Un quartiere di Gerusalemme vessato rifiuta di sottomettersi

Jaclynn Ashly

22 Novembre 2019 – The Electronic Intifada

E’ un pericolo costante.

Amin Barakat non usa mezzi termini. Il cinquantenne abitante di Issawiyeh, quartiere di Gerusalemme est, dice che la vita nella zona non è sicura.

Non a causa del crimine, ma della polizia.

Ci sentiamo continuamente in pericolo. La polizia israeliana è ovunque. Non siamo sicuri nelle strade, nelle nostre scuole e neppure persino nelle nostre case,” racconta Barakat a “The Electronic Intifada.” “Ho troppa paura anche solo di mandare i miei figli a comprare qualcosa al negozio o di consentire loro di andare fuori da soli. Temo che possano essere arrestati.”

Issawiyeh è stato occupato da Israele nel 1967. Dopo la guerra Israele ha unilateralmente annesso tutta la zona di Gerusalemme, compresa Issawiyeh, e in conseguenza di ciò il quartiere è finito sotto la giurisdizione della polizia civile israeliana.

Durante gli ultimi mesi la zona ha dovuto affrontare una drastica impennata dell’attività della polizia che ha precipitato il quartiere nel caos.

Le luci lampeggianti blu e rosse dei veicoli della polizia israeliana sono diventate un incontro quotidiano nelle strade si Issawiyeh, mentre droni della polizia sorvolano [il quartiere] sorvegliando ogni movimento degli abitanti.

Proiettori della polizia penetrano nelle case degli abitanti, mentre poliziotti israeliani effettuano raid nel cuore della notte, facendo irruzione delle case e arrestando gli abitanti. In varie occasioni la polizia ha affermato che le sue attività sono dovute a qualunque cosa, dalla repressione di “cellule terroristiche” fino a quella di chi lancia pietre, ma gli abitanti e i gruppi per i diritti umani mettono decisamente in discussione ciò e affermano che le attività della polizia sono “ingiustificate”.

I posti di controllo e di blocco della polizia, arresti arbitrari e continue vessazioni degli abitanti di Issawiyeh hanno portato la tensione a un punto critico. Violenti scontri tra abitanti infuriati, che a volte lanciano pietre, e forze di sicurezza, compresi unità antisommossa e poliziotti di frontiera paramilitari che sparano lacrimogeni e proiettili ricoperti di gomma, hanno lasciato un bilancio di centinaia di abitanti feriti.

A luglio, circa un mese dopo l’inizio delle operazioni di polizia, Muhammad Obeid, 19 anni, è stato colpito e ucciso a Issawiyeh dalla polizia israeliana durante una protesta contro la brutalità della polizia, scatenando tre giorni di seguito di intensi scontri tra la polizia e gli abitanti di Issawiyeh.

Essi sono stati obbligati a chiudere i negozi, affermano, e il comitato dei genitori di Issawiyeh, che in genere si occupa di più banali questioni pedagogiche nella zona, ha convocato uno sciopero scolastico in tutto il quartiere.

I genitori sono troppo spaventati per mandare i propri figli fuori di casa in mezzo a quello che i gruppi per i diritti umani hanno definito un livello “senza precedenti” di attività della polizia nella zona.

Arresti e vessazioni arbitrari

La situazione è insopportabile,” ha detto in una recente intervista Muhammad Abu Hummus, un dirigente della comunità locale a The Electronic Intifada: “La polizia sta qui 24 ore al giorno. I genitori hanno paura di mandare i figli a scuola.”

Non c’è nessuna giustificazione per tutto questo. La polizia vuole vessarci senza alcuna ragione,” ha aggiunto.

Secondo Amy Cohen, direttrice dei rapporti internazionali e di sostegno di “Ir Amim”, un’organizzazione non governativa israeliana che documenta e sollecita attenzione su questioni riguardanti Gerusalemme, queste dirompenti operazioni di polizia a Issawiyah sono iniziate il 12 giugno.

Cohen ha documentato sviluppi sul terreno ad Issawiyeh e afferma che gli abitanti si sono lamentati delle incursioni quotidiane della polizia ormai da cinque mesi. Certo il villaggio ha subito per anni raid per la sicurezza e demolizioni di case, ma gli ultimi mesi sono stati particolarmente pesanti.

Qui c’è stata per mesi nelle strade non solo una presenza ostile della polizia armata, ci sono state anche palesi vessazioni contro gli abitanti. C’è una totale distruzione della vita quotidiana all’interno della comunità,” ha detto Cohen a The Electronic Intifada.

Le forze israeliane hanno piazzato posti di controllo e blocchi di polizia “totalmente arbitrari”, in orari casuali nella strada principale nel già congestionato quartiere, dice Cohen, bloccando la principale via di entrata e di uscita della comunità. I checkpoint e i blocchi hanno “creato un caos totale nel quartiere,” ha affermato.

Per giunta la polizia israeliana ha preso di mira gli abitanti con multe “casuali e arbitrarie”, per esempio per non aver parcheggiato in modo corretto l’auto, ha detto Cohen. In altri casi funzionari del Comune di Gerusalemme, scortati dalla polizia, hanno multato proprietari di negozi per aver aperto a una certa ora o per tenere scaffali o strutture fuori dal negozio, che secondo i funzionari devono ottenere un permesso.

Una campagna poliziesca “aggressiva”, che include arresti di abitanti che camminano per la strada e incursioni notturne, ha dato come risultato circa 500 abitanti arrestati da giugno, compresi minori. Secondo Cohen, solo circa il 20% degli arrestati ha ricevuto delle imputazioni a carico.

È una discrepanza notevole,” ha detto Cohen, notando che questi numeri mostrano che gli arresti che sono stati condotti sono casuali e arbitrari. Allo stesso modo tutti i minori arrestati, compreso un bambino di 9 anni, sono stati rilasciati entro le 24 ore senza che venissero accusati di qualcosa.

Secondo Barakat gli abitanti sono anche stati obbligati a pagare pesanti multe in seguito agli arresti, anche quando non sono state presentate accuse contro la persona arrestata. Ha evidenziato che all’inizio del mese la polizia ha arrestato un quindicenne di Issawiyeh per la seconda volta in un mese. Al padre del ragazzino è stato chiesto di pagare circa 1.500 dollari di cauzione per ogni arresto del figlio, dice Barakat.

Sciopero scolastico in tutto il quartiere

Abu Hummus, che Israele ha arrestato numerose volte per aver guidato la resistenza non violenta alle politiche israeliane nella Gerusalemme est occupata, ha detto a The Electronic Intifada che le condizioni imposte dall’aggressiva presenza poliziesca hanno seminato preoccupazione tra i genitori che si stavano preparando per l’inizio dell’anno scolastico.

In conseguenza di ciò il comitato dei genitori di Issawiyeh ha dichiarato che, se la polizia non avesse garantito che le forze di polizia sarebbero rimaste fuori dalle strade nelle ore in cui i ragazzini fanno il tragitto da casa a scuola e viceversa, all’inizio dell’anno scolastico avrebbero iniziato uno sciopero in tutto il quartiere riguardante nove scuole locali.

Abu Hummus, insieme a due membri del comitato dei genitori, è stato arrestato in agosto per aver convocato lo sciopero. È stato portato via dal letto in piena notte e accusato di “incitamento e appoggio al terrorismo.”

Tutti e tre sono stati rilasciati qualche giorno dopo. Prima che iniziasse la scuola il comitato, la polizia e il Comune di Gerusalemme sono riusciti ad arrivare ad un accordo verbale che ha evitato lo sciopero. Secondo Cohen, quando sono state aperte le porte delle scuole c’è stata una “occasionale riduzione” delle attività della polizia nel quartiere. Ma non è passato molto tempo che le forze di sicurezza hanno violato l’accordo e hanno ripreso le operazioni di disturbo.

Il 2 novembre, all’inizio del mese, per gli abitanti è stato raggiunto un punto di rottura, dopo che la polizia israeliana ha fatto irruzione in una scuola superiore locale e ha arrestato all’interno della proprietà della scuola uno studente sedicenne accusato di aver lanciato pietre contro la polizia. Secondo i media locali, sono scoppiati scontri, in quanto altri studenti hanno lanciato sedie contro la polizia, che allora ha sparato granate assordanti all’interno del cortile della scuola.

Il giorno dopo il comitato dei genitori ha dichiarato uno sciopero scolastico in tutto il quartiere che ha coinvolto circa 4.500 studenti dai 3 ai 18 anni.

Abbiamo decretato lo sciopero per salvare le vite dei nostri figli,” ha detto a The Electronic Intifada Barakat, padre di sette figli: “Le loro vite sono in pericolo. Non abbiamo avuto scelta. Dobbiamo fare in modo che i nostri figli vengano protetti.”

Il 4 novembre la polizia ha risposto arrestando gli stessi due membri del comitato dei genitori che erano stati fermati in agosto. Sono stati rilasciati il giorno dopo, dice Cohen, ma gli è stato rifilato un divieto di ingresso a Issawiyeh per sette giorni.

Perdere la speranza

Il 5 novembre gli abitanti hanno tenuto una manifestazione, mentre il comitato dei genitori ha partecipato a un altro incontro con il Comune di Gerusalemme e funzionari di polizia. È stato raggiunto un altro accordo verbale, che ha posto fine allo sciopero, che secondo Barakat includeva la formazione di un gruppo whatsapp con il comitato, il Comune e la polizia per migliorare la comunicazione tra le parti.

Tuttavia, secondo Cohen, solo due giorni dopo la polizia ha di nuovo ripreso le attività durante le ore degli spostamenti scolastici ed è andata pure oltre, affermando che nessun accordo del genere era stato raggiunto. Barakat sostiene che la polizia ha subito lasciato il gruppo whatsapp.

Ciò ha scatenato l’ondata di operazioni di polizia più intense e pesanti dal giugno scorso,” dice Cohen. La polizia israeliana ha notevolmente incrementato il numero di forze sul terreno a Issawiyeh che all’inizio del mese, il 9 novembre, “si è trasformato in una zona di guerra totale,” ha affermato.

Scontri con decine di poliziotti sono consistiti in “attacchi non provocati contro gli abitanti, terribili vessazioni e brutalità e l’uso di proiettili rivestiti di gomma, lacrimogeni e granate assordanti,” ha aggiunto Cohen.

Durante gli scontri sono rimasti feriti decine di abitanti, tra cui Abu Hummus. Un video degli incidenti, fornito dagli abitanti, mostra Abu Hummus di schiena che riprende i sensi con sangue che gli gronda dalla testa.

Anche un bambino di 8 mesi è stato vittima delle conseguenze per l’inalazione di gas lacrimogeni mentre era in casa sua.

Cohen dice che gli abitanti stanno perdendo la speranza per la situazione: “Sono arrivati al punto di sentirsi totalmente demoralizzati,” ha detto. “Stiamo parlando di cinque mesi di operazioni di polizia al giorno che hanno totalmente devastato le loro vite e quelle dei loro figli – e non se ne vede ancora la fine.”

Anche attivisti e organizzazioni israeliani sono comparsi in scena per dimostrare solidarietà con il quartiere, ma le loro iniziative di sostegno hanno fatto poco per limitare l’incremento delle attività della polizia nella comunità.

In un recente messaggio Ir Amim ha condannato il “palese abuso di potere” della polizia e ha evidenziato che gli abitanti di Issawiyeh, non essendo riusciti ad appellarsi a funzionari israeliani, ora stanno chiedendo un “intervento internazionale coordinato” per mettere immediatamente fine alle operazioni di polizia “al fine di ripristinare una vita normale nel quartiere.”

Barakat e Abu Hummus hanno detto a The Electronic Intifada che la polizia non ha informato gli abitanti di Issawiyeh sul perché si stiano mettendo in atto queste attività della polizia.

Portavoce della polizia israeliana e del Comune di Gerusalemme non hanno risposto alle molteplici richieste di un commento.

Nuova fase” di oppressione a Gerusalemme

Cohen ha detto a The Electronic Intifada che in alcuni momenti durante gli ultimi mesi la polizia ha sostenuto che le incursioni intendevano reprimere “cellule terroristiche” o abitanti che lanciavano pietre, bombe incendiarie e bottiglie molotov su una strada che porta alla colonia illegale di Maaleh Adumim.

Secondo Cohen, in base a indagini di Ir Amim ci sono stati “pochissimi” casi di lancio di pietre o eventi simili: “Non ci sono ragioni esplicite del perché siano state condotte operazioni ormai da cinque mesi. Non c’è alcuna giustificazione.”

Cohen ha affermato che la polizia ha avuto “carta bianca per operare come meglio crede,” aggiungendo che le operazioni sono guidate dal comandante della polizia di Gerusalemme Doron Yedid. “Egli (Yedid) vuole andarci giù con la mano pesante per reprimere il quartiere apparentemente senza ragione,” spiega Cohen.

Le altre istituzioni hanno fatto poco per intervenire. Non c’è una governance corretta né una corretta responsabilizzazione del comportamento della polizia. Gli abitanti sono stati fondamentalmente lasciati soli a fare i conti con una brutalità senza precedenti della polizia nella loro comunità.” Barakat afferma di credere che Israele “vuole solo renderci la vita impossibile per buttarci fuori da Gerusalemme.”

Gruppi per i diritti umani hanno da tempo evidenziato che le politiche discriminatorie di Israele a Gerusalemme est – che includono regolarmente la distruzione di case, l’assegnazione discriminatoria delle licenze edilizie e l’espulsione di palestinesi dalle proprie case a favore di coloni israeliani – intendono cacciare i palestinesi dalla città.

Con oltre il 70% di famiglie palestinesi nella Gerusalemme est occupata che vivono sotto il livello di povertà, se la vita diventa troppo cara hanno pochissime alternative se non spostarsi verso i sovraffollati quartieri di Gerusalemme dall’altra parte del muro di separazione di Israele o in Cisgiordania.

Dopo che Israele ha occupato Gerusalemme est nel 1967 ai palestinesi non è stata concessa la cittadinanza israeliana, ma sono stati invece rilasciati permessi di residenza permanente, che possono essere revocati da Israele per una serie di ragioni, compresa la scarsa lealtà verso lo Stato.

Dal 1967 e fino al 2017 a circa 15.000 palestinesi è stato revocato il documento di identità di Gerusalemme e sono stati espulsi dalla città.

Già in precedenza Issawiyeh ha subito azioni poliziesche draconiane. Nel quartiere c’è una lunga tradizione di organizzazione della comunità e l’attivismo contro l’occupazione israeliana rimane forte. Ma Cohen dice che le operazioni del passato non sono mai state così “infinite e incessanti.”

È una nuova fase di politiche oppressive rivolte contro la popolazione palestinese a Gerusalemme,” ha detto Cohen a The Electronic Intifada. “È un sistema per espellere e spogliare i palestinesi.”

Loro (Israele) vogliono schiacciare completamente qualunque resistenza e organizzazione comunitaria ancora esistente a Issawiyeh.”

Jaclynn Ashly è una giornalista che abita in Cisgiordania.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dieci morti a Gaza

Dieci morti a Gaza mentre Israele provoca una nuova guerra

Maureen Clare Murphy

12 novembre 2019 – Electronic Intifada

 

Gli attacchi missilistici israeliani contro Gaza e il lancio di razzi dal territorio sono continuati fino al tardo pomeriggio di martedì [12 novembre 2019] dopo che l’assassinio di un dirigente della Jihad Islamica all’inizio della giornata ha innescato lo scontro militare più grave da mesi.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza durante il giorno dieci palestinesi sono stati uccisi negli attacchi israeliani. Nel contempo Israele ha chiuso i punti di transito dal territorio assediato e ha ridotto la zona di pesca a sei miglia nautiche dalla costa di Gaza.

Martedì sera il portavoce dell’ala militare della Jihad Islamica ha giurato che “le prossime ore segneranno una vittoria per il popolo palestinese. Israele ha iniziato questa campagna, ma sarà avvisato quando questa finirà.”

Baha Abu al-Ata, 42 anni, descritto dai media israeliani come il comandante militare della Jihad Islamica nella zona nord di Gaza, è stato ucciso da un attacco aereo contro la sua casa nel quartiere di Shujaiyeh a Gaza City.

Anche sua moglie, Asma Abu al-Ata, 38 anni, è stata uccisa nell’attacco israeliano. Altre sette persone, compresi quattro minorenni, sono rimasti feriti e alcune case vicine e una scuola sono state danneggiate.

Nel frattempo nella capitale siriana la casa di Akram al-Ajouri, il capo dell’ala militare della Jihad Islamica, è stata presa di mira da un attacco aereo. La Siria ha accusato Israele dell’attacco.

Nel raid sarebbero state uccise due persone, compreso uno dei figli di al-Ajouri.

Combattenti palestinesi a Gaza hanno risposto all’attacco con il lancio di razzi che sono arrivati fino a Tel Aviv.  Ziad al-Nakhala, segretario generale della Jihad Islamica, ha affermato che “siamo in guerra” e che il primo ministro israeliano “ha oltrepassato ogni limite” uccidendo Abu al-Ata.

A Sderot, città del sud di Israele, una fabbrica di giocattoli è stata tra i luoghi colpiti dai razzi sparati da Gaza, e le immagini di una telecamera di sicurezza hanno mostrato un razzo che ha raggiunto un’autostrada, quasi colpendo un motociclista.

Martedì non ci sono informazioni di vittime gravi israeliane.

Martedì mattina un missile ha colpito gli uffici della Commissione Palestinese Indipendente per i Diritti Umani a Gaza City, ferendo leggermente un membro del personale.

Amnesty International ha condannato l’attacco, affermando che “aggressioni che prendono di mira edifici civili (sono) una violazione delle leggi internazionali.”

Il quotidiano israeliano “Haaretz” [giornale di centro sinistra, ndtr.] in seguito ha informato che il palazzo degli uffici a Gaza City era stato colpito da un razzo sparato da Gaza che è caduto troppo vicino, e non da un missile israeliano.

Israele ha sostenuto di aver sparato missili contro gruppi che lanciavano razzi in Israele e la Jihad Islamica avrebbe confermato la morte di uno dei suoi combattenti. L’esercito israeliano ha anche affermato di aver preso di mira fabbriche sotterranee e depositi di armi, così come campi di addestramento della Jihad Islamica.

In un discorso televisivo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che l’assassinio di Abu al-Ata è stato approvato 10 giorni fa.

“Questo terrorista ha lanciato centinaia di razzi e pianificava ulteriori attacchi,” ha detto Netanyahu. “Era una bomba a orologeria.”

“Non siamo interessati a un’escalation, ma se necessario risponderemo,” ha aggiunto Netanyahu.

Aviv Kohavi, capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, ha affermato che Abu al-Ata “ha agito in ogni modo per sabotare i tentativi di una tregua con Hamas.”

“Ci stiamo preparando da terra, cielo e mare per un’escalation,” ha aggiunto Kohavi.

In Israele alcuni commentatori hanno sollevato sospetti sulla tempistica e sui motivi dell’assassinio di Abu al-Ata.

Scrivendo per il quotidiano israeliano “Haaretz”, Chemi Shalev ha suggerito che Netanyahu intenda sabotare le possibilità che la “Lista Unitaria”, una fazione parlamentare prevalentemente composta da cittadini palestinesi di Israele, stringa un accordo per sostenere un governo guidato da Benny Gantz.

Gantz, il leader della coalizione “Blu e Bianco”, sta al momento cercando di formare un governo dopo che Netanyahu non ci è riuscito in seguito alle inconcludenti elezioni israeliane di settembre. Mentre i colloqui per formare una coalizione di governo proseguono, Netanyahu rimane capo del governo israeliano ad interim.

Gantz ha negato che gli sviluppi possano influire sui negoziati per un governo di coalizione, e ha detto che l’esercito israeliano ha preso la “decisione giusta” nell’uccidere Abu al-Ata.

Martedì molti mezzi di informazione in ebraico hanno informato che Netanyahu ha voluto l’uccisione di Abu al-Ata dopo che razzi sparati da Gaza lo hanno obbligato a lasciare il palco durante un comizio la settimana prima che si tenessero le elezioni di settembre.

Secondo il “Times of Israel” [quotidiano israeliano indipendente in lingua inglese, ndtr.] “Netanyahu era furioso e ha fatto subito pressioni su alti dirigenti della sicurezza perché approvassero l’assassinio di Abu al-Ata,” ma l’operazione è stata rimandata.

Ismail Haniyeh, il capo dell’ala politica di Hamas, ha accusato Israele del tentativo di impedire “il percorso per ristabilire la nostra unità nazionale” assassinando Abu al-Ata. Lo scorso mese Hamas ha indicato di essere pronta a tenere elezioni, che non ci sono più state dalla sorprendente vittoria del gruppo della resistenza alle elezioni legislative del 2006.

Nel contempo martedì Naftali Bennett, un acceso antiarabo, ha assunto il ruolo di ministro della Difesa israeliano. Netanyahu è stato titolare del portafoglio del ministero mentre i negoziati per la formazione del futuro governo israeliano sono in corso.

In precedenza Bennett si era vantato del suo sanguinoso passato. “Ho ucciso molti arabi nella mia vita, e non ho nessun problema al riguardo,” ha detto Bennett durante una riunione di governo nel 2013.

L’Unione Europea, la Germania, gli USA e il Regno Unito hanno condannato il lancio di razzi da Gaza, ma non l’esecuzione extragiudiziaria che l’ha determinato, appoggiando implicitamente l’attacco israeliano.

Il Comitato Nazionale del [movimento per il] Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni palestinese ha affermato che “la società civile internazionale deve agire per rendere Israele responsabile quando i governi non lo fanno.”

Amnesty International ha descritto gli sviluppi sui confini tra Gaza e Israele come “profondamente preoccupanti”, aggiungendo che “la successiva escalation della violenza tra Israele e i gruppi armati palestinesi suscita timori di un aumento dello spargimento di sangue tra i civili.”

L’associazione per i diritti umani ha affermato: “Israele ha precedenti nel perpetrare gravi violazioni delle leggi umanitarie internazionali a Gaza, compresi crimini di guerra, con impunità e dimostrando uno sconvolgente disprezzo per le vite dei palestinesi.”

L’uccisione di Abu al-Ata da parte di Israele martedì ricorda l’assassinio del comandante militare di Hamas Ahmed al-Jabari a Gaza sette anni fa in questo stesso mese.

Uccidendo al-Jabari Israele ruppe un cessate il fuoco con i gruppi armati di Gaza. Ciò scatenò alcuni giorni di duri combattimenti e un’invasione terrestre che uccise 170 palestinesi, tra cui più di 100 civili.

Durante quell’offensiva dieci membri della famiglia al-Dalu e due loro vicini vennero uccisi in un solo attacco israeliano contro un edificio residenziale a Gaza City.

Egitto e ONU starebbero cercando di riportare alla calma l’attuale situazione e di evitare uno scontro su vasta scala.

Questo articolo è stato aggiornato dalla sua pubblicazione iniziale per includere nuovi sviluppi.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 




I lacrimogeni devastano le condizioni di vita a Gaza

Amjad Ayman Yaghi

6 novembre 2019 – The Electronic Intifada

Attraverso le sue fotografie Atia Darwish ha documentato come, nonostante il fatto di essere sottoposta a un brutale blocco israeliano, la gente di Gaza riesca ancora a trovare momenti di gioia.

La sua immagine di bambini palestinesi che mangiano un’anguria in spiaggia è stata ospitata in un’esposizione all’aperto che in settembre ha circolato in Libano.

Molti di quelli che si sono meravigliati dell’immagine probabilmente non erano a conoscenza del fatto che l’uomo che l’ha fotografata attualmente non può lavorare. Darwish ha perso parzialmente la vista – indispensabile per un fotografo – a causa di ferite inflittegli da Israele.

Il 14 dicembre dello scorso anno Darwish stava lavorando durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno nella zona orientale di Gaza. Stava scattando foto da circa mezz’ora quando è stato ferito da un candelotto lacrimogeno.

Darwish ha perso conoscenza. Quando l’ha riacquistata, si è ritrovato in terapia intensiva all’ospedale al-Shifa di Gaza City.

Il candelotto lo aveva colpito sotto l’occhio sinistro. Ha perso alcune ossa attorno all’occhio e anche la mascella è stata danneggiata.

L’occhio ha continuato a sanguinare per una settimana e il mio orecchio nei due giorni successivi,” dice.

Darwish teme di non poter recuperare la vista.

Nel febbraio di quest’anno è andato a farsi curare in Egitto. Lì un medico gli ha diagnosticato una fibrosi della retina e ha detto che non è curabile.

Posso solo essere sottoposto ad [un intervento di] chirurgia estetica,” dice Darwish. “Mi sento abbandonato. Il mondo non considera le bombe lanciate contro di noi da Israele come pericolose. Ma possono uccidere persone e i sogni dei nostri giovani.”

Darwish con l’occhio sinistro non può vedere a più di 15 cm. È anche diventato parzialmente sordo.

Il drammatico cambiamento del suo aspetto provocato dalla ferita lo ha scioccato. “Quando sono tornato a Gaza (dall’Egitto), mi sono sentito senza speranza guardando le vecchie foto di me su Facebook e Instagram,” dice. “Non sarò mai più così.”

Darwish spera di riprendere a lavorare come fotografo, facendo affidamento sul suo occhio destro. “Dovrò stare più attento,” afferma.

Non era la prima volta che Darwish veniva colpito da un candelotto lacrimogeno mentre fotografava la Grande Marcia del Ritorno.

Nel luglio dello scorso anno uno di questi candelotti lo ha colpito alla gamba destra. In seguito ha dovuto essere curato per le ustioni.

Non letali?

Le sue ferite sono tutt’altro che rare. Benché l’esercito israeliano descriva i lacrimogeni come “non letali”, queste armi hanno ucciso [dei] palestinesi.

Almeno sette persone sono morte perché colpite da candelotti lacrimogeni sparati da Israele durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno, iniziate il 30 marzo 2018. Quattro delle vittime erano minorenni.

Hasan Nofal è morto dopo essere stato colpito a febbraio da un lacrimogeno sparato verso i manifestanti. Aveva solo 16 anni.

Suo padre Nabil sta ancora cercando di capire cosa sia successo.

In un primo tempo, quando ha saputo che Hasan era stato ferito, Nabil non ha pensato che la ferita potesse essere troppo grave. Hasan si trovava ad una distanza sufficiente dalla barriera che separa Gaza da Israele, ha pensato Nabil.

Hasan è morto quattro giorni dopo essere stato portato in ospedale.

Mio figlio era innocente,” dice Nabil. “Israele sa che le bombe che lancia stanno uccidendo persone?”

Mentre la loro tragedia viene spesso ignorata dai mezzi di comunicazione occidentali, i manifestanti sono regolarmente feriti a Gaza. “Al Mezar”, un’organizzazione per i diritti umani, ha informato che solo il 25 ottobre 13 persone che hanno partecipato alla Grande Marcia del Ritorno sono state direttamente colpite da candelotti lacrimogeni. Ahmad Ammar, un ventitreenne di al-Shujaiyeh, un quartiere di Gaza City, è stato colpito da uno di questi candelotti a settembre. La bocca e la guancia destra sono rimaste gravemente ustionate, provocando danni a lungo termine al suo volto.

Ero lontano dalla barriera di confine,” dice Ammar. “Stavo bevendo un succo perché avevo la nausea a causa dei gas lacrimogeni, che hanno un forte odore. Quando ho iniziato lentamente ad allontanarmi ho sentito qualcuno gridarmi di stare attento alle bombe lacrimogene visibili vicino a me. Mi sono girato e improvvisamente sono stato colpito da una di loro.”

Disoccupato

Ammar ha perso conoscenza. “Quando mi sono risvegliato ero in ospedale,” racconta. “Alcuni dei miei amici erano vicino a me. Ho chiesto loro uno specchio per vedere la mia faccia, ma si sono rifiutati di darmelo.”

Ammar era solito vendere ortaggi in un mercato locale. Da quando è stato ferito non è tornato a lavorare. Non può pensare ad altro che alla sua ferita e ad ottenere una terapia correttiva. “Ho bisogno di una chirurgia estetica,” dice. “Sfortunatamente non si può avere a Gaza. Alcuni dottori mi hanno detto che qui non abbiamo le risorse necessarie. E fuori da Gaza è molto cara.”

I lacrimogeni che l’occupazione israeliana spara contro di noi uccidono i nostri sogni e le nostre speranze,” afferma. “Ogni giorno mi alzo e mi vedo allo specchio. Mi sento malissimo.”

Anche Mohammad Fseifes è rimasto disoccupato a causa delle ferite riportate durante una protesta a fine maggio.

Lavorava nelle costruzioni e nell’agricoltura nella zona di Khan Younis a Gaza. Da quando è rimasto ferito non è riuscito a trovare un lavoro.

Da circa cinque mesi ha frequenti dolori alla testa e stenta a dormire. Non si sente sufficientemente bene neppure per giocare a pallone.

Fseifes si trovava nei pressi della barriera di confine quando le truppe israeliane lo hanno colpito con un candelotto lacrimogeno. “Ricordo di essere caduto a terra,” dice. “Sei giorni dopo mi sono svegliato e ho visto mio padre. Ho forti dolori alla testa. Il medico mi ha detto che il mio cranio è stato fratturato.”

Sono molto triste quando mi guardo allo specchio,” aggiunge. “Il medico dice che posso essere operato al cranio, ma solo fuori da Gaza. Non so cosa ne sarà di me.”

Amjad Ayman Yaghi è un giornalista con sede a Gaza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Twitter censura le notizie dalla Palestina

Ali Abunimah

4 novembre 2019 – Electronic Intifada

Twitter ha cancellato, senza preavviso o motivazioni, gli account di Quds News Network, un’importante rete di notizie palestinesi.

Twitter non ha fornito nessun chiarimento sul perché nel fine settimana abbia cancellato gli account di Quds News Network , un importante organo di informazione palestinese.

Questo allarmante atto di censura è un’ulteriore segnale della complicità delle principali compagnie di social media nei tentativi di Israele di nascondere notizie e informazioni riguardanti i suoi abusi nei confronti dei diritti dei palestinesi.

Lunedì QNN ha rivelato che sabato mattina i suoi quattro principali account sono stati sospesi senza preavviso o motivazioni.

La QNN ha dichiarato di aver tentato di chiedere la sospensione [della procedura] attraverso il sito Web di Twitter, ma di non aver ricevuto risposta.

Twitter in genere avvisa gli utenti sulle presunte violazioni delle sue regole di servizio e offre loro l’opportunità di rimuovere i contenuti in violazione o di fare ricorso contro una decisione.

Electronic Intifada ha anche scritto sabato all’ufficio stampa di Twitter per richiedere delle spiegazioni riguardo alle iniziative della compagnia contro la QNN, ma non ha ricevuto risposta.

La QNN ha riferito che “rifiuta di rispondere alle pressioni israeliane, che attaccano le notizie palestinesi con il pretesto di combattere “violenza e terrorismo”‘

“Tali pratiche sono del tutto funzionali all’occupazione israeliana contro il popolo palestinese”, ha aggiunto la dichiarazione.

The Electronic Intifada nei suoi articoli ha frequentemente citato i tweet della QNN, in quanto la rete fornisce spesso una copertura quasi in tempo reale degli eventi sul terreno in tutta la Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza. Tale copertura è risultata altamente affidabile.

Twitter ha precedentemente imposto la censura militare israeliana costringendo gli utenti a eliminare dei tweet specifici.

Ma eliminare integralmente delle fonti giornalistiche dalla sua piattaforma segna una nuova fase nel tentativo di bloccare le informazioni da e sulla Palestina.

L’azione di Twitter fa fatto seguito a una recente decisione dell’Autorità palestinese di bloccare l’accesso ai siti Web di decine di organi di informazione palestinesi, tra cui la QNN, nel segno di una grave repressione della libertà di espressione.

L’Autorità Nazionale Palestinese collabora a stretto contatto con le forze di occupazione israeliane all’insegna del “coordinamento per la sicurezza”.

L’azione di Twitter fa anche seguito ad una lunga campagna di censura di Facebook rivolta a giornalisti e pubblicazioni palestinesi.

Pressione del Congresso

Alcuni utenti di Twitter hanno sottolineato che la sospensione degli account della QNN è coincisa con la chiusura degli account associati alle organizzazioni che si oppongono a Israele, in particolare di Hamas e degli Hezbollah libanesi – che Israele e gli Stati Uniti considerano “terroristi”.

Twitter sembra aver disabilitato l’account di Al Manar, un canale televisivo gestito da Hezbollah [si tratta di una rete televisiva libanese già messa al bando nel 2004 dagli USA e, successivamente, da alcune Nazioni europee, n.d.tr.].

Questa censura fa seguito alle pressioni dei membri del Congresso che a settembre hanno scritto a Twitter e ad altri social media chiedendo la chiusura dell’account di Al Manar e degli account associati ad Hamas.

I parlamentari hanno chiesto alle aziende di fornire un “piano dettagliato e una sequenza temporale sulle modalità della rimozione dei contenuti e degli account della [Organizzazione terroristica straniera], nonché degli account delle fonti di propaganda che diffondano ulteriori contenuti terroristici”.

In una prima risposta ai parlamentari – il democratico Josh Gottheimer del New Jersey e i repubblicani Tom Reed di New York e Brian Fitzpatrick della Pennsylvania -, Twitter ha dichiarato che avrebbe rimosso i cosiddetti contenuti “terroristici”.

Tuttavia, la compagnia di social media ha inizialmente resistito alla richiesta perentoria di prendere severi provvedimenti anche contro i discorsi di partiti politici e media.

Twitter ha affermato di “poter fare delle eccezioni limitatamente ai gruppi che si siano ravveduti o che stiano attualmente impegnandosi in processi di soluzione pacifica, nonché ai gruppi che abbiano rappresentanti nominati a cariche pubbliche attraverso le elezioni,

Ma i parlamentari hanno continuato a fare pressione, e Gottheimer ha accusato Twitter di “opporsi alle leggi degli Stati Uniti sostenendo palesemente organizzazioni terroristiche straniere, tra cui Hamas e Hezbollah”. “Twitter sta letteralmente e arrogantemente contestando la decisione del governo degli Stati Uniti riguardo a ciò che costituisce un’organizzazione terroristica”, ha aggiunto Gottheimer.

Il deputato afferma che il governo ha il diritto di decidere con decreto esecutivo quali organizzazioni possano o meno avere la parola o essere ascoltate dagli americani semplicemente etichettandole come “terroriste” – una palese violazione del Primo Emendamento.

Ma invece di difendere i diritti di libertà di parola, questa volta sembra che Twitter abbia ceduto alle pressioni politiche e alle intimidazioni sopprimendo una vasta gamma di account che sfidano la politica israeliana e americana.

Essi includono quelli della QNN, una rete indipendente.

Il deputato Gottheimer è un importante sostenitore della censura dei media al fine di proteggere Israele.

L’anno scorso ha firmato una lettera in cui si chiedeva che il governo degli Stati Uniti indicasse Al Jazeera come un “agente straniero” perché la rete aveva realizzato un documentario che rivelava attività segrete negli Stati Uniti da parte di Israele e della sua lobby.

Al Jazeera non ha mai trasmesso il documentario, The Lobby – USA, dopo che il finanziatore della rete del Qatar è stato sottoposto a forti pressioni da parte della lobby israeliana.

Tuttavia, dopo esser entrato in possesso di una copia fatta filtrare clandestinamente, un anno fa Electronic Intifada ha divulgato pubblicamente il film completo.

Seguire le imposizioni del governo?

Twitter sembra seguire le imposizioni delle autorità statunitensi per mettere a tacere anche in altri Paesi i nemici [da loro] ufficialmente indicati.

A settembre, ad esempio, ha chiuso gli account dei media e [quelli] di importanti funzionari cubani.

L’anno scorso ha anche chiuso gli account appartenenti all’ufficio stampa del governo venezuelano.

Nel frattempo, Twitter consente alle forze di occupazione israeliane di utilizzare liberamente la sua piattaforma per esaltare i crimini di guerra contro i palestinesi.

Twitter non è inoltre riuscito a sopprimere le dilaganti minacce di morte contro Ilhan Omar e altri parlamentari statunitensi che sono stati presi di mira da istigazioni razziste e da campagne diffamatorie per aver criticato Israele e la politica estera degli Stati Uniti.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Settant’anni a sparare ai rifugiati

Jake Batinga 

8 ottobre 2019 – The Electronic Intifada 

Dal marzo del 2018 si sono tenute a Gaza delle proteste settimanali, note come la Grande Marcia del Ritorno.

I dimostranti esigono che alle persone sradicate dalle forze sioniste durante la Nakba, la pulizia etnica della Palestina nel 1948 sia permesso di tornare a casa. Questo diritto al ritorno era stato riconosciuto dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 194, approvata nel dicembre del 1948.

Israele ha risposto con brutalità alle richieste che sia rispettato questo diritto fondamentale. Oltre 210 palestinesi sono stati uccisi durante la Grande Marcia del Ritorno e oltre 9000 sono stati feriti da proiettili veri.

Oltre a pretendere che il diritto al ritorno sia rispettato, negli ultimi settant’anni i rifugiati palestinesi hanno cercato, di tanto in tanto, di esercitare quel diritto e sono stati trattati con estrema violenza.

Negli anni seguenti l’adozione della risoluzione 194 dell’ONU, molti abitanti di Gaza hanno cercato di attraversare il confine con Israele, Stato di recentissima costituzione. Con un’espressione di sapore orwelliano le autorità israeliane hanno definito questi rifugiati che cercavano di tornare degli “infiltrati.”

Nel suo libro Le guerre di confine di Israele. 1949-1956, lo storico Benny Morris scrive che le cosiddette infiltrazioni erano “una conseguenza diretta dell’espropriazione di centinaia di migliaia di palestinesi.”

I rifugiati cercavano di ricongiungersi con le proprie famiglie, di coltivare i campi, di recuperare le proprietà perdute e naturalmente di rivedere le loro vecchie case.

Sparare a “tutto ciò che si muove”

Le guerre di confine di Israele fu pubblicato nel 1997 – sette anni prima che Morris sostenesse che le forze sioniste avrebbero dovuto espellere tutti i palestinesi negli anni ’40. Nonostante i suoi tentativi di difendere la pulizia etnica, Morris non ha mai ripudiato gli importanti fatti che aveva in precedenza scoperto.

Grazie al suo lavoro noi continuiamo a scoprire molto sui crimini commessi nel nome di Israele e della sua ideologia di Stato, il sionismo.

Egli racconta, per esempio, di come Israele abbia applicato la politica di “fuoco a volontà” contro i rifugiati che cercano di ritornare a casa. Secondo Morris, le forze israeliane “sparavano a tutto ciò che si muoveva” e spesso giustiziavano “sul posto” dei rifugiati feriti. 

In conseguenza di questa politica di fuoco indiscriminato, dal 1949 al 1956 sono stati uccisi tra i 2700 e i 5000 rifugiati, per la gran parte civili disarmati. Morris scrive inoltre che “nessun soldato, poliziotto o civile israeliano è mai stato processato per aver sparato e ucciso un infiltrato arabo disarmato.”

Mentre i rifugiati palestinesi venivano massacrati quando tentavano di esercitare il loro diritto al ritorno, il parlamento israeliano, la Knesset, nel 1950 approvò la legge cinicamente chiamata “ del ritorno” che garantiva agli ebrei in tutto il mondo il diritto di ottenere la cittadinanza israeliana e vivere in Israele.

Quelli che immigravano in Israele, molti dei quali erano sopravvissuti all’Olocausto, spesso si insediavano nelle case vuote dei rifugiati palestinesi.

Un’altra politica implementata contro i rifugiati palestinesi che cercavano di tornare a casa era nota come “ritorsione.”

Israele “operava rappresaglie” facendo incursioni nei villaggi in Giordania, Egitto, Gaza e Siria. Questi raid avevano lo scopo di punire le comunità che si presumeva avessero aiutato il rientro dei rifugiati.

Nel suo libro Il muro di ferro. Israele e il mondo arabo lo storico Avi Shlaim scrive che le rappresaglie erano in realtà “una forma di punizione collettiva contro interi villaggi.”

Un caso di “rappresaglia” degno di nota è avvenuto nell’ottobre del 1953 nel villaggio giordano di Oibya.

Secondo il libro di Shlaim, i commando israeliani assalirono Oibya e costrinsero gli abitanti a restare nelle proprie case, che poi furono fatte saltare in aria con dentro la gente. Almeno 69 persone furono uccise, la maggioranza donne e bambini.

Il capo di questo raid era un giovane comandante di nome Ariel Sharon, che in seguito fu soprannominato “il macellaio di Beirut” per il suo ruolo nel massacro di massa del 1982 in Libano nei campi di rifugiati palestinesi di Sabra e Shatila.

Addossare la colpa agli altri

Israele ha costantemente cercato di dare la colpa delle sue violenze agli altri.

Negli anni ’50, il governo israeliano incolpava i governi arabi e gli stessi rifugiati palestinesi. Secondo Shlaim, Israele sosteneva che l’uccisione di civili era “una forma legittima di auto-difesa.”

Parole identiche, o quasi, vengono usate oggi dai leader politici di Israele.

Benjamin Netanyahu, primo ministro di Israele, ha invocato “l’auto-difesa” per cercare di giustificare l’uccisione di manifestanti disarmati a Gaza. L’anno scorso, dopo un massacro israeliano a Gaza, Netanyahu ha affermato che lo Stato stava agendo per “proteggere la sua sovranità e la sicurezza dei suoi cittadini.”

Quando è stato trasmesso un video che mostrava le truppe israeliane esultare allegramente e ridere mentre un cecchino sparava a un manifestante, i politici israeliani si sono affrettati a difendere i soldati.

Avigdor Lieberman, l’allora ministro della Difesa israeliano, dichiarò che il cecchino nel video “meritava una decorazione.” Naftali Bennett, anche lui all’epoca ministro del governo, disse che “giudicare i soldati perché non si esprimono elegantemente mentre stanno difendendo i nostri confini non è serio.”

Oggi il governo di Israele denigra i manifestanti di Gaza chiamandoli “terroristi.” Benny Morris ha fatto notare che “infiltrato”, il termine usato per i rifugiati palestinesi che cercano di tornare a casa, è rapidamente diventato sinonimo di “terrorista.”

Nello stesso modo in cui le autorità israeliane hanno tentato di sfuggire alla responsabilità dei loro attacchi sui vicini arabi negli anni ’50, i politici di oggi cercano di dare la colpa delle morti dei manifestanti a Gaza ad Hamas.

Lieberman ha asserito che “nessun civile innocente” ha preso parte alle proteste a Gaza, che lui ha soprannominato la “marcia del terrorismo.” Tutti i manifestanti, secondo Lieberman, sono membri di Hamas.

Si può interpretare in modo diverso: i palestinesi hanno combattuto per i loro diritti negli anni immediatamente dopo la Nakba, così come stanno facendo nel ventunesimo secolo.

La brutalità di Israele continua e così fa anche la lotta contro Israele.

Jake Batinga è uno scrittore e attivista basato in California. È vissuto nella città di Hebron nella Cisgiordania occupata quando lavorava con l’International Solidarity Movement, [movimento internazionale di solidarietà e lotta non violenta per la liberazione della Palestina, ndtr.] per documentare le violazioni dei diritti umani da parte dell’esercito israeliano e dei coloni.

(Traduzione di Mirella Alessio)




I costruttori dei muri dell’apartheid israeliana speculano sulla militarizzazione dei confini statunitensi

Nora Barrows-Friedman

8 ottobre 2019 – Electronic Intifada

Una grande azienda di armamenti israeliana è stata scelta come uno delle principali beneficiari della speculazione sulla militarizzazione dei confini statunitensi.

Secondo la ricerca del giornalista Todd Miller, Elbit Systems ha ottenuto dal governo degli Stati Uniti contratti per la protezione della frontiera per un valore di 187 milioni di dollari.

Il più importante, assegnato durante l’amministrazione Obama, è quello relativo alla costruzione di più di 50 torri di sorveglianza a ridosso del confine tra Stati Uniti e Messico per la Customs and Border Protection [Agenzia delle Dogane e della Frontiera] (CBP) del governo degli Stati Uniti.

Dieci di quelle torri si troveranno su terreni appartenenti alla Nazione Indigena dei Tohono O’odham in Arizona.

Un’ analisi di Bloomberg del 2014 ha previsto che i profitti iniziali di Elbit potrebbero moltiplicarsi se il Congresso autorizzasse maggiori stanziamenti per la militarizzazione del confine.

Il rapporto di Miller – “Più di un muro: speculazione aziendale e militarizzazione dei confini statunitensi” – è stato recentemente pubblicato dal Transnational Institute [Istituto Transnazionale], un gruppo di ricerca sui diritti umani, in collaborazione con No More Deaths [Non Più Morti], un’organizzazione umanitaria che protegge i migranti lungo il confine meridionale degli Stati Uniti.

Il rapporto traccia un profilo delle 14 principali società che traggono profitto dalla militarizzazione delle frontiere statunitensi, inclusa Elbit.

Nel 2004, Elbit ha vinto un contratto con il governo degli Stati Uniti per la fornitura di droni Hermes da utilizzare lungo il confine.

L’organizzazione benefica britannica War on Want [Lotta contro la Povertà n.d.tr.] nel 2013 ha dichiarato che Israele “ha ‘testato sul campo’, nel corso degli attacchi a Gaza, quei droni che hanno causato la morte di molti palestinesi, compresi bambini”.

In particolare, afferma il nuovo rapporto, Elbit “vende un’esperienza maturata attraverso la costruzione dei muri in Cisgiordania e a Gaza”.

Da quando nel 2002 Israele ha iniziato a costruire il suo muro intorno a Gerusalemme e altrove, all’interno della Cisgiordania occupata, Elbit e le sue filiali hanno incassato contratti per l’installazione di tecnologie di sorveglianza elettronica “progettate per mantenere operativi i centri di comando e controllo [dell’esercito israeliano]”.

Il muro della Cisgiordania è illegale ai sensi del diritto internazionale e, sulla base di una sentenza del 2004 della Corte di giustizia internazionale, deve essere smantellato.

Nel 2013 Elbit ha installato sistemi simili nelle alture del Golan siriane occupate, grazie ad un contratto del valore di 55 milioni di euro.

Il rapporto afferma che due anni dopo Elbit ha iniziato a sviluppare una “tecnologia di rilevazione dei tunnel” da utilizzare attorno alla Striscia di Gaza assediata. Tale tecnologia sarebbe diventata parte di un muro sotterraneo profondo circa 40 metri che Israele ha iniziato a costruire nel 2017.

In occasione della gara per il contratto sulla frontiera tra Stati Uniti e Messico, Elbit ha presentato come caratteristica auto-promozionale l’impegno ultra-decennale nel “proteggere i confini più difficili del mondo” e il possesso di una “comprovata esperienza”.

Una manna

Insieme a Elbit, società del settore bellico tra cui Raytheon, Lockheed Martin, Boeing, General Dynamics, G4S, IBM e Northrop Grumman hanno incassato quello che il rapporto descrive come una “manna [proveniente dalla politica] di protezione delle frontiere”.

Tra il 2006 e il 2018, i contratti per la militarizzazione delle frontiere statunitensi con tali società hanno totalizzato almeno 80,5 miliardi di dollari.

Ma, secondo le stime del rapporto, questa somma è “certamente inferiore a quella reale” poiché le agenzie che emettono i contratti non sono state sempre trasparenti.

Secondo il rapporto, gli stanziamenti annuali per la militarizzazione delle frontiere statunitensi sono più che raddoppiati negli ultimi 15 anni e sono aumentati di oltre il 6.000% dal 1980.

Alcune società incaricate dalla CBP hanno commesso significative violazioni etiche.

Ma, afferma il rapporto, i ripetuti scandali che coinvolgono alcune delle più grandi società [impegnate nel campo] della sicurezza delle frontiere “hanno fatto poco per ridurre il flusso dei guadagni”.

G4S, la più grande compagnia al mondo nell’ambito della sicurezza e importante appaltatore statunitense, ha dovuto affrontare procedimenti legali per abuso e morte di detenuti negli Stati Uniti e nel Regno Unito.

Gli attivisti hanno esercitato con successo pressioni su istituzioni e governi perché interrompessero i contratti con G4S a causa delle violazioni dei diritti umani.

Questi abusi includono il ruolo nelle prigioni israeliane in cui i palestinesi vengono regolarmente torturati.

Lobbismo verso i parlamentari

Le aziende hanno fatto pressioni su esponenti politici statunitensi e hanno contribuito alle [loro] campagne elettorali nel tentativo di espandere i contratti con la CBP.

Elbit, ad esempio, ha finanziato le deputate repubblicane del Congresso Martha McSally dell’Arizona e Kay Granger del Texas.

McSally ha usato la retorica per demonizzare gli immigrati o i richiedenti asilo.

È una convinta sostenitrice delle brutali politiche sulle frontiere dell’amministrazione Trump.

E Granger è un membro di rango del Comitato per gli stanziamenti della Camera che assegna i finanziamenti per la militarizzazione delle frontiere.

Il rapporto afferma che è tempo di rivelare come le aziende che traggono profitto dalla crudeltà e dalla militarizzazione alle frontiere influenzino i parlamentari.

“La costante spinta verso [la costruzione] di ulteriori barriere di confine, verso maggiori tecnologie, più incarcerazioni, maggiore criminalizzazione, fa parte – sostiene – di un modello aziendale che aderisce alle dinamiche imprenditoriali legate alla dottrina della crescita”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Artista israeliana in Germania messa in guardia perché non appoggi il BDS

Tamara Nassar

4 ottobre 2019 – Electronic Intifada

I responsabili di un locale in Germania hanno comunicato a un’artista tedesco-israeliana che il suo imminente concerto a Monaco sarà annullato se lei manifesta il proprio sostegno al movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi.

Il centro culturale Gasteig ha mandato una lettera a Nirit Sommerfeld, una discendente di sopravvissuti all’Olocausto, in cui esige che, durante il concerto del 5 ottobre, non faccia commenti antisemiti o di sostegno al BDS, mettendo insieme le due cose.

Se risultasse che il testo riportato qui sopra verrà menzionato durante l’evento, saremo costretti ad annullarlo,” si sostiene nella lettera.

La musicista klezmer [musica tipica degli ebrei dell’Europa orientale, ndtr.] ha risposto garantendo al centro culturale che lei dal palco non ha mai parlato di BDS, ma è comunque indignata per il fatto che abbiano confuso l’antisemitismo con il sostegno ai diritti dei palestinesi.

Per anni ho usato l’arte per promuovere la giustizia in Israele e i diritti umani per i palestinesi. Basta questo per essere sospettata di antisemitismo?” si chiede.

Vi ricordo che sono una donna ebrea nata in Israele, figlia di un sopravvissuto all’Olocausto e nipote di un nonno assassinato dagli antisemiti nel campo di concentramento di Sachsenhausen.”

Sommerfeld ha scritto spesso dei tweet a sostegno dei diritti dei palestinesi e ha invitato gli artisti a rispettare il boicottaggio culturale di Israele.

Il movimento BDS si oppone con chiarezza a tutte le forme di intolleranza, inclusi l’antisemitismo e l’islamofobia.

Atmosfera maccartista

La lettera del centro culturale Gasteig rientra nel contesto della decisione presa dal comune di Monaco nel 2017 di impedire ai sostenitori del BDS di utilizzare spazi pubblici.

Nella sua risposta Sommerfeld evidenzia che lei è stata una dei 240 accademici ebrei e israeliani che hanno firmato una lettera respingendo la recente mozione della camera bassa del parlamento tedesco che equiparava il BDS e l’antisemitismo.

Sebbene la mozione del Bundestag non sia vincolante, essa fomenta l’atmosfera maccartista anti-palestinese incoraggiata dai media e dalle élite tedeschi.

Dopo la mozione e a causa del loro sostegno ai diritti per i palestinesi, molte figure del mondo culturale sono state perseguitate o hanno subito la cancellazione di eventi in Germania.

Il mese scorso, la città di Dortmund, nel nord-ovest della Germania, ha revocato un premio alla scrittrice Kamila Shamsie a causa del suo sostegno al BDS.

La giuria del premio Nelly Sachs ha annunciato la sua decisione dopo che blogger del sito anti-palestinese Ruhrbarone hanno accusato lei di antisemitismo e la giuria di promuovere “la distruzione di Israele.”

Shamsie ha risposto confermando il suo sostegno al BDS.

Mi indigna sapere che il movimento BDS (ispirato al boicottaggio del Sud Africa) e che conduce delle campagne contro il governo di Israele per le sue azioni discriminatorie e brutali contro i palestinesi, sia considerato ingiusto e da deplorare.”

Sommerfeld è una fra decine di artisti, scrittori e musicisti che hanno espresso la loro solidarietà a Shamsie.

Revoca dei premi

Lunedì anche la città di Aachen, nella Germania occidentale, ha revocato il premio all’artista libanese-americano Walid Raad a causa del suo sostegno al BDS.

Marcel Philipp, il sindaco di Aachen, in precedenza aveva affermato che Raad è “un sostenitore del movimento BDS che ha partecipato, in vari modi, al boicottaggio culturale di Israele.”

Philipp ha definito il movimento” antisemita”.

Il museo che gestisce l’Aachen Art Prize ha tuttavia annunciato che comunque concederà a Raad un premio di 10.000 dollari.

Il Ludwig Forum for International Art ha comunicato che garantirà i fondi indipendentemente dal Comune.

Il museo ha manifestato il suo disaccordo con la decisione del Comune non trovando in Raad alcuna traccia di antisemitismo.

Secondo la rivista ARTnews, il sostegno pubblico di Raad al BDS sembra consistere nell’aver firmato nel 2014 una lettera aperta in cui si chiedeva agli artisti di ritirarsi da una mostra in un’università israeliana.

Phillip ha detto che quando Raad è stato interpellato a proposito del BDS si è dimostrato “vago” e non ha “preso le distanze” dal movimento.

(Traduzione di Mirella Alessio)




Israele uccide un cittadino di Gaza durante le proteste

Maureen Clare Murphy

4 ottobre 2019 – Electronic Intifada

Venerdì, nel corso della 77a settimana delle proteste della Grande Marcia del Ritorno, lungo il confine orientale di Gaza le forze di occupazione israeliane hanno ucciso un palestinese ­­­­

Alaa Nizar Ayyash Hamdan, 28 anni, colpito al petto con pallottole vere nella zona nord di Gaza, è il duecentotreesimo palestinese ucciso durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno.

Venerdì il gruppo per i diritti umani Al Mezan ha dichiarato che nel corso delle proteste di quella giornata le forze israeliane hanno ferito 29 palestinesi con pallottole vere e ne hanno colpiti direttamente altri 16 con candelotti lacrimogeni.

Secondo Al Mezan, un medico volontario è stato colpito alla testa con un candelotto lacrimogeno mentre portava via due manifestanti feriti.

Il mese scorso, durante le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno, sono stati uccisi tre palestinesi, tra cui due minorenni.

L’esercito israeliano ha sostenuto che la scorsa settimana, quando è stato ucciso Saher Awadallah Jeer Othman, 20 anni, non avrebbe utilizzato contro i manifestanti pallottole vere.

L’esercito continua a sparare e uccidere i manifestanti nonostante alcuni mesi fa abbia modificato, come riportato lo scorso mese dai media israeliani, le sue “regole di ingaggio”.

Secondo il quotidiano di Tel Aviv Haaretz, invece di fare affidamento sui cecchini per dissuadere i manifestanti dall’avvicinarsi alla barriera di confine tra Gaza e Israele, ai comandanti israeliani verrebbe ora “ordinato di schierare le forze all’interno di veicoli blindati a poche decine di metri dalla barriera”.

“Ciò ha comportato un numero notevolmente inferiore di vittime – ha aggiunto Haaretz – poiché i cecchini devono sparare con minore frequenza”.

Da un’indagine indipendente delle Nazioni Unite sull’uso da parte di Israele della forza contro la Grande Marcia del Ritorno, è emerso che “l’uso di pallottole vere da parte delle forze di sicurezza israeliane contro i manifestanti è stato illegale”.

Israele trasferirà il gettito fiscale

Sempre venerdì, l’Autorità Nazionale Palestinese ha annunciato che Israele trasferirà una parte delle entrate fiscali che ha rifiutato di versare [ad iniziare] da febbraio.

Quel mese Israele ha dichiarato che avrebbe ridotto i trasferimenti delle entrate fiscali all’ANP di circa 127 milioni di euro, l’importo destinato ai palestinesi incarcerati da Israele e alle loro famiglie. L’Autorità Nazionale Palestinese ha rifiutato di accettare trasferimenti inferiori all’intera cifra raccolta.

Una legge approvata l’anno scorso consente a Israele di detrarre i pagamenti effettuati ai prigionieri palestinesi e alle loro famiglie dalle entrate fiscali dell’Autorità Nazionale Palestinese, di cui Israele possiede il controllo.

La situazione di stallo dei trasferimenti delle tasse ha favorito una “grave crisi di liquidità” dell’ANP, la cui soluzione ha avuto la massima priorità nel corso di una conferenza internazionale di donatori sponsorizzata dall’ONU e tenutasi la scorsa settimana.

Ad agosto è stato effettuato un primo trasferimento delle entrate fiscali congelate. In tale circostanza, secondo quanto riferito da Haaretz, l’ANP ha dichiarato che Israele avrebbe “accettato di esentare l’ANP dall’accisa che applica per il carburante [fornito da Israele] … e di applicare retroattivamente questa esenzione [agli] ultimi sette mesi”.

Israele continuerà a trattenere i fondi equivalenti a quanto l’ANP versa alle famiglie dei prigionieri. Pertanto, il problema alla base della crisi che dura da mesi resta irrisolto.

Secondo l’organizzazione per i diritti umani Al Mezan il trattenimento da parte di Israele delle entrate fiscali palestinesi è una violazione degli obblighi di Israele ai sensi dei contenuti del Protocollo di Parigi, stabilito a metà degli anni ’90 come parte degli accordi di Oslo .

Come ha affermato B’Tselem, un’altra organizzazione per i diritti umani [israeliana], in base al Protocollo di Parigi Israele riscuote le tasse per conto dell’Autorità Naizonale Palestinese, dandole il “controllo esclusivo sulle frontiere esterne e sulla riscossione delle tasse sull’importazione e del VAT [IVA, ndtr.]”.

Il quadro dell’unione doganale del Protocollo di Parigi è stato adottato perché, aggiunge B’Tselem, Israele “non voleva stabilire una frontiera [in materia] economica con l’Autorità Nazionale Palestinese, un provvedimento che avrebbe avuto un chiaro sentore di sovranità”.

L’Autorità Nazionale Palestinese valuta che l’economia della Cisgiordania e di Gaza subisca una perdita di almeno 320 milioni di euro all’anno a causa del modo in cui Israele mette in pratica il Protocollo di Parigi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La corte israeliana approva l’uso di corpi palestinesi come moneta di scambio

Maureen Clare Murphy

19 settembre 2019 Electronic Intifada

Una famiglia palestinese del villaggio di al-Eizariya, dalle parti di Gerusalemme, non ha potuto seppellire il figlio quattordicenne, che è stato ucciso dalla polizia israeliana il mese scorso.

La famiglia di Nassim Abu Rumi ha presentato una istanza all’alta corte israeliana perché venga disposta la restituzione delle sue spoglie che, secondo quanto riferito, verranno trasferite venerdì. Israele restituirà anche i resti di Omar Younis, morto in un ospedale israeliano ad aprile dopo essere stato ucciso dalle forze di occupazione ad un posto di blocco in Cisgiordania.

Israele detiene i resti di oltre una decina di palestinesi recentemente uccisi durante presunti ed effettivi attacchi contro le forze di occupazione e contro civili.

Questo mese, in seguito ad una petizione da parte di diverse famiglie dei cui congiunti Israele è ancora in possesso delle spoglie mortali, la corte suprema del Paese ha decretato la sua decisione politica.

Come ha riportato The Times of Israel, la corte ha stabilito che l’esercito israeliano ha “il diritto legale di trattenere i corpi dei terroristi uccisi per usarli come leva in futuri negoziati con i palestinesi”.

Nel dicembre 2017, la corte ha dichiarato che Israele non ha l’autorità legale di detenere i corpi “fino a quando non venga dato il consenso a determinate disposizioni funebri” da parte della famiglia della vittima palestinese.

Israele, hanno dichiarato i giudici all’epoca, “non può trarre vantaggio dai cadaveri ai fini di negoziati dal momento che non esiste una legge specifica e chiara che gli consenta di farlo”.

L’anno successivo il parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato una legge che consente alla polizia di trattenere i corpi dei palestinesi uccisi nella circostanza in cui presumibilmente stiano compiendo un attacco contro israeliani.

Secondo The Times of Israel la legge autorizza i comandanti di polizia a trattenere un corpo se viene stabilito che il funerale della persona uccisa “potrebbe essere utilizzato per compiere un attacco o per fornire una occasione per esaltare il terrorismo”.

“Non ne abbiamo bisogno”

Il ministro della pubblica sicurezza Gilad Erdan, che sovrintende alla polizia israeliana, ha dichiarato al momento dell’approvazione della legge che “il governo non vuole avvantaggiarsi di questi corpi. Per quanto ci riguarda, i cadaveri di questi maledetti terroristi marciranno. Non ne abbiamo bisogno.”

La sentenza della corte suprema israeliana di questo mese, tuttavia, mostra che lo Stato intende utilizzare i corpi come moneta di scambio per proteggere i soldati israeliani ancora trattenuti dai palestinesi.

Le organizzazioni per i diritti umani confutano l’affermazione dell’alta corte secondo cui il rifiuto di restituire i corpi dei palestinesi sia consentito dal diritto internazionale umanitario, che regola i conflitti armati.

Adalah, una organizzazione che sostiene i diritti dei palestinesi in Israele, ha affermato che la sentenza è stata tra le “più eccessive” mai emesse dalla corte, “in quanto mina i principi più elementari dell’umanità universale”.

L’organizzazione per i diritti ha aggiunto che la sentenza del tribunale è la prima al mondo che consente alle autorità statali di detenere corpi in modo che possano essere utilizzati come moneta di scambio.

L’organizzazione palestinese per i diritti umani Al-Haq ha affermato: “La pratica di trattenere i cadaveri equivale a una politica di punizione collettiva”, che è proibita dal diritto internazionale.

Trattenere i corpi, ha aggiunto Al-Haq, è anche “contrario al divieto di tortura e di trattamenti disumani o degradanti”.

Le famiglie che hanno presentato la petizione alla corte hanno dichiarato che “prevedono di ricorrere ai tribunali internazionali nel tentativo di fare tutto il possibile per recuperare i corpi dei loro cari”.

Lasciato morire dissanguato

Un video mostra Nassim Abu Rumi mentre viene ucciso pochi istanti dopo che lui e un altro minore palestinese, il 15 agosto, si sono lanciati con in mano dei coltelli da cucina contro gli agenti di polizia israeliani nella Città Vecchia di Gerusalemme.

Gli agenti hanno deciso di aprire il fuoco contro i ragazzi come prima istanza, senza usare mezzi meno letali per bloccarli.

L’altro ragazzo è stato gravemente ferito ed è stato accusato di tentato omicidio. Uno spettatore palestinese è stato ferito durante l’incidente e un agente è stato leggermente ferito dai giovani.

I video dell’episodio non mostrano alcun tentativo di prestare un soccorso immediato a nessuno dei ragazzi, una volta colpiti dalla polizia. Un video mostra un agente mentre riceve delle cure.

Una organizzazione per i diritti umani sta richiedendo un’indagine da parte del ministero della Sanità israeliano su un altro caso in cui un sospetto aggressore palestinese è stato lasciato morire dissanguato, anche se un medico della polizia era sul posto.

Yaqoub Abu al-Qiyan è stato ucciso dalla polizia durante quello che ritenevano fosse un tentativo di attentato con l’auto tramite speronamento, durante un raid contro Umm al-Hiran, un villaggio beduino nel sud di Israele non riconosciuto dallo Stato.

L’analisi pubblicata dal gruppo di ricerca britannico Forensic Architecture indica che, contrariamente a quanto affermato dai leader israeliani, tra cui il primo ministro Benjamin Netanyahu, Abu al-Qiyan quando, nel gennaio 2017, la polizia ha aperto il fuoco sul suo veicolo, non stava tentando nessun attacco.

I risultati di Forensic Architecture indicano che Abu al-Qiyan, un cittadino israeliano-palestinese, stava guidando lentamente e il suo veicolo ha solo accelerato dopo essere stato colpito dalla polizia, il che suggerisce che egli abbia perso il controllo della sua auto.

Un’indagine interna della polizia, conclusa di recente, ha assolto il medico della polizia [dall’accusa] di negligenza.

Le organizzazioni per i diritti umani affermano che l’incapacità del medico della polizia di prestare le prime cure ad Abu al-Qiyan “non è una carenza specifica, ma un problema sistemico”.

I Physicians for Human Rights-Israel (I Medici per i diritti umani – Israele, n.d.tr.) hanno dichiarato che “Le procedure imprecise sulla presa in cura delle persone ferite in episodi interpretati come attacco terroristico consentono situazioni in cui le persone ferite, ritenute responsabili, non ricevano assistenza”.

“I medici non possono agire in qualità di giudici e di giurie”, ha aggiunto l’associazione. “I medici e l’altro personale sanitario devono trattare tutti i feriti secondo le regole del triage”.

Nella sua indagine su una serie di uccisioni illegali di palestinesi da parte delle forze israeliane, Amnesty International ha dichiarato che le inadempienze nella prestazione delle prime cure – “in particolare l’omissione intenzionale – violano il divieto di tortura e di altre punizioni crudeli, disumani e degradanti”.

L’organizzazione per i diritti umani ha aggiunto che “In quanto tale, la mancata prestazione di assistenza medica dovrebbe essere indagata come crimine”.

Mercoledì scorso, una donna palestinese è stata colpita dalle forze israeliane ad un posto di blocco in Cisgiordania e lasciata sanguinare a morte per strada.

Testimoni oculari hanno affermato che alla donna è stato negato il soccorso immediato. La Palestine Red Crescent Society ha affermato che le forze israeliane hanno impedito ai paramedici di raggiungerla.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Quando torna a casa papà?

Sarah Algherbawi 

24 settembre 2019 – The Electronic Intifada 

La piccola Mira al-Sultan, di due anni, continua a chiedere quando tornerà a casa papà. Purtroppo lui è morto, ma la mamma di Mira non trova il coraggio di spiegarglielo.

Tamer, il padre di Mira, ha lasciato Gaza ad aprile di quest’anno. Lui, farmacista, sperava di costruire una nuova vita per la sua famiglia in Europa.

Dopo aver attraversato via terra la Turchia, Tamer si è imbarcato su una nave affollata diretta in Grecia. Una volta arrivato in Grecia, ha iniziato un viaggio tortuoso per evitare di essere fermato dalla polizia di frontiera.

Dalla Grecia, Tamer ha attraversato, quasi sempre a piedi, l’Albania e la Serbia. Il suo progetto era di arrivare alla fine in Belgio, via ex Jugoslavia, Italia e Francia.

L’undici agosto, Tamer ha telefonato alla moglie Marwa. “Mi ha detto che stava per addentrarsi nei boschi della Bosnia ed Erzegovina e che ci sarebbero voluti sei giorni per raggiungere la Croazia” ha detto Marwa. “Quella è stata l’ultima volta che ho sentito la sua voce.”

Mentre stava attraversando la foresta in Bosnia, Tamer si è fatto male a un braccio e, poiché la ferita non è stata curata subito, le sue condizioni si sono aggravate.

Pochi giorni dopo un ospedale bosniaco ha comunicato alla famiglia di Tamer che era morto a causa della setticemia. Aveva 38 anni.

A Gaza Tamer aveva una farmacia. “Ma è stato costretto a venderla perché la situazione economica era peggiorata” ha detto Marwa. “Ha deciso di emigrare e trovare un lavoro fuori Gaza.”

Tamer, che era anche un attivista, aveva preso parte ad appelli per far annullare i debiti quando la gente non è in grado di rimborsarli. Nel marzo di quest’anno era stato arrestato dalla polizia di Gaza per aver partecipato a proteste contro la carenza di energia elettrica.

Tamer era il padre di due ragazzini e di una bambina. Sua moglie Marwa aspetta un altro maschietto. “Chiamerò il bambino Tamer come il padre che lui non conoscerà mai”, ha detto. Prima di partire, Tamer aveva piantato una vite e aveva chiesto ai suoi figli di proteggerla fino al suo ritorno. “Cercherò di prendermi cura dell’albero come mi aveva chiesto papà”, ha detto il figlio Wisam di 9 anni. “Sono sicuro che papà sarà felice di saperlo.”

Partenza di massa

Poco dopo la morte di Tamer, si è saputo che Israele attua una politica intenzionale per spingere la gente ad andarsene da Gaza in massa. Più di 35.000 residenti di Gaza sono emigrati nel 2018.

La partenza di massa è stata facilitata dal blocco che Israele ha imposto a Gaza durante gli ultimi 12 anni. Le opportunità all’interno del territorio sono estremamente ridotte. Nel 2018 circa il 52% della forza lavoro di Gaza era disoccupata. Il tasso di disoccupazione nell’età compresa tra i18 e i 29 anni è particolarmente elevato. Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese, tra il 2008 e l’anno scorso è salito dal 53% al 69%. Ho condotto un sondaggio informale fra 20 giovani, quasi tutti laureati. Diciotto su 20 hanno risposto che stanno progettando di lasciare Gaza in un prossimo futuro. Gli intervistati si sono arrabbiati quando hanno saputo che Israele sta spingendo i residenti di Gaza ad emigrare per una precisa strategia politica.

Nonostante pensino di essere quasi obbligati ad andarsene, non vogliono in nessun modo dare l’impressione di fare un favore a Israele. Come gesto simbolico, molti hanno promesso di non partire dall’aeroporto di Tel Aviv. Ahmad al-Hindi, un musicista disoccupato che si è laureato nel 2016 all’Università al-Azhar di Gaza, è tra quelli che si preparano a partire. “Ma preferirei morire piuttosto che emigrare attraverso un aeroporto israeliano”, ha detto.

Una grande prigione”

Mio cognato, Muhammad Abu al-Tarabeesh, è emigrato da Gaza nel settembre del 2018. Muhammad studiava contabilità all’Università della Palestina a Gaza, ma ha dovuto ritirarsi dal corso perché la famiglia non poteva più permettersi di pagare le tasse. Muhammad, che ora ha 26 anni, è partito per l’Europa per cercare là opportunità migliori. Ha viaggiato attraverso la Turchia per un mese e poi ha intrapreso un viaggio per mare diretto in Grecia, un’esperienza che ha descritto come “spaventosa”. Per gran parte dell’anno scorso, Muhammad è rimasto bloccato in una roulotte sull’isola greca di Leros. Vive in un campo gestito dall’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.

Il campo è stato acclamato come un “modello” dall’agenzia stessa.

Muhammad ne ha un’opinione diversa. “È come una grande prigione con due portoni, uno per entrare e l’altro per uscire”, ha detto. “C’è sempre la massima sorveglianza. Ci sono ore fisse per mangiare e dormire e ci trattano come se fossimo semplicemente dei numeri.” Secondo Muhammad ogni roulotte è larga 3 metri e lunga 6 e ospita una media di 12 persone. Lui deve aspettare a Leros fino a quando la sua domanda di asilo non sarà esaminata. Non gli è ancora stato detto se la sua pratica ha fatto dei progressi. La nostra famiglia è preoccupata per Muhammad, ma almeno ci consola sapere che è vivo e, almeno per il momento, al sicuro.

Affogati

Lo stesso non si può dire per molti altri migranti.

Saleh Hamad, 22 anni, ha lasciato Gaza con la sua famiglia all’inizio di giugno di quest’anno. Si sono diretti verso la Turchia e, più tardi nello stesso mese, sono salpati per la Grecia.

Ad agosto, Hamad si è messo in viaggio con il suo amico Moataz Abu Obeid. Il loro piano era di dirigersi verso il Belgio. I due amici hanno cercato varie volte di entrare a piedi in Albania.

Per sei volte sono stati catturati dalla polizia albanese che li ha riportati al confine con la Grecia. Al settimo tentativo, secondo Abu Obeid, erano riusciti ad arrivare ​​in Albania senza essere scoperti e avevano iniziato ad andare a piedi verso la Serbia.

Arrivati in Serbia, i due uomini sono stati messi in stato di custodia dalla polizia e poi rilasciati dopo sette ore. Hanno quindi attraversato la Serbia a piedi e, dopo un paio di giorni, hanno deciso di provare ad attraversare il fiume Drina per entrare in Bosnia.

Quando sono arrivati vicino al fiume era buio, quindi hanno deciso di aspettare fino al mattino dopo. Quella notte sono stati attaccati da animali selvatici, ma comunque sono riusciti a scappare.

La mattina seguente, i due uomini erano lungo la riva del fiume quando Hamad ha perso l’equilibrio. È caduto nel fiume, dove c’è una forte corrente e stava per annegare.

Nel frattempo, Abu Obeid era svenuto dopo avere sbattuto contro un albero. Quando ha ripreso conoscenza, si è ritrovato circondato dalla polizia serba.

La polizia non è stata di nessun aiuto. Secondo Abu Obeid, si sono rifiutati di organizzare una ricerca per trovare Hamad, dicendo che molti altri erano annegati mentre cercavano di attraversare il fiume.

La polizia ha solo preso alcune informazioni su Salah e sui vestiti che indossava”, ha detto Abu Obeid.

Il corpo di Hamad è stato poi ritrovato a settembre, poche settimane dopo la sua scomparsa. Non è il primo gazawi a morire nel tentativo di cercare una vita migliore all’estero. Ed è probabile che non sia neanche l’ultimo.

Sarah Algherbawi è una scrittrice e traduttrice freelance di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)