Prima i droni. Poi le bombe

Abdallah al-Naami 

The Electronic Intifada 10 novembre 2022

Il fine settimana era finalmente arrivato.

E la cosa migliore dei fine settimana è che posso passare del tempo con mio nipote Yahya di 5 mesi.

Lui e mia sorella Inas vengono a trovarci ogni fine settimana nella nostra casa nel campo di Maghazi al centro di Gaza.

Ma lo scorso fine settimana vorrei che non l’avessero fatto.

Il 3 novembre, verso le 10 di notte, eravamo tutti in soggiorno a dire come i droni israeliani volassero particolarmente bassi e rumorosi.

Sebbene i droni siano una maledetta costante nella vita di ogni palestinese a Gaza, non mi ci sono mai abituato. Il ronzio rende difficile lo studio e il lavoro e devo dormire con il ventilatore acceso, anche in inverno, per coprirne il rumore.

Ma più che un fastidio i droni sono una minaccia mortale. Un promemoria che l’occupazione israeliana ci osserva sempre dall’alto, pronta ad uccidere in qualsiasi momento.

La conversazione si è interrotta quando mia sorella ha chiesto chi volesse dar da mangiare a Yahya. Gli ho dato un biberon di latte e l’ho cullato per farlo addormentare, cantandogli una canzone per coprire, anche solo un po’, il ronzio dei droni.

Un brusco risveglio

Andammo tutti a letto, Yahya e mia sorella al piano di sopra, ma non dormimmo a lungo.

Intorno alle 3 del mattino, mi sono svegliato al frastuono di un’enorme esplosione.

Ho subito pensato a Yahya. Sono riuscito a malapena ad alzarmi dal letto che è arrivata la seconda esplosione. L’elettricità è saltata. Ho preso il cellulare per usare la torcia, ma la terza esplosione è stata così forte che la finestra sopra il mio letto è andata in frantumi, coprendo me e il cuscino di vetri.

Sono seguite altre due esplosioni. Dal rumore sembrava che gli aerei israeliani lanciassero due missili ad ogni esplosione.

Potevo sentire i vetri infrangersi, terra e mattoni cadere, urla. Era passato meno di un minuto.

Mi feci strada al piano di sopra, nella stanza di Inas e Yahya. L’ho sentito prima di vederlo: strillava, la faccia rossa per le urla.

Siamo andati nella “zona sicura” della nostra casa, che in realtà non è affatto sicura. È solo un corridoio che ci diciamo sia sicuro perché non ha finestre. Ma le finestre contano davvero quando l’intera casa trema per le esplosioni?

Eravamo tutti sotto shock, terrorizzati, ma abbiamo fatto del nostro meglio per calmare Yahya. Abbiamo cantato, applaudito e riso per cercare di calmare la sua paura.

Ho poi saputo che quando alla prima esplosione Yahya si è svegliato, le mie sorelle lo hanno riparato con i loro corpi per proteggerlo da possibili ferite.

Dopo circa un’ora nel corridoio, Yahya si è riaddormentato e io ho controllato il resto della casa.

Le finestre erano in frantumi in ogni stanza e si erano aperte crepe lungo molte pareti.

Distruzione

Il giorno dopo sono andato alla moschea per la preghiera del venerdì. La nostra strada era irriconoscibile: coperta di fango, mattoni e pietre lanciati fino a 300 metri di distanza dal luogo dello scoppio.

I vicini parlavano dell’attacco israeliano, di quali bombe fossero state usate, quali aerei fatti volare. Questi attacchi sono così numerosi che ora siamo tutti esperti di aerei e bombe.

Dopo la preghiera ho fatto una passeggiata per il quartiere. Riuscivo a malapena a riconoscere il parco giochi di al-Mamoura, dove sono cresciuto e ho giocato, dove avevo di recente guardato le partite di calcio su un grande schermo all’aperto. Il parco giochi era ora sepolto da terra e macerie.

Ho pensato a come questo non fosse nemmeno il primo attacco israeliano vissuto da Yahya, come il 5 agosto 2022, quando Israele attaccò Gaza, Yahya avevesse pianto tutta la notte.

È passata quasi una settimana da quest’ultimo attacco israeliano e, sebbene fortunatamente non siano stati segnalati decessi, la copertura dei media in lingua inglese è stata minima o inesistente.

Nel frattempo, lavoriamo per riparare i danni alla nostra casa. Stiamo ancora raccogliendo pezzi di vetro così piccoli da essere penetrati in vestiti, tende e tappeti. E infine ieri abbiamo sostituito i vetri delle finestre. Fino ad allora, il vento soffiava dentro la pioggia torrenziale attraverso le tende e io mi precipitavo ad asciugare l’acqua.

Ho tenuto sott’occhio Yahya ogni giorno dal bombardamento. È piccolo, ma il trauma degli attacchi israeliani ha un impatto incalcolabile e duraturo sui bambini. La mia speranza è che dimentichi tutto.

E, mentre il fine settimana si avvicina, non vedo l’ora di abbracciare di nuovo Yahya, e di cantare per farlo dormire.

Abdallah al-Naami è un giornalista e fotografo che vive a Gaza.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il fardello che i progressisti occidentali impongono solo ai palestinesi

Joseph Massad

9 novembre 2022 – The Electronic Intifada

Fin dall’inizio della colonizzazione sionista ebraica del loro Paese negli anni ’80 dell’800, i palestinesi hanno affrontato la richiesta che si facessero carico di un doppio fardello: lottare contro il colonialismo razzista sionista dovendo nel contempo difendere i loro colonizzatori contro il razzismo antisemita dei cristiani europei.

Nessun altro popolo colonizzato è stato obbligato a farsi carico di un tale duplice fardello. Neppure alle popolazioni native africane della Liberia venne chiesto di difendere i loro colonizzatori afro-americani razzisti, che li disprezzavano, dal razzismo europeo e statunitense contro i neri che prendeva di mira i colonialisti neri. Né venne mai chiesto ai sudafricani neri di difendere i loro oppressori afrikaner [coloni calvinisti olandesi, tedeschi e francesi, ndt.] contro i britannici che li opprimevano, rinchiudendoli persino in campi di concentramento.

E nessuno ha mai chiesto che la popolazione indigena difendesse i suoi colonizzatori bianchi contro le persecuzioni religiose di cui erano vittime in Europa, che secondo loro li avevano obbligati a colonizzare il Nord America.

Quando queste diverse popolazioni colonizzate attaccarono l’oppressione dei loro colonizzatori, i loro crimini suprematisti e lo sfruttamento, nessuno sembrava preoccupato che tali critiche sarebbero state utilizzate dai precedenti oppressori dei coloni contro di essi, o che il colonizzato non avesse diritto di condannare i propri oppressori.

Al contrario, la richiesta generale imposta da molti europei cristiani ed ebrei e da molti ebrei europei colonialisti ai palestinesi è che essi avrebbero dovuto cedere volontariamente la propria patria agli ebrei europei e manifestare simpatia per la sofferenza causata agli ebrei europei dall’antisemitismo europeo.

In mancanza di ciò, gli europei cristiani e gli ebrei europei colonizzatori sostengono che la lotta anticoloniale dei palestinesi contro la colonizzazione ebraica è “antisemita”, intendendo con ciò che i palestinesi non si oppongono al principio della colonizzazione della loro patria, ma piuttosto che si oppongono solo al diritto degli ebrei, ma non di altri popoli, a colonizzarla.

Secondo questo ragionamento, se fossero stati cristiani, musulmani o induisti a colonizzare la Palestina i palestinesi avrebbero ceduto volontariamente la loro patria, ma rifiutano di fare altrettanto nel caso degli ebrei semplicemente perché sono antisemiti.

Simpatia condizionata

Negli ultimi 50 anni progressisti occidentali cristiani ed ebrei che simpatizzano con i palestinesi come vittime dell’oppressione israeliana, ma non come resistenti anticolonialisti, insistono sul fatto che ogni critica palestinese a Israele debba essere accuratamente calibrata per il timore che venga percepita dagli europei come antisemitismo.

Tuttavia durante lo stesso periodo gli israeliani e chi li appoggia in Occidente hanno scatenato una massiccia campagna sostenendo che ogni critica al sionismo e a Israele è “antisemita”, culminata nella recente adozione da parte di Paesi europei e degli USA della definizione di antisemitismo ideata dall’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto], con sede in Europa.

Queste accuse sono centrate su una serie di argomentazioni sospette che molti sostenitori occidentali dei palestinesi-come-vittime-ma non-come-resistenti vogliono impedire ai palestinesi di fare.

I sionisti e i progressisti occidentali sostengono che, se i palestinesi attaccano il diritto degli ebrei a colonizzare le loro terre, ciò sarebbe antisemita perché, negando agli ebrei europei il diritto di essere colonialisti, i palestinesi negherebbero il loro presunto “diritto” all’autodeterminazione. O peggio, che i palestinesi negherebbero il legame razziale che i protestanti europei evocarono fin dal XVI secolo, cioè che gli ebrei europei sarebbero fantasiosamente in qualche modo i discendenti degli antichi ebrei della Palestina (una leggenda che a volte sostengono anche gli ebrei europei) e non europei convertitisi in seguito all’ebraismo!

In base a questa logica, i sionisti sostengono che i palestinesi di fatto sono i colonizzatori della Palestina, mentre i colonialisti ebrei europei sarebbero i veri nativi della Palestina che starebbero tornando alla patria dei loro presunti antenati.

All’inizio del XIX secolo molti europei filoellenici si consideravano i discendenti degli antichi greci e vedevano i greci nativi come “slavi cristianizzati” che erano migrati a sud verso l’antica Grecia e più simili ai turchi.

Ma, dato che alla fine nessun progetto di colonialismo d’insediamento venne concepito per la Grecia, la questione venne lasciata cadere a favore dell’“indipendenza” greca dagli ottomani e dell’appropriazione della Grecia come parte dell’Europa invece che del Mediterraneo orientale.

I sionisti non sono mai stati dei pensatori originali, in quanto la maggior parte delle loro argomentazioni è derivata da altri colonialisti europei. Furono i francesi, e poi gli italiani, che sostennero che la loro colonizzazione del Nord Africa non era nientemeno che il ritorno alle antiche terre dell’impero romano e che i nativi arabi erano i veri colonialisti!

In effetti illustri razzisti occidentali come Albert Camus sostennero che gli arabi algerini erano colonialisti stranieri affermando che “i francesi d’Algeria erano anche nativi, nel vero senso della parola.”

L’antisemitismo europeo proiettato sui palestinesi

Dunque, per timore di essere accusati di antisemitismo, i palestinesi dovrebbero accettare l’invenzione sionista secondo cui gli ebrei europei sarebbero la popolazione indigena della Palestina e che loro sono i veri colonialisti? Quando i palestinesi affermano che i media dell’Occidente e degli USA sono sempre stati filoisraeliani e razzisti contro i palestinesi, i loro sostenitori occidentali temono che ciò venga percepito come antisemita perché gli antisemiti europei e statunitensi storicamente accusano gli ebrei europei di controllare i mezzi di comunicazione occidentali.

Tuttavia l’affermazione dei palestinesi non è diversa da quella degli algerini, cioè che i mezzi di comunicazione occidentali appoggiarono sempre il colonialismo francese in Algeria, o da quella dei nativi americani, secondo cui essi appoggiano i diritti dei colonizzatori bianchi negli Stati Uniti.

Che i media occidentali, che sono i mezzi di comunicazione dei colonizzatori e dei colonialisti, appoggino il colonialismo testimonia pregiudizi strutturali, a volte persino pregiudizi complottisti, contro le popolazioni native. Ciò non significa che gli ebrei controllino i media occidentali come sostengono gli antisemiti, ma che lo fanno i colonialisti europei, cristiani ed ebrei, e i sostenitori del colonialismo.

Quindi i palestinesi non dovrebbero attaccare i pregiudizi endemici filoisraeliani e antipalestinesi dei media occidentali per timore di venire “scambiati” per antisemiti dai progressisti?

Storicamente i palestinesi hanno anche identificato il grande potere finanziario e politico mobilitato dal sionismo fin dagli anni ’80 dell’800 per realizzare il progetto di colonizzazione della Palestina, a cominciare dai Rothschild che finanziarono le prime colonie di ebrei europei in Palestina.

Di nuovo, quando i palestinesi parlano dei ricchi ebrei europei e americani, uomini d’affari e banchieri, che appoggiano il sionismo e Israele, concepiscono progetti per espellere i palestinesi e promettono di finanziare la loro espulsione, come propose nel 1934 il ricco ebreo americano sionista Edward A. Norman, o di rubare le loro terre, i progressisti cristiani ed ebrei occidentali sussultano perché queste argomentazioni ricordano le fandonie antisemite dei cristiani europei secondo cui tutti gli ebrei sono ricchi e controllano tutto il sistema finanziario dell’Occidente.

Ma il fatto che i ricchi ebrei filosionisti appoggino Israele e finanzino i colonizzatori non è diverso dagli investimenti di imprese e Stati europei cristiani che hanno finanziato la colonizzazione di Algeria, Sudafrica, Kenya, Nuova Zelanda e persino Israele.

Smascherare i ricchi ebrei europei e statunitensi che finanziano il sionismo corrisponde al loro fondamentale ruolo e influenza coloniali nel distruggere la società palestinese e nell’oppressione dei palestinesi.

Ciò non implica, come gli antisemiti vorrebbero farci credere, che tutti gli ebrei siano banchieri che controllano le vite degli europei cristiani, o che tutti gli ebrei siano ricchi, cosa che non sono – anche se e quando, secondo molti, fin dalla Seconda Guerra Mondiale la maggioranza degli ebrei europei e statunitensi ha appoggiato e continua a sostenere la colonizzazione ebraica in Palestina, proprio come la maggioranza dei cristiani francesi o dei britannici appoggiarono la colonizzazione in Africa.

Quindi, per timore di essere scambiati per antisemiti, i palestinesi dovrebbero tacere riguardo all’influenza dei sionisti europei e statunitensi che contribuiscono alla loro oppressione?

Incontro coloniale

Non essendo europei, fin dagli anni ’80 dell’800 i palestinesi hanno incontrato gli ebrei per lo più come coloni armati, intenzionati a rubare la loro terra e a espellerli dal loro Paese.

Mentre è vero che alcuni dirigenti politici palestinesi cercarono di utilizzare la retorica antisemita europea contro i colonizzatori ebrei europei per difendersi contro la colonizzazione sionista, la maggioranza dei leader palestinesi spesso ha fatto l’esatto contrario e ha concordato con parecchie affermazioni sioniste, colonialiste e razziste, come fecero, oltre un secolo fa, lo scrittore e intellettuale Yusuf al-Khalidi, Yasser Arafat nel 2002 e Mahmoud Abbas continua a fare oggi.

Al-Khalidi, vissuto a Vienna a cavallo tra ‘800 e ‘900, contestò la scelta della Palestina come luogo per un futuro Stato per gli ebrei europei, in quanto era la patria dei nativi arabo-palestinesi.

Egli rispose alle affermazioni di Theodor Herzl, fondatore del movimento sionista, a cui nel 1899 inviò una lettera di questo tenore: “In base a quale diritto dunque gli ebrei la rivendicano per sé?”

Stranamente, accettando le rivendicazioni razziali e antisemite dei sionisti secondo cui gli ebrei europei erano i discendenti biologici diretti degli antichi ebrei, al-Khalidi, molto probabilmente a causa dell’educazione colonialista europea che gli era stata impartita, affermò che “il sionismo, teoricamente, è un’idea completamente naturale e giusta come soluzione della questione ebraica,” e di conseguenza “chi può opporsi ai diritti degli ebrei sulla Palestina? Buon dio, storicamente è davvero il vostro Paese.”

Tuttavia, nell’interesse della pace, al-Khalidi propose che il movimento sionista cercasse altri “Paesi disabitati in cui milioni di poveri ebrei forse potrebbero essere felici e avere una vita sicura come popolo.”

Ciò forse sarebbe la soluzione migliore, più razionale per la questione ebraica,” affermò.

Ma, nel nome di dio, lasciate in pace la Palestina.”

Dopo al-Khalidi molti altri palestinesi continuarono a cadere in queste false argomentazioni sioniste.

I frutti del razzismo antipalestinese

L’ironia risiede nel fatto che i critici progressisti occidentali dei palestinesi e quanti sostengono i palestinesi-come-vittime raramente chiedono conto ai sionisti e ai filosionisti dei loro interminabili accessi di razzismo contro i palestinesi e gli altri arabi e dell’utilizzo del tradizionale razzismo antiarabo europeo e statunitense che ha portato all’uccisione di milioni di arabi dall’Algeria alla Libia da parte degli europei durante le lotte anticoloniali, e dal 1991 in Iraq da parte degli americani.

Per esempio, nel suo lavoro pubblicato il giornalista ebreo americano Jeffrey Goldberg rivela di essere stato un colono in Israele, di essere entrato nell’esercito israeliano e di averci prestato servizio come guardia carceraria di palestinesi imprigionati per essersi opposti alla colonizzazione ebraica (è stato anche sostenitore dell’invasione statunitense in Iraq).

Eppure, nonostante le sue deplorevoli opinioni sui palestinesi e sugli iracheni, per non parlare del suo ruolo diretto in azioni di persecuzione come guardia carceraria, Goldberg è celebrato, rispettato e gli vengono dati lavori editoriali nelle più prestigiose riviste progressiste degli USA, oltre che premi giornalistici.

Al contrario, se si scopre che, nella sua immatura e male informata gioventù, una giornalista palestinese [si riferisce alla vicenda di Shatha Hammad, licenziata dal sito di notizie Middle East Eye, ndt.], non nel suo lavoro pubblicato, ma su Facebook, ha manifestato abominevoli opinioni a favore dell’antisemitismo europeo, opinioni che ha palesemente equivocato come parte della legittima espressione di rabbia contro i suoi oppressori, viene licenziata dal suo lavoro persino da un mezzo di informazione filopalestinese.

Oltretutto, per la soddisfazione dei progressisti occidentali, le è stato revocato un premio giornalistico benché l’errore di gioventù non sia stato ripetuto durante la sua carriera giornalistica.

Invece l’ex-guardia carceraria israeliana continua con i suoi discorsi giornalistici antiarabi e antipalestinesi e con i suoi continui attacchi contro quei palestinesi che difendono il proprio popolo dal colonialismo come antisemiti.

Un altro importante giornalista ebreo americano, Ben Shapiro, ha invocato l’espulsione di massa dei palestinesi e appoggiato l’uccisione di civili palestinesi e afghani.

Una volta Shapiro ha dichiarato che “gli israeliani amano costruire”, mentre “gli arabi amano sparare merda e vivere in mezzo a fogne a cielo aperto.”

Eppure questi e altri commenti razzisti non impediscono al New York Times di celebrare Shapiro come “gladiatore provocatorio” e “pugile professionista”, notando nel contempo che egli è stato bersaglio di antisemitismo.

Ovviamente giornalisti americani ed europei cristiani bianchi come John F. Burns del New York Times, che appoggiano e informano entusiasticamente sulle invasioni USA all’estero, sono stati e continuano a essere esaltati.

Vengono puniti anche giornalisti ebrei

Nel contempo giornalisti ebrei che criticano Israele vengono licenziati da mezzi di comunicazione progressisti dell’Occidente, com’è successo a Emily Wilder, che nel 2021 è stata cacciata dall’Associated Press [agenzia di stampa USA, ndt.], e più di recente Katie Halper, licenziata da The Hill [giornale statunitense di politica e di tendenza liberal, ndt.].

Nel caso di Wilder, secondo quanto riferito dai media, il suo “attivismo nel college è stato il vero problema” che ha portato al suo licenziamento. Si confronti questo caso con l’esaltazione da parte dei principali media occidentali del racconto della guardia carceraria israeliana del suo incontro con i palestinesi nelle prigioni israeliane come motivo di promozione, non di ostracismo o licenziamento!

Quello che i progressisti europei e americani vogliono è che i palestinesi rimangano in silenzio riguardo ai meccanismi internazionali che appoggiano e difendono la colonia di insediamento ebraica; che i palestinesi si oppongano solamente all’oppressione a cui sono sottoposti dai loro colonizzatori ebrei, ma non al diritto di questi ultimi a colonizzarli; che i palestinesi difendano i loro colonizzatori ebrei contro gli antisemiti europei; che i palestinesi si schierino in solidarietà con i colonizzatori-come-vittime mentre vengono repressi sotto gli stivali militari dei colonizzatori.

Nel contempo praticamente nessuna collaborazione attiva con gli israeliani nella loro oppressione dei palestinesi, per non parlare delle abituali manifestazioni di razzismo contro i palestinesi da parte di israeliani e filoisraeliani, merita alcuna censura quando espressa da israeliani o dai loro sostenitori in Occidente.

Quando la maggioranza della classe politica e intellettuale palestinese presta ascolto ai progressisti occidentali perché difendano gli ebrei dall’antisemitismo, come ha fatto l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina onorando le vittime ebree dell’Olocausto fin dagli anni ’70, né Israele né i suoi sostenitori si dicono soddisfatti.

Il loro obiettivo non è insegnare ai palestinesi la storia degli ebrei europei come vittime di oppressione, ma piuttosto insegnargli perché gli ebrei europei come oppressori hanno avuto e hanno il diritto di colonizzarli e portagli via la patria.

Joseph Massad è docente di politica e storia intellettuale araba contemporanea alla Columbia University a New York. Il suo libro più recente è Islam in Liberalism [L’Islam nel liberalismo] (University of Chicago Press, 2015).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Perché i poliziotti israeliani sono un “partner strategico” per l’Unione Europea?

David Cronin

4 novembre 2022 – Electronic Intifada

I sostenitori di Israele, che ci crediate o no, fanno una o due cose giuste.

La ripetuta affermazione che il loro amato Stato abbia a cuore l’innovazione contiene un granello di verità. Quale altro oppressore considera Facebook e Twitter strumenti tanto essenziali da allertare il mondo sulla loro brutalità?

L’8 ottobre, le forze di polizia israeliane hanno effettivamente ammesso di soggiogare in massa i civili.

L’esercito ha pubblicato su Internet foto dei suoi agenti che contribuivano a isolare il campo profughi di Shuafat vicino a Gerusalemme.

La punizione collettiva è vietata dalle Convenzioni di Ginevra e da altre norme del diritto internazionale. Ogni volta che ricorre a punizioni collettive, Israele commette un crimine di guerra.

Eludendo un controllo democratico, l’Unione Europea ha stretto un’alleanza formale con la polizia israeliana.

L’UE ha addirittura firmato a settembre un accordo per approfondire i rapporti con la polizia israeliana, solo poche settimane prima che quelle forze di sicurezza si vantassero implicitamente di aver commesso un crimine di guerra nel campo di Shuafat.

Grazie a questo accordo, Israele può scambiare con Europol, l’agenzia di polizia dell’UE, dati personali sui palestinesi che vivono sotto occupazione.

L’accordo è stato stilato abbastanza rapidamente per quelli che sono gli standard dell’UE. I negoziati volti a siglarlo sono iniziati nel novembre 2021.

Più o meno nello stesso periodo dell’inizio dei colloqui, Israele ha inviato a Bruxelles una delegazione di 30 diplomatici di alto rango.

Cooperazione ancora più stretta”

Tra i tanti funzionari che hanno incontrato c’era Laurent Muschel, del dipartimento Migrazione e Affari Interni della Commissione europea (l’esecutivo dell’UE).

Una nota informativa preparata per le discussioni con Muschel – ottenuta grazie alle norme sulla libertà di informazione – afferma che “Israele è un Paese partner strategico per l’UE nella cooperazione in materia di sicurezza”.

L’accordo firmato a settembre di quest’anno fa seguito a un “accordo di lavoro” del 2018 tra Israele e l’Europol.

La nota informativa per Muschel sostiene che dovrebbe esserci “una cooperazione ancora più stretta” con Israele.

Sottolinea che l’Europol assiste le autorità nazionali dei governi dell’UE nell’identificazione dei “legami transfrontalieri” con la criminalità organizzata. Il “contributo israeliano in questi casi continua ad essere della massima importanza”, si aggiunge.

Dall’entrata in vigore dell’accordo del 2018 Israele ha istituito un ufficio di collegamento presso la sede dell’Europol all’Aia. Tali passi rappresentano “un notevole potenziale” per “promuovere il contributo operativo”, afferma la nota informativa.

L’accordo del 2018 fornisce un elenco di crimini su cui Israele e l’Europol potrebbero collaborare. Includono terrorismo e crimini di guerra.

Prevede, inoltre, che le informazioni scambiate tra le due parti non debbano essere raccolte in “palese violazione dei diritti umani.

Uno scherzo?

Qualcuno ha voluto scherzare?

Le forze di polizia israeliane – come già notato – commettono attivamente crimini di guerra, e servono uno Stato che etichetta come terrorismo ogni forma di resistenza alla sua sistematica violenza.

Israele usa sistematicamente la tortura contro i palestinesi nelle cosiddette indagini sul terrorismo, metodi che ufficialmente sono sanzionati e perseguiti ma questo nell’impunità.

Il fatto che le forze di polizia israeliane abbiano sede nella Gerusalemme Est occupata dovrebbe essere sufficiente per escludere che si possa trattare con loro.

Nonostante sulla carta si sia opposta alla colonizzazione israeliana di Gerusalemme Est, l’UE ha accolto come interlocutore una forza di polizia che svolge un ruolo fondamentale nella colonizzazione.

E cosa si intende in questo contesto per “palese violazione dei diritti umani”? L’UE vuole seriamente che Israele sia un po’ più discreto nel modo in cui sottomette i palestinesi?

Le forze di polizia israeliane non sono l’unica istituzione spregevole a godere ultimamente dell’abbraccio metaforico dei rappresentanti dell’UE.

L’ambasciata dell’UE a Tel Aviv ha appena stabilito una collaborazione – e non per la prima volta – con l’European Leadership Network, forse l’organizzazione dal nome più ingannevole dell’esercito di lobbisti professionisti israeliani.

Sia l’ambasciata che l’European Leadership Network hanno recentemente ospitato una conferenza per “diplomatici, funzionari ed esperti”. Tra i pochi dettagli pubblicati sull’evento è stato riferito che si è discusso dell’aggressione della Russia contro l’Ucraina.

È certo che i partecipanti erano troppo educati per denunciare l’aggressione di Israele contro i palestinesi. Figure di spicco dell’European Leadership Network hanno raccolto fondi per sostenere l’aggressione.

A un certo punto, il gruppo contava tra i suoi dirigenti persino Michael Herzog, ora ambasciatore di Israele negli Stati Uniti, che ha avuto un ruolo significativo nella pianificazione del bombardamento del 2002 su Gaza in cui sono stati uccisi otto bambini.

Non ci si può aspettare che l’UE ripudi i macellai di bambini palestinesi. Israele, dopo tutto, è un “partner strategico”.

David Cronin è redattore associato di The Electronic Intifada. I suoi libri includono Balfour’s Shadow: A Century of British Support for Sionism [L’ombra di Balfour: un secolo di sostegno britannico al sionismo ] e Israel e Europe’s Alliance with Israel: Aiding the Occupation [Israele e l’alleanza dell’Europa con Israele: aiutare l’occupazione].

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Decade di nuovo la causa contro Palestine Action

Kit Klarenberg

10 ottobre 2022 The Electronic Intifada

Il 22 settembre cinque attivisti di Palestine Action [rete di protesta pro-palestinese che pratica la disobbedienza civile, ndt.] avrebbero dovuto presentarsi in tribunale per un’udienza di patteggiamento per avere intrapreso quest’estate un’azione contro il produttore di armi israeliano Elbit Systems.

Tuttavia, prima ancora che il procedimento fosse iniziato, i cinque sono stati informati all’ultimo minuto che tutte le accuse erano state ritirate. Le autorità hanno stabilito che nella causa “non c’erano prove sufficienti per fornire una prospettiva realistica di condanna”, come hanno confermato i rappresentanti di Palestine Action.

I cinque attivisti erano stati arrestati all’inizio di luglio per danni penali e violazione di domicilio aggravata per aver interrotto l’attività della fabbrica di motori UAV [unmanned aerial vehicle, velivolo senza pilota, drone ndt] di Elbit a Shenstone, Staffordshire, nelle Midlands occidentali inglesi. Avevano spruzzato la fabbrica, i cancelli e i sistemi di sicurezza esterni con vernice rossa, a simboleggiare il sangue dei palestinesi, e si erano incatenati ai cancelli della fabbrica.

Il sito è stato reso inutilizzabile. Elbit è stata costretta a interrompere temporaneamente la produzione di componenti per droni come i motori.

L’azienda fornisce circa l’85% della flotta di droni israeliani.

La fabbrica di Shenstone, UAV Engines, produce componenti per droni ed è una parte fondamentale degli investimenti di Elbit in Gran Bretagna.

Fra i droni con componenti realizzati a Shenstone c’è il Watchkeeper, utilizzato dall’esercito britannico nelle guerre all’estero e dalla forza di frontiera britannica per sorvegliare e attaccare i migranti.

Perciò il sito è stato a lungo bersaglio degli attacchi di Palestine Action e quello di luglio è stato solo l’ultimo di una campagna ad ampio raggio per distruggere le strutture di Elbit e rendere impossibile la normale produzione.

Nel corso di questa campagna alcuni attivisti del gruppo sono stati arrestati, ma i conseguenti procedimenti giudiziari sono falliti.

A febbraio, quattro attivisti erano stati liberati, perché di nuovo non c’era “alcuna possibilità realistica di condanna”.

Considerazioni su chi indaga

Uno dei cinque di Shenstone, un attivista che desidera essere chiamato Randeep, non è particolarmente sorpreso dalla notizia.

Randeep è comunque leggermente irritato dal fatto che le accuse siano state ritirate dopo che ha sostenuto la spesa per l’acquisto dei biglietti del treno per partecipare all’udienza di patteggiamento.

Questo conferma ulteriormente ciò che già sapevamo. Non siamo noi i criminali e ostacolare la colonizzazione israeliana della Palestina non solo un è dovere morale, è anche giuridicamente valido”, ha affermato in una nota.

Un altro accusato, Richard Spence, ha detto a The Electronic Intifada che la conclusione dell’accusa di mancanza di “prove sufficienti per fondare una realistica prospettiva di condanna” è particolarmente degna di nota, dato che né lui né i suoi colleghi attivisti hanno fatto alcun tentativo di eludere l’arresto o hanno negato di aver agito. In altre parole, un caso facile da risolvere, se mai avessero fatto qualcosa di criminale.

“Il CPS [Crown Prosecution Service, la Procura della Corona] deve aver capito, dopo che altri portati in tribunale per aver preso di mira lo stesso sito sono stati dichiarati non colpevoli, che non c’è ragione per punire degli attivisti che difendono i diritti umani”, ha affermato.

Ad oggi, diversi attivisti di Palestine Action sono stati arrestati e perseguiti per aver violato i siti Elbit e quelli dei suoi fornitori in Gran Bretagna.

Solo un caso si è concluso con una effettiva condanna. L’attivista in questione ha ricevuto una sospensione condizionale della pena di tre mesi e una multa trascurabile di soli 25 dollari.

È raro che i casi anche solo raggiungano il tribunale. In uno di questi casi nel dicembre 2021, tre attivisti – che avevano ugualmente preso di mira il sito di Shenstone – sono stati dichiarati non colpevoli di danni penali dopo un processo di due giorni.

Gli avvocati dei tre attivisti, tra cui l’avvocata palestinese Mira Hammad, hanno sostenuto con successo che, sebbene le loro azioni avessero apportato un danno alla fabbrica, non erano di natura criminale, ma costituivano un’azione proporzionata per prevenire crimini molto più gravi in Palestina.

All’epoca Huda Ammori, co-fondatore di Palestine Action, sostenne che la sentenza equivaleva ad un sostegno del tribunale per la campagna del gruppo. Secondo le stime della polizia britannica ad agosto, e come riportato in un cortometraggio su Palestine Action, nell’arco di un anno il gruppo avrebbe inflitto perdite per oltre 22 milioni di dollari ai siti Elbit in tutto il paese.

Le prossime sfide

Tuttavia, sono in vista importanti sfide legali per il gruppo e i suoi attivisti. In tutto, da qui al prossimo anno sono previsti 13 diversi procedimenti giudiziari contro gli attivisti di Palestine Action.

Il 21 novembre, gli attivisti che hanno scalato il tetto della fabbrica di Elbit a Oldham, vicino a Manchester, e sono entrati nel sito danneggiando dei macchinari, sono accusati di danni penali e furto con scasso.

All’inizio di ottobre, inoltre, presso la Corte di Snaresbrook a Londra sarebbe dovuto iniziare un processo contro un gruppo di attivisti che è stato soprannominato “gli otto di Elbit”. Come apparso su The Electronic Intifada il mese scorso, devono affrontare una marea di accuse per le quali potrebbero essere incarcerati individualmente e collettivamente per molti anni.

Degli otto, tre – Ammori, il suo collega co-fondatore di Palestine Action Richard Barnard e la loro compagna Emily Arnott – affrontano l’accusa più grave di tutte, quella di associazione a delinquere a fini di ricatto.

L’accusa si basa sul fatto che gli attivisti hanno scritto alla società che ha affittato gli uffici londinesi di Elbit incoraggiandone i dirigenti a sfrattare la produzione di armi e minacciando di intensificare la campagna se questa richiesta non fosse stata soddisfatta. La pena massima per il ricatto secondo la legge inglese è di 14 anni di carcere.

Tuttavia, per ragioni poco chiare, tale processo è stato rinviato almeno fino al novembre 2023.

Forse si spera che un lungo periodo da trascorrere con un futuro incerto smorzi la passione. Nel frattempo, però, gli otto attivisti accusati rimangono sulle loro posizioni e considerano il loro eventuale processo un’opportunità d’oro per mettere Elbit sul banco degli imputati.

Sperano di porre ai rappresentanti dell’azienda domande sgradite sulle sue operazioni e, nel processo, impegnarsi a rendere pubbliche sicure prove degli scopi distruttivi per cui quelle armi vengono regolarmente usate a Gaza e in Cisgiordania.

Palestine Action sospetta fortemente che uno dei motivi principali per cui i casi precedenti sono decaduti prima di arrivare in tribunale è che i rappresentanti di Elbit non vorrebbero trovarsi a dover ammettere in una udienza pubblica la loro complicità attiva, continua e diretta negli abusi perpetrati contro i civili palestinesi. In termini di pubblicità negativa, il prossimo processo potrebbe produrre grande disagio ai potenti – ciò che il gruppo considererebbe un grande successo anche in caso di condanna.

“Il governo britannico e Elbit sanno che stiamo decostruendo la loro violenza, il loro apartheid, le loro spudorate violazioni del diritto internazionale”, ha detto un attivista di Palestine Action che ha chiesto di essere chiamato Finn.

“Hanno paura che i loro crimini vengano smascherati, e hanno ragione ad essere spaventati”, ha aggiunto Finn, uno degli attivisti che è uscito dal tribunale il mese scorso. “Questo è un appello a chiunque stia pensando di prendere parte all’azione diretta. Noi siamo innocenti e loro colpevoli, non importa quello che dicono i tribunali”.

Kit Klarenberg è un giornalista investigativo che indaga il ruolo dei servizi di intelligence nel plasmare la politica e la percezione del pubblico.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




“Ingegneria razziale” dietro alle nuove restrizioni di Israele in Cisgiordania

Maureen Clare Murphy

26 settembre 2022 – The Electronic Intifada

Quando verranno imposte il mese prossimo, le nuove restrizioni del Ministero della Difesa israeliano all’ingresso degli stranieri nella Cisgiordania occupata violeranno i diritti fondamentali dei palestinesi, inclusa la vita famigliare.

Secondo una rete di associazioni palestinesi per i diritti umani, la procedura di 97 pagine è funzionale all’ “ingegneria razziale” della popolazione della Cisgiordania, “all’interno dello schema del regime di apartheid, che costituisce un crimine contro l’umanità”.

Queste associazioni affermano che le restrizioni limitano la libertà di movimento dei palestinesi, la possibilità di ricevere assistenza umanitaria e per lo sviluppo e di ospitare medici specialisti e altri esperti.

Queste misure colpiscono i diritti sovrani del popolo palestinese, compreso il diritto ad ospitare studiosi, artisti, atleti, studenti, turisti e volontari.”

Le associazioni chiedono all’Unione Europea di fare pressione su Israele perché “sospenda le crescenti restrizioni”. Chiedono anche che si istituisca da parte del Consiglio ONU sui Diritti Umani una missione permanente di accertamento dei fatti “per indagare su questa misura come grave violazione che rientra nella categoria della discriminazione razziale”.

Le nuove restrizioni, pubblicate all’inizio di questo mese, entreranno in vigore il 20 ottobre. Non si applicheranno agli stranieri in visita a Gerusalemme est occupata, che Israele ha annesso illegalmente ed è governata dalla legislazione civile dello Stato [di Israele].

Gli stranieri che intendono visitare la Cisgiordania, esclusa Gerusalemme est, devono farlo attraverso il confine del ponte di Allenby con la Giordania, invece che dall’aeroporto internazionale di Israele vicino Tel Aviv.

Secondo la rete delle associazioni per i diritti, coloro che intendono lavorare o studiare in Cisgiordania “devono richiedere il visto d’ingresso 45, 60 o fino a 153 giorni prima dell’arrivo e anche consegnare un dettagliato questionario relativo al loro CV (in sintesi) e a qualunque legame familiare o coniugale in Cisgiordania”.

Una precedente bozza delle restrizioni avrebbe richiesto agli stranieri di comunicare all’esercito israeliano se fossero fidanzati, sposati o conviventi con una persona palestinese.

Secondo le associazioni palestinesi per i diritti, “questa previsione scandalosa è stata in seguito rimossa dietro pressioni internazionali”.

Tuttavia le procedure modificate prevedono ancora che ogni rinnovo del visto a chi sia in possesso di visto per lavoro o per altro speciale motivo debba essere accompagnato dalla comunicazione, se è così, riguardo all’ avere un rapporto di coppia con una persona palestinese registrata all’anagrafe in Cisgiordania”.

Draconiane”

Le nuove procedure draconiane per l’ingresso e la residenza degli stranieri in Cisgiordania comprometteranno la libertà accademica delle università palestinesi e danneggeranno l’economia e la società locale”, secondo HaMoked, un’associazione israeliana per i diritti umani che ha avviato un’azione legale contro la precedente bozza di restrizioni.

Secondo HaMoked, “le visite brevi in Cisgiordania sono limitate ai parenti di primo grado dei palestinesi, agli uomini d’affari, agli investitori e ai giornalisti accreditati.

La procedura non consente le visite di altri familiari o amici in Cisgiordania, né quelle di turisti, pellegrini o a carattere culturale.”

Chiunque voglia entrare in Cisgiordania per lavorare, fare volontariato, insegnare o studiare, o chi è coniuge straniero di un palestinese, deve pagare cauzioni dal costo proibitivo” fino a 20.000 dollari, aggiunge HaMoked.

Queste direttive si applicano al personale e ai volontari delle agenzie dell’ONU e delle organizzazioni internazionali. Perciò esse impediscono “il flusso dell’assistenza umanitaria e allo sviluppo…necessaria per far fronte alle terribili condizioni di vita create dalle azioni discriminatorie di Israele”, affermano le associazioni palestinesi per i diritti.

Le nuove restrizioni distruggeranno la vita familiare di migliaia di palestinesi.

Secondo HaMoked, esse stabiliscono che Israele ha l’autorità di approvare le richieste di coniugi stranieri di risiedere in Cisgiordania e affermano che tali richieste sono “soggette a valutazioni politiche del governo israeliano.”

Israele ha congelato per oltre due decenni il processo di ricongiungimento familiare, costringendo migliaia di persone, soprattutto i coniugi stranieri di palestinesi, a vivere in Cisgiordania senza uno status legale.

Le nuove norme renderanno impossibile a uno straniero sposato con un palestinese ottenere un visto per lavoro o per studio.

Inoltre ai sensi della procedura tutti i visti verranno valutati alla luce del ‘rischio di radicamento in Cisgiordania’”, afferma HaMoked.

Con le nuove restrizioni il Ministero della Difesa di Tel Aviv ha anche l’autorità di valutare i titoli accademici dei docenti presso istituzioni della Cisgiordania.

I visti a studenti e docenti possono essere rinnovati per un massimo di 27 mesi e non c’è possibilità di garantire la titolarità della cattedra per i docenti stranieri.

Le nuove restrizioni non si applicano agli stranieri che si recano nelle colonie israeliane in Cisgiordania. Secondo HaMoked chiunque voglia studiare o insegnare all’università di Ariel nella colonia per la quale viene nominato “continuerà ad essere sottoposto alle norme molto più permissive stabilite dal Ministero dell’Interno di Israele”.

Il ministero della Difesa inoltre “stabilirà i criteri economici per l’ingresso degli uomini d’affari e degli investitori e deciderà quali professioni e progetti ‘sono importanti per la regione’”, afferma l’associazione per i diritti.

Gli stranieri possono fare volontariato presso le istituzioni palestinesi per soli 12 mesi e poi dovranno rimanere all’estero per un anno prima di poter rientrare in Cisgiordania.

Discriminatorie”

In base alle nuove restrizioni i cittadini di Giordania, Egitto, Marocco, Bahrein e Sud Sudan sono esclusi dall’ingresso in Cisgiordania, nonostante i rapporti diplomatici di questi Paesi con Israele.

Ai fini di questa procedura questa esclusione discriminatoria si applica anche a chi ha doppia nazionalità: per esempio, chi possiede sia un passaporto USA che uno giordano verrà trattato come giordano”, afferma HaMoked.

I cittadini di questi Stati devono passare attraverso “un processo separato limitato a casi eccezionali ed umanitari”.

Questa politica potrebbe causare frustrazione a Washington riguardo al trattamento discriminatorio da parte di Israele dei palestinesi americani che cercano di entrare in Israele e in Cisgiordania.

L’amministrazione Biden ha cercato di assicurarsi l’accondiscendenza israeliana con il Programma ‘US Visa Waiver’ [esonero USA dai visti], e l’ambasciatore Tom Nides a giugno ha affermato di aver lavorato “24 ore al giorno dal mio arrivo per aiutare Israele a soddisfare tutti i requisiti” per entrare nel programma.

Il programma richiede reciprocità di trattamento per i cittadini USA ad ogni passaggio di confine.

Le associazioni palestinesi per i diritti umani sottolineano che le nuove restrizioni all’ingresso in Cisgiordania coincidono con “un’escalation senza precedenti in tutto il territorio palestinese occupato, compresi trasferimenti forzati su entrambi i lati della Linea Verde”.

Le misure repressive di Israele hanno lo scopo di indebolire “le potenzialità della società palestinese, la sua resilienza e sopravvivenza e le organizzazioni della società civile”, affermano.

L’anno scorso tre delle organizzazioni firmatarie – Al-Haq, Addameer e Defense for Children International-Palestine – sono state dichiarate organizzazioni terroriste dal Ministero della Difesa israeliano ed in agosto i loro uffici in Cisgiordania sono stati assaltati dall’esercito e ne è stata ordinata la chiusura.

Maureen Clare Murphy è caporedattrice di The Electronic Intifada.

(traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Meta agevola le intimidazioni contro gli attivisti palestinesi

Omar Zahzah

28 luglio 2022 – The Electronic Intifada

Il gigante tecnologico Meta, proprietario di Facebook, viene sempre più spesso caratterizzato da censura e rimozione di contenuti filo-palestinesi.

L’impresa ha sistematicamente preso di mira account che promuovono la lotta di liberazione palestinese a vario titolo, sottoponendoli a ogni forma di ostruzione, dall’oscuramento alla cancellazione totale.

Ma finora il fanatismo politico di Meta ha trovato espressione soprattutto nel nascondere, bloccare e togliere contenuti centrati sulla Palestina.

Ora pare che la piattaforma stia anche tacitamente appoggiando soprusi espliciti e chiaramente rivolti contro contenuti filopalestinesi da parte di account anti-palestinesi orchestrati da JewBelong, un’associazione no profit creata di recente.

JewBelong è un sito in rete che afferma di promuovere e spiegare l’ebraismo per lo più a ebrei, così come di agire come uno spazio comunitario per ebrei che si sentano distanti o insicuri riguardo alla religione, alla tradizione e alla cultura ebraica.

Tuttavia esso sta apertamente prendendo di mira account palestinesi, dando ogni tanto premi in denaro, in chiara violazione delle norme di comunità stabilite da Meta di “includere opinioni e convinzioni diverse, soprattutto di persone e comunità che altrimenti potrebbero essere ignorate o marginalizzate.”

Se effettivamente ci sono valori a cui Meta si attiene, a quanto pare la Palestina è un’eccezione alla regola.

Denaro per intimidire

La promozione della persecuzione in rete di account filo-palestinesi è stata a lungo una strategia sionista. Per anni Israele ha offerto “borse di studio di hasbara”, che sono essenzialmente lezioni a studenti perché si impegnino nella propaganda digitale a favore del sionismo e del regime colonialista israeliano.

L’ormai scomparsa app Act.IL, che era schierata con il governo israeliano, offriva ai propri utenti vari “premi” e lezioni per portare a termine “missioni” digitali, tra cui segnalare come spam la posta in arrivo di imprese o università che ospitano materiale filo-palestinese allo scopo di insistere per la loro cancellazione.

E, benché non risultasse che offrivano compensi in denaro, siti che stilano una lista nera come Canary Mission e il più recente Stopantisemitism.org utilizzano come arma il cliché della “lotta all’antisemitismo” per incoraggiare i sionisti a segnalare negativamente in massa i palestinesi e i loro sostenitori.

JewBelong è un’organizzazione no profit fondata nel 2017 da Archie Gottesman e Stacy Stuart che, secondo la sua pagina su Propublica [sito giornalistico indipendente USA, ndt.], dipende interamente come risorse da “contributi”, cioè donazioni. Il suo proposito iniziale era apparentemente di “fornire semplici spiegazioni, chiare definizioni, utili letture e facili rituali in modo che chiunque sia interessato a iniziare o riprendere una pratica ebraica possa trovare un suo personale percorso.”

Ora pare che JewBelong si sia votato al sostegno a favore di Israele e del sionismo, il che include intimidazioni nei confronti di account filo-palestinesi.

Un’onesta rivelazione

Questo potrebbe non essere tanto un cambio di attività quanto un’onesta rivelazione. Parecchi membri di JewBelong hanno rapporti diretti con organizzazioni e istituzioni sioniste.

La co-fondatrice Archie Gottesman ha fatto parte del direttivo di organizzazioni come Israel Campus

Il membro del consiglio consultivo Yuval David è un “ideale conduttore e narratore per organizzazioni e iniziative ebraiche, israeliane, LGBTQ, artistiche, culturali e umanitarie” che includono la sezione statunitense del colonialista Jewish National Fund [ente no profit dell’Organizzazione sionista mondiale e proprietario del 13% della superficie fondiaria in Israele, ndt.] e dell’organizzazione di estrema destra della lobby israeliana StandWithUs.

Noa Tishby, collega nel consiglio consultivo, è un’attrice e scrittrice israeliana il cui primo libro è intitolato Israel: A Simple Guide to the Most Misunderstood Country on Earth [Israele: una guida semplice al Paese più incompreso della terra]. È anche la “prima inviata speciale da sempre del ministero degli Affari Esteri israeliano per combattere l’antisemitismo e la delegittimazione” di Israele.

E non è tutto: i Premi Partizan, lanciati di recente dall’organizzazione, hanno fornito compensi di 360 dollari a “valorosi influencer sulle reti sociali che lavorano giorno e notte per denunciare l’antisemitismo e proteggere il diritto di Israele a difendersi.”

JewBelong sostiene di aver insignito 23 giovani con premi in denaro per il sostegno digitale a Israele. Account premiati comprendono quelli della giornalista sionista Eve Barlow e di Zioness.

Uno dei premiati, che si fa chiamare @partisanprincess su Instagram (attribuendo l’origine di questo nome utente alla creazione del Partisan Prize da parte di JewBelong) ha ripetutamente e sistematicamente messo in atto segnalazioni di massa di account filo-palestinesi nel tentativo esplicitamente riconosciuto di farli cancellare.

Schermate ottenute da The Electronic Intifada rivelano storie e post di @partisanprincess che incoraggiano i follower a segnalare negativamente in massa account come Palestine Pod, un podcast sulla Palestina ospitato da Lara Elborno [avvocatessa palestinese-statunitense di diritto internazionale, ndt.] e Michael Schirtzer [attore e attivista filo-palestinese statunitense di origine ebraica, ndt.].

“@thepalestinepod è stato tolto di mezzo una volta, possiamo farlo di nuovo,” afferma un testo che definisce “vile propaganda” un episodio di Palestine Pod con un relatore ospite palestinese.

L’account Palestine Pod è stato temporaneamente cancellato da Instagram, tuttavia è stato riattivato in seguito a una massiccia campagna giudiziaria e sulle reti sociali.

In seguito dipendenti di Meta hanno affermato che l’account era stato erroneamente segnalato per estrazione di dati, per accesso automatico agli stessi o per furto di informazioni da prodotti Meta. Di solito tali faccende si risolvono prima della cancellazione, ma questo non è avvenuto con Palestine Pod.

Brutale reazione

Questa incentivazione delle segnalazioni di massa sta avendo una serie di conseguenze. La pagina Instagram di @crackheadbarneyandfriends – un artista performer che si definisce un eroe popolare e antifascista di New York – è stata cancellata dopo che il programma ha dedicato una puntata all’assassinio della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh da parte di Israele (la pagina è stata in seguito ripristinata).

Ma persino quando la campagna di segnalazione di massa di JewBelong non dà come risultato la cancellazione di un account essa incoraggia un’aggressione mirata che può a sua volta avere un effetto dissuasivo.

L’ospite di Palestine Pod Michael Schirtzer ha detto a The Electronic Intifada che “i sionisti minacciano regolarmente di morte gli attivisti che sostengono i diritti dei palestinesi. Ciò include attivisti palestinesi ed ebrei attivamente anti-sionisti.”

Il fatto che anche ebrei anti-sionisti siano stati duramente presi di mira in quest’ultima campagna di intimidazioni dimostra che la questione non è l’antisemitismo, come i sionisti sono soliti sostenere, ma piuttosto la minaccia incarnata da una coalizione tra palestinesi ed ebrei che rifiuti esplicitamente la colonizzazione sionista.

Schirtzer dice che, facendo una ricerca sulla campagna contro Palestine Pod, ha scoperto un gruppo WhatsApp di “hasbara digitale” che “incoraggia i suoi membri a segnalare negativamente account palestinesi ed ebrei anti-sionisti, compreso il rabbino Brant Rosen.”

Rosen è il fondatore di Tzedek Chicago, una sinagoga di Chicago formata nel tentativo di creare uno spazio comunitario ebraico al di fuori dei principi sionisti. Nel marzo 2022 Tzedek Chicago è passata da una posizione “non-sionista” a una “anti-sionista”, diventando probabilmente la prima sinagoga antisionista negli USA.

Rosen ha detto a The Electronic Intifada che la reazione all’annuncio è stata forte, soprattutto in rete.

“Ci aspettavamo una qualche reazione, ma quasi subito Twitter e Instagram sono semplicemente esplosi,” afferma Rosen. “Le risposte sono state brutali e crescenti. La maggioranza di esse sono arrivate da luoghi che non ho riconosciuto. Stavo conquistando follower da account Twitter con nomi israeliani, e zero follower…chiaramente si trattava di un tipo di nuova campagna in rete che non avevo mai visto prima. Sono stato particolarmente sorpreso da quanto è durata. Si è protratta per settimane.”

Rosen ha aggiunto che a suo parere “Israele e il movimento sionista hanno tra le più sofisticate infrastrutture BOT [rete composta da software (bot) in grado di agire in maniera autonoma o coordinata, ndt.] su Twitter. È capillare e orrendo, e molto ben organizzato. Non avevo mai visto niente di simile.”

Zone grigie

Si potrebbe pensare che un contesto di aggressioni di massa sia qualcosa che le imprese tecnologiche dovrebbero cercare di contrastare. Ma, nonostante la frequente, dettagliata e sostanziosa corrispondenza con i dipendenti di Meta, a Michael Schirtzer di Palestine Pod è stato detto che queste campagne di intimidazione non violano le “regole della comunità” spesso pubblicizzate dall’impresa.

“Incoraggiare la gente a segnalare non viola la nostra politica e di conseguenza non possiamo prendere alcuna iniziativa,” afferma una mail condivisa con The Electronic Intifada. Il dipendente ha aggiunto che l’impresa “interverrebbe” se la vittima ricevesse commenti o minacce inappropriati.”

Meta si è rifiutata di fare commenti per questo articolo.

Ma, a parte il fatto che Schirtzer e altri creatori di contenuti esplicitamente filo-palestinesi sono stati molestati, la risposta rigida e prudente di Meta trascura il carattere coordinato della campagna in sé – per incentivare con il denaro i tentativi di molestare e silenziare contenuti palestinesi.

Oltretutto, qualunque cosa Meta sostenga, è difficile non vedere come intimidazioni di ogni genere siano una violazione delle cosiddette “regole della comunità”. In questo caso le convenzioni di queste piattaforme digitali sono state utilizzate come arma contro creatori di contenuti per la loro identità e le loro convinzioni politiche per farli tacere e cancellarli – un chiaro esempio di prevaricazione.

Le intimidazioni e le campagne di minacce dei sionisti spesso sfruttano la lettera della legge e politiche ufficiali per massimizzare l’impatto delle loro intimidazioni minimizzando nel contempo il fatto di doverne rispondere.

“Le istituzioni sioniste hanno costantemente costruito le loro pratiche di lawfare [uso della legge come arma in un conflitto, ndt.], che eludono le politiche antidiscriminatorie di imprese come Meta,” dice a The Electronic Intifada l’attivista antisionista e docente dell’università di New York Emmaia Gelman.

“Tecnicamente non stanno violando le norme. Ma l’effetto è che le regole di Meta diventano uno strumento nelle mani di istituzioni razziste per intimidire, punire e mettere a tacere interiormente persone già sottoposte alla violenza razzista di Stato.”

Rifiutandosi di intervenire direttamente in quest’ultima ondata di aggressioni anti-palestinesi e antisemite, Meta sta consentendo che la sua piattaforma venga utilizzata per un’aggressione e una censura mirate su base razziale. Pare che ci possa benissimo essere un’eccezione palestinese alle cosiddette “regole della comunità”.

Omar Zahzah è coordinatore educativo e per il sostegno legale di Eyewitness Palestine [progetto educativo a favore dei palestinesi, ndt.] e membro del Palestinian Youth Movement [Movimento della Gioventù Palestinese] e della US Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel [Campagna USA per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’UE si schiera a favore di Israele contro i suoi stessi Stati membri

Ali Abunimah

19 luglio 2022 – The Electronic Intifada

L’Unione Europea è più fedele a Israele che ai propri Stati membri? Sembra proprio di sì.

All’inizio di questo mese nove governi dell’UE hanno finalmente definito una cavolata la designazione di “organizzazioni terroristiche” da parte di Israele di sei organizzazioni palestinesi per i diritti umani molto stimate.

La designazione di ottobre faceva parte della lunga campagna di Israele volta a criminalizzare, definanziare e sabotare chiunque tenti di chiamarlo a rispondere dei suoi crimini contro i palestinesi.

Da Israele non sono pervenute informazioni sostanziali che giustifichino la revisione della nostra politica” nei confronti delle sei organizzazioni, afferma la dichiarazione congiunta del 12 luglio di Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Spagna e Svezia.

“In assenza di tali prove – aggiungono – continueremo la nostra cooperazione e forte sostegno alla società civile nei territori palestinesi occupati”.

Molte delle associazioni prese di mira da Israele ricevono finanziamenti direttamente da questi governi e dall’apparato burocratico dell’UE a Bruxelles.

Tre di loro – Addameer, Al-Haq e Defence for Children International-Palestine – hanno collaborato strettamente con le indagini della Corte Penale Internazionale sui crimini di guerra in Cisgiordania e a Gaza.

Quindi, appena è stata resa nota la dichiarazione dei nove governi, ho scritto a Peter Stano, portavoce dell’UE per gli affari esteri, per chiedere se Bruxelles l’avesse adottata.

Dopo oltre una settimana – e nonostante due solleciti – il solitamente tempestivo Stano non ha inviato alcuna risposta.

Posso solo interpretare questo silenzio come un segnale che l’irresponsabile apparato burocratico dell’UE non sia d’accordo con i propri Stati membri e stia adottando in modo ancora più deciso il proprio approccio filo-israeliano.

In effetti Bruxelles è schierata a favore di Tel Aviv contro i governi dell’UE che sono arrivati ad essere talmente esasperati dalle diffamazioni e dalle bugie di Israele da dichiararlo pubblicamente.

Anche senza una risposta di Stano le prove di ciò sono abbastanza chiare.

The Electronic Intifada ha rivelato in ottobre che Israele ha comunicato in anticipo all’UE la sua intenzione di designare le organizzazioni palestinesi come “terroriste”, ma Bruxelles non ha respinto [la designazione] e non ha nemmeno inviato tale comunicazione ai propri Stati membri.

In quell’occasione Stano ha ammesso che l’UE aveva bisogno di “maggiori informazioni a proposito di queste designazioni” – un’ammissione del fatto che Israele non aveva fornito alcuna prova effettiva.

Sospensione illegittima”.

Il mese scorso Al-Haq è riuscita a presentare una petizione alla Commissione europea perché revocasse la sospensione dei finanziamenti per uno dei progetti dell’ organizzazione per i diritti umani sponsorizzati dall’UE.

Al-Haq ha affermato che la “sospensione vergognosa” era stata “illegale fin dall’inizio e basata sulla propaganda e sulla disinformazione israeliane”.

Una lettera dell’UE ha confermato che l’unità antifrode del blocco OLAF [Ufficio europeo per la lotta antifrode, istituito per contrastare le frodi, la corruzione e qualsiasi attività illecita lesiva degli interessi finanziari della Comunità europea, ndt.] aveva “concluso che non vi sono sospetti di irregolarità e/o frode ai danni dei fondi dell’UE” forniti ad Al-Haq.

Al-Haq ha accusato della sospensione Olivér Várhelyi, un alto funzionario non eletto dell’UE, affermando che [la sospensione, ndt.] fosse “mirata a dare al governo israeliano un aiuto nei suoi tentativi di danneggiare e diffamare la società civile palestinese e di opprimere le voci delle organizzazioni e difensori palestinesi dei diritti umani”.

Várhelyi è stato anche responsabile della sospensione degli aiuti dell’UE ai palestinesi, compresi i finanziamenti per pagare le cure salvavita per i malati di cancro palestinesi.

Tali aiuti sono stati sbloccati il mese scorso, poco prima che la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si recasse in Israele e nella Cisgiordania occupata, dove ha trascorso la maggior parte del suo tempo a compiacere Tel Aviv.

L’UE rilancia il forum ad alto livello con Israele

Ma qualunque disaccordo possa esserci tra l’UE e i suoi Stati membri sulle sei organizzazioni, ciò non ha intaccato la loro unanimità quando si tratta di offrire a Israele riconoscimenti incondizionati per i suoi crimini contro il popolo palestinese.

Lunedì i 27 ministri degli esteri del blocco hanno deciso di riprendere le riunioni del Consiglio di associazione UE-Israele.

Questo forum di alto livello non si riuniva da un decennio, con grande disappunto di Israele e della sua lobby.

Secondo un comunicato di Bruxelles i ministri “hanno convenuto di riconvocare gli incontri e di iniziare a lavorare per determinare la posizione dell’Ue”.

“La posizione dell’UE sul processo in Medio Oriente non è cambiata rispetto alle conclusioni del Consiglio del 2016 a sostegno della soluzione dei due Stati”, si legge nella dichiarazione.

Sebbene l’UE abbia mantenuto il sostegno verbale alla moribonda “soluzione dei due Stati”, continua a premiare e incentivare la colonizzazione violenta da parte di Israele dei territori palestinesi occupati, vanificando l’idea di uno Stato palestinese indipendente.

La reazione di Várhelyi alla decisione di lunedì sottolinea che non c’è motivo di aspettarsi alcun cambiamento.

Egli ha salutato la ripresa del forum ad alto livello come un ulteriore segno che l’UE è “fermamente impegnata” nelle sue relazioni con Israele e ha esortato il blocco “a cogliere l’opportunità di normalizzare le relazioni tra Israele e un certo numero di Paesi arabi .”

Dimiter Tzantchev, l’ambasciatore dell’UE a Tel Aviv, ha affermato che il Consiglio di associazione UE-Israele “dovrebbe permettere di impegnarci con i nostri partner israeliani e di riflettere sul processo di pace in Medio Oriente e sul ruolo dell’UE in esso”.

La generica formulazione di Tzantchev è stata senza dubbio elaborata con cura per dare l’impressione che questo sfacciato riconoscimento ad Israele farebbe in qualche modo progredire il “processo di pace” morto da tempo, pur non offrendo assolutamente alcun sostegno concreto da parte di Bruxelles per promuovere i diritti dei palestinesi.

Secondo il giornalista israeliano Barak Ravid la decisione dell’UE di ripristinare il dialogo ad alto livello è un “risultato importante” per il primo ministro israeliano Yair Lapid.

Ravid osserva che questo era uno degli obiettivi chiave di Lapid quando ha assunto la carica di ministro degli Esteri israeliano poco più di un anno fa.

Rinvio compiacente

Citando un anonimo “alto funzionario europeo”, il Times of Israel [giornale israeliano online in lingua inglese, ndt.] ha riferito lunedì che Josep Borrell, capo della politica estera dell’UE, ha rinviato la ripresa delle riunioni del consiglio UE-Israele “a causa dell’uccisione della giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh” a maggio.

Lo stesso mese Israele ha anche annunciato una massiccia espansione delle sue colonie in Cisgiordania, provocando un’insolita condanna da parte di Borrell.

Secondo The Times of Israel l’anonimo funzionario europeo ha detto: ”Ci sono state due cose inaccettabili sul piano diplomatico: l’uccisione della giornalista e l’annuncio di 4.000 nuovi insediamenti coloniali“.

“Borrell ci ha detto:Come potete immaginare che metta all’ordine del giorno un incontro di cooperazione con le immagini in TV… suvvia!’“, ha aggiunto il funzionario.

Ma questa non è stata una posizione di principio.

Il codardo Borrell era semplicemente preoccupato di salvare le apparenze e pensava che fosse prudente aspettare che l’omicidio della corrispondente di Al Jazeera non fosse più sulle prime pagine dei giornali prima di offrire ulteriori ricompense a Israele.

The Times of Israel riferisce che Borrell ha annunciato che avrebbe portato avanti la questione solo durante i sei mesi di presidenza ceca, iniziata il 1° luglio.

Ed è esattamente quello che è successo – nonostante l’ininterrotta espulsione da parte di Israele degli abitanti dei villaggi palestinesi da Masafer Yatta nella Cisgiordania occupata – tra gli altri crimini di guerra che l’UE pretende di contrastare.

“Il fatto che 27 ministri degli Esteri dell’UE abbiano votato all’unanimità a favore del rafforzamento dei legami economici e diplomatici con Israele è una prova della forza diplomatica di Israele e della capacità di questo governo di creare nuove opportunità con la comunità internazionale”, si è vantato il primo ministro israeliano Lapid dopo la decisione dell’UE di lunedì.

È anche la prova dell’assoluta codardia e della volontaria complicità dell’Unione Europea e di ogni suo membro.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La Corte israeliana sentenzia a favore di un’ampia impunità

Maureen Clare Murphy

11 luglio 2022 – The Electrèonic Intifada

La settimana scorsa l’Alta Corte di Israele ha emesso una sentenza in favore di un’ampia immunità per lo Stato per i crimini di guerra perpetrati a Gaza.

Le associazioni palestinesi per i diritti umani affermano che la sentenza sottolinea l’urgente necessità di un’immediata inchiesta della Corte Penale Internazionale.

Adalah, un’associazione palestinese per i diritti umani, ha dichiarato che “la sentenza significa che tutti gli abitanti di Gaza sono esclusi da qualunque risarcimento e ricorso in Israele, a prescindere dalle circostanze, nel corso di ‘azioni di guerra’ o di altro genere”.

La sentenza dell’Alta Corte è una risposta ad una richiesta di risarcimento da parte di Israele per le gravi ferite riportate da Attiya Nabaheen, che aveva appena compiuto 15 anni quando fu colpito dal fuoco delle forze israeliane nel cortile davanti a casa sua mentre rientrava da scuola a Gaza nel novembre 2014.

Nabaheen è rimasto paralizzato in seguito alle ferite.

Adalah e Al Mezan, un’altra associazione per i diritti umani, avevano fatto ricorso presso la Corte per contestare una legge entrata in vigore nel 2012, che prevede che gli abitanti della Striscia di Gaza non possano ricevere risarcimenti da parte di Israele in quanto nel 2007 essa è stata dichiarata ‘territorio nemico.’

Un tribunale di prima istanza ha utilizzato quella legge per respingere il tentativo di Nabaheen di ricevere un risarcimento da Israele per le sue ferite.

L’Alta Corte ha affermato che la legge è conforme al diritto internazionale e che in ogni caso il parlamento israeliano “ha il potere di scavalcare le norme del diritto internazionale.”

Adalah e Al Mezan hanno replicato che la sentenza dell’Alta Corte “giustifica l’avvio immediato di un’inchiesta [della Corte Penale Internazionale], in quanto essa nega alle vittime civili palestinesi di crimini di guerra compiuti da Israele la possibilità di ogni ricorso giuridico.”

Le associazioni aggiungono che “non c’è prova più evidente del fatto che il sistema giuridico israeliano è determinato a legittimare i crimini di guerra e a cooperare con l’esercito nei suoi sforzi di negare alle vittime ogni rimedio legale.”

Un’inchiesta indipendente dell’ONU sull’utilizzo da parte di Israele di forza letale contro i manifestanti della Grande Marcia del Ritorno nel 2018 ha preso in esame il caso di Nabaheen e le sue implicazioni per altri abitanti di Gaza.

La sentenza preclude “la via principale per far valere il loro diritto ad ‘un efficace risarcimento legale’ da parte di Israele, che è loro garantito dalla legislazione internazionale”, hanno dichiarato gli inquirenti dell’ONU.  “E’ quindi difficile sopravvalutare il peso di questa sentenza.”

Nel tentativo di giustificare l’uso della forza letale contro manifestanti disarmati, Israele ha inventato un nuovo infondato paradigma del diritto internazionale, che etichettava la Grande Marcia del Ritorno come parte del suo conflitto armato con Hamas, l’organizzazione politica e di resistenza palestinese che controlla gli affari interni di Gaza.

Le direttive dell’esercito israeliano stabiliscono che deve essere avviata un’inchiesta penale immediatamente dopo la morte di un palestinese al di fuori di attività di combattimento.

Classificando la Grande Marcia del Ritorno come parte del conflitto armato con Hamas, anche se i manifestanti erano disarmati, Israele ha creato un quadro giuridico separato per gestire le denunce relative alle proteste.

Una scappatoia legale

Questa importante scappatoia legale viene anche impiegata riguardo ai palestinesi uccisi dalle forze di occupazione israeliana in Cisgiordania.

Il procuratore generale dell’esercito israeliano ha dichiarato che l’uccisione della corrispondente di Al Jazeera Shireen Abu Akleh mentre documentava un’incursione dell’esercito a Jenin in maggio era “un evento bellico” e pertanto nessun soldato dovrebbe subire denunce penali.

Israele ha praticamente ammesso che uno dei suoi soldati ha ucciso Abu Akleh e la scorsa settimana il Dipartimento di Stato USA ha comunicato che la giornalista è stata “probabilmente” uccisa da un’arma da fuoco delle truppe israeliane.

Sia Israele che gli USA sembrano trattare l’uccisione di Abu Akleh come un errore operativo piuttosto che come una sospetta esecuzione extragiudiziale.

Diverse indagini indipendenti condotte da associazioni per i diritti umani e da organi di informazione internazionali hanno altresì concluso che Abu Akleh molto probabilmente è stata uccisa da fuoco israeliano.

L’indagine forense della CNN, citando l’esperto di armi esplosive Chris Cobb-Smith, nota che “Abu Akleh è stata uccisa da diversi spari”.

Cobb-Smith ha affermato che “il numero di tracce dei colpi sull’albero dove si trovava Abu Akleh prova che non si è trattato di uno sparo casuale, lei è stata presa di mira.”

Venerdì scorso la famiglia di Abu Akleh ha inviato una lettera al Presidente USA Joe Biden, di cui è prevista una visita in Israele e Cisgiordania la prossima settimana, ed ha accusato la sua amministrazione di “muoversi verso la cancellazione di qualunque misfatto delle forze israeliane.”

Gli USA non sembrano far pressione su Israele per un’inchiesta penale: il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha detto durante una conferenza stampa martedì scorso che “non stiamo cercando di essere prescrittivi riguardo a ciò.”

Sembra che per l’amministrazione Biden responsabilizzazione significhi incoraggiare “passi verso la protezione dei civili e dei non combattenti in una zona di conflitto.”

Price ha aggiunto che l’esercito israeliano “è nella condizione di prendere in considerazione dei passi perché non possa più accadere niente di simile.”

Venerdì la famiglia di Abu Akleh ha detto che “non possiamo credere che una tale aspettativa sia il massimo della risposta della vostra amministrazione.”

La famiglia ha sottolineato l’aiuto militare incondizionato degli USA a Israele e “il quasi assoluto appoggio diplomatico per evitare ai dirigenti israeliani di assumersi le responsabilità.”

I famigliari di Abu Akleh hanno fatto richiesta a Biden di incontrarli durante la sua imminente visita e di fornire loro le informazioni raccolte dalla sua amministrazione riguardo all’uccisione della giornalista.

La famiglia ha parlato al presidente del proprio “dolore, sdegno e sensazione di tradimento” di fronte ai suoi determinati tentativi di assicurare “la cancellazione di ogni misfatto compiuto dalle forze israeliane.”

“Ci aspettiamo che l’amministrazione Biden sostenga i nostri sforzi per ottenere responsabilizzazione e giustizia…dovunque ciò possa condurci”, ha affermato la famiglia.

Corte Penale Internazionale

Una di tali sedi processuali è la Corte Penale Internazionale, che è stata adita relativamente all’uccisione di Abu Akleh sia dall’Autorità Nazionale Palestinese che da Al Jazeera. Gli USA si sono affiancati a Israele nel cercare di boicottare l’inchiesta dell’Aja in Palestina.

La CPI privilegia le indagini interne ad un Paese, dove esse sussistano.

La recente sentenza della corte israeliana che ha rifiutato il risarcimento per Attiya Nabaheen e la copertura della responsabilità per l’uccisione di Shireen Abu Akleh dovrebbero dissolvere ogni restante dubbio su ciò a cui si prevede che serva il sistema giuridico di Israele.

Ma resta in dubbio se la CPI funzionerà come un tribunale di ultima istanza per i palestinesi con qualche carattere di urgenza.

Mentre raccoglie risorse per una tempestiva inchiesta in Ukraina, con il rischio per la presunta indipendenza della Corte proveniente dalle contribuzioni volontarie all’indagine, l’inchiesta sulla Palestina sembra essere lasciata morire sul nascere.

Il silenzio sulla Palestina e su altre inchieste che non hanno l’appoggio di potenti Stati “può aver indebolito l’effetto di deterrenza della Corte ed ha lasciato un vuoto che è stato riempito da attacchi politici all’operato della Corte, e anche da attacchi nei confronti di difensori dei diritti umani”, ha recentemente dichiarato Amnesty International.

Senza una risposta ugualmente forte alle crisi in Palestina e in Afghanistan, come in altri luoghi, l’ufficio del procuratore della CPI potrebbe essere considerato “semplicemente il braccio legale della NATO”, come ha detto recentemente l’avvocato per i diritti umani Reed Brody.

Mureen Clare Murphy è caporedattrice di The Electronic Intifada

(traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Un tribunale tedesco sentenzia che la Deutsche Welle ha licenziato illegalmente una giornalista palestinese

Ali Abunimah

8 luglio 2022 – Electronic Intifada

In Germania un tribunale ha dichiarato che la Deutsche Welle [emittente informativa pubblica tedesca, ndtr.] ha illegalmente licenziato una giornalista palestinese in base a false accuse di antisemitismo.

Maram Salem ha fatto parte di un gruppo di giornalisti arabi licenziati dalla rete pubblica in seguito a una campagna ufficiale di calunnie che li accusava di fanatismo antiebraico per le loro affermazioni o critiche riguardo ad Israele.

Mercoledì il tribunale del lavoro di Bonn ha sentenziato che il licenziamento di Salem non è valido.

Secondo una dichiarazione del suo avvocato, Ahmed Abed, “durante l’udienza il tribunale ha stabilito che i post su Facebook di cui era accusata non erano antisemiti e la rescissione del contratto è stata illegittima.”

La dichiarazione aggiunge che Salem “ha spiegato di essere da molto tempo una sostenitrice dei diritti delle donne, dei diritti dell’uomo, degli animali e LGBTQ e che le accuse l’hanno profondamente ferita. Ha chiesto alla DW di assumersi le proprie responsabilità, scusarsi pubblicamente e ritirare le accuse.”

Il comunicato afferma che il tribunale ha rigettato le accuse di antisemitismo degli investigatori Ahmad Mansour, Sabine Leutheusser-Schnarrenberger e Beatrice Mansour.

Ahmad Mansour, uno psicologo tedesco palestinese in stretto rapporto con la lobby israeliana, e Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, ex-ministra della giustizia tedesca, erano stati incaricati da Deutsche Welle di indagare in merito al presunto antisemitismo all’interno dell’emittente.

Le opinioni anti-musulmane, anti-arabe e filoisraeliane di Mansour ne hanno fatto uno dei beniamini dei media tedeschi e di istituzioni finanziate dallo Stato.

A febbraio Deutsche Welle ha licenziato Salem insieme a vari altri giornalisti sulla base del loro rapporto. Secondo la dichiarazione del suo avvocato, la Deutsche Welle, che si maschera da campione della libertà di parola e di stampa, ha cercato di dipingere come antisemita la citazione di Salem riguardo all’“illegale occupazione israeliana”.

“Il verdetto dimostra che le campagne di diffamazione contro donne palestinesi come me o Nemi El-Hassan non hanno più successo,” afferma Salem. “Fin dall’inizio era chiaro che sono innocente.” El-Hassan è una giornalista tedesca di origini palestinesi a cui è stato annullato un programma scientifico da un’altra emittente, la Westdeutscher Rundfunk.

La presunta infrazione di El-Hassan è stata “linkare” post Instagram sull’account di Jewish Voice for Peace, ben nota associazione con sede negli USA che si impegna per i diritti dei palestinesi e si oppone al sionismo, l’ideologia dello Stato di Israele.

“Il tribunale del lavoro di Bonn ha messo in chiaro che le gravi accuse di antisemitismo contro Maram sono assolutamente prive di fondamento,” afferma l’avvocato Abed. “Ora la Deutsche Welle dovrebbe proteggere Maram invece di piegarsi alle provocazioni.”

L’ European Legal Support Center [Centro Europeo per il Sostegno Legale], un’associazione che lotta contro la repressione nei confronti dei palestinesi attraverso il ricorso ai tribunali, ha salutato la vittoria di Salem come il “primo successo nella causa della Deutsche Welle.”

Anche Farah Maraqa, giornalista palestinese giordana licenziata nel corso della caccia alle streghe contro gli arabi, ha denunciato la Deutsche Welle. La sua causa è ancora in corso.

L’appoggio incondizionato nei confronti di Israele è visto dalla dirigenza tedesca come una forma di riparazione per l’uccisione di milioni di ebrei europei da parte del governo tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale.

Di conseguenza le istituzioni tedesche reprimono i palestinesi e i sostenitori dei loro diritti facendo ricorso a intimidazioni giudiziarie, calunnie, censura e violenze.

L’impegno tedesco nel sostegno ai crimini di Israele contro i palestinesi è talmente inflessibile da consentire a Israele di uccidere nella totale impunità cittadini tedeschi, compresi minorenni.

Ma, in un segnale di speranza che democrazia e diritti umani possano essere possibili in Germania, i tribunali hanno reagito contro la repressione anti-palestinese.

Con un’altra recente sconfitta della censura ufficiale, la città di Stoccarda ha riconosciuto di aver illegittimamente cancellato dal proprio sito web un’informazione relativa a un’associazione locale di sostegno ai palestinesi.

L’amministrazione cittadina ha ottemperato a una sentenza del tribunale e ripubblicato l’ informazione.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gli Stati Uniti elimineranno il diritto alla libertà di parola per servire Israele?

Nora Barrows-Friedman

27 giugno 2022-The Electronic Intifada

La scorsa settimana la Corte Suprema degli Stati Uniti ha annullato il diritto delle donne di prendere la decisione autonoma sull’interruzione di gravidanza.

Quello che era stato un diritto costituzionalmente stabilito per 50 anni è stato abrogato con un tratto di penna. Ciò ha fatto seguito a decenni di lavoro incessante da parte di gruppi di destra contro l’aborto, inclusi eminenti legislatori, per erodere i diritti all’assistenza sanitaria e al controllo sul proprio corpo, sulla propria famiglia e sul proprio futuro.

La maggioranza degli americani vede il ribaltamento di Roe vs. Wade come un serio passo indietro per i diritti delle donne e teme che altri diritti possano ora essere in pericolo. In effetti, la stessa corte potrebbe decidere di impedire a consumatori, aziende, pubblicazioni e appaltatori statali di esercitare il loro diritto di impegnarsi in boicottaggi politici, un diritto riconosciuto da decenni da quella istituzione.

Annullando la propria decisione del 2021, il 22 giugno la Corte d’Appello dell’ottavo circuito federale ha stabilito che il boicottaggio di Israele non è protetto dal Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti.

L’American Civil Liberties Union (ACLU) ha confermato che farà appello alla Corte Suprema. Se la Corte Suprema accetterà di esaminare il caso, potrebbe creare un precedente importante per proteggere i boicottaggi come azione politica o, se la corte fosse d’accordo con l’8° circuito, accelerare lo smantellamento del diritto alla libertà di parola. Se la Corte Suprema deciderà di non esaminare il ricorso, la decisione dell’8° Circuito rimarrà valida [e definitiva, ndt].

La sentenza si concentrava su un caso sollevato in Arkansas dall’editore di The Arkansas Times che si era visto porre come condizione per ricevere contratti statali una dichiarazione che il giornale non avrebbe boicottato Israele.

Secondo Palestine Legal, un gruppo che difende gli attivisti per i diritti dei palestinesi dagli attacchi legali, più di 30 Stati degli Stati Uniti hanno approvato misure che condannano o tentano di limitare la campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi.

Incoraggiati dai gruppi di pressione israeliani e dallo stesso governo israeliano, diversi politici affermano che rifiutarsi di acquistare prodotti israeliani e criticare le violazioni dei diritti umani da parte di Israele – o la sua ideologia di stato sionista – equivale a fanatismo antiebraico.

La legge dell’Arkansas del 2017, che è stata annullata nel 2021, richiedeva allo Stato di creare una lista nera di società che boicottavano Israele e costringeva gli enti pubblici a disinvestire dalle società segnalate nella lista nera.

La parte della legge in questione in questo caso è il requisito che gli appaltatori statali forniscano una certificazione scritta che non boicottano e non boicotteranno Israele.

La Corte d’appello dell’ottavo circuito ha stabilito nel febbraio 2021 che la legge dell’Arkansas era incostituzionale perché si trattava di un tentativo da parte di un ente governativo di impedire un discorso politico.

Ma la scorsa settimana un gruppo più numeroso di giudici della stessa Corte ha annullato la decisione. Tale voltafaccia “ignora la storia dei precedenti e considera la legge statale come una restrizione a una condotta esclusivamente commerciale che non comporta alcun messaggio politico”, ha affermato Palestine Legal.

“Nel sostenere la legge anti-BDS dell’Arkansas la Corte ha rifiutato di affrontare la realtà che queste leggi fanno parte di uno sforzo per proteggere Israele dalle sue responsabilità”, ha aggiunto l’organizzazione. La decisione “è un attacco al nostro diritto di dissentire dallo status quo”.

Pubbliche relazioni” per Israele

Rappresentato dall’ACLU, l’editore Alan Leveritt ha intentato la causa iniziale nel 2019 dopo che l’Università dell’Arkansas-Pulaski Technical College “ha informato l’Arkansas Times che doveva firmare una certificazione che non si sarebbe impegnata in un boicottaggio di Israele se avesse voluto continuare a ricevere contratti pubblicitari” dall’Università, come riportato all’epoca dal quotidiano.

Leveritt ha rifiutato e il giornale ha perso il contratto con l’Università.

Ha detto alla NBC che il giornale non stava “cercando una rissa”.

Ma quando le agenzie statali chiedono ai giornalisti di firmare un impegno politico, Leveritt ha aggiunto: “Non sei più un giornalista. Sei nelle pubbliche relazioni”.

Un giudice federale ha respinto il caso iniziale di Leveritt nel gennaio 2019, stabilendo che i boicottaggi politici non sono protetti dal Primo Emendamento.

Ma l’ACLU ha presentato ricorso, affermando che la legge viola chiaramente le tutele costituzionali “punendo i boicottaggi politici non graditi”.

Lo scorso anno le principali lobby pro Israele hanno criticato la sentenza iniziale della Corte d’appello e successivamente hanno elogiato la recente inversione di tendenza.

Brian Hauss dell’ACLU ha dichiarato: “speriamo e ci aspettiamo che la Corte Suprema metta le cose a posto e riaffermi l’impegno storico della nazione a fornire una solida protezione ai boicottaggi politici”.

Tali boicottaggi hanno svolto un ruolo chiave nel movimento per i diritti civili per porre fine alla supremazia bianca legalmente formalizzata negli Stati Uniti e, più recentemente, sono stati utilizzati con successo per sfidare le leggi discriminatorie in alcuni Stati (degli USA).

Julia Bacha, una regista il cui nuovo documentario, “Boycott”, si concentra sulla lotta contro le misure anti-BDS, ha avvertito che la sentenza dell’8th Circuit Court ha implicazioni di vasta portata per altre azioni politiche.

Ha notato che misure simili che mirano a proibire i boicottaggi delle industrie dei combustibili fossili e delle armi da fuoco sono già state presenti nelle legislature statali.

E ha implorato gli attivisti di ritenere i legislatori democratici ugualmente responsabili per la loro complicità “nell’aprire il vaso di Pandora quando hanno sostenuto in modo schiacciante i progetti di legge anti-BDS”.

Palestine Legal ha affermato che “le cattive decisioni dei tribunali non possono fermare un movimento che si batte per principi di giustizia”.

In mezzo alla proliferazione di leggi anti-boicottaggio “mirate ad altri movimenti per la giustizia sociale, questa decisione costituisce un pericoloso precedente per chiunque sia interessato a cercare un cambiamento sociale, politico o economico”, ha aggiunto l’organizzazione.

Ma, ha spiegato Palestine Legal, “anche mentre queste battaglie si svolgono nelle aule di tribunale e nei parlamenti degli Stati, il fondamentale lavoro organizzativo continua verso il nostro obiettivo finale: libertà e giustizia in Palestina, negli Stati Uniti e altrove.”

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)