha permesso gravi accessi di violenza da parte dei coloni e ha continuato la sua draconiana chiusura della Striscia di Gaza”, ha affermato l’organizzazione per i diritti palestinesi Al Haq.

Nelle ultime due settimane di marzo, il numero di aggressioni dei coloni contro i palestinesi è stato del 78% superiore al solito, secondo il gruppo di monitoraggio dell’ONU OCHA.

Durante questo periodo, “almeno 16 assalti di coloni israeliani hanno ferito cinque palestinesi e causato gravi danni materiali”, ha riferito l’OCHA.

Anche se Mohammad Shtayyeh, primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha ordinato un isolamento di due settimane a tutti i residenti palestinesi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, la sua decisione non ha avuto alcun impatto sui circa 800.000 israeliani che vivono negli insediamenti illegali.

Quei coloni condividono strade, negozi di alimentari e distributori di benzina con i palestinesi, sottoponendoli spesso a molestie verbali, aggressioni fisiche e danni materiali.

Le forze israeliane “non sono intervenute per prevenire i comportamenti illeciti, fornendo invece sostegno e protezione ai coloni, garantendo che tali individui non venissero chiamati a rispondere dei loro atti e consolidando l’attuale regime di impunità”, ha affermato Al Haq.

I coloni godono di un’impunità pressoché totale per le violenze che commettono contro i palestinesi, il che li incoraggia ad aumentare le aggressioni.

Oggetto di continui assalti, i palestinesi si stanno sforzando di prendere tutte le precauzioni sanitarie contro la pandemia di coronavirus. In effetti, i coloni stanno sfruttando l’isolamento per aumentare le loro violenze con poche resistenze da parte dei residenti palestinesi.

Assalto a un cimitero

Giovedì i coloni israeliani hanno vandalizzato le lapidi del cimitero palestinese nel villaggio di Burqa in Cisgiordania.

Ghassan Daghlas, che controlla le attività dei coloni nella Cisgiordania settentrionale, ha riferito all’agenzia di stampa palestinese WAFA che i coloni sono entrati nel villaggio attraverso l’adiacente e già evacuato insediamento israeliano di Homesh.

Homesh è stata liberata dai suoi residenti israeliani nel 2005 come parte del presunto “disimpegno” israeliano a Gaza e in diversi villaggi della Cisgiordania. La terra, che apparteneva al villaggio di Burqa, fu dichiarata zona militare e chiusa negli anni ’70.

Il mese scorso i coloni hanno picchiato e lanciato pietre contro un contadino che lavorava la propria terra nella zona di Homesh.

“Uno di loro aveva in mano una pistola”, ha detto ad Al Haq Ali Mustafa Mohammad Zubi, 55 anni.

“Ogni volta che provavo ad alzarmi e correre via mi buttavano a terra, mi picchiavano e mi aggredivano verbalmente.”

Colpito con un’ascia

Inoltre, un palestinese è stato ricoverato in ospedale dopo che i coloni israeliani lo hanno assalito con un’ascia il 24 marzo nel villaggio cisgiordano di Umm Safa, a ovest di Ramallah.

Un colono stava entrando con una mandria di 50 mucche in un uliveto a ovest del villaggio.

Otto residenti del villaggio, accompagnati dal vice capo del consiglio locale, Naji Tanatrah, sono andati a chiedergli di lasciare il villaggio. Mentre stava per ritirarsi, cinque coloni armati sono arrivati su due veicoli con asce e almeno un fucile e hanno preso ad aggredire Tanatrah, riferisce B’Tselem.

Un colono ha colpito Tanatrah alla testa con l’ascia, facendolo cadere a terra sanguinante. I coloni hanno continuato a picchiare il 45enne che giaceva sanguinante a terra.

Alcuni abitanti sono riusciti a recuperare Tanatrah e spostarlo in un ospedale di Ramallah, dove è stato operato e gli è stata diagnosticata una frattura al cranio.

“Ho trascorso cinque giorni in ospedale e me ne sono andato appena ho potuto, temendo di contrarre il coronavirus” avrebbe detto Tanatrah, come riferisce il quotidiano israeliano Haaretz.

Il giorno successivo, decine di coloni hanno tentato di entrare nel villaggio di Einabus, sempre nella zona di Nablus.

Contemporaneamente i coloni attaccavano un pastore nel villaggio di al-Tuwani, nelle colline a sud di Hebron. Il 27 marzo sei coloni, alcuni armati, hanno attaccato il pastore mentre stava pascolando il suo gregge, riferisce B’Tselem. Uno dei cani dei coloni lo ha morso al braccio e all’addome; è stato portato in una clinica medica dove l’hanno vaccinato contro la rabbia.

Il giorno seguente i coloni hanno lanciato pietre contro tre abitanti che tornavano ad al-Tuwani.

Altri abitanti del villaggio sono arrivati per aiutarli finché sono giunti i militari israeliani e hanno lanciato candelotti di gas lacrimogeno contro gli abitanti del villaggio.

Le forze israeliane hanno arrestato tre abitanti del villaggio, rilasciandone due su cauzione.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele trasforma in propaganda il plauso dell’ONU

Tamara Nassar

2 aprile 2020 – Electronic Intifada

Alcuni funzionari dell’ONU stanno elogiando Israele nonostante il modo in cui tiene i palestinesi in condizioni di scarsità di servizi sanitari basilari mentre affrontano la pandemia di COVID 19. António Guterres, segretario generale dell’ONU, si è persino rallegrato della cooperazione tra l’occupazione israeliana e l’Autorità Nazionale Palestinese nell’arginare la minaccia del nuovo coronavirus.

Come prevedibile, Il suo elogio è stato sfruttato per scopi propagandistici dal ministero degli Esteri israeliano.

Nikolay Mladenov, l’inviato ONU per il Medio Oriente, ha descritto il coordinamento come “eccellente”.

Il coordinatore per gli aiuti umanitari dell’ONU Jamie McGoldrick ha fatto eco alle lodi del suo collega.

Foglia di fico

Non solo l’ONU plaude al cosiddetto coordinamento per la sicurezza tra l’esercito israeliano e l’ANP, ma fornisce anche una foglia di fico a Israele per nascondere i suoi continui attacchi contro il diritto alla salute dei palestinesi.

Israele ha il dovere giuridico di garantire questo diritto. In quanto potenza occupante, in base al diritto internazionale Israele è obbligato a garantire ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza le infrastrutture necessarie.

Invece per più di un decennio Israele ha ripetutamente compromesso e danneggiato il sistema sanitario di Gaza, riducendo sistematicamente la fornitura di cibo, carburante, medicinali e materiale da costruzione alla Striscia al punto da calcolare persino il numero minimo di calorie che ogni persona potrebbe consumare per non morire di fame.

Oltre ad imporre un assedio devastante, Israele ha scatenato tre gravi attacchi, spianando interi quartieri e uccidendo migliaia di palestinesi. Dopo ogni invasione ha gravemente intralciato la ricostruzione.

“Le restrizioni al movimento e all’accesso, e ora uno stato d’emergenza imposto a livello mondiale dalla pandemia, sono stati la situazione quotidiana per i palestinesi di Gaza da circa 13 anni,” ha affermato questa settimana Al Mezan, un’associazione per i diritti umani di Gaza.

In Cisgiordania Israele ha continuato ad aggredire le comunità palestinesi, ha sequestrato attrezzature per la costruzione di ospedali da campo, ha confiscato pacchi di alimenti per famiglie in quarantena, ha fatto incursioni in casa nel cuore della notte ed ha continuato con gli arresti arbitrari di minorenni.

Tutte queste attività espongono le comunità palestinesi a un maggior rischio di contrarre il virus.

Hanan Ashrawi, membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha commentato uno di questi raid nella città della Cisgiordania occupata di Ramallah, sede dell’Autorità Nazionale Palestinese, paragonando le forze israeliane ad “alieni ostili senza alcun rapporto con l’umanità.”

Tuttavia Ashrawi non ha fatto alcuna menzione a come normalmente l’Autorità Nazionale Palestinese collabora con l’occupazione militare israeliana.

L’apparato statale di polizia dell’ANP gioca un ruolo molto importante nel reprimere il dissenso palestinese per conto dell’esercito israeliano, arrestando frequentemente attivisti e condividendo informazioni con gli investigatori israeliani.

Ora Israele si congratula con se stesso in quanto si è guadagnato le lodi delle Nazioni Unite per aver fornito il minimo indispensabile alle persone che sottopone all’occupazione e all’assedio.

La propaganda dell’occupazione

Il COGAT, l’organo burocratico dell’occupazione militare israeliana che sovrintende alla punizione collettiva dei due milioni di abitanti di Gaza, spesso usa Twitter per vantarsi di aver inviato alla Striscia kit di analisi ed altre apparecchiature. Questi invii vengono presentati come gesti di buona volontà.

Tuttavia consentire a qualche prodotto di arrivare ai palestinesi non è molto, dato che il COGAT controlla tutto il movimento dei beni dentro e fuori la Striscia di Gaza.

Anche l’OCHA, agenzia di monitoraggio dell’ONU, ha rilevato la “stretta collaborazione senza precedenti” tra le autorità palestinesi ed israeliana dall’inizio dell’attuale crisi sanitaria.

L’organizzazione ha riconsociuto ad Israele di aver agevolato l’Autorità Nazionale Palestinese nell’ importazione di 10.000 kit di analisi e di aver tenuto una formazione per equipe mediche nell’ospedale al-Makassed della Gerusalemme est occupata.

Questi presunti esempi di generosità hanno fornito materiale bell’e pronto al COGAT da sfruttare a fini di propaganda.

Il COGAT ha anche limitato gli spostamenti di milioni di palestinesi nella Cisgiordania occupata con posti di controllo militari.

I checkpoint provocano quotidiane sofferenze ai palestinesi. Eppure il COGAT ha esaltato come il loro incremento “migliorerà la qualità di vita della popolazione della regione.”

Nel contempo un rapporto stilato da associazioni per i diritti umani ha evidenziato l’“impunità cronica” di Israele riguardo all’uccisione e alla mutilazione di personale medico palestinese.

Il rapporto è stato firmato da Al Mezan di Gaza e dalle associazioni benefiche con sede nel Regno Unito “Medical Aid for Palestinians” [Soccorso Medico per i Palestinesi] e “Lawyers for Palestinian Human Rights” [Avvocati per i Diritti Umani dei Palestinesi].

Vi si afferma che l’impunità cronica “rende più probabile che ciò si ripeta.”

Israele ha anche metodicamente negato o ritardato la concessione di permessi di viaggio per i palestinesi che necessitano di cure mediche fuori da Gaza.

Quindi perché le Nazioni Unite stanno lodando Israele perché fa il minimo possibile per la popolazione che aggredisce ed opprime?

Come scrisse il famoso scrittore palestinese Ghassan Kanafani: “Ci rubano il pane, ce ne danno una briciola, poi ci chiedono di ringraziarli della loro generosità…Che sfacciataggine!”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Cadere tra le crepe a Gerusalemme

J. Ahmad

30 marzo 2020 – The Electronic Intifada

In questa parte del nostro mondo malato, come dovunque, mentre continua a crescere il numero di contagiati con il nuovo coronavirus, che provoca la patologia respiratoria COVID-19, palestinesi e israeliani contano i propri infettati.

Ma non è affatto chiaro quali statistiche andrei ad ingrossare se dovessi essere così sfortunata da contrarre il virus.

Perché? Sono una palestinese con uno status indefinito che vive nella Gerusalemme est occupata.

Come chiunque altro su questo pianeta ora, sto cercando di uscire da questa epidemia nel modo più sicuro possibile per me e per la mia famiglia.

Eppure, mentre seguo tutte le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Salute, dei Centri per il Controllo delle Malattie e dei governi (sia israeliano che palestinese) di lavarmi le mani, isolarmi fisicamente e lavorare da casa, la mia situazione è straordinariamente precaria.

Faccio tutto ciò dalla mia piccola casa nella Città Vecchia di Gerusalemme, confortevolmente nascosta nel cuore del quartiere musulmano. E, benché mi senta a volte come se fossi l’unica in questa situazione, sono sicura che non sia così. Ci sono decine di migliaia di persone come me.

Ecco il nostro problema: senza permessi delle autorità israeliane per rimanere a Gerusalemme – dove abbiamo famiglia, o proprietà, o lavoro, o di cui siamo originari – non abbiamo copertura sanitaria e rischiamo di essere “riportati” in Cisgiordania.

Ora, io sono cittadina sia palestinese che statunitense. Tuttavia, ai fini di questo articolo, ignorerò la mia identità statunitense dato che non mi offre assolutamente alcuna protezione contro i capricci delle autorità militari israeliane.

Ho vissuto per oltre vent’anni in questa Città Vecchia con mio marito e due figli, ma non ho alcun diritto alla residenza. Per i primi 11 anni ho vissuto qui a Gerusalemme “illegalmente” a causa del ritardo del trattamento delle domande di ricongiungimento familiare di palestinesi a Gerusalemme da parte di Israele.

Permessi e controllo della popolazione

Negli ultimi 10 anni il ministero dell’Interno israeliano mi ha rilasciato un permesso – rinnovato annualmente e subordinato a una pletora di documenti che dimostrano il mio luogo di residenza – tale per cui possa vivere in casa mia senza timore di essere arrestata o deportata.

A parte la burocrazia kafkiana, in questi 10 anni ho iniziato a sentirmi a mio agio con il mio status a Gerusalemme. Non ero cittadina di Israele, neppure residente permanente della città come mio marito e i miei figli, ma almeno ero, per così dire, una specie di inquilina legalmente riconosciuta.

Potevo viaggiare in autobus (anche se non guidare un qualunque mezzo), attraversare i posti di blocco e di fatto dormire nel mio letto senza temere che un poliziotto israeliano bussasse alla porta e mi informasse che sarei stata deportata in Cisgiordania perché vivevo “illegalmente” in città.

Tuttavia di recente sono involontariamente finita in un limbo. Cioè, non mi è stato negato un permesso di ricongiungimento familiare in senso stretto, ma non mi è stato neppure rinnovato, a quanto pare in attesa dell’approvazione da parte della polizia –e ora della giustizia – israeliana.

Quello che ciò significa in termini concreti è che il permesso che mi consente di viaggiare all’interno di Gerusalemme e dentro e fuori dalla Cisgiordania non mi è stato rilasciato. E, ciò che è più grave e più preoccupante date le circostanze, la mia copertura sanitaria israeliana mi è stata revocata. Da qui la precarietà della mia attuale situazione.

Mettiamo il caso che io contragga il nuovo coronavirus e mi ammali gravemente di CODIV-19. Come autorità occupante di Gerusalemme, Israele controlla i servizi medici della città. Quindi, se dovessi andare in un ospedale israeliano, dovrei mostrare la mia carta d’identità e – se non volessi pagare un occhio della testa – la mia tessera sanitaria.

Permettetemi solo di aggiungere: Israele ha uno dei migliori sistemi sanitari al mondo. Non mento, ho goduto di una sensazione di sicurezza durante questi pochi anni in cui ho avuto l’assicurazione.

Beh, non più, e non avrebbe potuto succedere in tempi peggiori. Dato che la mia carta d’identità è rilasciata in Cisgiordania, ciò di fatto mi esclude da ogni diritto a Gerusalemme.

Non solo rischierei di essere mandata via da un ospedale israeliano, ma aprirei un vaso di Pandora di guai amministrativi/punitivi con le autorità israeliane – che non si vergognano di continuare con le loro misure oppressive contro i palestinesi durante questa pandemia – sul perché non sono tornata in Cisgiordania, benché il mio caso sia ancora in sospeso.

Perché non andare in Cisgiordania? In primo luogo lì non ho la copertura sanitaria. Ma, cosa molto più importante, la mia famiglia non sta lì. Una volta in Cisgiordania non potrei vederli. Cosa succederebbe se uno di loro contraesse il virus e finisse in ospedale? Come potrei raggiungerli?

Timore e contagio

Quindi, adottando la filosofia del “minore dei mali”, ho deciso di restarne fuori a Gerusalemme, nei confini della mia casa e sperando che tutto il mio rigoroso lavarmi le mani, disinfettare e mantenere la distanza sociale alla fine diano risultati ed io e la mia famiglia ne usciamo relativamente indenni.

Quando mi avventuro fuori lo faccio solo per comprare alimenti e porto sempre con me di scorta mio marito “legalmente residente”, solo nel caso veniamo fermati e interrogati. In questi giorni la polizia israeliana sta pattugliando le strade più del solito, alla ricerca di cittadini con la febbre o di persone indisciplinate che sfidano la quarantena.

La mia è un’esistenza inquietante. Sono caduta nelle crepe di un sistema discriminatorio e segregazionista. Ma non sono affatto un’anomalia. Essere un abitante palestinese di Gerusalemme – “legale” o “illegale” – di per sé ti relega in uno status di seconda classe, anche nella disponibilità di cure mediche.

In questo nuovo mondo pandemico in cui viviamo, i gerosolimitani palestinesi, oltre alle preoccupazioni per l’epidemia da coronavirus nella loro comunità, devono ancora affrontare le incursioni della polizia e dell’esercito, gli arresti e i soprusi.

Proprio la notte scorsa la polizia israeliana ha fatto irruzione nel nostro quartiere, ha arrestato un giovane in casa sua e ci ha spruzzato tutti con spray al peperoncino.

Gli abitanti del quartiere sono usciti per liberare l’uomo, scontrandosi con la polizia, spingendo, tirando e gridando. Questo tipo di incursioni è già abbastanza traumatico in tempi normali, figuriamoci ora che aleggia su di noi la minaccia di un virus letale.

Inutile dirlo, quella notte non c’è stata nessuna distanza fisica, con la famiglia, gli amici e i vicini del giovane, tutti che cercavano di salvarlo dalle grinfie di poliziotti israeliani senza guanti e senza mascherine, che brandivano spray al peperoncino, fucili e manganelli sui nostri volti, anch’essi senza mascherine.

Pertanto la mia ultima preoccupazione è che una o più persone spinte quella notte una contro l’altra da entrambe le parti dello scontro politico siano portatrici del virus (che lo sappiano o meno) e che di conseguenza un numero imprecisato di noi lo abbia contratto.

Ho coperto bocca e naso sia dallo spruzzo di spray al peperoncino che da ogni particella di carica virale che si possa essere librata nell’aria. Solo i prossimi giorni diranno se è stato sufficiente.

J. Ahmad vive a Gerusalemme. Ha scritto sotto pseudonimo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi) 




I palestinesi di fronte a due nemici: l’occupazione e la pandemia

Tamara Nassar

26 marzo 2020 – Electronic Intifada

Nonostante la pandemia globale, nulla è cambiato riguardo all’occupazione militare israeliana in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Il numero di casi confermati di COVID-19, la malattia respiratoria causata dal nuovo coronavirus, è salito a quasi 2.700 in Israele, a circa 80 nella Cisgiordania occupata e a nove nella Striscia di Gaza assediata.

Finora la malattia ha causato la morte di otto israeliani e di una donna palestinese nella Cisgiordania occupata.

Mentre il coronavirus infetta sempre più persone, i palestinesi affrontano contemporaneamente un nemico più vecchio: l’occupazione militare israeliana.

Gaza, sotto assedio e con un’alta densità di popolazione, è particolarmente esposta al rischio di una diffusa epidemia.

“Israele non potrà scaricare su qualcun altro le sue colpe se questo scenario da incubo dovesse divenire una situazione che ha determinato senza fare alcuno sforzo per evitarla”, ha ammonito questa settimana l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem .

Distanziamento fisico, permanenza a casa e cura dell’igiene sono precauzioni che i palestinesi si sforzano di adottare mentre Israele continua a demolire strutture, a condurre raid notturni, ad arrestare arbitrariamente bambini e ad angariare regolarmente i civili.

Confiscate le strutture per un ospedale da campo

Giovedì mattina le forze israeliane hanno demolito e confiscato strutture destinate a un ospedale da campo e ad alloggi di emergenza a Ibziq, un villaggio nella valle del Giordano settentrionale nella Cisgiordania occupata.

Ciò è stato fatto con la supervisione dell’Amministrazione Civile, il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana.

Le forze israeliane hanno confiscato tende, un generatore e materiali da costruzione.

“Chiudere un’attività di primo soccorso per la comunità durante una crisi sanitaria è un esempio particolarmente crudele dei regolari abusi inflitti a queste comunità”, ha affermato questa settimana l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.

Secondo il capo del consiglio del villaggio Abdul Majid Khdeirat, ciò è stato fatto con il pretesto che la costruzione si trovava in una zona militare interdetta.

Israele dichiara abitualmente le terre della Cisgiordania aree di tiro o zone militari e successivamente confisca il territorio a favore delle colonie israeliane illegali.

Le forze israeliane hanno anche demolito le case di tre famiglie palestinesi nel villaggio di al-Duyuk, vicino a Gerico.

Un bulldozer militare israeliano ha distrutto le case di Muayad Abu Obaida, Thaer al-Sharif e Yasir Alayan, perché sarebbero state costruite senza [quei] permessi che Israele non concede quasi mai ai palestinesi. Ciò non lascia loro altra scelta che costruire le case senza il permesso dell’occupante.

Tutti e tre gli agricoltori risiedono a Gerusalemme.

Decine di migliaia in condizioni di isolamento

Nel frattempo Israele sta valutando di isolare diversi quartieri della Gerusalemme est occupata, tagliando fuori decine di migliaia di palestinesi dal resto della città.

Quasi il 70% delle 100.000 persone del campo profughi di Shuafat ha un documento di residenza israeliano che consente loro di entrare a Gerusalemme.

“In caso di blocco questi abitanti saranno completamente isolati rispetto alla loro città, a cui si rivolgono per tutti i servizi di base, e ciò probabilmente porterà panico e disordini diffusi”, avverte Ir Amim, un’organizzazione israeliana impegnata per l’uguaglianza a Gerusalemme.

“Tale misura sarebbe un ulteriore passo avanti nella realizzazione dei piani israeliani di lunga data volti a ridisegnare i confini municipali di Gerusalemme, per separare formalmente quei quartieri da Gerusalemme”.

Israele userebbe il coronavirus come pretesto per tagliar fuori quei quartieri dal resto di Gerusalemme, nonostante in quei quartieri il numero di casi confermati sia considerevolmente più basso rispetto a Israele.

La popolazione più vulnerabile al mondo”

Le organizzazioni per i diritti umani mettono in guardia a proposito di un incombente disastro nel caso di una diffusa epidemia di COVID-19 a Gaza. Spesso definita la più grande prigione a cielo aperto del mondo, l’enclave costiera è sotto assedio israeliano dal 2007. Israele controlla lo spazio aereo e marittimo di Gaza e, insieme all’Egitto, i suoi confini terrestri.

Gaza è ancora sconvolta per le tre pesanti offensive militari israeliane [a partire] dal 2008.

Gli abitanti di Gaza [sono] tra le persone più vulnerabili del mondo alla pandemia globale di COVID-19”, ha dichiarato il gruppo palestinese per i diritti umani Al-Haq.

La crisi idrica e sanitaria causata dal prolungato blocco israeliano di Gaza mina “la capacità dei palestinesi di prevenire e mitigare adeguatamente gli effetti dell’epidemia di COVID-19”, ha aggiunto al-Haq.

Meno del 4% dell’acqua del territorio è adatto al consumo umano.

I moderni sistemi sanitari in Paesi come l’Italia e la Spagna stanno collassando sotto la pressione della pandemia.

Un’epidemia del nuovo coronavirus a Gaza, dove le infrastrutture sanitarie sono già sull’orlo del collasso, condurrebbe a “un disastro umanitario, interamente costruito da Israele”, ha affermato B’Tselem.

Israele abitualmente ritarda o nega a molti palestinesi i permessi per ricevere trattamenti sanitari fuori Gaza, concedendoli solo a una piccola parte delle persone che necessitano di cure mediche.”

“Ora non ci sarà più neanche questa minima possibilità”, ha detto B’Tselem.

La dott.ssa Mona El-Farra, responsabile sanitaria della Mezzaluna Rossa palestinese a Gaza, ha dichiarato a The Electronic Intifada che mancano letti, equipaggiamento protettivo e kit per i test.

“Non abbiamo abbastanza kit, finora abbiamo solo circa 200 kit per la diagnosi. Al momento abbiamo 2.500 persone in quarantena. Tutti hanno bisogno di essere testati.”

Il Qatar ha promesso 150 milioni di dollari [136 milioni di euro, ndtr.] nei prossimi sei mesi per aiutare gli sforzi delle Nazioni Unite contro il coronavirus a Gaza.

Sebbene questo possa aiutare a breve termine, solleva anche Israele dalle sue responsabilità di potenza occupante.

Nessun accesso ai servizi di emergenza

Adalah, un’organizzazione che sostiene i diritti dei palestinesi in Israele, afferma che i beduini palestinesi della regione meridionale del Naqab non hanno accesso ai servizi medici di emergenza.

Il Ministero della Salute israeliano impedisce a coloro che soffrono di febbre e sintomi respiratori di lasciare la propria casa. Se la loro salute peggiora, l’MDA, il servizio di ambulanza [corrispettivo israeliano della Croce Rossa, ndtr.], può prescrivere una visita domiciliare o l’invio in ospedale.

Tuttavia quei villaggi non hanno accesso alla MDA.

Domenica l’associazione ha inviato una lettera alle autorità israeliane chiedendo di fornire quei servizi ai 70.000 cittadini palestinesi di Israele che vivono in villaggi non riconosciuti.

“Per anni Israele ha mantenuto una politica di abbandono e discriminazione quando si trattava di fornire i normali servizi sanitari, così come servizi medici di emergenza, ai beduini con cittadinanza israeliana,” ha detto Adalah.

“In presenza della crisi coronavirus questa politica statale comporta ora un pericolo immediato per gli abitanti del posto e per il pubblico in generale.”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Abbas dichiara lo stato di emergenza per il diffondersi del coronavirus in Cisgiordania

Maureen Clare Murphy

6 marzo 2020 Electronic Intifada

Giovedì, dopo che nell’area di Betlemme sono stati diagnosticati sette casi di coronavirus, il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato lo stato di emergenza per un mese in Cisgiordania.

Fino a venerdì in Cisgiordania sono stati diagnosticati 19 casi.

L’agenzia di stampa Reuters ha riferito che Il Ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett ha ordinato la chiusura di Betlemme, secondo quanto riportato, in coordinamento con l’autorità palestinese, “con il divieto di trasferimenti di israeliani e palestinesi a partire dalla serata di giovedì”.

Il Ministro della Salute Mai Alkaila ha riferito che sette dipendenti palestinesi dell’Angel Hotel di Beit Jala, vicino a Betlemme, sono risultati positivi al virus. Si ritiene, ha aggiunto la Reuters, che lo abbiano contratto da turisti che hanno soggiornato di recente nell’hotel.

Più di una dozzina di turisti americani e 25 palestinesi, tra il personale e i clienti, sono stati messi in quarantena presso l’hotel.

Venerdì la direttrice dell’albergo Mariana Al-Ajra ha riferito ai media che gli ospiti non erano ancora stati sottoposti al test per il virus.

“Comprendiamo che è una situazione pesante per le autorità locali, ma non otteniamo da loro alcuna informazione”, ha detto alla CNN Chris Bell, un pastore dell’Alabama del gruppo di americani in quarantena.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che il Ministero della Salute dell’Autorità Nazionale Palestinese ha implementato, in conformità con le sue linee guida, la prevenzione e il controllo delle infezioni.”

“Rischio molto elevato”

Con circa 3.750 casi di coronavirus, dei quali più di 100 mortali, segnalati fino a giovedì nell’area mediterranea, l’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che la Cisgiordania e la Striscia di Gaza si trovano ad un livello di “rischio molto elevato”.

Fino a venerdì ci sono stati quasi 100.000 casi confermati di contagio in tutto il mondo, con 3.400 decessi.

L’organismo sanitario internazionale ha affermato che l’epidemia di Betlemme è dovuta a un gruppo di pellegrini greci presenti nell’area la settimana precedente, molti dei quali sono risultati positivi al virus al loro ritorno a casa.

Il gruppo di greci ha visitato Israele e la Cisgiordania in autobus.

Israele ha segnalato 21 casi di coronavirus, tra cui il palestinese di Gerusalemme est che guidava l’autobus turistico dei pellegrini greci. Le sue condizioni, è stato riferito, sono in “grave peggioramento” ed è sottoposto a ventilazione artificiale.

La dichiarazione senza precedenti da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese di uno stato di emergenza in Cisgiordania ha comportato la chiusura delle scuole per 30 giorni, il blocco per due settimane degli hotel agli ospiti stranieri e le restrizioni riguardanti grandi raduni pubblici.

Tuttavia, secondo quanto riferito venerdì dai media palestinesi, circa 3.000 turisti stranieri rimarranno a Betlemme nel periodo della chiusura dell’area e sono stati invitati a non lasciare i loro alberghi.

La Chiesa della Natività di Betlemme è stata chiusa, così come altre sedi di culto in città e altrove in Cisgiordania.

Il blocco di due settimane è un duro colpo per il settore del turismo di Betlemme, già notevolmente ridotto a causa dell’inasprimento delle restrizioni israeliane riguardanti gli spostamenti dallo scoppio della seconda Intifada nel settembre 2000.

Nessun caso segnalato a Gaza

Nessun caso di coronavirus è stato rilevato a Gaza. In collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le autorità del territorio assediato hanno allestito un’area chiusa dalla parte di Gaza del valico di Rafah con l’Egitto per mettere in quarantena i viaggiatori di ritorno da paesi in cui è presente il virus.

Una comparsa del coronavirus nella fascia costiera sarebbe solo l’ultimo di una serie di colpi al sistema sanitario di Gaza. Le infrastrutture sanitarie nel territorio sono state minate dal blocco israeliano imposto nel 2007 e dalle successive offensive militari.

Gli ospedali di Gaza hanno combattuto per far fronte al numero sbalorditivo di morti e di feriti, molti dei quali di lunga degenza e bisognosi di complessi interventi chirurgici, dovuti all’uso israeliano di armi da fuoco contro le proteste collettive lungo il confine tra Gaza e Israele.

A dicembre a Gaza si segnalava che quasi metà delle medicine essenziali erano sufficienti per un mese,e il 43% del tutto esaurito.

Per quanto finora sia stata risparmiata dal coronavirus, giovedì la tragedia ha colpito Gaza quando una sospetta fuga di gas ha causato un’esplosione e l’incendio di una panetteria in un affollato mercato nel campo profughi di Nuseirat.

Dieci persone, tra cui sei bambini, sono morte nel fuoco. Altre sessanta sono rimaste ferite, 14 delle quali gravemente.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)

 




Razzisti israeliani uniti contro il razzismo

Ali Abunimah

13 febbraio 2020 – The Electronic Intifada

Una nuova associazione chiamata “Israelis Against Racism” [Israeliani contro il Razzismo] afferma di voler debellare le discriminazioni, ma il fondatore del gruppo è sottoposto a sanzioni USA per traffico di armi e alcuni membri hanno precedenti di fanatismo contro non-ebrei e persone di colore.

In gennaio l’organizzazione ha tenuto un seminario a Netanya, città israeliana sulla costa. In quell’occasione la vice-sindaca [di Netanya] Shiri Hagoel-Saidon ha dichiarato che “il razzismo è diventato la piaga del XXI secolo, profondamente radicato in noi come società, e colpisce ogni strato della popolazione.” Non avrebbe potuto avere più ragione: uno dei luoghi in cui il razzismo e la violenza razzista sono più profondamente inseriti è la stessa “Israelis Against Racism”.

L’associazione ha potenti sostenitori, alcuni coinvolti in gravissimi crimini di guerra ed altri con scioccanti precedenti di fanatismo.

Eppure ciò non impedisce a “Israelis Against Racism” di tenere un pranzo di gala all’inizio di questo mese con il presidente israeliano Reuven Rivlin nella sua residenza ufficiale.

Condannato per traffico di armi

Il fondatore dell’organizzazione, Israel Ziv, è un generale sottoposto a sanzioni dagli USA perché secondo il dipartimento del Tesoro di Washington ha venduto armi a entrambi i contendenti nella sanguinosa guerra civile del Sud Sudan.

Secondo le autorità statunitensi Ziv ha utilizzato un’azienda agricola “come copertura per la vendita di circa 150 milioni di dollari di armi al governo, compresi fucili, lanciagranate e razzi con lanciamento a spalla.”

Avrebbe anche “progettato di organizzare attacchi di mercenari contro campi petroliferi e infrastrutture del Sud Sudan, nel tentativo di creare problemi che solo la sua impresa e quelle ad essa legate avrebbero potuto risolvere.” In conseguenza del fatto di essere stato inserito dalle autorità statunitensi nella lista nera come trafficante d’armi, Ziv ha subito il congelamento dei suoi conti bancari in Israele.

Ha presentato ricorso a un tribunale distrettuale e poi alla Corte Suprema, ma inutilmente,” ha informato il giornale di Tel Aviv Haaretz lo scorso mese. “Ora sta facendo appello contro l’inserimento nella lista nera da parte delle autorità USA.”

Ziv ha sempre negato strenuamente di essere un trafficante d’armi. Fa anche di tutto per intimidire quanti raccontano delle sue attività.

Nel 2017 Ziv ha denunciato il giornalista David Sheen per averlo citato in un articolo pubblicato da The Electronic Intifada in cui venivano elencati i principali razzisti israeliani.

Ziv e Sheen sono arrivati ad un accordo dopo che Ziv non è riuscito a dimostrare alcuna inesattezza concreta nell’articolo.

Nota agenzia di pubbliche relazioni

La reputazione di Ziv ha subito un colpo particolarmente duro quando i media israeliani hanno rivelato come stesse cercando di escogitare un piano per migliorare l’immagine di Salva Kiir, presidente del Sud Sudan, dopo che l’ONU aveva scoperto che il governo di Kiir promuoveva lo stupro sistematico di donne e minori da parte dei suoi soldati.

Può essere che Ziv ora speri di migliorare la sua stessa immagine per niente impeccabile guidando un’organizzazione con il nobile obiettivo di porre fine al razzismo?

Potrebbe essere la copertura perfetta, soprattutto in quanto inizialmente si è concentrato sugli etiopi di Israele, una comunità africana che soffre una parte del peggiore razzismo del Paese.

Questa impressione è certamente rafforzata dal fatto che “Israelis Against Racism” è stata costituita con l’aiuto di Parsi-Zadok Kucik Triwaks, un’agenzia di pubbliche relazioni che ha tra i suoi clienti il ministero della Difesa israeliano.

Questa agenzia si pubblicizza come il “partner esclusivo” della nota azienda di Washington “Hill and Knowlton”, che ora si chiama “Hill+Knowlton Strategies”.

Hill e Knowlton una volta era definita parte della “lobby della tortura”, per la quantità di denaro che aveva guadagnato rappresentando violatori dei diritti umani in tutto il mondo.

L’agenzia è forse meglio – o peggio – ricordata per aver orchestrato false testimonianze al Congresso sui soldati iracheni che toglievano bambini kuwaitiani dalle incubatrici per conquistare l’appoggio dell’opinione pubblica al coinvolgimento USA nella guerra del Golfo del 1991.

Ma, se Ziv spera che un’organizzazione “antirazzista” ripulirà la sua immagine, ha scelto come sostenitori alcuni bizzarri personaggi.

Sostenuta da criminali di guerra

Secondo un documento di “Israelis Against Racism” visionato da The Electronic Intifada, l’associazione ha ottenuto il sostegno di alcuni membri di alto profilo dell’esercito israeliano implicati in crimini di guerra.

Il documento elenca “membri del forum in attività” di “Israeli Against Racism”, tra cui il generale Amir Eshel, ex- capo dell’aviazione israeliana.

Eshel è stato recentemente denunciato in Olanda, insieme all’ex-capo dell’esercito Benny Gantz, per aver ordinato un bombardamento a Gaza che uccise sei membri della famiglia del cittadino palestinese-olandese Ismail Ziada.

I membri della famiglia Ziada furono tra i più di 2.200 palestinesi uccisi – in grande maggioranza civili – durante l’attacco del 2014 contro Gaza guidato da Gantz ed Eshel.

I due generali sono sfuggiti alle loro responsabilità in quanto lo scorso mese i giudici olandesi hanno concesso l’immunità ai crimini di guerra israeliani commessi in veste “ufficiale”.

Un altro membro del forum è Doron Almog, che nel 2005 sfuggì all’arresto da parte della polizia britannica in seguito ad imputazioni per crimini di guerra rifiutandosi di sbarcare da un volo El Al [compagnia aerea israeliana, ndtr.] che era appena atterrato all’aeroporto di Heathrow da Tel Aviv.

Ad essi si è unito Amos Gilad, una presenza fissa dell’establishment militare israeliano che ha promosso alcune delle politiche più repressive contro i palestinesi che protestavano contro l’occupazione militare israeliana.

C’è anche il colonnello Lior Lotan, che ha proposto di rapire palestinesi da usare come merce di scambio nelle trattative per il rilascio di soldati israeliani. La presa di ostaggi, come proposta da Lotan, è un crimine di guerra. Tra i sostenitori citati nel sito web di “Israelis Against Racism” ci sono sindaci di molte città israeliane e presidenti di importanti imprese, comprese l’Israeli Discount Bank e l’Israeli Electric Corporation. Ad essi si è unito Eliezer Shkedi, che ha comandato l’aeronautica israeliana dal 2004 al 2008, un periodo che include l’attacco israeliano contro il Libano del 2006 durante il quale le forze israeliane hanno lanciato un milione di bombe a grappolo.

Gli attacchi indiscriminati di Israele contro il Libano uccisero 900 civili.

Possono i razzisti lottare contro il razzismo?

Forse tutto ciò non sarebbe così vergognoso se “Israelis Against Racism” stesse realmente per mettere in pratica politiche concrete per lottare contro le discriminazioni.

Ma la sua principale iniziativa è invitare le persone a firmare un impegno personale a non essere razziste, come se ciò servisse a cambiare pratiche istituzionali profondamente radicate che perpetuano gravissime diseguaglianze. L’ “Associazione degli ebrei etiopi” ha accolto l’iniziativa in modo tutt’altro che entusiastico, evidenziando che la lotta contro le discriminazioni deve “iniziare dal razzismo istituzionalizzato che si trova nei corridoi del governo, tra i parlamentari e nelle politiche.

Dato che la maggior parte di loro fa parte delle stesse istituzioni che guidano le politiche razziste nei confronti della comunità etiope,” ha aggiunto l’associazione, “è naturale che l’elenco di persone che partecipano a questa iniziativa sollevi dei sospetti.”

Questo punto è sottolineato dai trascorsi dei “membri del forum” di “Israelis Against Racism”, compreso l’ex leader dell’opposizione Isaac Herzog e l’ex-capo della polizia Roni Alsheikh.

Herzog, che ora guida l’Agenzia Ebraica di Israele, ha definito i matrimoni misti tra ebrei e non-ebrei una “piaga” che ha promesso di eliminare.

Alsheikh, nel contempo, ha affermato che è “naturale” per la polizia essere più sospettosa nei confronti degli etiopi. Un altro membro del forum è il giornalista etiope-israeliano Danny Adino Abebe. Una volta ha sostenuto senza alcuna prova che circa 1.000 donne ebree etiopi-israeliane erano state rapite e trattenute contro la loro volontà da richiedenti asilo africani non ebrei. Questa affermazione senza fondamento avrebbe indubbiamente alimentato le fiamme del già crescente razzismo contro gli africani maschi.

La cerimonia di lancio di “Israelis Against Racism” presso la casa del presidente ha coinvolto numerose figure di alto profilo che sono salite sul podio ed hanno firmato pubblicamente l’impegno. Tra questi l’ex vice-ministro dell’Educazione Avi Wortzman, membro del partito ultra anti-palestinese “Casa Ebraica”. Nel 2013 Wortzman e i suoi colleghi di partito appoggiarono il noto razzista Shmuel Eliyahu nel tentativo coronato da successo di essere nominato uno dei due rabbini-capi di Israele.

Non importava che Eliyahu avesse sollecitato Israele a massacrare oltre un milione di palestinesi come metodo per schiacciare la resistenza al suo dominio militare.

Ha anche giustificato lo stupro da parte dei soldati e ha chiesto che gli ebrei non vendano o affittino case agli arabi.

È evidente, anche se per niente sorprendente, che “Israelis Against Racism” ignori totalmente i palestinesi.

I palestinesi sono di gran lunga le vittime più duramente colpite dal razzismo di Stato israeliano, sia come cittadini di seconda classe, sia come sottoposti a una brutale occupazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, sia come rifugiati a cui è negato il diritto al ritorno solo perché non sono ebrei.

Ma questo è il tipo di razzismo che tende ad unire Israele.

Forse un nome più adatto per la nuova organizzazione di Israel Ziv, che evidenzierebbe la sua assurdità e il suo cinismo, dovrebbe essere “Israeli Racist Against Racism” [Razzisti Israeliani contro il Razzismo].

Ali Abunimah è direttore esecutivo di The Electronic Intifada.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il “campo pacifista” di Israele rischia di scomparire

Jonathan Cook

7 Febbraio 2020 –The Electronic Intifada

Per il cosiddetto “campo pacifista” di Israele gli scorsi 12 mesi di elezioni generali – la terza è prevista il 2 marzo – sono stati vissuti come una continua roulette russa, con sempre minori opportunità di sopravvivenza.

Ogni volta che la canna della pistola elettorale è stata ruotata, i due partiti parlamentari collegati al sionismo liberale, Labour e Meretz, si sono preparati alla loro imminente scomparsa.

Ed ora che la destra israeliana ultranazionalista celebra la presentazione del cosiddetto “piano” per la pace di Donald Trump, sperando che porterà ancora più dalla sua parte l’opinione pubblica israeliana, la sinistra teme ancor di più l’estinzione elettorale.

Di fronte a questa minaccia Labour e Meretz – insieme ad una terza fazione di centro-destra ancor più minuscola, Gesher – a gennaio hanno annunciato l’unificazione in una lista unica in tempo per il voto di marzo.

Amir Peretz, capo del Labour, ha ammesso francamente che i partiti sono stati costretti ad un’alleanza.

“Non c’è scelta, anche se lo facciamo contro la nostra volontà”, ha detto ai dirigenti del partito.

Alle elezioni di settembre i partiti Labour e Meretz, presentatisi separatamente, hanno a malapena superato la soglia di sbarramento.

Il partito Labour, un tempo egemone, i cui leader hanno fondato Israele, ha ottenuto solo cinque dei 120 seggi in parlamento – il risultato più basso di sempre.

Il partito sionista più di sinistra, il Meretz,, ha ottenuto solo 3 seggi. È stato salvato solo dall’alleanza con due partiti minori, teoricamente di centro.

Sempre fragile

Anche al culmine del processo di Oslo alla fine degli anni ’90, il “campo pacifista” israeliano era una costruzione fragile, senza sostanza. Al tempo vi era un dibattito scarsamente rilevante tra gli ebrei israeliani riguardo a quali concessioni fossero necessarie per raggiungere la pace, e sicuramente riguardo a come potesse configurarsi uno Stato palestinese.

Le recenti elezioni, che hanno fatto del leader del Likud Benjamin Netanyahu il Primo Ministro israeliano più a lungo in carica, e la generale euforia riguardo al piano “di pace” di Trump, hanno indicato che l’elettorato ebraico israeliano favorevole ad un processo di pace – anche del tipo più blando – è del tutto scomparso.

Da quando Trump è diventato presidente, la principale opposizione a Netanyahu è passata dal Labour al partito Blu e Bianco, guidato da Benny Gantz, un ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano che è stato il responsabile della distruzione di Gaza nel 2014.

Il suo partito è nato un anno fa, in tempo per l’ultimo voto di aprile e nelle due elezioni generali dello scorso anno i partiti di Gantz e Netanyahu hanno praticamente pareggiato.

I commentatori, soprattutto in nord America e in Europa, hanno accomunato Blu e Bianco con Labour e Meretz come il “centro sinistra” israeliano. Ma il partito di Gantz non si è mai presentato come tale.

Si pone stabilmente a destra, attraendo gli elettori stanchi dei guai molto discussi sulla corruzione di Netanyahu –deve affrontare tre diverse imputazioni per frode e corruzione – o del suo continuo accondiscendere ai settori più religiosi della società israeliana, come i seguaci del rabbinato ortodosso e il movimento dei coloni.

Gantz e il suo partito si sono rivolti agli elettori che vogliono un ritorno ad un sionismo di destra più tradizionale e laico, che un tempo era rappresentato dal Likud – capeggiato da figure come Ariel Sharon, Yitzhak Shamir e Menachem Begin.

Non è stata quindi una sorpresa che Gantz abbia fatto a gara con Netanyahu nell’appoggiare il piano di Trump che sancisce l’annessione delle colonie illegali della Cisgiordania e della Valle del Giordano.

Ma le difficoltà della destra israeliana sono iniziate molto prima della nascita di Blu e Bianco. E per un po’ di tempo sia il Labour che il Meretz hanno cercato di reagire ostentando una linea più intransigente.

Abbandonare Oslo

Sotto la guida di diversi leader il Labour si è progressivamente allontanato dai principi degli accordi di Oslo che ha firmato nel 1993. Il discredito di quel processo è avvenuto in larga misura perché lo stesso Labour all’epoca ha rifiutato di impegnarsi in buona fede nei colloqui di pace con la leadership palestinese.

Nel 2011, dando un segnale generalmente interpretato come il riposizionamento del partito Laburista, la candidata alla sua guida ed ex capo del partito, Shelly Yachimovich, ha puntualizzato che le colonie, che violano il diritto internazionale, non erano un “peccato” o un “crimine”.

In un momento di sincerità ha attribuito direttamente al Labour la loro creazione: “È stato il partito Laburista che ha dato inizio all’impresa coloniale nei territori. Questo è un fatto. Un fatto storico.”

Questo graduale allontanamento dal sostegno anche solo a parole il processo di pace è culminato nell’elezione del ricco uomo d’affari Avi Gabbay come leader del partito Laburista nel 2017.

Nel 2014 Gabbay aveva contribuito a finanziare, insieme a Moshe Kahlon, un ex Ministro delle Finanze del Likud, il partito di destra Kulanu. Lo stesso Gabbay, benché non eletto, ha ricoperto brevemente un ruolo ministeriale nella coalizione di estrema destra di Netanyahu dopo le elezioni del 2015.

Una volta diventato leader del Labour, Gabbay ha fatto eco alla destra stralciando in gran parte il processo di pace dal programma del partito. Ha dichiarato che qualunque concessione ai palestinesi non doveva includere l’“evacuazione” delle colonie.

Ha anche suggerito che fosse più importante per Israele mantenere per sé l’intera Gerusalemme, compresa la parte est occupata, piuttosto che raggiungere un accordo di pace.

Il suo successore (e due volte predecessore) Amir Peretz potrebbe sembrare teoricamente più moderato. Ma ha mantenuto legami con il partito Gesher, fondato da Orly Levi-Abekasis alla fine del 2018.

Levi-Abekasis è un ex deputato di Yisrael Beitenu [Israele è casa nostra], il partito di estrema destra che è ripetutamente entrato nei governi di Netanyahu ed è guidato da Avigdor Lieberman, ex Ministro della Difesa e colono.

Abbandonare la minoranza palestinese di Israele.

Il Meretz ha intrapreso un percorso ancor più drastico di allontanamento dalle proprie origini di partito pacifista, lo scopo per il quale è stato espressamente creato nel 1992.

Fino a poco tempo fa il partito aveva l’unico gruppo parlamentare apertamente impegnato per la fine dell’occupazione e posto i colloqui di pace al centro del proprio programma. Tuttavia, a partire dall’indebolimento (degli accordi) di Oslo alla fine degli anni ’90, non ha mai conquistato più di una mezza dozzina di seggi.

Di fatto dal 2014 il Meretz si è pericolosamente avvicinato alla scomparsa elettorale. In quell’anno il governo Netanyahu ha alzato la soglia elettorale a quattro seggi per poter entrare in parlamento, nel tentativo di eliminare quattro partiti che rappresentavano l’ampia minoranza di 1,8 milioni di cittadini palestinesi di Israele.

I partiti palestinesi hanno reagito creando una Lista Unita per superare la soglia. Ed in un chiaro esempio di conseguenze impreviste, la Lista Unita è attualmente il terzo più grande partito della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.].

Da parte sua, il Meretz è stato lacerato dalle divisioni su come procedere.

Dopo le elezioni di aprile dello scorso anno, in cui a fatica ha superato la soglia, nel Meretz ci sono state voci che chiedevano di prendere una nuova direzione, promuovendo la partnership ebraico-araba. I suoi molto votati rappresentanti “arabi”, Issawi Freij e Ali Salalah, si dice abbiano salvato il partito raccogliendo in aprile un quarto dei voti dai cittadini palestinesi di Israele, quelli che rimasero di quanti vennero espulsi dalle proprie terre nel 1948 durante la Nakba.

La minoranza palestinese è diventata sempre più politicamente polarizzata, esasperata dall’incapacità dei partiti ebraici di affrontare le sue preoccupazioni riguardo alla sistematica discriminazione che subisce.

I più votano per la Lista Unita. Ma una piccola parte della minoranza palestinese sembra stanca di gettare via quello che finisce per essere un voto di protesta.

Di fronte ad una sempre più forte istigazione anti-araba da parte della destra, guidata dallo stesso Netanyahu, alcuni erano sembrati pronti ad andare verso la società ebraica israeliana attraverso il Merertz.

Alcuni dirigenti del Meretz, guidati da Freij, hanno anche proposto di scindere la Lista Unita e creare un’alleanza con alcuni dei suoi partiti, soprattutto Hadash-Jebha, un’alleanza socialista che già include un gruppo ebraico minoritario.

Ma nella corsa al voto di settembre i dirigenti del Meretz hanno di fatto cassato qualunque ulteriore intenzione di promuovere questi tentativi di collegamento con la minoranza palestinese. In luglio il partito ha istituito un nuovo gruppo, chiamato Unione Democratica, con due nuovi partiti guidati da ex politici del Labour – il Movimento Verde di Stav Shaffir e il partito Democratico di Ehud Barak.

Improbabili alleati

Shaffir si era inimicata molti cittadini palestinesi durante le brevi proteste per la giustizia sociale nel 2011 in cui si è messa in risalto. I leader della protesta hanno lavorato sodo per mantenere a distanza i cittadini palestinesi e hanno ignorato le questioni relative all’occupazione, in modo da creare un’ampia coalizione ebraica sionista.

I precedenti di Barak – l’ex Primo Ministro è stato colui che ha messo il campo pacifista sulla sua strada di autodistruzione dichiarando che i palestinesi non erano “partner per la pace” –erano ancor più problematici.

Ha descritto il suo partito Democratico come “a destra del partito Laburista”. Il suo programma non faceva menzione di una soluzione di due Stati e della necessità di porre fine all’occupazione.

Nitzan Horowitz, il leader del Meretz, in quel momento ha giustificato l’alleanza in base al fatto che “abbiamo bisogno di aumentare la nostra forza (elettorale)”.

E, a parte il ruolo di Barak nell’ostacolare il processo di Oslo, nel 2000 come Primo Ministro all’inizio della seconda intifada diresse anche una violenta repressione poliziesca delle proteste civili dei cittadini palestinesi, in cui furono uccise 13 persone.

L’anno seguente Barak perse le elezioni a Primo Ministro dopo che i cittadini palestinesi infuriati boicottarono in massa il voto, di fatto spianando la strada alla vittoria del suo sfidante del Likud, Ariel Sharon.

Solo l’anno scorso, vent’anni dopo, Barak ha espresso le scuse per il suo ruolo in quelle 13 morti, come verosimile prezzo per entrare nell’alleanza con Meretz.

Ora il Meretz ha rotto l’alleanza con Barak e Shaffir. Ma facendolo, si è spostato ancor più a destra. Il suo accordo elettorale di gennaio con Labour e Gesher per le elezioni del 2 marzo sembra chiudere la porta ad ogni futura alleanza arabo-ebraica.

Il Meretz ha relegato Freij, il suo candidato palestinese di punta, in una irrealistica undicesima posizione [nella lista dei candidati].

Recenti sondaggi indicano che la nuova coalizione si aggiudicherà solo nove seggi.

Un improbabile scenario

Né il Meretz né il Labour hanno mai veramente rappresentato un significativo campo pacifista. Entrambi hanno una storia precedente di entusiastico appoggio a ogni recente guerra che Israele ha lanciato, benché parti del Meretz abbiano avuto abitualmente dei ripensamenti quando le operazioni si prolungavano e aumentavano le vittime.

Pochi, anche nel Meretz, hanno chiarito che cosa significhi il campo pacifista o come considerino uno Stato palestinese.

La “prospettiva” di Trump ha risposto a queste domande in modo del tutto negativo per i palestinesi. Ma il suo piano si allinea ai sondaggi che indicano che molto meno della metà degli ebrei israeliani sostiene alcun tipo di Stato palestinese, praticabile o no.

Ugualmente problematico per i sionisti liberali del Meretz e del partito Laburista è come contrastare la sistematica discriminazione nei confronti dei cittadini palestinesi di Israele senza compromettere lo status ebraico dello Stato imposto per legge.

I fondamenti sionisti di Israele implicano privilegi per i cittadini ebrei rispetto a quelli palestinesi, dall’immigrazione ai diritti sulla terra e la separazione tra le due popolazioni negli ambiti sociali, dalla residenza all’istruzione.

Ma senza qualche forma di accordo con la minoranza palestinese è impossibile immaginare come il cosiddetto campo pacifista possa ottenere qualche successo elettorale, come previsto l’anno scorso dall’ex leader del Meretz Tamar Zandberg.

L’enigma è che sottrarre potere alla destra estremista e religiosa guidata da Netanyahu dipende da una quasi impossibile alleanza sia con la destra laica e militarista guidata da Gantz, sia con la Lista Unita.

Dato il razzismo anti-arabo dilagante nella società israeliana, nessuno crede davvero che una tale configurazione politica sia realizzabile. Questo è in parte il motivo per cui Netanyahu, gli estremisti religiosi e i coloni continuano a dettare l’agenda politica, mentre il “centro-sinistra” israeliano rimane a mani vuote.

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale per il Giornalismo ‘Martha Gellhorn’.

I suoi ultimi libri sono: ‘Israel and the clash of civilization: Iraq, Iran and the plan to remake the Middle East’ [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ridefinire il Medio Oriente] (Pluto Press) e ‘Disappearing Palestine: Israel’s experiments in human despair’ [Palestina che scompare: esperimenti israeliani di disperazione umana] (Zed Books).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




I tagli dell’ANP provocano uno shock a Gaza

Isra Saleh el-Namey

10 febbraio 2020 – The Electronic Intifada

Inam Ibrahim non dimenticherà presto la mattinata faticosa e deludente che di recente ha dovuto affrontare. La donna cinquantatreenne ha aspettato per cinque ore all’interno della sua banca per ricevere il suo regolare sussidio da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese. Invece un impiegato le ha detto che il suo conto era vuoto e non c’era denaro da prendere. “Lo scorso dicembre” ha detto a The Electronic Intifada “ho seguito ansiosamente alla radio le notizie sui tagli da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese e sono rimasta in attesa di qualunque cosa riguardasse la distribuzione delle indennità. Ho cercato di andare presto in banca per riscuotere i sussidi per me e mia sorella. Ma quando ho saputo che non c’era niente da ritirare, sono scoppiata in lacrime e sono tornata a casa con il cuore spezzato.”

Inam e sua sorella sono entrambe cinquantenni, nubili e non hanno nessun’altra fonte di reddito a parte l’aiuto governativo. Ogni tre mesi le sorelle aspettano una sovvenzione totale di 220 dollari che le aiuti a coprire le necessità economiche.

L’assegnazione è gestita dall’Autorità Nazionale Palestinese, che ha sede nella città cisgiordana occupata di Ramallah.

Con quel sussidio pagavo alcune delle medicine per i miei forti dolori alla schiena e potevo andare spesso dal dottore,” afferma Inam. “Mia sorella Muna, che ha 56 anni, ogni volta prende la sua parte per le sue necessità. Quando otteniamo quei soldi paghiamo anche i debiti al negozio di alimentari.”

I nostri genitori,” dice Inam, “sono morti da molto tempo e nostro fratello vive con la sua famiglia lontano da noi. Riesce a malapena a mantenerla. Quindi non abbiamo altro che questo sussidio. Ne abbiamo bisogno. Le persone povere e in difficoltà come noi non devono essere coinvolte dai problemi politici.”

Shock

Molte altre persone si sono trovate ad affrontare lo stesso shock a causa dei tagli degli aiuti.

Aziza al-Kahlout, portavoce del ministero degli Affari Sociali di Gaza, dice a The Electronic Intifada che nelle ultime settimane più di 1.470 famiglie hanno sofferto dei tagli ai loro sussidi. Il ministero ha ricevuto molte lamentele e richieste da parte di famiglie perché approfondisca la questione.

Le famiglie sono scioccate” afferma. “Abbiamo difficoltà quando cerchiamo di spiegare loro la situazione e che stiamo facendo ogni sforzo per far capire ai politici di Ramallah le loro sofferenze. Allo stesso tempo continuiamo a coordinarci con i colleghi di Ramallah per risolvere questo problema”.

Aggiunge che il personale del ministero ha condotto verifiche su tutte le famiglie colpite dai tagli. Il ministero ha stabilito che tutti, tranne due casi, hanno diritto a ricevere le somme intere in quanto la maggioranza si trova in gravissime condizioni economiche o soffre di gravi malattie come cancro o insufficienza renale.

Altre ancora sono vedove o donne divorziate che devono occuparsi di bambini o giovani disabili. “La situazione è molto pesante” sottolinea Kahlout. “Ricevo visite quotidiane di persone che vengono a controllare cosa ne è dei loro casi e per sapere se saranno pagate o meno. Questi tagli drastici ed arbitrari determinano il fatto che parecchie migliaia di donne e bambini poveri siano lasciati senza cibo o cure.”

Abbiamo spiegato la situazione ai nostri colleghi di Ramallah e li abbiamo avvertiti delle sofferenze delle persone qui, ma finora la situazione non è cambiata.”

Al-Kahlout sostiene anche che il suo ministero deve far fronte a molte difficoltà nel seguire i casi, registrarli e aggiornare i dati, in quanto il ministero a Ramallah ha impedito ai suoi colleghi di avere accesso ai documenti che classificano le famiglie in possesso dei requisiti.

Negarci l’accesso a questa documentazione fondamentale ha reso il nostro lavoro ancora più difficile. Dovremmo poter accedervi in quanto Gaza ha più di 60.000 casi registrati.”

Ulteriore assistenza a un maggior numero di persone a Gaza è fornita dall’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi. Il solo aiuto alimentare a Gaza arriva a circa un milione di rifugiati.

Futuro in pericolo”

A Gaza famiglie con problemi di salute sono colpite dai drastici tagli nello stesso modo di quelle con difficoltà economiche.

Per Muhammad al-Bashiti la vita è diventata un inferno dopo che la sua ultima fonte di reddito è finita.

Il quarantaseienne stava aspettando il denaro per pagare la retta universitaria di suo figlio in modo che il giovane potesse ottenere i voti dei suoi esami più recenti ed iscriversi al semestre successivo. “Ho promesso a mio figlio, che studia legge all’università Al-Azhar, che gli avrei dato la cifra di cui ha bisogno in modo che possa finire la sua formazione. Ora il futuro di mio figlio è in pericolo,” afferma. Al-Bashiti ha sei figli, tutti a scuola o all’università.

La sua famiglia dipende principalmente dall’assistenza. Dice che ogni tre mesi riceve aiuti alimentari dalle Nazioni Unite, che aiutano a rifornire la famiglia di farina, riso e olio. E il sussidio dell’ANP, che riceve in contanti, copre alcune delle altre spese indispensabili.

Sono andato al ministero di Gaza per lamentarmi dei tagli ed hanno mandato i loro impiegati a controllare la mia situazione,” sostiene al-Bashiti. “Hanno scoperto che ho veramente bisogno di questo sussidio. Spero che non gli ci voglia molto per risolvere la questione.”

Vogliamo che ci venga pagato quello che abbiamo perso,” aggiunge, “e che non ci siano più tagli.”

In un comunicato il ministro degli Affari Sociali con sede a Ramallah Ahmad Majdalani ha affermato che più di 100.000 famiglie palestinesi, di cui circa 70.000 a Gaza, ricevono questa assistenza.

Ha sostenuto che l’ultima distribuzione di fondi è costata più di 27 milioni di dollari, rilevando che circa 2.000 nuove famiglie, di cui 1.500 di Gaza e altre 500 in Cisgiordania, sono state aggiunte alla lista.

Ha sostenuto che le famiglie sono state escluse se hanno un’altra fonte di reddito e non hanno più bisogno di aiuti.

Però questa spiegazione non riesce ad alleviare la sofferenza e il disappunto di Khalil Abu Amra dopo che non ha ricevuto il suo sussidio.

Ho un tumore. Ho bisogno dei soldi per continuare le mie cure e salvarmi la vita in modo che i miei quattro figli non rimangano orfani di padre,” dice il trentanovenne con la voce rotta. “Abbiamo bisogno che questo problema venga risolto in fretta. Rivogliamo i nostri diritti. Questo è scorretto.”

Isra Saleh el-Namey è una giornalista di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele uccide quattro palestinesi in Cisgiordania

Maureen Clare Murphy

6 Febbraio 2020– Electronic Intifada

Mercoledì e giovedì le forze di occupazione israeliane hanno ucciso quattro palestinesi in Cisgiordania, anche nella Città Vecchia di Gerusalemme.

Il ministero della Salute nei territori ha informato che un quinto palestinese, Khalil al-Adham, è morto giovedì per le ferite dopo essere stato colpito sabato da forze israeliane nel nord della Striscia di Gaza.

Giovedì diversi soldati israeliani sono rimasti feriti in tre attacchi.

Le forze israeliane hanno detto di aver inseguito un attentatore che all’inizio della giornata ha aperto il fuoco contro un gruppo di soldati fuori da una colonia nei pressi di Ramallah, la capitale dell’Autorità Nazionale Palestinese. Un soldato è stato ricoverato in ospedale per lievi ferite alla testa.

Giovedì prima dell’alba un automobilista si è lanciato contro un gruppo di soldati a Gerusalemme ovest, ferendone 12, di cui uno gravemente. A fine giornata Israele ha arrestato il presunto aggressore, un venticinquenne abitante di Gerusalemme est.

I media israeliani hanno informato che i soldati, della Brigata Golani, “stavano visitando Gerusalemme prima di una cerimonia di giuramento la mattina presto al Muro del Pianto”.

Sulle reti sociali soldati della Brigata Golani hanno incitato all’assassinio di palestinesi e sono sospettati di aver perpetrato crimini di guerra a Gaza.

Giovedì sera un cittadino palestinese di Israele è stato ucciso dopo aver aperto il fuoco contro agenti della polizia di frontiera israeliana fuori dal complesso della moschea di al-Aqsa, nella Città Vecchia di Gerusalemme.

Media israeliani hanno identificato l’aggressore palestinese ucciso come Shadi Banna, 45 anni, di Haifa [in Israele, ndtr.].

Riprese di una telecamera di sorveglianza israeliana mostrano Banna avvicinarsi ad un gruppo di agenti della forza paramilitare di polizia ed aprire il fuoco con una pistola. Il video sembra mostrare il momento in cui Banna viene colpito. Quando finisce il filmato dell’incidente sta ancora correndo lontano dalla scena.

La polizia israeliana ha affermato che un poliziotto è rimasto leggermente ferito.

Letale incursione per la demolizione di una casa

Giovedì due palestinesi, compreso un agente di polizia, sono stati uccisi durante un’incursione israeliana per la demolizione di una casa nella città di Jenin, nel nord della Cisgiordania.

Forze di occupazione hanno fatto irruzione nella città per distruggere per la seconda volta una casa della famiglia di Ahmad Qanbaa, un palestinese arrestato da Israele per il suo presunto ruolo in un attacco armato che due anni fa ha ucciso un colono.

“I soldati prima hanno demolito l’edificio nel 2018, ma poi è stato ricostruito,” hanno informato i mezzi di comunicazione israeliani.

Secondo il Centro Palestinese per i diritti umani otto persone, compresi due minori, vivevano nella casa demolita giovedì.

Dalla fine del 2015 Israele ha accelerato le demolizioni delle abitazioni di famiglie di palestinesi sospettati di avere attaccato israeliani.

Queste misure di punizione collettiva sono una violazione della Quarta Convenzione di Ginevra, che Israele ha ratificato.

Mettono anche in evidenza il razzismo istituzionalizzato di Israele, dato che tali punizioni non vengono mai comminate a famiglie di ebrei israeliani che aggrediscono palestinesi.

Alcuni palestinesi si sono riuniti sul luogo della demolizione e si sono scontrati con le forze di occupazione. I militari hanno utilizzato contro i manifestanti proiettili veri, pallottole ricoperte di gomma e lacrimogeni.

Secondo il “Centro Palestinese per i Diritti Umani” Yazan Munthir Khalid Abu Tabikh, 19 anni, è stato colpito al petto ed è morto sul colpo.

Dopo la sua morte fotografie di Abu Tabikh durante il pellegrinaggio alla Mecca sono state fatte circolare dai mezzi di informazione palestinesi.

Un video ha ripreso la sparatoria contro un secondo palestinese ferito a morte durante l’incursione. Le immagini mostrano Tariq Ahmad Luay Badwan, 24 anni, in piedi nell’ingresso di una stazione di polizia e totalmente inoffensivo, quando cade a terra. Colpito al ventre da un proiettile vero, più tardi è morto in ospedale lo stesso giorno.

Adolescente ucciso a Hebron

Il quarto palestinese ucciso in Cisgiordania questa settimana, il sedicenne Muhammad Suleiman al-Haddad, è stato colpito varie volte al petto mercoledì durante una protesta nella città di Hebron.

Israele ha sostenuto che al-Haddad aveva lanciato una bottiglia molotov contro i soldati.

Il“Centro Palestinese per i Diritti Umani” ha informato che al-Haddad è stato colpito da un cecchino dell’esercito israeliano che si trovava su un tetto nei pressi del checkpoint di via Shuhada a Hebron.

Il gruppo per i diritti umani ha affermato: “La sparatoria sarebbe avvenuta durante una protesta organizzata da decine di giovani che hanno lanciato pietre contro (le forze di occupazione israeliane) ed hanno bruciato copertoni.”

L’adolescente è stato il primo palestinese ucciso da quando lo scorso martedì è stato reso noto il piano per il Medio Oriente del presidente USA Donald Trump.

Secondo il “Centro Palestinese per i Diritti Umani” in Cisgiordania le forze israeliane hanno represso più di 60 manifestazioni di protesta contro il piano di Trump.

L’associazione ha affermato che “in seguito a ciò decine di civili sono stati colpiti e feriti con proiettili veri e pallottole ricoperte di gomma, oltre a molti altri (ricoverati) in seguito all’inalazione di gas lacrimogeni.”

Attacchi aerei e punizione collettiva contro Gaza

Nel contempo nelle prime ore di giovedì Israele ha preso di mira quelle che ha definito posizioni di Hamas a Gaza dopo che palestinesi del territorio avrebbero lanciato colpi mortaio e palloni incendiari verso Israele.

Non ci sono notizie di feriti in seguito agli attacchi aerei di Israele o al fuoco di mortai e palloni incendiari da Gaza.

Il COGAT, braccio amministrativo dell’occupazione militare israeliana, ha affermato che mercoledì, “in seguito al continuo lancio di razzi e di palloni incendiari,” Israele ha ulteriormente ridotto la zona di pesca consentita lungo le coste di Gaza

Lo scorso anno Israele ha annunciato per 20 volte modifiche dell’accesso alle acque territoriali di Gaza. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha utilizzato l’industria peschiera di Gaza come un “mezzo di pressione” – una definizione utilizzata dal quotidiano di Tel Aviv “Haaretz” – sui 2 milioni di palestinesi che dal 2007 vivono nel territorio sottoposto a un blocco molto rigido.

Giovedì il gruppo per i diritti umani “Gisha” ha affermato che le restrizioni frequentemente modificate sui pescatori “provocano un danno deliberato ad uno dei più vulnerabili e importanti settori [economici] di Gaza in risposta ad azioni che nessuno sostiene siano in alcun modo legate ai pescatori della Striscia.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Come possono le università contrastare le minacce della lobby israeliana?

Nora Barrows-Friedman

23 gennaio 2020 – Electronic Intifada

Un gruppo di destra di sostegno a Israele ha accusato di antisemitismo professori progressisti del college comunitario di Brooklyn, New York.

Sta minacciando di azioni legali i docenti in base al loro percepito sostegno ai diritti dei palestinesi.

Tali accuse fanno parte di un attacco in espansione contro studenti e docenti presso università statunitensi da parte di gruppi della lobby israeliana al fine di criminalizzare l’organizzazione di solidarietà con la Palestina facendo una cosa sola della critica di Israele e del fanatismo antiebraico.

Il Lawfare Project rappresenta un professore di destra del Kingsborough Community College che nel 2016 aveva collaborato con il gruppo per avviare una causa legale contro il college.

Il Lawfare Project ha anche minacciato di citare in giudizio docenti nell’ottobre del 2018.

Il gruppo mira a mettere a tacere attivisti, docenti e studenti, avviando cause legali contro di loro e diffamando quali antisemiti i sostenitori dei diritti dei palestinesi.

Il direttore del gruppo, Brooke Goldstein, ha affermato che “non esiste qualcosa come una persona palestinese”.

Il mese scorso ha presentato una denuncia federale contro la Columbia University per conto di uno studente ebreo israelo-statunitense.

La denuncia afferma che lo studente è stato vittima di “discriminazione antisemita” a causa di attività di studenti e docenti che sostengono i diritti dei palestinesi.

In particolare, la denuncia invoca il decreto presidenziale firmato a dicembre dal presidente Donald Trump che consente che mere accuse di antisemitismo contro critici di Israele nei campus determinino lunghe inchieste da parte del governo e possibili restrizioni dei finanziamenti.

Nel frattempo Anthony Alessandrini, uno dei professori accusati a Kingsborough e membro del Progressive Faculty Caucus (PFC), è stato oggetto di molestie e diffamazioni.

Nel marzo del 2019 Alessandrini, che insegna letteratura, ha ricevuto una lettera anonima nella casella del suo college che diceva: “Questo è un avvertimento per te e altri del PFC. Guardati le spalle!!!”

Ha dichiarato a The Electronic Intifada di aver anche trovato una scritta su un volantino alla porta del suo ufficio che diceva “Od Kahane Chai”: Kahane vive ancora.

Meir Kahane, che aveva fondato la violenta Jewish Defense League di destra, promuoveva la totale espulsione dei palestinesi dalla loro patria.

Il partito israeliano fondato da Kahane – Kahane Chai, o Kach – è classificato dal Dipartimento di Stato USA come un’organizzazione terroristica straniera.

Ad Alessandrini è stata assegnata una scorta del campus, che è continuata fino alla fine del semestre. La polizia del campus gli ha chiesto se volesse avanzare querele, ma poiché le scritte erano anonime, era difficile accusare direttamente qualcuno.

Ma invece di concentrarsi su chi potesse aver minacciato Alessandrini e i suoi colleghi, l’amministrazione di Kingsborough e la sua casa madre, l’Università della Città di New York (CUNY), ha intensificato una serie di indagini sul Progressive Faculty Caucus.

I docenti ritengono che esse siano state avviate in seguito alle minacce del Lawfare Project.

La CUNY ha recentemente assunto uno studio legale esterno per gestire l’attuale tornata delle indagini.

Alessandrini ha dichiarato a The Electronic Intifada che lui e diversi colleghi di Kingsborough sono stati convocati tre volte per interrogatori a proposito di “accuse molto simili, e totalmente infondate” di antisemitismo.

Con l’aiuto di legali, Alessandrini sta chiedendo di incontrare gli amministratori per affrontare quello che definisce un “processo di molestie” da parte del Lawfare Project e dei docenti e amministratori di destra che collaborano con esso.

L’amministrazione del college, non ha mostrato, se mai l’ha mostrata, grande spina dorsale nell’affrontare Lawfare”, ha aggiunto.

Alessandrini ha detto che c’è stato un unico gruppo di discussione riguardo all’organizzazione sulla Palestina nei 15 anni nei quali egli fa parte del corpo docente. Non c’è alcuna sezione di Students for Justice in Palestine [Studenti per la giustizia in Palestina] a Kingsborough.

Kingsborough è forse un precedente giudiziario su quanto in là possono spingersi gruppo lobbistici israeliani nel molestare preventivamente docenti e studenti per ridurli al silenzio, specialmente alla luce dell’intensificazione da parte del governo statunitense degli attacchi contro istituzioni pubbliche.

Se questo è un precedente, è un precedente per capire quale effetto agghiacciante si possa creare in una università pubblica affinché amministratori già pavidi dovranno preoccuparsi che il parlamento statale, o il governatore, ci attacchino”, ha detto Alessandrini.

Diffamazioni e attacchi

Il Progressive Faculty Caucus di Kingsborough è nato dopo l’elezione di Trump nel 2016 per sostenere le cause di professori e progressisti di sinistra di fronte al crescente clima politico e sociale di destra.

Alessandrini ha detto che membri di destra del corpo docente hanno cominciato ad accusare il caucus di discriminazione e ne hanno incolpato i membri di diversi atti di vandalismo antisemita contro professori ebrei.

Il caucus, che include membri ebrei, ha pubblicamente condannato il vandalismo.

Media di destra locali e nazionali – e gruppi di sostegno a Israele come StandWithUs – sono balzati sulla vicenda alimentando le diffamazioni contro i docenti.

Michael Goldstein, un amministratore di Kingsborough che è stato dietro a molte delle accuse, ha descritto Alessandrini come il “burattinaio” del caucus progressista.

Il Jewish Journal ha additato il coinvolgimento di Alessandrini in Students for Justice in Palestine, il suo sostegno alla campagna Boicottaggio, Disinvestimenti e Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi e la sua critica dell’apartheid israeliano come prova di antisemitismo.

Professori di tutto il sistema della CUNY hanno denunciato le accuse contro i docenti progressisti e si sono schierati a sostegno del diritto dei loro colleghi di “organizzarsi, ricercare e scrivere a proposito dei temi urgenti del nostro tempo.

L’antisemitismo di destra “ottiene un lasciapassare”

A novembre è stato rivelato che un ex docente di Kingsborough e di altre istituzioni della CUNY è un nazionalista bianco ed è stato un frequente co-conduttore di un podcast con il notorio neonazista Richard Spencer.

Spencer ha detto in un’occasione che si rivolge a Israele per guida e ha fatto riferimento al suo desiderio di uno stato etnico europeo in America del Nord come a “sionismo bianco”.

Amministratori del college hanno dichiarato al gruppo Right Wing Watch [Osservatorio della destra] che il professor Joshua Dietz “non lavora attualmente per Kingsborough” e non hanno detto se il college era a conoscenza della sua ideologia quando vi era impiegato.

Kingsborough non ha risposto alle richieste di commenti da parte di Electronic Intifada.

Quando Alessandrini e altri hanno cominciato a chiedere risposte riguardo alla posizione di Dietz presso il college, egli ha detto che la presidente di Kingsborough, Claudia Schrader, li ha criticati come “non professionali” e “non collegiali”.

È indicativo del clima attuale che accuse contro professori di sinistra siano “prese sul serio e perseguite quanto più duramente possibile” mentre “l’antisemitismo di destra è semplicemente cancellato del tutto dalla conversazione”, ha detto Alessandrini.

Le minacce legali, ha detto, hanno determinato paura di discutere di qualsiasi questione personale: il Lawfare Project “ha scoperto che le minacce di una causa legale, nel clima attuale, che ci siano o no basi per essa, che qualcuno ritenga o no che possa essere vinta, sono una cosa realmente potente oggi”.

È inaccettabile in un luogo come la CUNY che non ci sia stata una reazione più forte”, ha aggiunto Alessandrini.

Contrastare le minacce

Kingsborough non è la sola istituzione di New York nel mirino degli attacchi della lobby israeliana e di pressioni di donatori che vogliono proteggere Israele da critiche.

In precedenza in questo mese un insegnante di storia delle superiori, JB Brager, è stato licenziato dal suo posto presso la Ethical Culture Fieldston School del Bronx per tweet critici di Israele e del sionismo.

In una lettera pubblicata martedì sul The New York Times Brager ha scritto di “non credere che sia diritto di una qualsiasi sigla o fazione della comunità ebrea dichiararsi opinione prevalente”.

Non c’è un solo modo di essere ebrei e il sionismo è sempre più riconosciuto come una politica di fatto razzista. Io sono un orgoglioso insegnante ebreo antisionista e appartengo alla mia classe scolastica”, ha aggiunto Brager.

Quasi 80 leader spirituali ebrei hanno condannato il licenziamento di Brager e hanno sollecitato la scuola a riassumerlo. “È irresponsabile e pericoloso fare una cosa sola delle critiche di Israele e dell’antisemitismo”, dicono i leader.

Gli insegnanti non dovrebbero aver timore di perdere il posto per criticare Israele o semplicemente per insegnare riguardo ai diritti umani dei palestinesi. Questo non è un ambiente che contribuisce all’apprendimento”, ha detto Radhika Sainath, capo dello staff legale del gruppo per i diritti civili Palestine Legal, che sta offrendo assistenza legale a Brager.

Nel giugno del 2018 una scuola privata d’élite di New York ha cancellato un corso di un insegnante di storia sulla Palestina, inducendo l’insegnante veterano, che è ebreo, a dimettersi.

Un altro insegnante della stessa scuola è stato punito dopo aver apposto sulla porta della sua classe i nomi dei palestinesi colpiti dall’esercito israeliano.

Assistiti dall’American Jewish Committee, un importante gruppo lobbistico israeliano, genitori della Riverdale Country School hanno diffamato insegnanti quali antisemiti e suprematisti bianchi. Una persona risulta aver evocato il movimento #MeToo, paragonando gli insegnanti a predatori sessuali.

Alessandrini ha detto che dopo il decreto presidenziale di Trump e le montanti minacce della lobby israeliana, è imperativo che le amministrazioni dei college sostengano gli studenti e il loro diritto di organizzarsi.

Anche il corpo docente “ha una quantità di auto-organizzazione da realizzare”, ha aggiunto.

Quelli di noi che oggi sono di ruolo e hanno una relativa sicurezza istituzionale dovrebbero cercare di creare una rete per proteggere i professori non di ruolo, gli assistenti e i laureandi che vogliono organizzarsi per i diritti dei palestinesi”.

Parte di tale lavoro organizzativo consisterebbe nel condurre ricerche su gruppi quali Lawfare Project e nell’informare gli amministratori universitari circa le loro intenzioni, anziché assumere posizioni difensive.

Ricordo i giorni realmente iniziali del movimento BDS, quando stava appena decollando”, ha detto.

Se mi aveste detto all’epoca che il presidente degli Stati Uniti avrebbe fatto valere il suo peso su questo, scrivendo un decreto presidenziale, vi avrei detto che eravate pazzi, che sarebbe stato sorprendente se si fosse potuti arrivare a quel punto. Ma è successo”.

Ciò ha avuto a che fare con l’effetto avuto dalle campagne BDS, ha affermato Alessandrini.

Ma ha anche a che fare con il fatto che il movimento BDS fa parte di movimenti globali della società civile “che stanno spaventando quelli al potere. E se stiamo facendo questo, stiamo facendo il nostro lavoro. Questa non è una cattiva notizia”.

Nora Barrows-Friedman è redattrice associata di The Electronic Intifada.

 

tratto da: Z NET ITALY