L’industria agrotecnica israeliana trae profitto dall’occupazione militare

Maureen Clare Murphy

 17 gennaio 2020 – Electronic Intifada

Secondo un nuovo rapporto dell’associazione di monitoraggio delle imprese “Who Profits” le aziende agrotecniche israeliane “sono totalmente complici dell’occupazione di terre palestinesi e siriane.”

La tecnologia sviluppata nel contesto dell’occupazione viene utilizzata dall’industria agricola di precisione israeliana apparentemente ad uso civile. Queste applicazioni consentono alle imprese belliche israeliane di promuovere “una versione presentabile delle loro tecnologie repressive” come strumenti per combattere il cambiamento climatico e la fame nel mondo.

Le imprese agrotecniche israeliane, approfittando di un’‘immagine verde’ positiva, sviluppano e commercializzano sistemi di irrigazione intelligente, soluzioni per la protezione delle coltivazioni e fertilizzanti specifici per agricoltori in tutto il mondo, con un guadagno di miliardi di dollari in vendite annuali, afferma Who Profits. Questa industria contribuisce all’agricoltura nelle colonie in Cisgiordania e sul Golan, così come al de-sviluppo dell’economia palestinese.

La Valle del Giordano, la principale regione agricola della Cisgiordania, è sotto totale controllo militare israeliano.

Negli anni ’80 Israele ha trasferito la proprietà della terra espropriata nella Valle del Giordano all’Organizzazione Sionista Mondiale. L’organizzazione concede la terra a coloni per la produzione agricola.

Prodotti delle colonie della Valle del Giordano, come melograni, mandorle, datteri e olive, sono esportati in Europa, spesso con l’erronea etichetta “Prodotto in Israele”.

Nel 2013 la Banca Mondiale stimava al ribasso il valore della produzione agricola degli insediamenti nella Valle del Giordano a circa 251 milioni di dollari.

Quello stesso anno la Banca Mondiale riteneva che le coltivazioni agricole di terreni in Cisgiordania in quel momento sotto totale controllo militare israeliano avrebbero fruttato all’economia palestinese ulteriori 700 milioni di dollari all’anno.

Ai palestinesi viene impedito di coltivare la propria terra e sono privati di entrate, obbligandone molti a “cercare lavoro nell’agricoltura delle colonie, spesso sottoposti a pesanti condizioni di sfruttamento,” sottolinea Who Profits.

I dirigenti israeliani, compreso il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, promettono di annettere unilateralmente la Valle del Giordano.

Rafforzamento dell’annessione unilaterale

Israele ha già rivendicato l’annessione delle Alture del Golan, territorio siriano occupato da Israele durante la guerra del 1967. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha dichiarato l’iniziativa “nulla, priva di valore e senza effetti giuridici internazionali.”

Sulle Alture del Golan circa 340 fattorie e villaggi siriani vennero distrutti da Israele, che al loro posto ha costruito colonie ebraiche.

Circa 26.000 coloni israeliani controllano circa il 95% del Golan –territorio di 1.860 km2 che rappresenta l’1% dell’estensione totale della Siria. Circa lo stesso numero di siriani controlla il resto delle terre del Golan.

Sulle Alture del Golan occupate la produzione agricola delle colonie contribuisce anche al furto di terre, al de-sviluppo dell’economia siriana locale e al rafforzamento dell’annessione unilaterale del territorio da parte di Israele,” afferma Who Profits.

La produzione agricola di Gaza è stata “decimata” dall’assedio israeliano, imposto dal 2007, e da ripetuti attacchi militari contro il territorio.

Ai palestinesi viene impedito l’accesso a zone definite in modo approssimativo, che in genere dovrebbero essere entro i 300 metri dal confine con Israele. Buona parte delle terre agricole di Gaza è compresa in questa zona vietata, che Israele impone sparando per uccidere.

Trasformazione dell’agrotecnologia in arma

Secondo Who Profits Israele ha utilizzato come un’arma contro Gaza l’agrotecnica, utilizzando erbicidi “per danneggiare e distruggere le coltivazioni palestinesi” nella zona perimetrale. Martedì di questa settimana aerei israeliani per irrorare i campi hanno spruzzato prodotti chimici, che si ritiene siano erbicidi, penetrati a Gaza.

Israele effettua l’irrorazione quando il vento sta soffiando verso ovest, il che porta i prodotti chimici ben all’interno di Gaza,” hanno affermato giovedì le associazioni per i diritti umani. “In incidenti di irrorazione precedentemente documentati, gli erbicidi chimici hanno raggiunto una distanza fino a 1.200 metri all’interno della Striscia.”

Le organizzazioni per i diritti aggiungono che i dati indicano “che l’irrorazione pone una minaccia potenziale al diritto alla vita, in quanto danneggia direttamente la sicurezza alimentare e la salute della popolazione civile di Gaza.”

Nel contempo le imprese dell’agrotecnica “beneficiano della commercializzazione del know-how militare israeliano” sviluppato nel contesto dell’occupazione.

Secondo Who Profits “la collaborazione include l’adattamento del sistema di comando e controllo “Iron Dome” [Cupola di Ferro, sistema antimissilistico israeliano, ndtr.] per l’irrigazione intelligente, così come l’utilizzo di droni delle Industrie Aerospaziali Israeliane [industria pubblica israeliana con circa 15.000 dipendenti, ndtr.] per l’agricoltura di precisione su vasta scala,”.

La situazione di una prolungata occupazione militare è stata il motore propulsore che sta dietro a una prolifica e molto redditizia industria bellica, che dà come risultato un rapporto simbiotico tra il settore privato e l’apparato militare dello Stato,” sostiene Who Profits.

Il settore agrotecnico civile trae beneficio dai sussidi del governo israeliano per la ricerca e lo sviluppo in Cisgiordania e sulle Alture del Golan, trovando nel contesto dell’occupazione “un terreno di sperimentazione per lo sviluppo di prodotti e tecnologie.”

Who Profits” afferma che l’estensione delle tecnologie militari alle industrie civili “rafforza ulteriormente l’interesse personale di imprese private nella perpetuazione dello status quo.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I laureati si arrabattano per avere uno stipendio migliore

Jaclynn Ashly e Alaa Daraghmeh

9 gennaio 2020 – The Electronic Intifada

Neppure avere una laurea ha aiutato Fathi Taradi.

Taradi, 34 anni, ha cercato per un decennio di trovare lavoro come giornalista nella Cisgiordania occupata. Alla fine ha dovuto accontentarsi di un lavoro nell’edilizia a Gerusalemme. “I primi giorni di lavoro in Israele avevo il cuore a pezzi perché avevo rinunciato a tutti i miei sogni di diventare giornalista,” dice Taradi a The Electronic Intifada nella sua casa di Taffuh, a ovest di Hebron.

Taradi è uno dei molti laureati palestinesi obbligati a cercare un lavoro umile in Israele o nelle colonie della Cisgiordania e a Gerusalemme est dopo aver perso la speranza di trovare un lavoro nel proprio campo [di studi].

Ha passato molti anni nel tentativo di lavorare sottopagato in stazioni radio locali della Cisgiordania, finché, cinque anni fa, ha ricevuto un permesso di lavoro israeliano.

Non avrei mai pensato di lavorare in Israele,” dice. “Ho molte competenze. Pensavo che a questo punto sarei diventato un cameraman di successo.”

All’inizio Taradi ha dovuto alzarsi ogni giorno alle 3 del mattino per viaggiare fino al checkpoint 300, a nord di Betlemme, rimanendo a volte in piedi per ore con centinaia di altri palestinesi imprigionato tra pareti di cemento e sbarre di ferro in attesa che i soldati israeliani aprissero i tornelli e controllassero i permessi rilasciati da Israele che consentono loro di entrare a Gerusalemme. Vedeva raramente i suoi quattro figli.

All’inizio di quest’anno Israele ha “migliorato” il checkpoint 300, insieme a quello di Qalandiya, nei pressi di Ramallah, creando più corsie e installando porte automatiche a cui i palestinesi avvicinano i permessi di ingresso biometrici per passare.

Questo miglioramento ha consentito di attraversare il posto di controllo militare più rapidamente e con maggiore efficienza, riducendo a qualche minuto quello che portava via ore. Ma non ha fatto niente per modificare i fondamenti di un’occupazione militare che obbliga palestinesi con titoli di studio come Taradi a lottare per trovare delle opportunità di lavoro.

Non ho mai perso la mia passione per i media,” dice Taradi. “Se avessi una possibilità di tornare nei media lo farei. Amavo il mio lavoro di giornalista.”

É stato inutile”

Per Sabri Saidam, ministro dell’Istruzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, l’economia palestinese non è in grado di assorbire i laureati perché Israele non consente “un serio sviluppo ed investimenti in Palestina.” La pluridecennale occupazione ha soffocato l’economia locale, dice al telefono Saidam a The Electronic Intifada.

Lo fa in molti modi, e l’annientamento dell’economia palestinese in conseguenza dell’occupazione israeliana è ben documentato.

Ovviamente l’occupazione israeliana e la sua colonizzazione della Cisgiordania hanno confiscato vaste aree di terreno, compreso più del 60% della Cisgiordania, nota come Area C, in cui lo sviluppo palestinese è in larga parte vietato ma le colonie israeliane si espandono in modo quasi incontrollato.

I circa 600.000 coloni israeliani in Cisgiordania usano sei volte più acqua dei 2,86 milioni di palestinesi che vi vivono. Secondo il gruppo di ricerca palestinese Al-Shabaka, i costi indiretti delle restrizioni israeliane all’accesso dei palestinesi all’acqua nella Valle del Giordano, che impediscono ai palestinesi di coltivare in modo corretto la propria terra, sono stati di 663 milioni di dollari, l’equivalente dell’8,2% del PIL palestinese nel 2010.

Nel contempo per molti gli stipendi in Cisgiordania sono troppo bassi per poter sopravvivere. Secondo il ministero dell’Istruzione, in Cisgiordania il salario minimo è di 420 dollari al mese. Ma nel settore privato molti ricevono ancora meno.

Anche se Taradi potesse ottenere un lavoro a tempo pieno in una stazione televisiva locale in Cisgiordania, spesso questa potrebbe offrirgli solo circa 650 dollari al mese, mentre il suo lavoro nell’edilizia a Gerusalemme gliene frutta circa 2.000.

Essere diventato un lavoratore nell’edilizia ha consentito a Taradi di sposarsi e di costruire una casa con tre camere da letto per la sua famiglia – una cosa che sarebbe stata difficile fare con uno stipendio in Cisgiordania. “Mi sento come se avessi perso tempo a studiare. Tutto è stato inutile,” afferma.

L’esperienza di Taradi è condivisa da molti palestinesi che pensano di aver ricavato poco dagli titoli universitari. Alcuni hanno ottenuto lauree all’estero solo per tornare in Cisgiordania e non riuscire a trovare un lavoro.

Suhair, la moglie di Taradi, è rimasta disoccupata per otto anni. La trentunenne ha ottenuto la sua laurea in chimica all’università di Hebron nel 2010 ed ha tentato di trovare un lavoro presso il ministero dell’Istruzione dell’ANP.

Non attribuisce il fatto di essere disoccupata solo alla mancanza di opportunità in Cisgiordania, ma anche alla mancanza di wasta – una parola araba che fa riferimento al nepotismo o ai rapporti clientelari che agevolano il cammino alle persone per garantirsi un lavoro o altre possibilità.

Amir, un abitante di Betlemme che parla a patto di rimanere anonimo, ha ottenuto la sua laurea in educazione sportiva all’università Al-Quds nel 2008. Dopo anni di difficoltà con uno stipendio basso in Cisgiordania, questo padre di quattro figli ha riconosciuto la sua sconfitta ed ha cercato lavoro nell’edilizia in Israele.

Anche Amir, 32 anni, ogni giorno attraversa il checkpoint 300.

É veramente penoso immaginare di passare anni della propria vita (per avere una formazione), solo per rimanere fermo a un checkpoint ogni mattina per andare al lavoro,” dice a The Electronic Intifada. “Ma queste sono le condizioni della nostra vita qui,” afferma. “Dobbiamo lavorare per dar da mangiare ai nostri figli.” Secondo l’Ufficio Centrale di Statistica Palestinese, nel 2018 127.000 palestinesi hanno lavorato in Israele e nelle colonie – 5.000 in più rispetto al 2017.

Più di metà –il 58% – dei palestinesi tra i 18 e i 29 anni che hanno ottenuto un “diploma di scuola secondaria e oltre” nel 2018 era disoccupato, rispetto al 41% di un decennio prima.

Secondo il ministero dell’Istruzione dell’ANP questi numeri sono ancora maggiori tra le donne laureate, il 73% delle quali era disoccupata, nonostante l’aumento del numero di donne laureate nell’ultimo decennio,

In seguito alla firma degli accordi di Oslo nel 1993 il numero di laureati palestinesi è costantemente aumentato. Le statistiche del ministero dell’Istruzione mostrano che nel 2017-18 circa il 94% dei maschi e il 71% delle femmine tra i 20 e i 24 anni si è iscritto [all’università] o ha ottenuto almeno un diploma. Un diploma significa una qualifica ottenuta dopo una scuola superiore ma non a livello universitario.

Nonostante questo incremento nel numero di laureati palestinesi, l’economia palestinese continua ad essere ostacolata dall’occupazione israeliana, lasciando i laureati senza opportunità di lavoro nel proprio campo. La mancanza di possibilità, insieme ai bassi salari in Cisgiordania, incentiva molti laureati palestinesi a cercare lavoro all’estero o in Israele e nelle sue colonie, una fuga di cervelli che secondo il ministro Saidam priva l’economia palestinese dei suoi cittadini più qualificati.

Vogliono che odiamo noi stessi”

Bahaa Salah, 30 anni, ha ottenuto la propria laurea in Giordania ed ha continuato gli studi in Malaysia, conseguendo un master in comunicazioni e pubbliche relazioni. Quando nel 2013 è tornato nella città natale di al-Eizariya, fuori da Gerusalemme, non ha trovato lavoro nel suo campo. Invece ha lavorato come commesso da Sbitany – un negozio di elettronica in Cisgiordania – e poi in una fabbrica di alluminio.

Poi Salah ha passato senza successo oltre un mese a Dubai alla ricerca di un lavoro, prima di trovare una possibilità di impiego come contabile in una fabbrica di spezie in Cisgiordania. Tuttavia lo stipendio, che afferma essere stato di 555 dollari al mese, era troppo basso per avere una vita decente.

Salah ha deciso di cercare lavoro nella zona industriale di Mishor Adumim, che fa parte di Maaleh Adumim, una grande colonia israeliana, dove lavorava già suo cugino. Nel 2014 ha trovato un impiego come addetto alle pulizie in un supermercato.

Quando Salah confronta la sua vita in Malaysia a quella in Cisgiordania, la sua reazione è viscerale: “Immagina di sperimentare la libertà per anni, e poi torni in patria e improvvisamente sei chiuso in gabbia,” afferma.

Le cose per Salah sono ulteriormente peggiorate a partire dall’ondata di violenze del 2015, nota anche come l’Intifada dei lupi solitari o dei coltelli. Prima, dice Salah, nella colonia le guardie di sicurezza israeliane “non erano così violente o cattive.”

Eravamo soliti attraversare il posto di controllo fuori da Mishor Adumim in macchina. Nessuno ci avrebbe fermati. Se hai un permesso di lavoro israeliano devi solo mostrarlo ed entrare in auto,” dice. Ora invece i palestinesi devono ottenere un permesso speciale per far entrare i loro veicoli nella colonia, sostiene.

Tutti devono scendere dall’auto, mettersi in fila e le guardie di sicurezza perquisiscono ogni persona, una alla volta,” dice Salah.

Penso che scelgano le persone più razziste per lavorare in (questo) posto di controllo,” sostiene. “Ti trattano in modo molto violento. Quindi immagina se qualcuno è di malumore ed è già razzista. Ovviamente non ti tratterà bene.”

Salah è diventato sempre più insicuro sul posto di lavoro quando ha notato un numero crescente di clienti israeliani con fucili a tracolla. Parecchi palestinesi sono stati uccisi da israeliani armati dopo veri o presunti attacchi in cui sarebbero rimasti coinvolti. Raramente questi israeliani hanno dovuto subire conseguenze legali.

Ero solito portarmi un cacciavite sul lavoro, ma ho iniziato a temere persino di prenderlo in mano perché loro (gli israeliani) erano spaventati. Quando ti guardavano, era come se stessero vedendo un fantasma o qualcosa del genere,” dice Salah.

Benché il suo permesso gli consenta di entrare sia nelle aree industriali che nella zona residenziale di Maaleh Adumim, le poche volte che il padrone lo manda alla colonia a prendere prodotti per il supermercato Salah si sente confuso e spaventato, perché le due zone hanno norme diverse per i palestinesi.

Secondo Salah ai palestinesi è consentito camminare nelle strade di Mishor Adumim, ma non a Maaleh Adumim. Possono solo entrare come passeggeri di un’auto israeliana.

Ciò significa che se la polizia mi trova a camminare, possono togliermi il permesso e mettermi in carcere – o almeno sulla lista nera e non potrò più ottenere un permesso,” afferma. “Vogliono che tu odi te stesso per il fatto di essere palestinese,” continua Salaha. “Devi attraversare questa linea, non quella. Devi camminare su questa strada, non su quell’altra. Ti fa sentire come uno straniero. Ti fa pensare: ‘Cosa c’è di sbagliato in me?’ Mi fa star male.”

Quindi perché lo sopporta? “Per i soldi.”

Salah dice che nella colonia a volte guadagna più del doppio di quello che potrebbe ottenere nell’economia palestinese. “Lavoro meno ore, meno giorni e sono pagato meglio,” afferma. Nonostante la mancanza di opportunità, tuttavia, Salah rifiuta di credere che i suoi studi siano stati una perdita di tempo.

Per me l’istruzione non riguarda solo avere un lavoro. È lo sviluppo di me stesso e il fatto di imparare di più,” dice. “Sono pur sempre un essere umano, per cui non posso fare a meno di confrontare la mia situazione con quella degli altri.” Per esempio, afferma, è più qualificato a gestire il negozio in cui lavora del suo padrone israeliano, ma sa che, in quanto palestinese con un documento d’identità della Cisgiordania, non potrà mai avere quella posizione.

Persino alcuni israeliani con cui lavoro che sentono la mia storia e sanno del mio livello di studi mi dicono: ‘Se solo tu avessi una carta d’identità diversa la tua vita qui sarebbe veramente buona.’ Ma questo è il mio destino,” sostiene Salah. “Non posso fare niente per cambiarlo.”

Jaclynn Ashly è una giornalista freelance che si occupa di problemi politici e di diritti umani nei territori palestinesi occupati e in Israele.

Alaa Daraghmeh è un giornalista che risiede in Cisgiordania.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Nel 2019 Israele ha sparato 347 volte sui pescatori di Gaza

Maureen Clare Murphy

10 gennaio 2020 – The Electronic Intifada

Israele e i suoi leader non provano vergogna di vantarsi per aver commesso crimini di guerra, benché siano sottoposti al controllo del Tribunale penale internazionale.

Più volte l’anno scorso il COGAT, braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana [il COGAT è un’unità del ministero della difesa israeliano che si occupa di coordinare le questioni civili tra il governo di Israele, le forze di difesa israeliane, le organizzazioni internazionali, i diplomatici e l’autorità palestinese, ndtr.], ha annunciato che stava adottando punizioni collettive contro i pescatori palestinesi, ponendo limitazioni all’accesso alle acque costiere di Gaza.

In quattro casi ha proibito del tutto la navigazione ai pescatori di Gaza.

Punizione collettiva

L’anno scorso per venti volte Israele ha annunciato modifiche riguardo l’accesso alle acque costiere di Gaza. Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, ha trattato l’industria della pesca di Gaza come “una leva per esercitare pressioni” sui due milioni di palestinesi che vivono nel territorio sottoposto al blocco economico israeliano dal 2007.

La punizione di una popolazione civile per atti di cui non ha alcuna responsabilità è vietata ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra, che Israele ha ratificato.

Nel corso del 2019 Israele ha imposto restrizioni ai pescatori come punizione collettiva dopo il lancio dal territorio di palloncini incendiari e razzi.

Ma Al Mezan, un’organizzazione per i diritti umani di Gaza [ONG con sede nel campo profughi di Jabalia nell’estremo nord della Striscia di Gaza che difende i diritti socio-culturali ed economici dei palestinesi, ndtr.] afferma che il vero obiettivo delle restrizioni e della violenza di Israele contro i pescatori è la distruzione del settore della pesca.

Tradizionale pietra miliare dell’economia di Gaza, l’industria della pesca si è ridotta negli ultimi anni. Nel 2000 a Gaza erano impiegati nell’industria circa 10.000 palestinesi. Oggi ci sono solo circa 2.000 pescatori che pescano regolarmente.

Nel 2019 Al Mezan ha registrato 351 violazioni contro i pescatori di Gaza.

L’anno scorso si sono verificati 347 casi in cui Israele ha aperto il fuoco contro i pescatori di Gaza, causando 16 feriti.

Nel febbraio dello scorso anno un pescatore, Khaled Saidi, è stato colpito mentre era in mare da numerosi proiettili di metallo rivestiti di gomma e i militari israeliani lo hanno arrestato.

L’ occhio destro di Saidi è stato rimosso in un ospedale israeliano e lui è stato presto rimandato a Gaza. Ma non gli è stato permesso di rientrare in Israele per le cure all’occhio sinistro, anch’esso ferito, nonostante avesse un appuntamento in un ospedale israeliano.

Alla fine si è recato al Cairo per le cure. I medici non sono stati in grado di rimediare alla lesione al suo occhio rimanente.

“Ora la mia condizione economica è inferiore allo zero, non lavoro affatto”, dice il giovane padre in un breve video sulle violazioni di Israele contro i pescatori palestinesi prodotto da Al Mezan.

I pescatori feriti sono [resi] inabili al lavoro, a volte in modo permanente, privando le loro famiglie di un reddito.

Le forze israeliane inoltre inseguono e trattengono i pescatori e le loro navi. L’anno scorso sono stati fermati trentacinque pescatori, tra cui tre minori. Nove degli arrestati si trovano ancora nelle prigioni israeliane.

Al-Mezan sostiene che le forze di occupazione ordinano ai pescatori fermati di togliersi i vestiti e di dirigersi a nuoto nelle acque marine verso le cannoniere israeliane, anche nel gelo invernale. I pescatori fermati dagli israeliani sono sottoposti a umilianti interrogatori e a varie forme di tortura fisica.

In base alla documentazione di Al Mezan, nel 2019 le forze israeliane hanno sequestrato quindici imbarcazioni e ci sono stati 11 casi di danneggiamento alle proprietà dei pescatori.

Violazioni

Secondo l’organizzazione per i diritti le violazioni contro il settore della pesca di Gaza impoveriscono ulteriormente coloro che dipendono da esso e aumentano l’insicurezza alimentare della popolazione in generale.

Al Mezan afferma che gli abusi israeliani nei confronti dei pescatori di Gaza violano anche la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare [UNCLOS, entrata in vigore nel novembre del 1994 e ratificata da 156 Stati più la UE, fissa un regime globale di leggi ed ordinamenti degli oceani e dei mari, e stabilisce norme che disciplinano tutti gli usi delle loro risorse, ndtr.].

L’articolo 3 di tale convenzione stabilisce che “Ogni Stato ha il diritto di stabilire l’estensione del suo territorio marino fino a un limite non superiore a 12 miglia nautiche [22,224 km. ndtr.]”.

Israele attualmente limita [l’accesso] alle acque ai pescatori fino a 6 miglia nautiche al largo della costa settentrionale di Gaza e tra le 9 e le 15 miglia al largo delle sue coste centrali e meridionali. Ai pescatori è proibito l’accesso alle acque di Gaza in un’area di 1,5 miglia situata parallelamente al suo confine settentrionale e in un’area di 1 miglio parallela al suo confine meridionale.

L’articolo 56 della convenzione afferma che uno Stato costiero ha “diritti sovrani allo scopo di esplorare e sfruttare, conservare e gestire le risorse naturali” delle sue acque.

Al Mezan afferma che le parti [contraenti] internazionali hanno la responsabilità legale e morale delle violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.

(Traduzione di Aldo Lotta)




Gli studenti della York chiedono di mettere al bando la violenta JDL

Nora Barrows-Friedman

20 dicembre 2019 – Electronic Intifada

In seguito agli attacchi contro attivisti antirazzisti dello scorso mese nell’università canadese di York, alcuni studenti hanno chiesto che due gruppi estremisti vengano esclusi dal campus: la Jewish Defense League of Canada [Lega di Difesa Ebraica del Canada, gruppo sionista di estrema destra dichiarato terrorista dall’FBI nel 2001, ndtr.] ed Herut, sezione canadese di un partito israeliano di estrema destra. Ciò avviene dopo che l’università di Toronto ha ceduto alle pressioni di politici di destra e di gruppi della lobby israeliana ed ha sospeso il riconoscimento formale di Herut che del gruppo universitario Students Against Israeli Apartheid [Studenti contro l’Apartheid Israeliana] (SAIA).

I membri del SAIA sono stati aggrediti mentre protestavano contro un evento del 20 novembre, che ospitava soldati israeliani nel loro campus. Poi sono stati calunniati in quanto antisemiti da Herut e dalla JDL del Canada. Invece di prendere iniziative contro i gruppi antipalestinesi e proteggere i suoi studenti contro tali attacchi, l’amministrazione della York ha proposto un processo di mediazione tra Herut e SAIA. Mercoledì la rettora dell’università, Rhonda Lenton, ha annunciato che il prossimo mese inizierà un’ “analisi indipendente” dell’incidente.

Ma l’inchiesta non sarà così imparziale come sostiene l’università.

Secondo i suoi criteri di riferimento, l’indagine non potrà “attribuire responsabilità a gruppi o individui.”

Ciò di fatto protegge Herut e la JDL dall’essere chiamati a rispondere del loro comportamento, perché molte prove indicano che i loro membri sono stati responsabili di soprusi e violenze.

In una recente dichiarazione Michael Levitt, capo del Gruppo Interparlamentare Canada-Israele, si è vantato di aver incontrato Lenton lunedì.

Levitt, parlamentare del partito Liberale del primo ministro Justin Trudeau al governo, ha ripetuto accuse senza fondamento di antisemitismo contro i sostenitori dei diritti dei palestinesi, ed ha chiesto che Herut venga immediatamente reinserito come associazione del campus.

Lo scorso mese Lenton ha denunciato una risoluzione da parte della Federazione degli Studenti della York che ha difeso il diritto degli studenti a mobilitarsi contro la guerra, l’occupazione e l’estrema destra, compresi i rappresentanti di Israele “o di qualunque altro potere imperialista”.

JDL ha fatto da sicario per Herut

Il 20 novembre il gruppo propagandistico dell’esercito israeliano “Reservists on Duty” [Riservisti in servizio] ha tenuto un incontro ospitato alla York da Herut.

Students Against Israeli Apartheid” ha affermato di aver deciso di protestare contro l’evento perché, ha sostenuto, “l’esercito israeliano, utilizzando Herut come tramite, è stato visto fare attivamente opera di reclutamento nei campus di tutto il Canada, cosa che di fatto è illegale.”

E quando gli studenti si sono presentati per manifestare a favore dei diritti dei palestinesi sono stati accolti con la violenza e l’intimidazione.

I membri della Jewish Defense League hanno aggredito gli studenti che protestavano e poi hanno inventato accuse di antisemitismo, nonostante non abbiano presentato nessuna prova credibile.

Importanti politici canadesi hanno ripetuto queste calunnie senza alcuna prova.

Il Jerusalem Post [giornale israeliano di destra, ndtr.] ha alimentato queste accuse con la provocatoria affermazione secondo cui i sostenitori dei diritti dei palestinesi avrebbero scandito verso gli ebrei “Intifada, Intifada, tornate nei forni.”

In seguito il giornale è stato obbligato ad ammettere di non avere prove di questa grave accusa, nonostante ci siano decine di video dell’evento.

Il quotidiano ha semplicemente ripetuto un’accusa fatta da un ex-membro di uno squadrone della morte dell’esercito israeliano che ora fa parte di “Riservisti in Servizio”.

Prima dell’evento e della protesta, l’amministrazione dell’università aveva scritto a Meir Weinstein, il capo di JDL Canada, mettendo in guardia i suoi membri dal mettere in atto “minacce o intimidazioni”. Secondo un’intervista che egli ha rilasciato in aprile, in precedenza a Weinstein era stato vietato l’accesso all’università di York.

Ma il 20 novembre ai membri della JDL, compreso Weinstein, è stato consentito di entrare nel campus. L’avvocato Dimitri Lascaris, che rappresenta i militanti del SAIA, afferma che “teppisti della violenta Jewish Defense League hanno partecipato all’avvenimento e agito come sicari per conto di Herut.” La lettera della York a Weinstein dimostra che l’università era consapevole che la Jewish Defense League stava progettando di partecipare all’evento, “e che la JDL rappresenta una seria minaccia per la sicurezza degli attivisti del SAIA,” dice Lascaris a The Electronic Intifada.

Nel recente passato membri della JDL sono stati imputati per crimini di odio e aggressioni,” afferma Lascaris. “Anche questo molto probabilmente è noto all’amministrazione dell’università York. Nonostante questi fatti, la York ha consentito ai membri della JDL di partecipare all’evento.”

Peggio ancora, sottolinea, “le guardie della sicurezza sono rimaste inerti sia prima che dopo gli attacchi contro gli attivisti solidali con i palestinesi.”

L’avvocato sostiene che l’università di York “è quindi responsabile per il danno recato a questi attivisti.”

Students Against Israeli Apartheid’ sta prendendo in considerazione le sue alternative legali, ma nel frattempo, afferma Lascaris, il gruppo attenderà i risultati dell’inchiesta della York e della mediazione.

Alcuni studenti stanno chiedendo che l’università garantisca la loro sicurezza e consideri responsabili la JDL ed Herut, anche vietando il loro ingresso nel campus.

Nel contempo secondo Lascaris la sospensione del SAIA “trasmette un terribile messaggio”. “Comunica agli attivisti antirazzisti che, se si oppongono ad attori potenti ed influenti che si impegnano o promuovono gravi violazioni dei diritti umani, l’amministrazione dell’università non solo non li proteggerà, ma li prenderà di mira con misure punitive,” ha affermato.

Oltretutto le azioni e le dichiarazioni di Levitt, di Trudeau, del primo ministro dell’Ontario Doug Ford e di altri politici “mettono assolutamente in chiaro che Israele e i suoi sostenitori sono tenuti in altissima considerazione in questo Paese.”

Questi politici hanno ripetutamente lanciato gravissime accuse contro i miei clienti senza la minima prova che le giustificasse,” afferma Lascaris.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un’impresa basca deve lasciare la metropolitana leggera dell’apartheid israeliana

Alys Samson Estapé

12 dicembre 2019 – The Electronic Intifada

Lavoratori, sindaci e associazioni della società civile si stanno unendo nei Paesi Baschi per opporsi alla partecipazione dell’impresa locale CAF a un progetto per allungare la metropolitana leggera delle colonie israeliane nella Gerusalemme est occupata.

Il progetto viola il diritto internazionale in quanto consolida il controllo di Israele su terra palestinese occupata. Con la sua partecipazione, CAF sta contribuendo a gravi violazioni dei diritti umani dei palestinesi.

Ad agosto un consorzio tra CAF e l’impresa israeliana per le infrastrutture Saphir è stata scelta dal ministero delle Finanze israeliano per estendere il progetto di metropolitana leggera delle colonie, noto come Jerusalem Light Rail [[Metropolitana leggera di Gerusalemme] (JLR). CAF e Saphir hanno vinto un contratto di circa 1,8 miliardi di euro per estendere la metropolitana leggera ad altre colonie israeliane illegali, soprattutto a Gerusalemme est, e per rafforzare i collegamenti tra queste colonie e Gerusalemme ovest.

Altre multinazionali hanno partecipato alle fasi iniziali dell’offerta per il progetto, comprese Alstom, Siemens, Systra, Bombardier e Macquarie. Però si sono ritirate dall’appalto, lasciando in gara solo due consorzi.

Imbarazzante”

La rivista economica israeliana “Globes” ha spiegato che le altre imprese “ufficialmente non si sono ritirate dalla procedura per ragioni politiche”, ma ha aggiunto che “per la maggior parte delle compagnie internazionali di trasporti e infrastrutture, Gerusalemme è “imbarazzante”.

Preoccupazioni riguardo al progetto sono state sollevate non solo dalle compagnie internazionali, ma anche all’interno della stessa CAF. In ottobre il consiglio di fabbrica della sede centrale di CAF a Beasain [piccolo comune nel centro dei Paesi Baschi sede di altre aziende metalmeccaniche, ndtr.] ha rinnovato l’appello di gennaio perché CAF si ritiri dal progetto, affermando che Israele intende “legittimare” l’occupazione militare israeliana di Gerusalemme est.

Sempre in ottobre a Saragozza [in Aragona, ndtr.] due sindacati, il “Gruppo Indipendente” e la CGT, hanno affermato che CAF dovrebbe ritirarsi dal progetto.

Entrambi i sindacati rappresentano lavoratori della fabbrica CAF che costruirebbe apparecchiature per la JLR. Hanno affermato che il progetto è un “affronto contro i diritti del popolo palestinese.”

Il 29 novembre, Giornata della solidarietà con il popolo palestinese dell’ONU, il consiglio di fabbrica della sede centrale di CAF a Beasain ha di nuovo espresso la propria opposizione al progetto JLR. All’inizio di quella settimana, il consiglio comunale di Beasain ha approvato all’unanimità una mozione di solidarietà con il popolo palestinese e in appoggio ai suoi diritti.

Ad Altsasu, in Navarra, il 29 novembre, durante un altro evento di solidarietà, due sindaci dei Paesi Baschi, Mikel Arregi, sindaco di Zestoa, e Francisco Javier Razquin Flores, noto come Rubio [Biondo], sindaco di Arbizu, hanno chiesto a CAF di ritirarsi dal progetto. I loro villaggi, Zestoa e Arbizu, sono gemellati con Marda, a sud di Nablus, e con Birzeit, entrambi nella Cisgiordania occupata.

Stretti legami di solidarietà”

Arregi ha detto a Electronic Intifada che “è importante che CAF, un’importante impresa della nostra regione, non sia complice delle violazioni israeliane dei diritti dei palestinesi.”

Ha continuato: “Ci sono molti di noi nei Paesi Baschi che stanno dalla parte del popolo palestinese e non vogliono che questo progetto vada avanti. Quindi ci stiamo mobilitando per bloccarlo.”

Spesso nei Paesi Baschi si tengono iniziative sulla Palestina. Il 30 novembre a Donostia [san Sebastian] lo scrittore palestinese Salah Jamal e lo chef basco Zigor Iturrieta [noto cuoco e conduttore di un programma televisivo di cucina, ndtr.] hanno partecipato all’ evento “Sapori di Palestina”, organizzato dal Comune di un villaggio, durante il quale è stato di nuovo messo in discussione il coinvolgimento di CAF nel progetto di metropolitana leggera a Gerusalemme.

Solo la settimana precedente Sahar Francis, dell’organizzazione per i diritti dei prigionieri “Addameer” e Nidal al-Azza, dell’associazione per i diritti dei rifugiati “Badil” hanno fatto un tour nei Paesi Baschi.

Xabier Aguirregabiria, di “Sodepaz”, un’organizzazione spagnola per i diritti umani, ha affermato che gli oppositori alla partecipazione di CAF nel progetto continueranno a mobilitarsi “finché CAF non sarà più complice dell’occupazione israeliana.”

Ci sono stretti rapporti di solidarietà tra i popoli basco e palestinese, dovuti alla comune esperienza di lotta per i nostri diritti e la nostra libertà,” ha detto. “La società civile, i politici e i sindacati stanno lavorando insieme nei Paesi Baschi per opporsi alla partecipazione di CAF a questo progetto israeliano di colonizzazione a Gerusalemme est.”

Il coinvolgimento di imprese nei crimini del regime israeliano di occupazione e apartheid è legalmente perseguibile e moralmente deprecabile. Può anche danneggiare gli affari. Nel 2015 l’impresa francese Veolia è stata obbligata a rinunciare [alla partecipazione] allo stesso progetto di colonizzazione illegale israeliana, dopo aver perso miliardi di dollari in appalti internazionali a causa di prolungate campagne del BDS [movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni contro Israele, ndtr.].

CAF deve tener conto degli appelli dei suoi stessi lavoratori e della società civile basca e palestinese e stare dalla parte giusta della storia ritirandosi da questo progetto illegale.

Alys Samson Estapé è la coordinatrice delle campagne del Comitato Nazionale del BDS palestinese (BNC) in Europa.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il procuratore della CPI agisce da avvocato difensore di Israele

Ali Abunimah

5 dicembre 2019 – Electronic Intifada

Il procuratore della Corte Penale Internazionale sta di nuovo permettendo a Israele di farla franca sul [caso] del suo assalto mortale di dieci anni fa contro la flottiglia [diretta] a Gaza.

I soldati israeliani hanno colpito a morte 10 persone a bordo della Mavi Marmara dopo aver fatto irruzione sulla nave, che faceva parte di una flottiglia civile.

Lunedì Fatou Bensouda ha dichiarato di confermare la sua decisione del 2015 di non aprire un’indagine sull’attacco, nonostante i giudici della corte le abbiano chiesto per due volte di riconsiderarla.

A settembre, i giudici d’appello della Corte Penale Internazionale hanno definito Bensouda “irrispettosa” affermando che lei avrebbe affrontato in “modo superficiale” un [loro] precedente invito a riconsiderare il caso.

Le hanno nuovamente chiesto di tornare sui propri passi e di giungere ad una nuova decisione – quella emessa questo lunedì.

La sua nuova decisione in realtà stabilisce che Israele dovrebbe continuare a beneficiare della medesima impunità a cui la Corte Penale Internazionale sembra voglia porre fine.

Bensouda riconosce che “esiste un ragionevole fondamento per credere che siano stati commessi dei crimini di guerra da parte di membri delle forze di difesa israeliane” quando salirono a bordo della Mavi Marmara.

Ma insiste sul fatto che l’attacco israeliano in alto mare non è “talmente grave” da giustificare un procedimento giudiziario.

Nelle prime ore del 31 maggio 2010 i commando israeliani salirono a bordo e sequestrarono le imbarcazioni nelle acque internazionali del Mediterraneo orientale.

Le forze israeliane effettuarono un attacco armato particolarmente violento contro la nave più grande, la Mavi Marmara, uccidendo nove persone. Una decima vittima è deceduta nel maggio del 2014 a causa delle ferite riportate.

A bordo della Mavi Marmara almeno altre 20 [persone] vennero gravemente ferite.

“Pretesti procedurali”

Questo giovedì gli avvocati delle vittime hanno accusato il procuratore di parzialità e hanno preannunciato un appello.

“Con questa decisione – affermano gli avvocati – l’intento è quello di difendere Israele nei confronti di qualsiasi accusa di crimini di guerra in maniera così sfacciatamente palese proprio sotto gli occhi della comunità internazionale.

Poiché il procuratore della CPI non può in alcun modo coprire questi crimini, si nasconde dietro pretesti procedurali”.

In effetti, la decisione di Bensouda dello scorso lunedì è accompagnata da un documento di 44 pagine che espone numerose giustificazioni procedurali sul perché non possa perseguire il caso.

Sembra più la relazione di un avvocato difensore al fianco di Israele piuttosto che di un procuratore che tenti di porre fine all’impunità per crimini internazionali.

In alcuni punti sembra incolpare le vittime, sostenendo che “le persone che sono state uccise e ferite intenzionalmente sono state vittime di circostanze come minimo conseguenti alla violenta resistenza dei passeggeri all’abbordaggio del Mavi Marmara da parte delle IDF [esercito israeliano].”

Suggerisce persino che i soldati israeliani bene armati che hanno effettuato un assalto ingiustificato su una nave civile in acque internazionali potrebbero aver agito per “autodifesa” – argomenti che sarebbero potuti provenire direttamente dal governo israeliano.

Uno degli argomenti addotti da Bensouda per non agire è che il numero delle vittime dell’attacco israeliano sia stato “relativamente ridotto rispetto ai casi potenziali derivanti da altre situazioni”.

In precedenza i giudici della CPI avevano sottolineato che il tribunale ha perseguito casi con ancora meno vittime – come [nella causa] contro Bahar Idriss Abu Garda e Abdallah Banda, entrambi accusati di crimini di guerra contro le forze di pace dell’Unione Africana nella regione del Darfur in Sudan.

I giudici hanno stabilito che tali procedimenti giudiziari erano giustificati perché, sebbene i presunti crimini presentassero poche vittime dirette, essi avevano interrotto le operazioni di soccorso umanitario e di mantenimento della pace [condotte] a beneficio di milioni di civili.

Lo stesso ragionamento si applicherebbe esattamente alla flottiglia, che si stava recando a Gaza per rompere un blocco che priva milioni di palestinesi fondamentali diritti umani e umanitari.

Scarso Peso”

L’attacco israeliano alla flottiglia aveva evidentemente lo scopo di inviare un messaggio al mondo secondo il quale nessuno avrebbe dovuto tentare di rompere il blocco illegale di Gaza o fornire solidarietà alla sua gente.

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa, tra gli altri, considera il blocco una punizione collettiva, una grave violazione delle Convenzioni di Ginevra.

Ma Bensouda afferma che il significato del messaggio di Israele “non può essere valutato con alcun grado di affidabilità”. Dice quindi di aver dato “scarso peso” alle argomentazioni in base alle quali l’obiettivo di Israele potesse garantire che nessuno osasse rompere il blocco nei confronti di due milioni di persone, la metà delle quali minori.

L’ultima decisione del procuratore sul caso della flottiglia è di cattivo auspicio per i palestinesi che sperano che la CPI garantisca la giustizia a lungo negata.

Dal 2015 il procuratore sta conducendo un esame preliminare di presunti crimini di guerra nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza, ma non ha ancora avviato alcuna indagine formale che possa condurre a procedimenti giudiziari.

Questo mercoledì l’ufficio di Bensouda ha pubblicato la sua relazione annuale sui suoi esami preliminari.

In essa si afferma che dopo cinque anni di analisi della situazione in Palestina, Bensouda “ritiene che sia tempo di prendere le misure necessarie per portare a termine l’esame preliminare”.

Resta da vedere se tali conclusioni non costituiranno un ulteriore insabbiamento.

ALI ABUNIMAH

Co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di The Battle for Justice in Palestine [La battaglia per la giustizia nella Palestina, ndtr.] appena pubblicato da Haymarket Books.

Ha anche scritto One Country: A Bold-Propos to End the Israel-Palestinian Impasse [Uno Stato unico: Una solida proposta a favore del termine dell’impasse israelo-palestinese].

Le opinioni sono soltanto mie.

(Traduzione di Aldo Lotta)




I conservatori britannici si impegnano a vietare i boicottaggi

Asa Winstanley

26 novembre 2019Electronic Intifada

Il partito conservatore al governo nel Regno Unito si è impegnato a vietare agli enti pubblici di aderire a “campagne di boicottaggio, disinvestimento o sanzioni contro Paesi stranieri”.

La promessa – inserita nel programma elettorale del partito – non fa il nome di alcuno Stato specifico, ma è chiaramente rivolta a proteggere Israele dal crescente movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).

Le campagne del BDS “minano la coesione della comunità”, afferma il documento programmatico, pubblicato domenica. I conservatori dicono che applicheranno il nuovo divieto se vinceranno le elezioni nazionali del 12 dicembre.

Se messo in pratica, si tratterebbe del secondo tentativo di questo genere da parte dei conservatori per arginare il BDS.

Nel febbraio 2016 Matt Hancock, ora importante ministro, si è recato a Gerusalemme per annunciare nuove misure volte a impedire agli enti pubblici britannici di boicottare Israele, durante una conferenza stampa congiunta insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Ma le nuove regole del governo del Regno Unito sulla gestione dell’autorità locale non sono state incisive e non hanno comportato nessuna nuova legge.

Il primo caso che si è basato sulla nuova normativa – promosso da un gruppo di pressione israeliano contro governi locali che avevano boicottato Israele – è stato bocciato dall’Alta Corte nel giugno 2016.

BDS nuovamente vietato?

Però c’era un’altra serie di direttive derivanti dal “divieto”. Tali direttive erano mirate ad impedire che gli enti pubblici che amministrano il regime pensionistico escludessero le imprese complici delle violazioni israeliane dei diritti umani.

Il nuovo impegno del programma elettorale arriva nel momento in cui la Campagna di solidarietà con la Palestina sta impugnando le norme anti-BDS presso la Corte Suprema, la più alta autorità giudiziaria del Regno Unito.

La settimana scorsa si è tenuta un’udienza ed una sentenza è prevista probabilmente per gennaio. Una fonte della Campagna ha detto che loro sono moderatamente ottimisti sull’esito.

A differenza del precedente “divieto”, la nuova promessa del programma elettorale sembra preludere alla presentazione di una nuova legge anti-BDS, o almeno un decreto che dichiari il boicottaggio di Israele “antisemita”.

L’affermazione del documento programmatico secondo cui le campagne BDS “minano la coesione della comunità” è quasi certamente un riferimento a quella falsa accusa.

Infatti il movimento BDS è sempre stato chiaro sul fatto di essere una campagna antirazzista che chiede eguali diritti per tutti.

Quest’anno i ministri del governo conservatore hanno diffamato i boicottaggi di Israele come antisemiti.

Calunnie

A maggio Jeremy Hunt, allora ministro degli Esteri del Regno Unito, ha espresso il suo appoggio alla dichiarazione non vincolante del Parlamento tedesco secondo cui “le argomentazioni e i metodi del movimento BDS sono antisemiti”.

La mozione tedesca ha anche calunniato il movimento BDS definendolo affine ai nazisti.

Il nuovo programma elettorale dei conservatori si pone in netto contrasto con quello del partito laburista di opposizione, che ha anzi appoggiato il movimento BDS.

La settimana scorsa il partito ha annunciato che un governo laburista sospenderebbe “immediatamente” la vendita di armi ad Israele ed all’Arabia Saudita.

Asa Winstanley è un giornalista di inchiesta e redattore associato di ‘The Electronic Intifada’. Vive a Londra

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Quest’anno Israele ha ucciso quasi 3 palestinesi alla settimana

Maureen Clare Murphy

29 novembre 2019 – Electronic Intifada

Venerdì 29 novembre il sedicenne Fahd al-Astal è morto dopo essere stato colpito all’addome dalle forze di occupazione israeliane durante le proteste lungo il confine tra Gaza e Israele.

Lo stesso giorno, Raed Rafiq Ahmad al-Sirsawi, 30 anni, è morto per le ferite riportate il 13 novembre nel corso della spirale di violenza israeliana contro Gaza.

Le loro morti portano a 132 il numero totale di palestinesi deceduti finora nel corso dell’anno a causa del fuoco israeliano. Ciò equivale a una media di quasi tre morti alla settimana.

Nel contempo un totale di 10 israeliani sono morti nello stesso periodo a causa della violenza palestinese.

Tredici volte più palestinesi che israeliani sono morti quest’anno per la violenza legata all’occupazione.

 

Prigioniero muore sotto custodia israeliana

Ma questa cifra non include i palestinesi che sono morti nelle carceri israeliane, tra cui Sami Abu Diyak, che martedì 26 novembre si è arreso al cancro [mentre era sotto la] custodia di Israele, fra le accuse di anni di mancanza di cure mediche.

Abu Diyak quest’anno è il quinto palestinese a morire nelle prigioni israeliane.

Contribuiscono alle morti palestinesi non comprese nelle statistiche della mortalità legata al conflitto anche le restrizioni agli spostamenti [inflitte] da Israele.

Tra questi casi vi sono [quelli dei] palestinesi morti in attesa del permesso di viaggio per [essere sottoposti] a cure mediche non disponibili nella Striscia di Gaza assediata.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che in ottobre Israele ha accolto solo il 58% delle oltre 1.750 domande presentate dai palestinesi di Gaza bisognosi di cure mediche in Israele e in Cisgiordania.

L’ organizzazione sanitaria internazionale ha anche affermato che il tasso di permessi concessi da Israele per i palestinesi feriti durante le proteste lungo il confine Gaza-Israele è molto più basso del tasso complessivo di concessioni. Da quando la Grande Marcia del Ritorno di Gaza è iniziata il 30 marzo 2018, è stato autorizzato solo il 18% delle domande di cure mediche in Israele e in Cisgiordania per i feriti nel corso delle proteste.

 

Trattamenti crudeli verso i pazienti

[Il caso di] una paziente preso in esame dall’Organizzazione Mondiale della Sanità illustra il trattamento crudele da parte di Israele nei confronti dei palestinesi a Gaza che richiedono cure mediche specialistiche.

Identificata dall’organizzazione sanitaria mondiale come Sherehan, una donna di 33 anni madre di quattro figli, la paziente è stata indirizzata dai medici di Gaza ad un ospedale nella città di Ramallah, in Cisgiordania, per cure mediche specialistiche dopo averle riscontrato un tumore addominale in crescita.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità “per Sherehan questo significava [dover] richiedere che Israele le rilasciasse un permesso per uscire da Gaza. Dal suo primo rinvio, al momento [Sherehan] ha fatto per 12 volte richiesta per [poter] uscire da Gaza per l’assistenza sanitaria e ogni volta senza successo.”

Le è stato negato un permesso otto volte, mentre in tre occasioni alla data del suo appuntamento la sua domanda è risultata “in fase di studio”, e una volta le è stato detto che il trattamento di cui aveva bisogno era disponibile a Gaza.

“Secondo il Ministero della Salute di Gaza, la complessa assistenza multidisciplinare richiesta per Sherehan non è disponibile localmente”, afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Sherehan ha dichiarato all’organizzazione: “Ho sofferto un anno di malattia, ma negli ultimi tre mesi mi sono sentita così abbattuta e depressa. Il tumore sta diventando più grande e i miei sintomi stanno peggiorando. Non dispongo di cure, solo di antidolorifici.”

Pur negando ai palestinesi come Sherehan l’accesso alle cure mediche necessarie, l’esercito israeliano si vanta dei suoi soldati che donano i capelli ai malati di cancro.

Il COGAT [coordinamento delle attività governative nei territori, ndtr.], il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana che si occupa delle autorizzazioni per le domande di viaggio presentate da pazienti come Sherehan, si è lamentato del rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Secondo il COGAT, in ottobre è stato accolto solo il 51% di tutte le domande di pazienti, il che è inferiore alla cifra del 58% fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Diamo a Cesare quel che è di Cesare – almeno il COGAT desidera essere riconosciuto come più crudele di quanto suggeriscono i rapporti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

 

Maureen Clare Murphy è redattrice associata di The Electronic Intifada e vive a Chicago.

 

(traduzione dall’Inglese di Aldo Lotta)




Un quartiere di Gerusalemme vessato rifiuta di sottomettersi

Jaclynn Ashly

22 Novembre 2019 – The Electronic Intifada

E’ un pericolo costante.

Amin Barakat non usa mezzi termini. Il cinquantenne abitante di Issawiyeh, quartiere di Gerusalemme est, dice che la vita nella zona non è sicura.

Non a causa del crimine, ma della polizia.

Ci sentiamo continuamente in pericolo. La polizia israeliana è ovunque. Non siamo sicuri nelle strade, nelle nostre scuole e neppure persino nelle nostre case,” racconta Barakat a “The Electronic Intifada.” “Ho troppa paura anche solo di mandare i miei figli a comprare qualcosa al negozio o di consentire loro di andare fuori da soli. Temo che possano essere arrestati.”

Issawiyeh è stato occupato da Israele nel 1967. Dopo la guerra Israele ha unilateralmente annesso tutta la zona di Gerusalemme, compresa Issawiyeh, e in conseguenza di ciò il quartiere è finito sotto la giurisdizione della polizia civile israeliana.

Durante gli ultimi mesi la zona ha dovuto affrontare una drastica impennata dell’attività della polizia che ha precipitato il quartiere nel caos.

Le luci lampeggianti blu e rosse dei veicoli della polizia israeliana sono diventate un incontro quotidiano nelle strade si Issawiyeh, mentre droni della polizia sorvolano [il quartiere] sorvegliando ogni movimento degli abitanti.

Proiettori della polizia penetrano nelle case degli abitanti, mentre poliziotti israeliani effettuano raid nel cuore della notte, facendo irruzione delle case e arrestando gli abitanti. In varie occasioni la polizia ha affermato che le sue attività sono dovute a qualunque cosa, dalla repressione di “cellule terroristiche” fino a quella di chi lancia pietre, ma gli abitanti e i gruppi per i diritti umani mettono decisamente in discussione ciò e affermano che le attività della polizia sono “ingiustificate”.

I posti di controllo e di blocco della polizia, arresti arbitrari e continue vessazioni degli abitanti di Issawiyeh hanno portato la tensione a un punto critico. Violenti scontri tra abitanti infuriati, che a volte lanciano pietre, e forze di sicurezza, compresi unità antisommossa e poliziotti di frontiera paramilitari che sparano lacrimogeni e proiettili ricoperti di gomma, hanno lasciato un bilancio di centinaia di abitanti feriti.

A luglio, circa un mese dopo l’inizio delle operazioni di polizia, Muhammad Obeid, 19 anni, è stato colpito e ucciso a Issawiyeh dalla polizia israeliana durante una protesta contro la brutalità della polizia, scatenando tre giorni di seguito di intensi scontri tra la polizia e gli abitanti di Issawiyeh.

Essi sono stati obbligati a chiudere i negozi, affermano, e il comitato dei genitori di Issawiyeh, che in genere si occupa di più banali questioni pedagogiche nella zona, ha convocato uno sciopero scolastico in tutto il quartiere.

I genitori sono troppo spaventati per mandare i propri figli fuori di casa in mezzo a quello che i gruppi per i diritti umani hanno definito un livello “senza precedenti” di attività della polizia nella zona.

Arresti e vessazioni arbitrari

La situazione è insopportabile,” ha detto in una recente intervista Muhammad Abu Hummus, un dirigente della comunità locale a The Electronic Intifada: “La polizia sta qui 24 ore al giorno. I genitori hanno paura di mandare i figli a scuola.”

Non c’è nessuna giustificazione per tutto questo. La polizia vuole vessarci senza alcuna ragione,” ha aggiunto.

Secondo Amy Cohen, direttrice dei rapporti internazionali e di sostegno di “Ir Amim”, un’organizzazione non governativa israeliana che documenta e sollecita attenzione su questioni riguardanti Gerusalemme, queste dirompenti operazioni di polizia a Issawiyah sono iniziate il 12 giugno.

Cohen ha documentato sviluppi sul terreno ad Issawiyeh e afferma che gli abitanti si sono lamentati delle incursioni quotidiane della polizia ormai da cinque mesi. Certo il villaggio ha subito per anni raid per la sicurezza e demolizioni di case, ma gli ultimi mesi sono stati particolarmente pesanti.

Qui c’è stata per mesi nelle strade non solo una presenza ostile della polizia armata, ci sono state anche palesi vessazioni contro gli abitanti. C’è una totale distruzione della vita quotidiana all’interno della comunità,” ha detto Cohen a The Electronic Intifada.

Le forze israeliane hanno piazzato posti di controllo e blocchi di polizia “totalmente arbitrari”, in orari casuali nella strada principale nel già congestionato quartiere, dice Cohen, bloccando la principale via di entrata e di uscita della comunità. I checkpoint e i blocchi hanno “creato un caos totale nel quartiere,” ha affermato.

Per giunta la polizia israeliana ha preso di mira gli abitanti con multe “casuali e arbitrarie”, per esempio per non aver parcheggiato in modo corretto l’auto, ha detto Cohen. In altri casi funzionari del Comune di Gerusalemme, scortati dalla polizia, hanno multato proprietari di negozi per aver aperto a una certa ora o per tenere scaffali o strutture fuori dal negozio, che secondo i funzionari devono ottenere un permesso.

Una campagna poliziesca “aggressiva”, che include arresti di abitanti che camminano per la strada e incursioni notturne, ha dato come risultato circa 500 abitanti arrestati da giugno, compresi minori. Secondo Cohen, solo circa il 20% degli arrestati ha ricevuto delle imputazioni a carico.

È una discrepanza notevole,” ha detto Cohen, notando che questi numeri mostrano che gli arresti che sono stati condotti sono casuali e arbitrari. Allo stesso modo tutti i minori arrestati, compreso un bambino di 9 anni, sono stati rilasciati entro le 24 ore senza che venissero accusati di qualcosa.

Secondo Barakat gli abitanti sono anche stati obbligati a pagare pesanti multe in seguito agli arresti, anche quando non sono state presentate accuse contro la persona arrestata. Ha evidenziato che all’inizio del mese la polizia ha arrestato un quindicenne di Issawiyeh per la seconda volta in un mese. Al padre del ragazzino è stato chiesto di pagare circa 1.500 dollari di cauzione per ogni arresto del figlio, dice Barakat.

Sciopero scolastico in tutto il quartiere

Abu Hummus, che Israele ha arrestato numerose volte per aver guidato la resistenza non violenta alle politiche israeliane nella Gerusalemme est occupata, ha detto a The Electronic Intifada che le condizioni imposte dall’aggressiva presenza poliziesca hanno seminato preoccupazione tra i genitori che si stavano preparando per l’inizio dell’anno scolastico.

In conseguenza di ciò il comitato dei genitori di Issawiyeh ha dichiarato che, se la polizia non avesse garantito che le forze di polizia sarebbero rimaste fuori dalle strade nelle ore in cui i ragazzini fanno il tragitto da casa a scuola e viceversa, all’inizio dell’anno scolastico avrebbero iniziato uno sciopero in tutto il quartiere riguardante nove scuole locali.

Abu Hummus, insieme a due membri del comitato dei genitori, è stato arrestato in agosto per aver convocato lo sciopero. È stato portato via dal letto in piena notte e accusato di “incitamento e appoggio al terrorismo.”

Tutti e tre sono stati rilasciati qualche giorno dopo. Prima che iniziasse la scuola il comitato, la polizia e il Comune di Gerusalemme sono riusciti ad arrivare ad un accordo verbale che ha evitato lo sciopero. Secondo Cohen, quando sono state aperte le porte delle scuole c’è stata una “occasionale riduzione” delle attività della polizia nel quartiere. Ma non è passato molto tempo che le forze di sicurezza hanno violato l’accordo e hanno ripreso le operazioni di disturbo.

Il 2 novembre, all’inizio del mese, per gli abitanti è stato raggiunto un punto di rottura, dopo che la polizia israeliana ha fatto irruzione in una scuola superiore locale e ha arrestato all’interno della proprietà della scuola uno studente sedicenne accusato di aver lanciato pietre contro la polizia. Secondo i media locali, sono scoppiati scontri, in quanto altri studenti hanno lanciato sedie contro la polizia, che allora ha sparato granate assordanti all’interno del cortile della scuola.

Il giorno dopo il comitato dei genitori ha dichiarato uno sciopero scolastico in tutto il quartiere che ha coinvolto circa 4.500 studenti dai 3 ai 18 anni.

Abbiamo decretato lo sciopero per salvare le vite dei nostri figli,” ha detto a The Electronic Intifada Barakat, padre di sette figli: “Le loro vite sono in pericolo. Non abbiamo avuto scelta. Dobbiamo fare in modo che i nostri figli vengano protetti.”

Il 4 novembre la polizia ha risposto arrestando gli stessi due membri del comitato dei genitori che erano stati fermati in agosto. Sono stati rilasciati il giorno dopo, dice Cohen, ma gli è stato rifilato un divieto di ingresso a Issawiyeh per sette giorni.

Perdere la speranza

Il 5 novembre gli abitanti hanno tenuto una manifestazione, mentre il comitato dei genitori ha partecipato a un altro incontro con il Comune di Gerusalemme e funzionari di polizia. È stato raggiunto un altro accordo verbale, che ha posto fine allo sciopero, che secondo Barakat includeva la formazione di un gruppo whatsapp con il comitato, il Comune e la polizia per migliorare la comunicazione tra le parti.

Tuttavia, secondo Cohen, solo due giorni dopo la polizia ha di nuovo ripreso le attività durante le ore degli spostamenti scolastici ed è andata pure oltre, affermando che nessun accordo del genere era stato raggiunto. Barakat sostiene che la polizia ha subito lasciato il gruppo whatsapp.

Ciò ha scatenato l’ondata di operazioni di polizia più intense e pesanti dal giugno scorso,” dice Cohen. La polizia israeliana ha notevolmente incrementato il numero di forze sul terreno a Issawiyeh che all’inizio del mese, il 9 novembre, “si è trasformato in una zona di guerra totale,” ha affermato.

Scontri con decine di poliziotti sono consistiti in “attacchi non provocati contro gli abitanti, terribili vessazioni e brutalità e l’uso di proiettili rivestiti di gomma, lacrimogeni e granate assordanti,” ha aggiunto Cohen.

Durante gli scontri sono rimasti feriti decine di abitanti, tra cui Abu Hummus. Un video degli incidenti, fornito dagli abitanti, mostra Abu Hummus di schiena che riprende i sensi con sangue che gli gronda dalla testa.

Anche un bambino di 8 mesi è stato vittima delle conseguenze per l’inalazione di gas lacrimogeni mentre era in casa sua.

Cohen dice che gli abitanti stanno perdendo la speranza per la situazione: “Sono arrivati al punto di sentirsi totalmente demoralizzati,” ha detto. “Stiamo parlando di cinque mesi di operazioni di polizia al giorno che hanno totalmente devastato le loro vite e quelle dei loro figli – e non se ne vede ancora la fine.”

Anche attivisti e organizzazioni israeliani sono comparsi in scena per dimostrare solidarietà con il quartiere, ma le loro iniziative di sostegno hanno fatto poco per limitare l’incremento delle attività della polizia nella comunità.

In un recente messaggio Ir Amim ha condannato il “palese abuso di potere” della polizia e ha evidenziato che gli abitanti di Issawiyeh, non essendo riusciti ad appellarsi a funzionari israeliani, ora stanno chiedendo un “intervento internazionale coordinato” per mettere immediatamente fine alle operazioni di polizia “al fine di ripristinare una vita normale nel quartiere.”

Barakat e Abu Hummus hanno detto a The Electronic Intifada che la polizia non ha informato gli abitanti di Issawiyeh sul perché si stiano mettendo in atto queste attività della polizia.

Portavoce della polizia israeliana e del Comune di Gerusalemme non hanno risposto alle molteplici richieste di un commento.

Nuova fase” di oppressione a Gerusalemme

Cohen ha detto a The Electronic Intifada che in alcuni momenti durante gli ultimi mesi la polizia ha sostenuto che le incursioni intendevano reprimere “cellule terroristiche” o abitanti che lanciavano pietre, bombe incendiarie e bottiglie molotov su una strada che porta alla colonia illegale di Maaleh Adumim.

Secondo Cohen, in base a indagini di Ir Amim ci sono stati “pochissimi” casi di lancio di pietre o eventi simili: “Non ci sono ragioni esplicite del perché siano state condotte operazioni ormai da cinque mesi. Non c’è alcuna giustificazione.”

Cohen ha affermato che la polizia ha avuto “carta bianca per operare come meglio crede,” aggiungendo che le operazioni sono guidate dal comandante della polizia di Gerusalemme Doron Yedid. “Egli (Yedid) vuole andarci giù con la mano pesante per reprimere il quartiere apparentemente senza ragione,” spiega Cohen.

Le altre istituzioni hanno fatto poco per intervenire. Non c’è una governance corretta né una corretta responsabilizzazione del comportamento della polizia. Gli abitanti sono stati fondamentalmente lasciati soli a fare i conti con una brutalità senza precedenti della polizia nella loro comunità.” Barakat afferma di credere che Israele “vuole solo renderci la vita impossibile per buttarci fuori da Gerusalemme.”

Gruppi per i diritti umani hanno da tempo evidenziato che le politiche discriminatorie di Israele a Gerusalemme est – che includono regolarmente la distruzione di case, l’assegnazione discriminatoria delle licenze edilizie e l’espulsione di palestinesi dalle proprie case a favore di coloni israeliani – intendono cacciare i palestinesi dalla città.

Con oltre il 70% di famiglie palestinesi nella Gerusalemme est occupata che vivono sotto il livello di povertà, se la vita diventa troppo cara hanno pochissime alternative se non spostarsi verso i sovraffollati quartieri di Gerusalemme dall’altra parte del muro di separazione di Israele o in Cisgiordania.

Dopo che Israele ha occupato Gerusalemme est nel 1967 ai palestinesi non è stata concessa la cittadinanza israeliana, ma sono stati invece rilasciati permessi di residenza permanente, che possono essere revocati da Israele per una serie di ragioni, compresa la scarsa lealtà verso lo Stato.

Dal 1967 e fino al 2017 a circa 15.000 palestinesi è stato revocato il documento di identità di Gerusalemme e sono stati espulsi dalla città.

Già in precedenza Issawiyeh ha subito azioni poliziesche draconiane. Nel quartiere c’è una lunga tradizione di organizzazione della comunità e l’attivismo contro l’occupazione israeliana rimane forte. Ma Cohen dice che le operazioni del passato non sono mai state così “infinite e incessanti.”

È una nuova fase di politiche oppressive rivolte contro la popolazione palestinese a Gerusalemme,” ha detto Cohen a The Electronic Intifada. “È un sistema per espellere e spogliare i palestinesi.”

Loro (Israele) vogliono schiacciare completamente qualunque resistenza e organizzazione comunitaria ancora esistente a Issawiyeh.”

Jaclynn Ashly è una giornalista che abita in Cisgiordania.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dieci morti a Gaza

Dieci morti a Gaza mentre Israele provoca una nuova guerra

Maureen Clare Murphy

12 novembre 2019 – Electronic Intifada

 

Gli attacchi missilistici israeliani contro Gaza e il lancio di razzi dal territorio sono continuati fino al tardo pomeriggio di martedì [12 novembre 2019] dopo che l’assassinio di un dirigente della Jihad Islamica all’inizio della giornata ha innescato lo scontro militare più grave da mesi.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza durante il giorno dieci palestinesi sono stati uccisi negli attacchi israeliani. Nel contempo Israele ha chiuso i punti di transito dal territorio assediato e ha ridotto la zona di pesca a sei miglia nautiche dalla costa di Gaza.

Martedì sera il portavoce dell’ala militare della Jihad Islamica ha giurato che “le prossime ore segneranno una vittoria per il popolo palestinese. Israele ha iniziato questa campagna, ma sarà avvisato quando questa finirà.”

Baha Abu al-Ata, 42 anni, descritto dai media israeliani come il comandante militare della Jihad Islamica nella zona nord di Gaza, è stato ucciso da un attacco aereo contro la sua casa nel quartiere di Shujaiyeh a Gaza City.

Anche sua moglie, Asma Abu al-Ata, 38 anni, è stata uccisa nell’attacco israeliano. Altre sette persone, compresi quattro minorenni, sono rimasti feriti e alcune case vicine e una scuola sono state danneggiate.

Nel frattempo nella capitale siriana la casa di Akram al-Ajouri, il capo dell’ala militare della Jihad Islamica, è stata presa di mira da un attacco aereo. La Siria ha accusato Israele dell’attacco.

Nel raid sarebbero state uccise due persone, compreso uno dei figli di al-Ajouri.

Combattenti palestinesi a Gaza hanno risposto all’attacco con il lancio di razzi che sono arrivati fino a Tel Aviv.  Ziad al-Nakhala, segretario generale della Jihad Islamica, ha affermato che “siamo in guerra” e che il primo ministro israeliano “ha oltrepassato ogni limite” uccidendo Abu al-Ata.

A Sderot, città del sud di Israele, una fabbrica di giocattoli è stata tra i luoghi colpiti dai razzi sparati da Gaza, e le immagini di una telecamera di sicurezza hanno mostrato un razzo che ha raggiunto un’autostrada, quasi colpendo un motociclista.

Martedì non ci sono informazioni di vittime gravi israeliane.

Martedì mattina un missile ha colpito gli uffici della Commissione Palestinese Indipendente per i Diritti Umani a Gaza City, ferendo leggermente un membro del personale.

Amnesty International ha condannato l’attacco, affermando che “aggressioni che prendono di mira edifici civili (sono) una violazione delle leggi internazionali.”

Il quotidiano israeliano “Haaretz” [giornale di centro sinistra, ndtr.] in seguito ha informato che il palazzo degli uffici a Gaza City era stato colpito da un razzo sparato da Gaza che è caduto troppo vicino, e non da un missile israeliano.

Israele ha sostenuto di aver sparato missili contro gruppi che lanciavano razzi in Israele e la Jihad Islamica avrebbe confermato la morte di uno dei suoi combattenti. L’esercito israeliano ha anche affermato di aver preso di mira fabbriche sotterranee e depositi di armi, così come campi di addestramento della Jihad Islamica.

In un discorso televisivo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che l’assassinio di Abu al-Ata è stato approvato 10 giorni fa.

“Questo terrorista ha lanciato centinaia di razzi e pianificava ulteriori attacchi,” ha detto Netanyahu. “Era una bomba a orologeria.”

“Non siamo interessati a un’escalation, ma se necessario risponderemo,” ha aggiunto Netanyahu.

Aviv Kohavi, capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, ha affermato che Abu al-Ata “ha agito in ogni modo per sabotare i tentativi di una tregua con Hamas.”

“Ci stiamo preparando da terra, cielo e mare per un’escalation,” ha aggiunto Kohavi.

In Israele alcuni commentatori hanno sollevato sospetti sulla tempistica e sui motivi dell’assassinio di Abu al-Ata.

Scrivendo per il quotidiano israeliano “Haaretz”, Chemi Shalev ha suggerito che Netanyahu intenda sabotare le possibilità che la “Lista Unitaria”, una fazione parlamentare prevalentemente composta da cittadini palestinesi di Israele, stringa un accordo per sostenere un governo guidato da Benny Gantz.

Gantz, il leader della coalizione “Blu e Bianco”, sta al momento cercando di formare un governo dopo che Netanyahu non ci è riuscito in seguito alle inconcludenti elezioni israeliane di settembre. Mentre i colloqui per formare una coalizione di governo proseguono, Netanyahu rimane capo del governo israeliano ad interim.

Gantz ha negato che gli sviluppi possano influire sui negoziati per un governo di coalizione, e ha detto che l’esercito israeliano ha preso la “decisione giusta” nell’uccidere Abu al-Ata.

Martedì molti mezzi di informazione in ebraico hanno informato che Netanyahu ha voluto l’uccisione di Abu al-Ata dopo che razzi sparati da Gaza lo hanno obbligato a lasciare il palco durante un comizio la settimana prima che si tenessero le elezioni di settembre.

Secondo il “Times of Israel” [quotidiano israeliano indipendente in lingua inglese, ndtr.] “Netanyahu era furioso e ha fatto subito pressioni su alti dirigenti della sicurezza perché approvassero l’assassinio di Abu al-Ata,” ma l’operazione è stata rimandata.

Ismail Haniyeh, il capo dell’ala politica di Hamas, ha accusato Israele del tentativo di impedire “il percorso per ristabilire la nostra unità nazionale” assassinando Abu al-Ata. Lo scorso mese Hamas ha indicato di essere pronta a tenere elezioni, che non ci sono più state dalla sorprendente vittoria del gruppo della resistenza alle elezioni legislative del 2006.

Nel contempo martedì Naftali Bennett, un acceso antiarabo, ha assunto il ruolo di ministro della Difesa israeliano. Netanyahu è stato titolare del portafoglio del ministero mentre i negoziati per la formazione del futuro governo israeliano sono in corso.

In precedenza Bennett si era vantato del suo sanguinoso passato. “Ho ucciso molti arabi nella mia vita, e non ho nessun problema al riguardo,” ha detto Bennett durante una riunione di governo nel 2013.

L’Unione Europea, la Germania, gli USA e il Regno Unito hanno condannato il lancio di razzi da Gaza, ma non l’esecuzione extragiudiziaria che l’ha determinato, appoggiando implicitamente l’attacco israeliano.

Il Comitato Nazionale del [movimento per il] Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni palestinese ha affermato che “la società civile internazionale deve agire per rendere Israele responsabile quando i governi non lo fanno.”

Amnesty International ha descritto gli sviluppi sui confini tra Gaza e Israele come “profondamente preoccupanti”, aggiungendo che “la successiva escalation della violenza tra Israele e i gruppi armati palestinesi suscita timori di un aumento dello spargimento di sangue tra i civili.”

L’associazione per i diritti umani ha affermato: “Israele ha precedenti nel perpetrare gravi violazioni delle leggi umanitarie internazionali a Gaza, compresi crimini di guerra, con impunità e dimostrando uno sconvolgente disprezzo per le vite dei palestinesi.”

L’uccisione di Abu al-Ata da parte di Israele martedì ricorda l’assassinio del comandante militare di Hamas Ahmed al-Jabari a Gaza sette anni fa in questo stesso mese.

Uccidendo al-Jabari Israele ruppe un cessate il fuoco con i gruppi armati di Gaza. Ciò scatenò alcuni giorni di duri combattimenti e un’invasione terrestre che uccise 170 palestinesi, tra cui più di 100 civili.

Durante quell’offensiva dieci membri della famiglia al-Dalu e due loro vicini vennero uccisi in un solo attacco israeliano contro un edificio residenziale a Gaza City.

Egitto e ONU starebbero cercando di riportare alla calma l’attuale situazione e di evitare uno scontro su vasta scala.

Questo articolo è stato aggiornato dalla sua pubblicazione iniziale per includere nuovi sviluppi.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)