Alcuni collaboratori dei politici statunitensi si pronunciano duramente contro la mancanza di umanità dei loro capi nei confronti dei palestinesi e chiedono il cessate il fuoco

Redazione di MEMO

14 novembre 2023 – Middle East Monitor

Un grande numero di collaboratori in servizio ed ex si sta pronunciando contro i loro capi e stanno sollecitando un cessate il fuoco a Gaza, evidenziando un netto divario generazionale presso Capitol Hill [il Campidoglio, sede del congresso statunitense, ndt].

Durante un drammatico sciopero senza precedenti al Campidoglio, giovani collaboratori hanno dichiarato di non poter più stare in silenzio mentre i loro capi ignorano gli elettori che stanno insistentemente chiedendo un allentamento dell’attacco israeliano contro Gaza. Sebbene molti parlamentari supportino la campagna militare israeliana e rifiutino le richieste per il cessate il fuoco, i loro giovani collaboratori si stanno mobilitando per la pace, lottando per conciliare le convinzioni personali con gli obblighi professionali.

Più di 100 collaboratori del Congresso, che indossavano tutti maschere per nascondere la loro identità, hanno organizzato uno sciopero per protestare contro i loro capi. “Noi siamo membri del personale del Congresso a Capitol Hill, e non ce la sentiamo più di stare in silenzio” hanno dichiarato tre collaboratori, i quali hanno tutti evitato di fornire il proprio nome. “I nostri elettori stanno chiedendo a gran voce un cessate il fuoco e noi siamo i collaboratori che rispondono alle loro chiamate. La maggior parte dei nostri capi al Campidoglio non sta ascoltando le persone che rappresentano. Noi chiediamo ai nostri capi di schierarsi: chiedere un cessate il fuoco, il rilascio di tutti gli ostaggi e una immediata riduzione degli attacchi adesso.”

I collaboratori hanno mostrato dissenso in molti modi. Oltre 550 hanno firmato una lettera aperta questo mese sollecitando il Congresso a supportare un cessate il fuoco, accusando i parlamentari di ignorare le morti dei civili palestinesi mentre esprimono solidarietà allo Stato di Israele. Decine hanno protestato fuori dal Congresso chiedendo azioni, nonostante la poca tolleranza per le critiche a Israele in Campidoglio.

Come discendenti di sopravvissuti alla schiavitù, all’Olocausto, al colonialismo, alla guerra e all’oppressione, ci sentiamo obbligati ad alzare le nostre voci in questo momento,” si afferma nella lettera. “Abbiamo apprezzato il fatto che quasi tutti i membri del Congresso abbiano espresso una rapida ed esplicita solidarietà con il popolo israeliano, ma siamo profondamente turbati che tali dimostrazioni di umanità siano state di rado estese al popolo palestinese.”

Secondo il New York Times, più o meno nello stesso momento 500 ex collaboratori della campagna del 2020 del presidente Biden, che si autodefiniscono gli Allievi di Biden per la Pace e la Giustizia, hanno scritto una lettera aperta chiedendo un cessate il fuoco. “Se tu non riesci ad agire rapidamente”, hanno avvisato, “il tuo lascito sarà la complicità di fronte ad un genocidio.”

Più di 400 ex collaboratori della campagna del 2020 della senatrice Elizabeth Warren hanno firmato una lettera simile diretta ai democratici del Massachusetts, così come hanno fatto ex collaboratori delle campagne del 2016 e 2020 del senatore Bernie Sanders.

Questa vera e propria rivolta pubblica riflette il divario tra il fermo supporto di lunga data allo Stato di Israele dei democratici e una nuova generazione che non crede che tale supporto sia sempre la cosa giusta da fare. I collaboratori normalmente influenzano la politica dietro le quinte, ma quelli attuali e gli ex adesso stanno dissentendo apertamente.

L’ex collaboratore del Senato Em Slevin secondo il New York Times avrebbe affermato: “Io non riesco a pensare a un’iniziativa simile o comparabile da parte dei collaboratori. E’ diverso da qualsiasi cosa abbiamo mai visto.”

Con il loro capi largamente schierati sulle posizioni di Biden, i giovani collaboratori si sentono in obbligo di dare voce al loro dissenso. Questa straordinaria ribellione alle regole sul posto di lavoro rivela un partito in conflitto con se stesso su Israele, con i valori progressisti che si scontrano con la rigidità istituzionale.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Cambio di passo: un funzionario del Dipartimento di Stato si dimette a causa della politica su Gaza

MICHAEL ARRIA 

19 ottobre 2023, Mondoweiss

Il funzionario del Dipartimento di Stato Josh Paul si è dimesso a causa della politica su Gaza dell’amministrazione Biden. Nella dichiarazione in cui annunciava il suo abbandono ha definito la politica americana “miope, devastante, ingiusta e contraddittoria rispetto agli stessi valori che sosteniamo pubblicamente “.

Dimissioni al Dipartimento di Stato nella crescente preoccupazione per la politica di Biden su Gaza

Il funzionario del Dipartimento di Stato Josh Paul si è dimesso dalla sua carica a causa della politica dell’amministrazione Biden su Gaza. Lavorava presso l’Ufficio di Stato per gli Affari Politico-militari.

Sono fermamente convinto che in tali conflitti, quelli in cui siamo terzi, la parte con cui schierarsi non è quella di uno dei combattenti, ma quella delle persone intrappolate nel mezzo, e quella delle generazioni ancora a venire”, ha scritto Paul in un post su Linkedin annunciando il suo abbandono. “È nostra responsabilità aiutare le parti in conflitto a costruire un mondo migliore. Mettere al centro i diritti umani, non cercare di accantonarli o eluderli attraverso programmi di crescita economica o manovre diplomatiche. E, quando accadono, essere in grado di denunciare gravi violazioni dei diritti umani, indipendentemente da chi le commette, ed essere in grado di riconoscerne gli autori responsabili quando sono avversari, il che è facile, ma soprattutto quando sono partner. “

“Non posso lavorare a sostegno di una serie di importanti decisioni politiche incluso l’invio di più armi a una parte del conflitto, decisione che ritengo miope, devastante, ingiusta e contraddittoria proprio rispetto ai valori che sosteniamo pubblicamente”, ha continuato.

Le dimissioni di Paul sono avvenute poco dopo che l’HuffPost ha pubblicato un articolo di Akbar Shahid Ahmed sui membri dello staff di Biden che si sentono messi a tacere sulle loro preoccupazioni per i palestinesi.

Sto cercando di informare le persone sulla Palestina attraverso i social media, ma ho paura di perdere il mio certificato di sicurezza [che determina l’affidabilità e l’idoneità a ricoprire una posizione sensibile, ndt.] per aver criticato il presidente o biasimato gli Stati Uniti per il massacro di civili”, ha detto al sito web un membro dello staff. “Sento che non c’è più posto per me in America, e sono sul filo del rasoio per il mio certificato [di sicurezza] a causa del mio retaggio e perché mi importa se la mia gente muore.”

Ci si sente come dopo l’11 settembre, quando ci sentivamo come se i pensieri fossero controllati e c’era davvero paura di essere visti come antiamericani o antisemiti”, ha detto un altro funzionario.

La scorsa settimana Ahmed ha riferito di una nota interna del Dipartimento di Stato che ordinava ai diplomatici di utilizzare precisamente tre frasi: “riduzione dell’escalation/cessate il fuoco”, “fine alla violenza/spargimento di sangue” e “ripristino della calma”.

Gli Stati Uniti pongono il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza su Gaza

Mercoledì gli Stati Uniti hanno posto il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sostenuta dal Brasile che chiedeva “tregue umanitarie” a Gaza per consentire l’ingresso degli aiuti.

L’ambasciatrice USA alle Nazioni Unite Linda Thomas-Greenfield ha affermato che gli Stati Uniti non possono sostenere la misura perché “non fa menzione del diritto all’autodifesa di Israele”.

“Anche se non abbiamo potuto sostenere questa risoluzione, in futuro continueremo a lavorare a stretto contatto con tutti i membri del Consiglio su questo urgente problema”, ha aggiunto. “Così come continueremo a ribadire la necessità di proteggere i civili, compresi i lavoratori dei media, gli operatori umanitari e i funzionari delle Nazioni Unite”.

L’ambasciatore brasiliano Sérgio França Danese ha espresso frustrazione per il veto. “Abbiamo accolto un appello con un senso di urgenza e responsabilità, a nostro avviso il Consiglio di Sicurezza doveva agire e operare molto rapidamente”, ha affermato. “La paralisi del Consiglio di fronte a una catastrofe umanitaria non è nell’interesse della comunità internazionale”

Attivisti ebrei protestano davanti all’ufficio di Warren

Almeno sei attivisti ebrei sono stati arrestati davanti all’ufficio di Boston della senatrice Elizabeth Warren (Massachusetts), dove più di 100 manifestanti le chiedevano di fare pressione per un cessate il fuoco a Gaza.

Il Boston Globe ha riferito che gli attivisti sono entrati nell’edificio federale John Fitzgerald Kennedy e hanno tentato di organizzare un sit-in nell’ufficio.

La senatrice Warren ha il potere di chiedere il permesso di far entrare gli oltre 100 camion di aiuti umanitari bloccati fuori Gaza”, ha detto Mira Revesz, membro di If Not Now Boston [movimento di ebrei americani che chiede la fine del sostegno statunitense al sistema di apartheid israeliano, ndt.] “Ma tutto ciò che la senatrice Warren ha fatto finora è stato chiedere a Israele di ridurre al minimo i danni ai civili. Gli ultimi quattro giorni hanno dimostrato in modo straziante che Israele non sta affatto minimizzando i danni ai civili”.

Apprezzo che delle persone siano venute nel mio ufficio a condividere le loro opinioni ed esperienze: ecco in cosa consiste la democrazia. Israele ha sia il diritto di difendersi dagli attacchi terroristici sia l’obbligo di proteggere i civili innocenti secondo le leggi internazionali di guerra”, ha affermato Warren in una dichiarazione successiva. “I civili palestinesi hanno diritto agli aiuti umanitari comprendenti cibo, acqua, alloggio e medicine. C’è urgente bisogno di corridoi sicuri a Gaza per fornire aiuti umanitari e continuerò a sottolineare l’imperativo di proteggere i civili”.

500 arresti a Washington fra gli attivisti ebrei che chiedono il cessate il fuoco

Mercoledì cinquecento ebrei americani e loro sostenitori, tra cui più di venti rabbini, sono stati arrestati all’interno del Campidoglio. I manifestanti chiedevano che i parlamentari adottassero alla Camera una risoluzione per il cessate il fuoco a Gaza.

Gli attivisti indossavano magliette con davanti la scritta “Non nel nostro nome” e “Gli ebrei dicono cessate il fuoco adesso”. Cantavano, scandivano slogan e esponevano cartelli.

Migliaia di persone hanno protestato per le strade di Washington per poi entrare nella rotonda del Cannon House Office [il più antico edificio del Congresso a Washington, ndt.]

Se non recuperiamo la nostra comune umanità non credo che ci riprenderemo mai più da tutto ciò”, ha detto alla folla la deputata Rashida Tlaib, sostenitrice della risoluzione. “E al nostro Presidente: voglio che sappia che, in quanto palestinese-americana e di fede musulmana, non dimenticherò. E penso che molte persone non dimenticheranno”.

L’ADL calunnia gli attivisti ebrei

La sezione di Washington dell’Anti-Defamation League (ADL) [associazione ebraica negli Stati Uniti dal 1913 di contrasto all’antisemitismo, ndt.] ha insultato in una dichiarazione i manifestanti del Campidoglio e ha affermato che l’antisionismo è antisemitismo. Il CEO di ADL Jonathan Greenblatt è arrivato al punto di paragonare in un tweet gli attivisti ebrei ai suprematisti bianchi.

Questa settimana, in una delle sue numerose apparizioni nei notiziari via cavo, Greenblatt ha affermato che “l’antisionismo è in realtà un preludio al genocidio”. In un’altra intervista è stato ancora più diretto: “l’antisionismo è un genocidio”, ha dichiarato.

Con i funzionari dell’ADL che compaiono sulle televisioni di tutto il mondo denunciando [come antisemite] le tante manifestazioni che chiedono la fine della violenza genocida di Israele contro i palestinesi stiamo assistendo all’esito più pericoloso della lunga storia dell’ADL di affermarsi come gruppo per i diritti civili”, scrive Emmaia Gelman sul sito.

La propria definizione dell’ADL come baluardo contro i pregiudizi è completamente smentita dalla sua difesa della politica islamofobica, dal suo lavoro per promuovere la polizia militarizzata e l’iper-sorveglianza, e dal suo ruolo chiaramente espresso a sostegno delle politiche israeliane, compreso l’apartheid. L’ADL strumentalizza grossolanamente le reali preoccupazioni del pubblico riguardo all’antisemitismo, producendo statistiche scandalosamente gonfiate che elencano centinaia di proteste contro la violenza israeliana come ‘episodi di antisemitismo’. Come risultato di questo atteggiamento ipocrita, l’ADL viene consultata come esperta su questa guerra”.

Gli attivisti hanno raccolto alcuni materiali per i genitori preoccupati del fatto che i loro figli tornino a casa dalla scuola con materiale ADL.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Come la questione israelo-palestinese è arrivata al cuore della politica USA

Alex Kane

22 novembre 2019 – +972

Un acceso dibattito su Israele e Palestina sta diventando centrale nella politica USA e non vi sono segnali che si stia spegnendo.

L’ultima volta che vi sono state delle primarie aperte del partito democratico, Hillary Clinton e Barack Obama si sono scontrati su tutto, dalla guerra in Iraq all’assistenza sanitaria, alla razza. Cioè su tutto tranne che su Israele.

Le critiche a Israele, nel corso della campagna elettorale 2007-2008 si sono limitate a candidati marginali. In un dibattito del 2007 sulla radio nazionale, Mike Gravel, il polemico ex senatore dell’Alaska che non ha mai avuto consensi superiori al 3%, ha chiesto perché fosse un problema che l’Iran finanziasse Hamas e Hezbollah, mentre gli Stati Uniti finanziano Israele.

Quella è stata una delle rare eccezioni rispetto alla linea standard filoisraeliana diffusa durante il periodo delle primarie – e il candidato che l’ha fatto non era esattamente una star. Gravel non ha ottenuto nemmeno un delegato. Mentre Clinton e Obama davano debitamente voce all’appoggio ad Israele durante la campagna, le relazioni tra USA ed Israele non occupavano un posto centrale nella corsa alle primarie democratiche

Dieci anni dopo, il dibattito su Israele è radicalmente cambiato. Adesso sta occupando la scena principale della politica americana – la corsa alla presidenza – e le aule del Congresso.

Il senatore Bernie Sanders, che è dato terzo nei sondaggi come prossimo candidato democratico alla presidenza, ha detto ripetutamente di desiderare che gli USA diminuiscano gli aiuti militari ad Israele per porre fine all’iniquo trattamento dei palestinesi da parte di Israele. Pete Buttigieg, il sindaco dell’Indiana accreditato al quarto posto, ha detto che i contribuenti statunitensi non dovrebbero pagare il conto di un’annessione israeliana della Cisgiordania. La senatrice Elizabeth Warren, che sta lottando per il primo posto con Joe Biden, è stata meno esplicita sui suoi programmi riguardo ad Israele/Palestina. Però ha parlato della necessità di porre termine all’occupazione israeliana e a ottobre ha detto di essere disposta a condizionare l’aiuto militare USA ad Israele. Quanto a Biden, è il solo a dichiarare che condizionare l’aiuto militare USA ad Israele sarebbe “assolutamente vergognoso”.

Intanto un nuovo gruppo di progressisti, guidati dalle deputate Ilhan Omar e Rashida Tlaib, sta allargando il dibattito al Congresso sull’alleanza USA-Israele, chiedendo limitazioni agli aiuti militari USA e accogliendo le tattiche di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni come strumenti per cambiare lo status quo sul terreno.

“C’è una crescente apertura e volontà di parlare in modo molto più approfondito e molto più imparziale riguardo alla realtà del conflitto israelo-palestinese”, ha detto Logan Bayroff, portavoce di ‘J Street’, il gruppo di pressione ebreo-americano filoisraeliano. “Si è aperto uno spazio molto più ampio negli ultimi 10 anni e soprattutto negli ultimi quattro, sotto l’amministrazione Trump.”

Questa evoluzione non è casuale. Il netto cambiamento nel dibattito statunitense su Israele e Palestina è il risultato di cambiamenti da tempo in gestazione nell’ideologia del partito, di una serie di clamorosi eventi in Israele e negli USA e della tenace organizzazione condotta da palestinesi americani che ha messo a profitto queste tendenze. Il risultato di tutto ciò? Un vivace dibattito sul futuro delle relazioni tra USA e Israele che non mostra segni di spegnersi.

Lo Stato ebraico non è estraneo alle politiche di Washington. Anche prima che il Presidente Harry Truman riconoscesse Israele nel 1948, gli ebrei americani stavano al Campidoglio, facendo pressione su Truman perché appoggiasse la trasformazione della Palestina, allora a maggioranza araba, in uno Stato ebraico.

Durante molti dei 70 anni trascorsi da allora, la discussione su Israele a Washington si è incentrata su come meglio proteggere lo Stato ebraico dai suoi ostili vicini.

Vi sono state occasionali interruzioni dello status quo. All’inizio degli anni ’80 il Presidente Ronald Reagan ha sospeso l’invio di aerei da combattimento ad Israele dopo il bombardamento di un reattore nucleare iracheno ed ha proibito l’esportazione di bombe a grappolo dopo che Israele le ha sganciate sul Libano durante la prima guerra israeliana in quel Paese. Nel 1992 il Presidente George H. W. Bush ha rifiutato di approvare la concessione di crediti a Israele finché non avesse smesso di costruire colonie su terra palestinese in Cisgiordania e a Gaza.

Questi occasionali cambiamenti nella posizione politica americana riguardo a Israele non hanno comunque compromesso l’alleanza di ferro tra USA ed Israele. E alla fine queste fratture nella discussione sullo status quo si sono spente.

Tuttavia la polarizzazione della politica di Washington negli ultimi anni ha aperto la strada all’attuale contrapposizione su Israele. Il partito repubblicano è diventato più bianco, più vecchio e più ricco. L’influenza dei cristiani evangelici di destra sul GOP [il partito repubblicano, ndtr.] è notevolmente aumentata, spingendo molto a destra la politica del partito repubblicano su Israele. Il partito democratico ha fatto maggior affidamento sulla gente di colore, sui giovani, sui laici e sulle minoranze religiose. I sostenitori di entrambi i partiti si sono coalizzati intorno a due visioni profondamente diverse su come l’America dovrebbe comportarsi nel mondo. Gli attacchi dell’11 settembre 2001 hanno provvisoriamente unito la dirigenza democratica e quella repubblicana per promuovere la guerra all’Iraq, ma negli ambienti progressisti il sentimento contro la guerra era forte. E con esso, vi era maggior attenzione verso la questione palestinese, benché la Palestina a volte costituisse un argomento divisivo. Alcuni progressisti non volevano collegare la Palestina all’Iraq, mentre quelli più schierati a sinistra le vedevano come questioni interconnesse.

“Hanno incominciato a mettere in rapporto ciò che avveniva all’interno del Paese e ciò che avveniva in Israele, perché Israele stava facendo quel collegamento all’interno della sua campagna di hasbara (propaganda)”, ha detto Zaha Hassan, una ricercatrice ospite al ‘Carnegie Endowment for International Peace’ [organizzazione no profit, che ha come missione la promozione della pace e la cooperazione fra le Nazioni, ndtr.]. “Dicevano che la resistenza palestinese nei territori occupati non era diversa dai movimenti islamici estremisti in Medio Oriente. I liberal e i progressisti negli Stati Uniti hanno incominciato a chiedersi se i valori sostenuti dal loro movimento potessero coerentemente continuare ad appoggiare Israele senza prendere in considerazione i diritti umani dei palestinesi.”

Era normale, nelle proteste contro la guerra in Iraq, vedere le bandiere palestinesi, sentire lo slogan “Dall’Iraq alla Palestina, l’occupazione è un crimine!”. Il legame tra la lotta contro l’imperialismo USA e la Palestina ricordava la fine degli anni ’60, quando i militanti del Black Power proposero una prospettiva internazionalista che collegava la lotta dei neri negli USA alle lotte anticoloniali in tutto il mondo, compresa la Palestina. Nell’era post 11 settembre, come alla fine degli anni ’60, le divisioni nelle strade riguardo a Israele-Palestina non si sono tradotte in una rottura nel consenso di Washington su Israele. Invece si è dovuti arrivare agli anni di Obama perché lo scetticismo su Israele giungesse al cuore del dibattito nel distretto di Washington.

L’elezione alla presidenza di Barack Obama è giunta come uno shock in un Paese abituato ad avere un bianco insediato alla Casa Bianca. Egli ha anche promesso di chiudere con le guerre dell’era Bush e di ricucire le relazioni con il mondo arabo e musulmano dopo l’11 settembre, una promessa che ha cercato di onorare compiendo la sua prima visita oltremare in Medio Oriente. Là, ha promesso una nuova era nella politica USA.

Una delle aree di quella nuova politica era Israele-Palestina. Dopo essersi insediato nel gennaio 2009, egli [Obama] ha telefonato al presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas prima che al primo ministro israeliano Ehud Olmert, che presto avrebbe lasciato l’incarico per uno scandalo, sostituito da Benjamin Netanyahu. Nel suo viaggio in Medio Oriente, Obama non è atterrato in Israele, ma al Cairo, dove ha criticato la violenza palestinese, ma ha chiesto a Israele che smettesse di costruire colonie e che affrontasse la crisi umanitaria di Gaza.

Snobbato da Netanyahu, il cui governo ha continuato a costruire colonie israeliane, Obama non ha mai dato seguito alle sue richieste con dei fatti. Ma l’appello di Obama per un congelamento delle colonie, accanto alla fredda risposta di Netanyahu, ha gettato le basi per quella che sarebbe diventata una relazione avvelenata tra Obama e Netanyahu.

Queste tensioni hanno raggiunto un picco nel 2013 con il dibattito sull’accordo nucleare iraniano. La decisione di Obama di negoziare un accordo con l’Iran ha fatto venire un colpo a Netanyahu ed ai suoi alleati repubblicani. Ai loro occhi, l’accordo avrebbe consentito all’Iran di entrare nell’economia globale senza fare niente per limitare i suoi finanziamenti a gruppi di militanti ostili alla politica USA nella regione. Per Netanyahu, avrebbe anche compromesso il ruolo dell’Iran come elemento di distrazione dalla questione palestinese.

Il partito Repubblicano ha invitato Netanyahu a tenere un discorso al Congresso per cercare di impedire l’accordo. Questo ha provocato un impressionante scontro politico tra Obama, lo storico presidente amato dalla base del suo partito, da un lato, e il partito Repubblicano ed Israele dall’altro, accentuando la contrapposizione riguardo allo Stato ebraico.

“I repubblicani pensavano che Netanyahu fosse il leader più importante al mondo in quel momento – persino più di Reagan. È diventato una star, come se fosse il guru del partito repubblicano”, ha detto Shibley Telhami, docente all’università del Maryland e professore associato ospite presso la ‘Brookings Institution’ [importante gruppo di ricerca americano indipendente, ndtr.]. Per i democratici era l’esatto opposto. Ciò ha avuto un grande impatto.”

Telhami, un sondaggista, ha osservato queste ripercussioni in una inchiesta che ha condotto nel dicembre 2015: i sondaggi contrari a Netanyahu tra i democratici sono saliti dal 22% al 34%. Il 13% dei repubblicani non vedeva di buon’occhio il leader israeliano, mentre il 51% gli era favorevole.

Quando Netanyahu è arrivato a Washington nel marzo 2015 per opporsi all’accordo con l’Iran, 58 democratici e indipendenti alleati dei democratici hanno boicottato il suo intervento.

Le critiche ad Israele all’epoca di Obama non si limitavano al Congresso. Erano persino più aspre nei movimenti sociali progressisti, che a loro volta rassicuravano i democratici riguardo al fatto che la loro posizione anti Netanyahu era appoggiata dalla loro base elettorale.

Nel periodo in cui si è svolto lo scontro tra Obama e Netanyahu sull’Iran, sempre più gruppi per i diritti dei palestinesi hanno destinato risorse a Washington. Nel 2015 ‘Jewish Voice for Peace’ [Voce Ebraica per la Pace] (JVP), l’associazione di [ebrei di] sinistra di solidarietà con la Palestina, ha assunto il suo primo dipendente focalizzato sul Congresso.

“C’è stato l’attacco a Gaza del 2014, e allora improvvisamente siamo diventati molto, molto più grandi”, ha detto Rebecca Vilkomerson, che ha appena lasciato la carica di capo di JVP dopo 10 anni in carica. “Abbiamo deciso che avevamo abbastanza membri con abbastanza sezioni locali per cui non sarebbe stato inutile andare a fare questo genere di incontri (al Congresso)”.

Inoltre alla fine del 2014 ‘Defense for Children International-Palestine’ [associazione internazionale per la difesa dei bambini con sede a Ginevra, ndtr.] e l’ ‘American Friends Service Committee’ [associazione di quaccheri che si batte per la giustizia sociale, la pace, la riconciliazione tra i popoli, l’abolizione della pena di morte ed i diritti umani, ndtr.] hanno lanciato la campagna “Non è il modo di trattare un bambino”, un tentativo concentrato su Washington di spingere i parlamentari USA a esprimersi contro i maltrattamenti israeliani nei confronti dei bambini palestinesi. Questo tentativo ha avuto successo, soprattutto presso la deputata Betty McCollum: con le sue proposte di legge e lettere che chiedevano attenzione per gli arresti israeliani di bambini palestinesi, è diventata il principale difensore dei diritti dei palestinesi al Campidoglio.

Tuttavia non tutti i gruppi della sinistra progressista lavoravano congiuntamente. ‘J Street’ [associazione di ebrei liberal moderatamente critici con Israele, ndtr.], per esempio, un gruppo fondato nel 2007, si è creato uno spazio a parte in Campidoglio: premere per uno Stato palestinese e per la fine dell’occupazione israeliana per consentire ad Israele di rimanere “ebreo e democratico”, secondo quanto afferma J Street. Ciò si opponeva a gruppi come JVP e ‘US Campaign for Palestinian Rights’ [coalizione di gruppi che lavorano per libertà, giustizia ed eguaglianza, ndtr.] (USCPR), i quali sostengono in pieno la strategia del movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni [contro Israele, ndtr.] (BDS) – compreso il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi – e il taglio degli aiuti militari statunitensi [ad Israele, ndtr.]. Eppure nel loro insieme, i gruppi da J Street a ‘US Campaign’ hanno introdotto una novità in un dibattito normalmente dominato soltanto dalla preoccupazione per la sicurezza di Israele.

“Anche se la parte avversa ha molte più risorse e migliori relazioni, i gruppi per i diritti dei palestinesi hanno svolto un duro e diligente lavoro per rendere visibile la propria presenza in Campidoglio, chiarendo che c’è un’altra prospettiva che i membri del Congresso devono riconoscere, anche se non sentono ancora la necessità di votare in quel senso”, ha detto a +972 un autorevole assistente parlamentare. “Ecco come riesci a spostare il dibattito. Si inizia a rendere più complessa la questione per la gente, e per troppi membri del Congresso la questione è stata semplice. Ciò sta cambiando.”

Ma se il dibattito a Washington si è incentrato su Netanyahu, i movimenti sociali di sinistra non hanno focalizzato la principale attenzione sul leader israeliano. Al contrario, si sono concentrati su Israele stesso e hanno criticato l’intero regime che ha governato i palestinesi in modo simile ad uno Stato di apartheid, uno Stato che doveva essere boicottato – un messaggio diffuso dalle campagne BDS. I gruppi per i diritti dei palestinesi si sono alleati con i gruppi per i diritti dei migranti e per i diritti civili in campagne indirizzate a chi fa profitti con le carceri private, lanciando il messaggio che l’oppressione delle persone di colore nelle carceri è collegata all’oppressione dei palestinesi – soprattutto perché imprese come G4S [società privata britannica di servizi per la sicurezza, ndtr.] traggono profitto dall’incarcerazione di tutte quelle comunità. Sezioni di ‘Students for Justice in Palestine’ [organizzazione di attivisti studenteschi pro-palestinesi negli Stati Uniti, in Canada e in Nuova Zelanda, ndtr.] hanno formato coalizioni con comunità di colore nei campus universitari per spingere i dirigenti studenteschi ad appoggiare il disinvestimento dalle imprese che traggono profitto dall’occupazione israeliana.

Molto di questo lavoro degli studenti è stato guidato dagli stessi palestinesi, un’eco del lavoro che gruppi come la ‘General Union of Palestinian Students’ [organizzazione gestita da studenti palestinesi che esiste fin dai primi anni ’20, ndtr.] hanno fatto nei campus USA a cominciare dalla guerra del 1967. Dopo gli Accordi di Oslo [del 1993], l’attivismo guidato dai palestinesi negli USA è venuto meno, in quanto è stata dedicata maggiore attenzione alla creazione di uno Stato a casa loro piuttosto che a creare un movimento globale anticoloniale. Ma, una volta falliti gli Accordi di Oslo, i capi delle organizzazioni palestinesi si sono reinseriti nel più ampio movimento di solidarietà. Questa rinascita ha raggiunto il suo apice in seguito all’invasione israeliana di Gaza nel 2008-2009.

“I palestinesi hanno iniziato ad essere più autocentrati, il che ha anche significato che sono aumentati i militanti palestinesi”, ha detto Andrew Kadi, a lungo organizzatore palestinese-americano e membro del comitato direttivo della USCPR.

Uno dei momenti più importanti per il movimento per i diritti dei palestinesi è stato nell’agosto 2016, quando ‘A Vision for Black Lives’, una piattaforma politica resa pubblica da gruppi collegati con il movimento ‘Black Lives Matter’, ha appoggiato il disinvestimento dal “complesso militare-industriale” di Israele ed ha accusato Israele di apartheid e genocidio. Per i gruppi per i diritti dei palestinesi la piattaforma politica è stata un eccellente esempio di come la lotta per la libertà dei neri e la lotta palestinese dovrebbero essere collegate. È stata una brillante affermazione della loro strategia “intersezionale”, che garantiva che i palestinesi difendessero i diritti dei neri negli USA, e viceversa, come parte di una più vasta spinta a collegare le lotte per la giustizia dei palestinesi e dei neri.

“Vi è ora una situazione in cui i movimenti sociali sono profondamente interconnessi”, ha detto Nadia Ben Youssef, direttrice delle attività di sostegno del Center for Constitutional Rights [Centro per i diritti costituzionali, organizzazione di sinistra per il patrocinio legale senza scopo di lucro con sede a New York, ndtr.]. “Stiamo creando una politica coerente di giustizia sociale, per cui se tu hai un’opinione sulla giustizia razziale, sulla detenzione, sulla disuguaglianza in senso più generale, hai un’opinione anche sulla Palestina.”

Nel periodo dello shock delle elezioni del 2016, l’ampio schieramento di sinistra era arrivato a riconoscere che i diritti dei palestinesi avrebbero dovuto essere parte integrante del programma progressista. Linda Sarsour, un’importante attivista palestinese-americana, è stata uno dei volti della storica Marcia delle Donne contro Trump del gennaio 2017. Ma l’integrazione dei diritti dei palestinesi nel movimento progressista non è avvenuto senza polemiche. Gruppi filoisraeliani hanno attaccato Sarsour e il Movimento per le Vite dei Neri. Li hanno accusati di dirottare il movimento progressista verso un programma del tutto differente. Tuttavia è diventato insostenibile per i progressisti ignorare la Palestina.

Ciò è diventato ancor più evidente quando dirigenti progressisti come Ilhan Omar, eletta nel 2016, ha sposato la lotta a favore di qualunque cosa, dall’assistenza sanitaria per tutti al Green New Deal fino all’eliminazione dell’occupazione israeliana. L’impostazione di politica estera di Omar si concentra sulla smilitarizzazione e sui diritti umani, senza fare eccezione riguardo al trattamento di Israele verso i palestinesi.

L’elezione di Trump ha esasperato la politica sulla Palestina negli USA. La sua stretta alleanza con Netanyahu ha allontanato i democratici da Israele. I regali di Trump alla destra israeliana – il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, il silenzio dell’amministrazione sulle colonie israeliane e il riconoscimento delle alture del Golan come territorio israeliano – lo hanno ulteriormente legato a Netanyahu, un problema per coloro che credono nell’importanza di una relazione bipartisan con lo Stato ebraico.

Trump ha perseguito anche un’altra strategia che ha portato la questione israelo-palestinese al centro del dibattito americano: definendo “antisemiti” suoi accesi oppositori come Omar e Tlaib, parte di un tentativo di spaccare il partito democratico, fa perdere elettori ebrei ed eccita la sua base di destra.

“Avete visto il partito repubblicano cercare di trasformarlo in un’arma politica, una questione spinosa. Diventa una questione di guerra culturale, come l’aborto o l’immigrazione”, ha detto Logan Bayroff, il portavoce di J Street. “Questo provoca la loro base elettorale, che non sono ebrei americani ma sono tanti elettori evangelici, che stanno guidando il programma [di Trump].”

La decisione di Netanyahu nello scorso agosto di vietare a Omar e Tlaib di recarsi in Israele-Palestina con una delegazione del Congresso faceva parte della strategia di Trump di dipingerle come nemiche di Israele e dell’America. Facendo in modo di creare un contrasto internazionale da prima pagina, Trump ha portato avanti i suoi piani di fare di Omar e Tlaib i volti del partito democratico, una strategia che lui reputa vincente nei confronti delle persone preoccupate della corsa a sinistra dei democratici.

Ma quella decisione ha avuto anche un effetto boomerang. Omar e Tlaib hanno tenuto un’eccezionale conferenza stampa dopo che è stato comunicato il divieto, in cui hanno parlato ad un pubblico di tutta la Nazione dell’indecenza dell’occupazione e di come Israele fa del male ai palestinesi. È stata, in una sola settimana, una sintesi di come la Palestina sia passata dai margini al centro della politica americana. A destra viene usata come questione controversa, mentre a sinistra viene amplificata dai parlamentari progressisti che vedono la Palestina come parte del loro più vasto programma di giustizia sociale.

Per quei democratici che vogliono mantenere l’alleanza USA-Israele così com’è, la decisione di Netanyahu di bandire Tlaib e Omar è stata inquietante ed ha solo incrementato il loro desiderio di vedere Netanyahu lasciare l’incarico e vincere qualcuno come Benny Gantz, il capo del partito Blu e Bianco [coalizione di centro-destra che ha vinto le ultime elezioni in Israele, ndtr.]. Ai loro occhi, ciò permetterebbe ai democratici di tornare alle loro consuete posizioni su Israele: appoggiare i negoziati tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese senza la seccatura di un Netanyahu sfacciatamente di parte che danneggia il rapporto tra USA ed Israele.

Ma mentre un incarico di formare un nuovo governo a Gantz potrebbe dare un attimo di respiro a questi democratici dopo il caos dell’era Netanyahu-Trump, non porrà fine alla messa in discussione progressista del consenso di Washington a Israele.

“Moltissimi democratici si illudono che il problema sia solo Bibi (Netanyahu). Ma non dovremmo fare troppe personalizzazioni”, ha detto l’importante consigliere democratico al Congresso. “Sì, Bibi è particolarmente dannoso, sfacciato nel suo approccio di parte, ma, come Trump, Bibi è il prodotto di una reale tendenza politica in Israele. Rappresenta un elemento illiberale con cui i democratici devono fare i conti se prendono sul serio i valori che professano.”

Alex Kane è un giornalista che vive a New York, il cui lavoro su Israele/Palestina, libertà civili e politica estera USA è stato pubblicato su VICE News, The Intercept, The Nation, In These Times ed altri giornali.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)